abstract del convegno - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e

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abstract del convegno - Istituto Lombardo Accademia di Scienze e
ISTITUTO LOMBARDO
ACCADEMIA DI SCIENZE E LETTERE
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica
Convegno
“Quante equità?”
28 febbraio 2013
Milano, Palazzo di Brera, Via Brera 28
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
L'Istituto Lombardo viene istituito da Napoleone Bonaparte, sul modello dell’Institut de
France nel 1797, con la fondazione della Repubblica Cisalpina.
I primi trentun membri dell'Istituto, al quale era stato assegnato il compito di "raccogliere le
scoperte e perfezionare le arti e le scienze", furono nominati nel 1802 da Napoleone. Fra questi
spiccano i nomi del massimo fisico della sua epoca Alessandro Volta, del pittore Andrea Appiani,
dell'anatomico Antonio Scarpa e del poeta Vincenzo Monti, dell’astronomo Barnaba Oriani.
Nel 1803 vennero nominati altri 31 membri fa cui lo scultore Antonio Canova, il poeta
Ippolito Pindemonte, il nobile Francesco Melzi d'Eril e il celebre medico Giovan Battista Palletta.
Divenuto Napoleone Imperatore dei Francesi e Re d’Italia, con decreto del 25 dicembre 1810, dava
all’Istituto il nuovo nome di Istituto Reale di Scienze, Lettere ed Arti e, su richiesta della maggior
parte dei Membri, ne spostava la sede a Milano nel palazzo di Brera (ancor oggi sede storia
dell’Istituto). Dalle sue origini a tutt'oggi l'Istituto è rimasto la massima Accademia Scientifica e
Letteraria Milanese e una delle più importanti d’Italia, passando indenne attraverso la dominazione
austriaca e venendo subito riconosciuto dal Regno sabaudo che, nel 1859, confermò Alessandro
Manzoni Presidente.
Il prestigio della istituzione è affermato dalle illustri e fattive presenze dei Premi Nobel
Giosué Carducci ed Eugenio Montale, Camillo Golgi, Daniele Bovet e Giulio Natta, Linus Pauling
e altri. Furono inoltre membri molto attivi dell'Istituto il grande matematico Francesco Brioschi,
fondatore, fra l'altro, del Politecnico di Milano; Padre Agostino Gemelli e il Senatore del Regno
Luigi Mangiagalli, ai quali si devono la nascita, rispettivamente nel 1921 e nel 1924, dell'Università
Cattolica e della Università degli Studi di Milano.
La proficua attività di studio e di ricerca svolta dai membri dell'Istituto è chiaramente
documentata dalle loro presentazioni pubbliche, che sono
ricevute e discusse nelle riunioni
scientifiche che si tengono con cadenza mensile, nonché dalle pubblicazioni (Memorie, Rendiconti,
Incontri di Studio e Cicli tematici di Conferenze) curate dall'Istituto con continuità assoluta dal
1803. L'Istituto possiede un cospicuo patrimonio librario che si è formato, nei due secoli della sua
vita, specialmente grazie a preziose donazioni di illustri biblioteche delle più diverse specialità. La
Biblioteca, che ha sede nelle eleganti sale di Palazzo Landriani di via Borgonuovo, contiguo al
Palazzo di Brera, è aperta al pubblico.
Programma Convegno
L’“equità” è molto invocata, oggi più che mai: una misura capace di ricostruire i rapporti
sociali su una base di giustizia. Come tutti i concetti in cui si ripongono grandi aspettative, il
significato di “equità” è tuttavia sfuggente. Innanzitutto, perché viene applicato a campi diversi, la
filosofia, il diritto, l’economia. Poi, perché il concetto di equità è il prodotto di un lungo viaggio
storico e semantico, che ha le sue origini nell’etica greca e arriva fino alla contemporaneità,
facendone un termine sempre pronto ad assumere nuove accezioni. In campo giuridico ha preso
corpo nell’esperienza romana, che ha fatto dell’equità la propria ragion d’essere (ius est ars boni et
aequi), per poi trasformarsi nell’esperienza medievale e moderna, soprattutto a contatto con i valori
del cristianesimo. Assunta a base delle più recenti teorizzazioni di filosofia morale, soprattutto sotto
l’impulso di John Rawls, l’equità (anche intergenerazionale) è al tempo stesso uno dei cardini delle
riflessioni sulla distribuzione della ricchezza nelle teorie del benessere sociale: massimizzare la
ricchezza sì, ma come distribuirla in modo “equo”?
Dopo un percorso così lungo nel tempo e tanto frastagliato, è ancora possibile ridurre
l’equità a un nucleo unitario e operativo di significato? Oppure è un termine che rappresenta
nozioni ormai irriducibili a unità? E’ la specializzazione dei saperi che impedisce di vedere le
affinità che ancora resistono? Oppure è la distanza fra pensiero antico e moderno, anzi il successo
stesso di questo concetto che segnano la fine dell’equità come utile criterio-guida?
Il convegno promosso dall’Istituto Lombardo intende contribuire, attraverso le voci di
autorevoli studiosi, a disegnare una mappa dell’equità: un confronto interdisciplinare che offra
chiarimenti di metodo e suggerimenti operativi per le scienze dell’uomo e della società, aperto
all’opinione pubblica, a studiosi, studenti e dottorandi di filosofia, economia, diritto.
ore 9.30
GIANPIERO SIRONI
Saluto del Presidente Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Presiede: ANDREA GIARDINA
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Scuola Normale Superiore Pisa
MARIO VEGETTI
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Università degli Studi di Pavia
Equità senza eguaglianza: un rompicapo aristotelico
DARIO MANTOVANI
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Università degli Studi di Pavia
Aequitas e diritto romano
Presiede: VALERIO ONIDA
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Presidente Emerito della Corte Costituzionale
Università degli Studi di Milano
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Università degli Studi di Milano
Equità medioevale e moderna: spunti sulla dottrina
GUSTAVO ZAGREBELSKY
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Presidente Emerito della Corte Costituzionale
Università degli Studi di Torino
Equità nel diritto odierno
ore 14.30
Presiede: ALDO MONTESANO
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Università Commerciale L. Bocconi di Milano
GIORGIO LUNGHINI
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
IUSS di Pavia
Da Moore a Keynes: "La filosofia sociale cui potrebbe condurre la Teoria generale"
LUIGI CAMPIGLIO
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Equità ed welfare state europeo
SALVATORE VECA
Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
IUSS di Pavia
L’idea di equità nelle teorie della giustizia sociale
TAVOLA ROTONDA
Moderatore: Salvatore Veca
Interventi: Mario Vegetti, Dario Mantovani,
Antonio Padoa Schioppa, Gustavo Zagrebelsky,
Giorgio Lunghini, Luigi Campiglio
ABSTRACTS
MARIO VEGETTI
(Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere - Università degli Studi di Pavia)
Equità senza eguaglianza: un rompicapo aristotelico
Nel libro V dell'Etica nicomachea Aristotele affronta, nell'ambito del discorso sulla
“giustizia distributiva” (un sottosistema rispetto alla “giustizia in generale”, o
politica, che consiste sostanzialmente nel rispetto delle leggi), la questione dell'equa
ripartizione di beni sociali quali cariche di comando, posizioni di prestigio, ricchezze
pubbliche. Occorre evitare sia l'inganno democratico di una ripartizione
perfettamente egualitaria, perché non corrisponde alle reali gerarchie sociali di ceto e
di merito, sia l'avidità (pleonexia) che è propria dei regimi oligarchici: tanto
l'egualitarismo quanto l'avidità sono forieri di conflitti sociali.
Aristotele dunque propone un concetto di equità “proporzionale”, una sorta di equità
a geometria variabile nella ripartizione dei beni sociali che è in grado di tener conto
delle reali differenze tra membri della comunità politica senza d'altra parte consentire
ai potenti di abusare della loro forza.
Questo concetto di equità “proporzionale” è poi esteso da Aristotele anche in ambiti
rispetto ai quali sembrerebbe estraneo, come quello degli scambi commerciali e
quello della “giustizia correttiva”, cioè dell'erogazione di pene per delitti che ledono
gli equilibri della comunità.
Aristotele, Etica nicomachea V 6-7
Siano
A, B persone; C, D quote di beni sociali ripartibili
Equità proporzionale:
A:B = C:D
A:C = B:D
(A+C):(B+D) = A:B
Solo nel caso A=B [democrazia]
(1+1):(1+1) = 1:1
Se A≠B (es. 2x)
(2+2):(1+1) = 2:1
DARIO MANTOVANI
(Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere – Università degli Studi di Pavia)
L'aequitas nel diritto romano
Nelle fonti romane è diffusa una concezione dell'aequitas analoga a quella della
dikaiosyne teorizzata in modo particolarmente organico da Aristotele, che si
manifesta sotto i due profili della giustizia distributiva (che impone trattamenti
differenziati, proporzionali alle differenze socio-politico) e della giustizia correttiva
(che, nei rapporti fra privati, ha lo scopo di riportare i patrimoni in equilibrio
attraverso un'operazione matematica di risarcimento). La giustizia così intesa ha
come idea guida l'"ison" (giusto medio) e si può caratterizzare per opposizione a "chi
cerca di avere più degli altri". Questa concezione della giustizia è in sintonia con le
idee romane fin dal primo momento in cui esse ci sono documentate (fra III e II sec.
a.C.), senza che si possa dire in che misura siano state influenzate dalla
acculturazione seguita alla conquista della Grecia. In particolare, questa concezione
di giustizia è in sintonia con il concetto, tipicamente romano, di bonum et aequum,
presente dal teatro di Plauto fino ai giuristi del III sec. d.C. Anch'esso esprime il
concetto di "equilibrio", "giusto medio". Per i Romani, in questa prospettiva, l'equità
non è affatto sentita come esterna (anzi, antagonista) rispetto al ius, bensi è
immanente al ius, il suo principio costitutivo. L'aequitas romana è dunque del tutto
diversa rispetto all'epieikeia greca teorizzata da Aristotele (da tradurre non come
"equità", bensì come "adattamento" della norma generale al caso concreto) e anche
rispetto a un trattamento clemente, che disapplichi la norma. L'immanenza
dell'aequum nel concetto di ius si esprime nel concreto lavoro argomentativo dei
giuristi romani, specialmente nel principio "bono et aequo non convenit aut lucrari
aliquem cum damno alterius aut damnum sentire per alterius lucrum". Il divieto di
arricchimento (espressione appunto dell'equità, che si oppone a "chi cerca di avere
più degli altri") si articola in altri principi che ne costituiscono quasi i corollari, in
particolare la compensazione del "commodum" con l'"incommodum" e la punizione
degli illeciti. Concretizzatasi in questi principi, l'aequitas è tutt'altro che invocazione
formale, bensì riveste nel pensiero giuridico romano il valore operativo di massima di
decisione fondamentale.
Testi:
- Definizioni di ius, iustitia, aequitas
D. 1.1.1 pr. Ulpianus 1 Institutionum: Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris
descendat. Est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi.
1 Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam
profitemur.
Decreto del Senato per l’arbitrato fra Magnesia e Priene (metà II sec. a.C.): SIG 679 = Sherk n. 7:
ὅσον ἂν καλὸν καὶ δίκαιον φαίνηται διατιμησάσθω “(i giudici) valutino quanto pare buono e equo”.
Lex Irnitana 69 (81-91 d.C.): iique qui sententia[s l]aturi erunt, priusquam sententias ferant, quisque
eorum iuret per Iouem et diuom Aug(ustum) (...) se quod aequum bonumque et maxime e re
communi eius municipi esse censeat, iudicaturum.
Rhetorica ad Herennium 3.3: Iustitia est aequitas ius uni cuique rei tribuens pro dignitate cuiusque.
Cicerone, De inventione 2.160: Iustitia est habitus animi communi utilitate conservata suam cuique
tribuens dignitatem.
- La premessa greca della aequitas romana (giusto come “uguale”)
Aristotele, Etica Nicomachea, V 1129a 31-34: Εἰλήφθω δὴ ὁ ἄδικος ποσαχῶς λέγεται. Δοκεῖ δὴ ὅ
τε παράνομος ἄδικος εἶναι καὶ ὁ πλεονέκτης καὶ ἄνισος, ὥστε δῆλον ὅτι καὶ [ὁ] δίκαιος ἔσται ὅ τε
νόμιμος καὶ ὁ ἴσος. [1130a 14-22] Ζητοῦμεν δέ γε τὴν ἐν μέρει ἀρετῆς δικαιοσύνην (...) Σημεῖον δ'
ὅτι ἔστιν· κατὰ μὲν γὰρ τὰς ἄλλας μοχθηρίας ὁ ἐνεργῶν ἀδικεῖ μέν, πλεονεκτεῖ δ' οὐδέν, οἷον ὁ
ῥίψας τὴν ἀσπίδα διὰ δειλίαν ἢ κακῶς εἰπὼν διὰ χαλεπότητα ἢ οὐ βοηθήσας χρήμασι δι'
ἀνελευθερίαν· ὅταν δὲ πλεονεκτῇ, πολλάκις κατ' οὐδεμίαν τῶν τοιούτων, ἀλλὰ μὴν οὐδὲ κατὰ
πάσας, κατὰ πονηρίαν δέ γε τινά (ψέγομεν γάρ) καὶ κατ' ἀδικίαν. [1130a 32 - 1130b 4] Ὥστε
φανερὸν ὅτι ἔστι τις ἀδικία παρὰ τὴν ὅλην ἄλλη ἐν μέρει (...), ἀλλ' ἣ μὲν περὶ τιμὴν ἢ χρήματα ἢ
σωτηρίαν (...), καὶ δι' ἡδονὴν τὴν ἀπὸ τοῦ κέρδους.
[1131a 13] Εἰ οὖν τὸ ἄδικον ἄνισον, τὸ δίκαιον ἴσον· ὅπερ καὶ ἄνευ λόγου δοκεῖ πᾶσιν.
[V 1129a 31-3] Cerchiamo, dunque, di afferrare quanti significati ha il termine "uomo ingiusto". Si
ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge e chi cerca di avere più degli altri e non
rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e chi rispetta
l’uguaglianza.
[1130a 14-22] Ma quello che cerchiamo, tuttavia, è la giustizia che è parte della virtù. (...) Indizio
della sua esistenza: chi agisce secondo le altre forme di vizio, certo, commette ingiustizia, ma non ci
guadagna nulla, come, per esempio, chi getta per viltà lo scudo o chi è maldicente per cattivo
carattere o chi, per avarizia, rifiuta un soccorso in denaro. Quando, invece, cerca di avere più degli
altri, spesso non agisce per alcuna di tali forme di vizio singolarmente presa, ma nemmeno per tutte
insieme, bensì per malvagità, almeno per una certa malvagità (lo biasimiamo, infatti), cioè per
ingiustizia. (...)
[1130a 32 - 1130b 4] Sicché è evidente che oltre a quella totale esiste un’altra forma di ingiustizia,
che è parte della prima (...) ma riguarda l’onore o la ricchezza o la sicurezza personale, ed è
motivata dal piacere che deriva dal guadagno. [1131a 13] Se dunque l’ingiusto è ciò che non
rispetta l’uguaglianza, il giusto è l’uguale; cosa che tutti riconoscono anche senza bisogno di un
ragionamento. (trad. C. Mazzarelli)
Plauto, Miles gloriosus 725-732: aequom fuit / deos parauisse, uno exemplo ne omnes uitam
uiuerent / Sicut merci pretium statuit quist probus agoranomus: / Quae probast ---, pro uirtute ut
ueneat, / Quae inprobast, pro mercis uitio dominum pretio pauperet: / Itidem diuos dispertisse uitam
humanam aequom fuit: / Qui lepide ingeniatus esset, uitam ei longinquam darent, / Qui inprobi
essent et scelesti, is adimerent animam cito. /
- L’aequitas è un criterio di decisione, non è l’epieicheia (= adattamento, correzione della norma
generale)
aequum (aequitas)= piano, livellato
ἴσον (ἴσοτης) = uguale
ἔοικα (assomigliare a) / ἐπιεικές (ἐπιείκεια) = conveniente, adattato
Aristotele, Etica Nicomachea V 1137b 13 – 27: Αἴτιον δ' ὅτι ὁ μὲν νόμος καθόλου πᾶς, περὶ ἐνίων δ'
οὐχ οἷόν τε ὀρθῶς εἰπεῖν καθόλου. (...) Ὅταν οὖν λέγῃ μὲν ὁ νόμος καθόλου, συμβῇ δ' ἐπὶ τούτου
παρὰ τὸ καθόλου, τότε ὀρθῶς ἔχει, ᾗ παραλείπει ὁ νομοθέτης καὶ ἥμαρτεν ἁπλῶς εἰπών,
ἐπανορθοῦν τὸ ἐλλειφθέν, ὃ κἂν ὁ νομοθέτης αὐτὸς ἂν εἶπεν ἐκεῖ παρών, καὶ εἰ ᾔδει, ἐνομοθέτησεν.
Διὸ δίκαιον μέν ἐστι, καὶ βέλτιόν τινος δικαίου, οὐ τοῦ ἁπλῶς δὲ ἀλλὰ τοῦ διὰ τὸ ἁπλῶς
ἁμαρτήματος. Καὶ ἔστιν αὕτη ἡ φύσις ἡ τοῦ ἐπιεικοῦς, ἐπανόρθωμα νόμου, ᾗ ἐλλείπει διὰ τὸ
καθόλου.
Il motivo è che la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile
trattare correttamente in universale. (...) Quando, dunque, la legge parla in universale, ed in seguito
avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo (...) correggere
l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che
avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’adattato è
giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che
è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’adattato: un correttivo
della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. (trad. C. Mazzarelli)
- L’aequitas come massima di decisione per i giuristi romani: il riequilibrio dell’indebito
arricchimento come principio fondamentale del diritto privato
Aristotele, Etica Nicomachea V 1131b 32-1132a 27: Τὸ δ' ἐν τοῖς συναλλάγμασι δίκαιον ἐστὶ μὲν
ἴσον τι, καὶ τὸ ἄδικον ἄνισον, ἀλλ' οὐ κατὰ τὴν ἀναλογίαν ἐκείνην ἀλλὰ κατὰ τὴν ἀριθμητικήν.
Οὐδὲν γὰρ διαφέρει, εἰ ἐπιεικὴς φαῦλον ἀπεστέρησεν ἢ φαῦλος ἐπιεικῆ, οὐδ' εἰ ἐμοίχευσεν
ἐπιεικὴς ἢ φαῦλος· ἀλλὰ πρὸς τοῦ βλάβους τὴν διαφορὰν μόνον βλέπει ὁ νόμος, (...) Διὸ καὶ
ὅταν ἀμφισβητῶσιν, ἐπὶ τὸν δικαστὴν καταφεύγουσιν· τὸ δ' ἐπὶ τὸν δικαστὴν ἰέναι ἰέναι ἐστὶν ἐπὶ
τὸ δίκαιον· ὁ γὰρ δικαστὴς βούλεται εἶναι οἷον δίκαιον ἔμψυχον· καὶ ζητοῦσι δικαστὴν μέσον,
καὶ καλοῦσιν ἔνιοι μεσιδίους, ὡς ἐὰν τοῦ μέσου τύχωσι, τοῦ δικαίου τευξόμενοι. (...) Ὁ δὲ
δικαστὴς ἐπανισοῖ, καὶ ὥσπερ γραμμῆς εἰς ἄνισα τετμημένης, ᾧ τὸ μεῖζον τμῆμα τῆς ἡμισείας
ὑπερέχει, τοῦτ' ἀφεῖλε καὶ τῷ ἐλάττονι τμήματι προσέθηκεν.
Ciò, invece, che è giusto nei rapporti privati è una specie di uguale, e l’ingiusto una specie di
disuguale, ma non secondo quella proporzione (geometrica), bensì secondo la proporzione
aritmetica. Non c’è nessuna differenza, infatti, se è un uomo buono che toglie qualcosa ad uno
cattivo, o se è uno cattivo che toglie qualcosa ad uno buono, né se a commettere adulterio è un
uomo buono o uno cattivo: la legge guarda solo alla differenza relativa al danno (...) Ecco perché,
quando si litiga, ci si rifugia dal giudice: andare dal giudice significa andare davanti alla giustizia,
giacché il giudice intende essere come la giustizia vivente. E si cerca il giudice come termine medio
(anzi alcuni chiamano i giudici "mediatori"), nella convinzione che se si raggiunge il termine
medio, si raggiungerà il giusto. (...) E il giudice ristabilisce l’uguaglianza, cioè, come se si trattasse
di una linea divisa in parti disuguali, egli sottrae ciò di cui la parte maggiore sorpassa la metà e
l’aggiunge alla parte minore (trad. C. Mazzarelli).
D. 50.17.206 Pomponius 9 ex variis lectionibus: Iure naturae aequum est neminem cum alterius
detrimento et iniuria fieri locupletiorem.
D. 12.6.66 Papinianus 8 quaestionum: Haec condictio ex bono et aequo introducta, quod alterius
apud alterum sine causa deprehenditur, revocare consuevit.
D. 12.6.65.4 Paulus 17 ad Plautium: Quod ob rem datur, ex bono et aequo habet repetitionem:
veluti si dem, tibi, ut aliquid facias, nec feceris.
D. 12.1.32 Celsus 5 digestorum: Si et me et Titium mutuam pecuniam rogaveris et ego meum
debitorem tibi promittere iusserim, tu stipulatus sis, cum putares eum Titii debitorem esse, an mihi
obligaris? subsisto, si quidem nullum negotium mecum contraxisti: sed propius est, ut obligari te
existimem, non quia pecuniam tibi credidi (hoc enim nisi inter consentientes fieri non potest): sed
quia pecunia mea ad te pervenit, eam mihi a te reddi bonum et aequum est.
Ego (delegante) – debitore di Ego (delegato a promettere) – Tu (delegatario)
- Un corollario: il principio dell’equilibrio fra vantaggi e svantaggi
Terenzio, Hecyra 840: multa ex quo fuerint commoda, eius incommoda aequomst ferre.
D. 23.3.7 pr. Ulpianus 31 ad Sabinum: Dotis fructum ad maritum pertinere debere aequitas suggerit:
cum enim ipse onera matrimonii subeat, aequum est eum etiam fructus percipere.
- Un secondo corollario: chi nuoce dev’essere punito
Apuleio, De Platone et eius dogmate 2.17: cum nocere alteri malorum omnium maximum sit, multo
gravius, si qui nocet habeat impune (...) sicut gravius est acerbissimorum morborum carere
medicina, medentes fallere nec uri aut secari eas partes, quarum dolore incolumitati residuarum
partium consulatur.
D. 16.3.31.1 Tryphoninus 9 disputationum: Bona fides quae in contractibus exigitur aequitatem
summam desiderat: sed eam utrum aestimamus ad merum ius gentium an uero cum praeceptis
ciuilibus et praetoriis? ueluti reus capitalis iudicii deposuit apud te centum: is deportatus est,
bona eius publicata sunt: utrumne ipsi haec reddenda an in publicum deferenda sint? si tantum
naturale et gentium ius intuemur, ei qui dedit restituenda sunt: si ciuile ius et legum ordinem, magis
in publicum deferenda sunt: nam male meritus publice, ut exemplo aliis ad deterrenda maleficia sit,
etiam egestate laborare debet. [1] Incurrit hic et alia inspectio. bonam fidem inter eos tantum, quos
contractum est, nullo extrinsecus adsumpto aestimare debemus an respectu etiam aliarum
personarum, ad quas id quod geritur pertinet? exempli loco latro spolia quae mihi abstulit posuit
apud Seium inscium de malitia deponentis: utrum latroni an mihi restituere Seius debeat? si per
se dantem accipientemque intuemur, haec est bona fides, ut commissam rem recipiat is qui dedit: si
totius rei aequitatem, quae ex omnibus personis quae negotio isto continguntur impletur, mihi
reddenda sunt, quo facto scelestissimo adempta sunt. et probo hanc esse iustitiam, quae suum
cuique ita tribuit, ut non distrahatur ab ullius personae iustiore repetitione.
Quod si ego ad petenda ea non ueniam, nihilo minus ei restituenda sunt qui deposuit, quamuis male
quaesita deposuit.
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
(Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere – Università degli Studi di Milano)
L’equità nel diritto medievale e moderno:
spunti della dottrina
La relazione mira a porre in rilevo alcuni momenti e alcuni autori all’interno del
lungo e frastagliato percorso dell’idea di equità che – muovendo dalle basilari e
ricorrenti premesse della cultura filosofica e giuridica antica di Grecia e di Roma –
si sviluppa con risultati nuovi senza interruzione nel pensiero e nella prassi del
diritto medievale e moderno europeo. La riflessione sull’aequitas prende avvio con
intenso sforzo sistematico e interpretativo sin dagli inizi della Scuola di Bologna,
per opera dello stesso fondatore Irnerio e dei suoi allievi di prima e di seconda
generazione. Un secondo fondamentale apporto venne dai canonisti, che
svilupparono tra XII e XIII secolo una complessa teorizzazione del significato e
della portata dell’equità nel diritto della Chiesa, così da configurare una specifica
serie di dottrine che assunsero la denominazione di aequitas canonica. Nel diritto
del commercio si sviluppò sin dal secolo XIV una procedura slegata dai formalismi
del diritto civile, che fu designata dai giuristi del diritto comune con la formula di
aequitas mercatoria. Nell’àmbito del diritto inglese, all’interno del sistema di
common law un comparto distinto sia quanto alla procedura sia quanto alle regole
formò a partire dalla fine del medioevo, per opera della Corte di Cancelleria, il
sottosistema dell’Equity, influenzato all’origine dal diritto canonico
ma presto
dotato di una specifica originalità di contenuti che formarono una componente
significativa del common law. Anche talune Corti sovrane dell’età moderna (qui si
richiama l’esempio del Senato di Milano nell’epoca del dominio spagnolo) fecero
largo ricorso all’aequitas nell’esercizio dei loro vasti poteri discrezionali. A sua
volta la dottrina continuò a lavorare sul concetto di equità, con sviluppi di diverso
segno, come mostrano gli esempi delle teorie di due grandi autori, il francese Jacopo
Cuiacio nel Cinquecento e l’olandese Ugo Grozio nel Seicento, esponenti di punta,
rispettivamente, dell’indirizzo umanistico culto e del moderno giusnaturalismo
europeo. Questi esempi consentono di formulare alcune brevi considerazioni
conclusive.
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GUSTAVO ZAGREBELSKY
(Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere
Presidente Emerito della Corte Costituzionale – Università degli Studi di Torino)
Equità nel diritto odierno
L’esigenza di un “supplemento di giustizia materia”, cioè di una giustizia del caso
concreto, al di là della legge, in quanto norma generale e astratta, percorre tutta la
riflessione sul diritto, dalle origini fino a oggi. Questa non è un’esagerazione, un
omaggio al tema per riflettere sul quale siamo qui riuniti.
Solo qualche esempio.
Per tutti, Platone, nel Politico 294a, scrive che “la legislazione è parte dell’arte regia;
meglio di tutto però non è che abbiano vigore le leggi, ma che l’abbia l’uomo il quale
per la sua intelligenza sia regio. E sai perché? Perché la legge non può mai,
abbracciando ciò che è ottimo e giustissimo, prescrivere nello stesso tempo con
precisione ciò che è il meglio per ciascuno. Giacché le disuguaglianze degli uomini e
delle azioni e il non rimanere giammai, per così dire, in quiete nessuna delle cose
umane, non permettono che alcun’arte possa per alcuna cosa indicare
nulla di
semplice che serva a tutti i casi e in tutti i tempi … Ora, la legge, noi vediamo che
suppergiù tende proprio a questo, come un uomo prepotente e ignorante e che a
nessuno non lascia far nulla senza il suo ordine, anzi non permette nemmeno che altri
lo interroghi, nemmeno se a qualcuno venga in mente un partito muovo, migliore e
differente dalla disposizione che egli aveva imposta”.
Aristotele, nell’Etica nicomachea 1138a, riprende la contrapposizione tra la legge
che può contenere l’arbitrio rispetto al caso concreto e la decisione particolare che fa
giustizia, con la famosa immagine del “regolo”: “quando la legge parla in universale,
e in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è
legittimo, quando il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per
aver parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il
legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se
avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di
un certo tipo di giustizia, non in senso assoluto, bensì della giustizia che è
approssimativa per il fatto di essere universale. Ecco la natura dell’equo: un
correttivo della legge, quando è difettosa a causa della sua universalità. Questo è
infatti il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono situazioni in
cui è impossibile dettare una legge, ed è necessario un provvedimento specifico.
Infatti, rispetto a una cosa indeterminata anche la norma deve essere indeterminata,
come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo si adatta alla
configurazione della pietra e non rimane rigido, come il provvedimento si adatta ai
fatti … Da ciò risulta manifesto anche che l’uomo giusto è … chi non è pignolo
nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro,
anche se ha il conforto della legge. Questa disposizione è l’equità, che è una forma
speciale di giustizia e non una disposizione di genere diverso”.
Da Platone e da Aristotele si potrebbe prendere lo spunto per seguire, nel corso delle
epoche, la tensione tra il generale astratto e il particolare concreto nelle teorie della
giustizia e nella storia delle istituzioni giudiziarie, tensione che affiora perfino in
periodo illuministico, pur sotto l’impero della dottrina della legge come espressione
di volontà generale e, perciò giusta. Si pensi all’abate Sieyès che, nel suo progetto di
jury constitutionnaire (1799), attribuiva a quest’organo, insieme ad altre funzioni,
anche quella di offrire un “supplemento di giurisdizione naturale”, valido per
riempire il vuoto di diritto, quando la legge è inadatta a regolare il caso singolo.
In questo mio intervento cercherò soltanto di mostrare la rinascita di questa
problematica, capitale per la nostra visione del diritto e per le aspettative che
riponiamo in esso, nello Stato costituzionale odierno che, sotto diversi aspetti, ha
superato la concezione illuministica della legge à la Montesquieu, Bentham,
Beccaria, per l’esigenza costituzionale, sottolineo: costituzionale, di dare spazio alle
esigenze dei casi concreti. Di questa rinascita sono particolarmente significativi i
numerosi casi in cui le leggi sono dichiarate incostituzionali per il loro eccesso di
generalità e di astrattezza e per l’impossibilità che il giudice possa operare giudizi di
equità, in rapporto al caso sottoposto al suo giudizio. Una vera e propria rivoluzione,
del cui carattere di novità rispetto alle concezioni tradizionali che vengono dal
positivismo giuridico non si è ancora preso pienamente atto. Si tratta di un esito
sorprendente del principio di uguaglianza e di adeguatezza del diritto, un esito che
chiama in causa anche la concezione della giurisdizione e solleva interrogativi
sull’idoneità dell’organizzazione giudiziaria, modellata sul giudice funzionario
“soggetto solo alla legge”, a far fronte a quella funzione così importante, delicata e, al
tempo stesso, pericolosa, che Platone ascriveva all’ “arte regia”.
GIORGIO LUNGHINI
(Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere – IUSS di Pavia)
Principia Ethica e Filosofia sociale
I Principia Ethica di G. E. Moore ebbero grande influenza sulla Società degli
Apostoli e sul Circolo di Bloomsbury, e di qui sulla ‘visione’ di J. M. Keynes. Nelle
parole di Schumpeter, «La Teoria Generale è il risultato finale della prolungata lotta
di Keynes per rendere la sua visione della nostra era analiticamente operativa». Le
Note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la Teoria generale potrebbe
condurre sono infatti il più bell’esempio di una teoria economica intesa a fondare un
disegno di politica economica, che indichi la retta via per fare il bene di tutti.
I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono oggi gli stessi
che Keynes denunciava nel 1936: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e
la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Che cosa si dovrebbe
fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la disoccupazione e
l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Secondo Keynes si dovrebbero fare tre
cose: una redistribuzione della ricchezza e del reddito, l’eutanasia del rentier, e una
socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento. È questo un disegno
realistico e analiticamente ben fondato; tuttavia «La difficoltà sta nel fatto che i
leaders capitalisti nella City e in parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi
strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano
bolscevismo».
LUIGI CAMPIGLIO
(Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
Equità e welfare state europeo
L’equità un concetto elastico ma fondamentale per l’efficiente funzionamento del
meccanismo di mercato: analizziamo i limiti minimi e massimi dell’equità
distributiva sul piano teorico per dimostrare come il funzionamento del mercato del
mercato richieda il soddisfacimento di un limite minimo di dignitosa sussistenza,
mentre osserviamo come il limite massimo sia più difficile da individuare sul piano
teorico. L’evidenza storica recente ha aperto un dibattito economico sul rapporto fra
polarizzazione sociale, elevata concentrazione del reddito e della ricchezza e le due
grandi crisi di quest’ultimo secolo, la Grande Depressione e la Grande Crisi.
L’inconciliabilità fra equità ed efficienza è nella gran parte dei casi inesistente:
maggiori salari aumentano l’efficienza se il livello iniziale è molto basso, mentre
salari crescenti, lungo un percorso di carriera, accrescono la motivazione dei
lavoratori e la loro efficienza di gruppo per attività ad elevato contenuto di valore
aggiunto. Il meccanismo di mercato può soddisfare le ragioni del merito, ma non
rispondere, se non in modo strumentale attraverso il merito, alle ragioni del bisogno:
il bisogno senza merito è tuttavia la caratteristica centrale di coloro la cui vita,
inevitabilmente, dipende da altri, come nel caso dei figli minori per i genitori o gli
anziani non autosufficienti. L’area è ancora più ampia quando si considerino le
situazioni di disabilità o semplicemente sfortunate nella distribuzione del rischio
sociale.
Il welfare state moderno è un’istituzione sociale in cui si rispecchiano i nostri
reciproci obblighi di equità, dalla famiglia nucleare, alla famiglia nazionale, europea
e umana: se tutti i componenti di una comunità sono legati da reciproci obblighi, tutti
sono simultaneamente debitori e creditori di obbligazioni umane di natura prioritaria.
Nell’esperienza europea il welfare è un’istituzione centrale in cui si rispecchiano i
reciproci obblighi sociali e che, nel caso di molti paesi, ha dimostrato di funzionare in
modo molto efficace nei momenti di crisi e a favore delle categorie più deboli. I
sistemi più efficienti di welfare europeo producono favorevoli risultati sul piano della
stabilità e della crescita: un’efficiente sistema di welfare rappresenta un’istituzione
centrale per qualunque comunità, nazionale o sovranazionale, che promuova
risparmio, investimenti e sviluppo.
SALVATORE VECA
(Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere – Università degli Studi di Pavia)
L’idea di equità nelle teorie della giustizia
Nel mio intervento mi propongo di esaminare e illustrare l’idea di equità entro il
quadro delle teorie della giustizia, intese come teorie politiche normative. Mi
riferisco, in particolare, alla proposta teorica di John Rawls, formulata nel suo
classico A Theory of Justice (1971), un contributo che ha istituito il paradigma delle
teorie della giustizia entro la filosofia politica contemporanea.
L’idea principale di Rawls è che il ricorso alla nozione di equità (fairness) consenta
di specificare i tratti fondamentali di una interpretazione della giustizia sociale. Il
concetto di giustizia può infatti essere interpretato in modi differenti. Nel gergo di
Rawls, un concetto di giustizia, più concezioni della stessa. L’interpretazione favorita
da A Theory of Justice è definita dalla concezione della giustizia come equità sociale.
I principi della giustizia come equità sono due. Il primo prescrive che ciascun partner
della polis disponga di un eguale sistema delle libertà fondamentali (principio di
libertà). Il secondo regola la distribuzione di costi e benefici della cooperazione
sociale e prescrive che le uniche ineguaglianze giustificabili siano quelle che vanno a
vantaggio dei gruppi meno avvantaggiati nella società (principio di differenza).
Giustizia come equità è presentata da Rawls nei termini di una teoria del contratto
sociale. I due principi di giustizia sono l’esito di una scelta collettiva (contratto
sociale) in una opportuna situazione iniziale di scelta, interpretata come una
posizione originaria (original position). Tuttavia, a favore dei due principi (e, in
particolare, del secondo) viene formulato anche un argomento intuitivo, indipendente
dalla dimostrazione via teoria della scelta.
Su questo sfondo, mi propongo in primo luogo di mettere a fuoco i) la connessione
fra il principio di libertà e il principio di differenza e ii) l’interpretazione del secondo
principio in termini di egualitarismo democratico, offerta dall’argomento intuitivo.
In secondo luogo, mi soffermo i) sull’interpretazione della posizione originaria come
situazione di scelta appropriata per gli scopi della concezione della giustizia come
equità e ii) su alcuni casi di possibile estensione della teoria all’arena internazionale,
all’equità intergenerazionale e alle questioni lato sensu ambientali.