storiografia e memoria

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storiografia e memoria
STORIOGRAFIA E MEMORIA
Sommario: 1. Storiografia antica e moderna – 2. Israele – 3. Grecia – 4. Roma –5. Oblio.
1. STORIOGRAFIA ANTICA E MODERNA
Il rapporto tra storiografia e memoria esprime nello stesso tempo potenzialità e limiti e si
ripropone sempre con rinnovata determinatezza soprattutto se si considera la memoria come finalizzata
ad “attualizzare” il passato.
Dal punto di vista della storiografia, infatti, la memoria è considerata come l’insieme delle
pratiche attraverso le quali determinate rappresentazioni del passato sono conservate e trasmesse
all’interno di una società. La cellula elementare di queste pratiche è costituita dall’atto narrativo, che è lo
strumento interpretativo attraverso il quale la memoria viene oggettivata per essere condivisa e
trasmessa1. In tal senso è necessario fare una distinzione tra memoria e storia. Per quanto la storia possa
essere considerata come un’estensione, un raffinamento, una sistematizzazione o una
istituzionalizzazione della memoria, essa inizia ad essere scritta là dove la memoria finisce, perchè storia
e memoria rispondono a logiche dissimili2. A tal proposito scrive Yerushalmi: “La memoria e la
storiografia moderna, per la loro stessa natura, si pongono in un rapporto molto diverso nei confronti
del passato: la seconda non mira infatti a una restaurazione dei ricordi, ma a un modo di ricordare
interamente nuovo. Nella sua ricerca incessante essa porta alla ribalta testi, eventi, processi evolutivi o
involutivi che non hanno mai fatto parte della memoria [...] Ma non è tutto: lo storico non si limita a
colmare le lacune della memoria, ma sottopone a un esame critico anche i ricordi che sono giunti intatti
fino a noi”3.
Mentre i processi di selezione, conservazione e ricostruzione del passato operati dalla memoria
individuale e collettiva sono suggeriti dalle esigenze di guidare pragmaticamente l’azione e di preservare
l’identità, quelli operati dalla storiografia moderna sono ispirati dal desiderio di conoscere, per quanto
possibile, “obiettivamente” ciò che è accaduto, tendono a esplicitare e controllare i criteri di
interpretazione delle fonti e sottostanno a regole custodite dalla comunità scientifica. Tuttavia, tale
distinzione diviene meno netta se si considera che la storiografia interagisce con le memorie individuali
e collettive, sia nel senso che queste definiscono la rilevanza relativa dei campi d’indagine dello storico,
sia nel senso che i risultati della ricerca storica retroagiscono sulla cultura di una società restituendo
immagini del passato che sono incorporabili nella conoscenza diffusa dei suoi membri 4.
Va considerato, comunque, che alla memoria non è stato sempre attribuito il medesimo
significato, né si sono avuti a disposizione gli stessi strumenti per “ricordare”. La prima distinzione
rilevante è quella tra società a cultura orale e società a cultura prevalentemente scritta5. Nelle società
preletterate la memoria adempie a fondamentali funzioni di riproduzione sociale, si esprime in pratiche
narrative ritualizzate e si concentra su tre grandi poli di interesse: “l’identità collettiva del gruppo, che si
fonda sui miti delle origini; il prestigio della famiglia dominante, che si esprime nelle genealogie; e il
sapere tecnico, che si trasmette attraverso formule pratiche fortemente intrise di magia religiosa”6. La
scrittura modifica il ruolo e le funzioni della memoria, permettendo da un lato la nascita della
commemorazione, affidata al monumento celebrativo e all’iscrizione, dall’altro la redazione e la raccolta
di documenti. Ciò determina una progressiva esteriorizzazione della memoria. Anche a tale
consapevolezza fa riferimento Platone che, commentando il dono divino della scrittura, osserva che
“l’alfabeto farà sì che nell’anima dei discenti trovi luogo il dimenticare per l’indebolirsi della memoria, in
Cfr. L. Passerini, Storia e soggettività, Firenze, 1988.
Cfr. P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Milano, 1989; A. Baddeley, Your memory, New York, 1982, ed. it., RomaBari, 1984; M. Halbwachs, La mémoire collective, Paris, 1968, ed. it. Milano, 1987.
3 Y.H. Yerushalmi, Zakhor: Jewish History and Jewish Memory, Seattle, 1982, ed. it., Parma, 1983, p. 105.
4 P. Jedlowski, Memoria, in A. De Bernardi, S. Guarracino (a cura di), Dizionario di storiografia, Milano 1996, pp. 668-669.
5 Cfr. W. J. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London and New York, 1982, ed. it. Bologna, 1986
6 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, 1982 (raccolta di saggi precedentemente pubblicati nell’Enciclopedia Einaudi, Torino)
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quanto che essi fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori per mezzo di segni estranei, non dal di
dentro di sé medesimi”7.
2. ISRAELE
Nella tradizione biblica, la memoria ha un ruolo essenziale come invito alla fedeltà del popolo al
patto originario con Dio, determinandosi quale elemento privilegiato di coesione sociale. Nella cultura
ebraica memoria scritta, memoria rituale e memoria narrativa si fondono in un saldo insieme. I versetti
del Deuteronomio8 si possono leggere come un breve compendio della storia di Israele, il cui racconto
verrà diffusamente sviluppato nei libri storici, prima in Giosuè, che descrive la conquista della terra come
compimento delle promesse di Dio al popolo fedele alla Legge, e successivamente in Giudici, nei due
libri di Samuele e nei due dei Re, che narrano le disastrose conseguenze della disobbedienza del popolo,
in un crescendo che si conclude con la catastrofe del 586 a.C.
Di fronte agli avvenimenti drammatici, durante i quali l’esistenza stessa di Israele è minacciata,
gli autori di questi libri cercano una spiegazione, e la trovano nell’apostasia del popolo. Malgrado i
numerosi avvertimenti e le punizioni esemplari di Dio, il popolo non ha cambiato la propria condotta,
non è stato in grado di capire le lezioni della storia, non ha colto le occasioni per pentirsi, ha continuato
a tradire il proprio Dio praticando l’idolatria. La distruzione di Gerusalemme e del Tempio diviene
l’espressione finale della giustizia divina: “Ioiachim aveva venticinque anni quando incominciò a regnare
e regnò undici anni in Gerusalemme [...]. Al suo tempo salì Nabucodonosor, re di Babilonia, e Ioiachim
fu suo vassallo per tre anni, poi nuovamente si ribellò contro di lui. Il Signore inviò, allora, contro di lui
bande di Caldei, bande di Aramei, bande di Moabiti e bande di figli di Ammon e li lanciò contro Giuda
per distruggerla, secondo la parola che il Signore aveva proferito per mezzo dei suoi servi, i profeti. Ciò
avvenne contro Giuda, solamente secondo l’ordine del Signore, per toglierla dalla sua faccia, a motivo
dei peccati di Manasse, per tutto ciò che aveva fatto, e anche per il sangue innocente che aveva sparso,
riempiendo Gerusalemme di sangue innocente. Il Signore non volle perdonare”9.
Risulta chiaro che per lo “storico deuteronomista” il passato non ha senso in sé, ma piuttosto
come parte della realizzazione del piano provvidenziale di Dio. Il racconto di questo passato non è
un’operazione storiografica, nel senso in cui si intende la storiografia a partire dal XIX secolo. Si tratta
soprattutto di un commento teologico ai fatti del passato, dal quale i destinatari dell’opera devono
ricavare il corretto modello di comportamento.
La frequenza con la quale ricorre, nella Bibbia, il verbo “ricordare” definisce, in ogni caso, la
centralità della memoria. “Ricorda i giorni antichi, considera gli anni di generazione in generazione,
interroga tuo padre e te lo narrerà, i tuoi anziani e te lo diranno”10. Ricordare è certamente un dovere
religioso. Ma cosa e come si deve ricordare? E quali sono i rapporti tra la memoria ebraica e la
registrazione scritta degli avvenimenti del passato che chiamiamo storia? Se la memoria collettiva non è
concepita in senso junghiano, come archetipo, struttura psichica innata, ma piuttosto come una realtà
sociale trasmessa e mantenuta viva in modo consapevole dalle istituzioni del gruppo, ricostruire la storia
della memoria collettiva significa studiare le modalità con cui i membri di una società hanno percepito e
organizzato il passato collettivo. Queste modalità differiscono da un popolo all’altro e, di certo, gli ebrei
hanno avuto un modo specifico di costruire la propria memoria collettiva.
L’imperativo biblico di ricordare non implica necessariamente che gli ebrei fossero interessati al
passato in quanto tale. Certo, la storia riveste un’importanza fondamentale per Israele, perché Dio si
Platone, Fedro, 275a.
Dt, 4, 25-30 “Se genererai figli e figlie e diverrete vecchi nella terra, vi corromperete e farete qualche scultura, figura di
qualsiasi cosa, e farete il male agli occhi del Signore, tuo Dio, da irritarlo, chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra, che
perirete presto sopra la terra, per conquistare la quale voi state per passare il Giordano, non avrete lunghi giorni su di essa,
ma sarete distrutti, e il Signore vi disperderà tra i popoli, e rimarrete in pochi fra le nazioni, là dove il Signore vi condurrà.
Servirete dèi, opera di mani umane, legno e pietra, che non vedono e non ascoltano, non mangiano e non odorano. E di là
ricercherete il Signore, tuo Dio, e lo troverai, se lo chiederai con tutto il tuo cuore e con tutto te stesso. Nella tua angustia ti
troveranno tutte queste cose nel lontano futuro e allora tornerai al Signore e presterai ascolto alla sua voce”.
9 2 Re 23,36-24,4.
10 Dt. 32,7.
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rivela al suo popolo “storicamente”, agisce nella storia, la determina e le dà senso. Dunque c’è un
rapporto stretto tra la storia, la memoria del passato e la sua trasmissione scritta. La storiografia biblica
è una delle espressioni della coscienza che il corso della storia ha un senso, ma questo senso e il suo
ricordo non dipendono affatto dal genere storico. Così nella Bibbia si trovano i fatti del passato capaci
di illustrare il senso provvidenziale della storia.
Dal 1200 a.C. fino all’assoggettamento a Roma e ai fatti di Masada, in ambiente ebraico sorsero,
infatti, vari generi letterari. Le vicissitudini storiche (la perdita dell’indipendenza politica, prima
dell’epoca di Nabucodonosor e poi sotto Tito e Vespasiano) portarono a variazioni anche linguistiche,
come mostra la lunga evoluzione dall’ebraico antico e classico fino all’ebraico mishnico. In ogni modo,
le produzioni letterarie del popolo ebraico furono raccolte in un “unico” testo11, I Libri (Biblìa è il titolo
greco) la cui struttura letteraria è complessa non solo per la varietà dei contenuti ma soprattutto per la
durata e la modalità della sua fissazione scritta, la pluralità di lingue, culture e letterature che vi sono
rappresentate. Si tratta di un testo composito, variamente stratificato e intrecciato, in cui sono presenti
vari generi letterari, da quelli in prosa quali sermoni (specie nella letteratura profetica, opera classica in
questo genere è il Deuteronomio), preghiere (così nei libri di Ester, di Giuditta, dei Re, delle Cronache,
sebbene fosse preferita in genere la forma ritmica); ai monologhi e dialoghi che si leggono nei libri
profetici; detti, narrazioni bibliche mitologiche, racconti favolosi, aneddoti, leggende, saghe. Tra gli altri
generi troviamo la poesia (Salmi, Cantico dei cantici), il genere sapienziale (Proverbi, Ecclesiaste) e
quello epistolare (la lettera più antica è quella con la quale David ordina al capo dell’esercito di far
morire in guerra Uria, marito di Betsabea, della quale il re si era invaghito) e la letteratura profetica
(Isaia, Geremia, Ezechiele).
Certo, mentre dai popoli dell’antico Oriente ci è giunto ogni genere di memorie (iscrizioni,
monumenti, descrizioni di campagne belliche e di vittorie, lapidi votive etc.), di tutto ciò non si ha quasi
nulla nella letteratura ebraica. Le uniche descrizioni riguardano il tempio di Salomone e gli edifici del
palazzo a esso annessi. Esistono invece editti regi e proclami babilonesi e persiani, riportati nella Bibbia
più o meno integralmente in ebraico o aramaico. I contratti e i trattati, così ben documentati tra i popoli
vicini, sono indicati soltanto nelle linee essenziali, e senza formule letterarie: unica eccezione è nel I
libro dei Maccabei. Ampia è invece la documentazione dei precetti rivelati da Dio: se ne tramandano i
riti, le formule, gli obblighi, le promesse e le minacce. Genere attestato e caratteristico è quello delle liste
genealogiche, di luoghi, di confini, di doni sacri etc.; i codici (presentati come affidati direttamente da
dio a Mosè sul monte Sinai) e le raccolte di leggi, che hanno forma apodittica (consistente
nell’imposizione, assoluta ed incondizionata, di un ordine divino) o casistica (ossia attraverso
l’illustrazione di alcuni casi esemplari).
Torah, in cinque libri. Il Genesi narra la creazione, il peccato di Adamo e Eva, il diluvio, la chiamata di Abramo da parte di
Dio, la storia della sua famiglia-tribù fino all’emigrazione di Giuseppe in Egitto. Esodo narra l’intervento divino in favore
degli ebrei oppressi in Egitto, le dieci piaghe, la prima pasqua, il passaggio del mar Rosso sotto la guida di Mosè . Levitico e
Numeri contengono rituali per sacrifici, norme di purità, episodi della vita di Israele nel deserto, elenchi delle tribù e delle
famiglie. Deuteronomio (posteriore nella stesura definitiva ai libri dei profeti) riprende le leggi trattate, sviluppa in senso
etico la teologia dell’alleanza sacra tra dio e popolo eletto, basandola sulla fedeltà del popolo. Si conclude con la morte di
Mosè. Seguono i libri storici (secondo l’uso ebraico: Profeti Anteriori): Giosuè narra le imprese di Giosuè successore di
Mosè, l’ingresso nella terra promessa. Giudici, che prende appunto il nome dalle personalità autorevoli preposte a guidare e
difendere le tribù patriarcali, soffermandosi in particolare su personaggi come Sansone e Debora, è relativo al periodo tra la
morte di Giosuè e l’instaurazione della monarchia. I due libri di Samuele e i due libri dei Re narrano della monarchia di Saul,
David e Salomone, fino alla divisione dei regni, la distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte di Nabucodonosor
(586 a.C.). I due libri di Cronache (o Paralipomeni) riprendono più tardi le cronache dei re integrandole con altre tradizioni.
Esdra e il secondo libro di Esdra (Esdra II, o Neemia) riferiscono gli avvenimenti posteriori all’editto di Ciro (538 a.C.) che
restituiva la libertà agli ebrei di Babilonia, il loro ritorno, la ricostruzione del Tempio, il ritorno all’osservanza legale. Parziale
contenuto storico hanno due libri, Ester e Daniele, (appartenenti alla sezione degli Agiografi) ambientati tra gli ebrei di
Babilonia e il piccolo libro di Ruth che racconta la fedeltà della vedova Ruth alla suocera Noemi e il suo matrimonio con
Booz da cui è fatto discendere David (per i teologi cattolici, da questa linea genealogica sarebbe nato Gesù). I Profeti
Posteriori (denominazione ebraica) si dividono in base alla semplice estensione dei loro scritti in maggiori e minori. I profeti
sono i protagonisti principali, ma non i soli, della predicazione etica e religiosa durata oltre cinque secoli, da Elia e Eliseo (IX
sec. a.C.) a Isaia e Amos (VIII sec.) a Malachia (V sec.), mirante a inculcare nel popolo una religione interiore, a difendere il
monoteismo e lo spirito dell’alleanza, a annunciare avvenimenti futuri. La sezione degli Agiografi comprende libri sapienziali
(Proverbi, Qohelet) e libri poetici (Salmi, Giobbe, Cantico dei cantici, Lamentazioni).
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Dunque, il pensiero degli autori biblici si è variamente incarnato nella prosa narrativo-storica,
mitico-simbolica, nelle formule fisse dei codici rituali e legali, nelle raccolte gnomiche, nelle favole e
parabole, nella poesia dei salmi e dei profeti, ma non esiste, nell’ebraismo, un genere storiografico vero
e proprio. I racconti biblici, nella grande maggioranza, posseggono, senza dubbio, una valenza
storiografica, ma si caratterizzano per la forte presenza dell’elemento teologico.
La Bibbia ha conservato il ricordo di generi storiografici profani, come le cronache dei re di
Giuda di cui si parla nel Secondo libro dei Re: “Il resto delle gesta di Manasse, ciò che fece e il peccato
che commise, non sono forse scritti nel libro degli Annali dei re di Giuda?”12 Non è un caso che questi
annali siano scomparsi e che i redattori dei libri biblici, che erano sacerdoti più che storici, abbiano
trascelto da queste cronache il materiale funzionale alla loro teologia della storia. Inoltre, nell’Israele
antico la memoria collettiva si esprimeva anche attraverso un mezzo diverso dal racconto storico: il rito.
Nella celebrazione della Pasqua, ad esempio, un avvenimento fondante della storia di Israele, la
liberazione dall’Egitto, è non solo rievocato, ma anche riattualizzato nei gesti rituali.
Se nella Bibbia il senso, la memoria e la scrittura della storia sono legati da rapporti reciproci, nel
giudaismo post-biblico le cose cambiano radicalmente. Dopo la chiusura del canone biblico, avvenuta
nel corso del II sec. dell’era volgare, per lunghi secoli gli ebrei non praticarono più il genere
storiografico. La letteratura rabbinica non mostra alcun interesse per la storia “fattuale”, per gli
avvenimenti contemporanei, per la cronologia, per una ricostruzione del passato basata su fonti
documentarie. Nell’interpretazione che i saggi della Mishnah e del Talmud danno delle vicende bibliche
abbondano gli anacronismi. Forse i rabbini si disinteressarono della storia contemporanea perché
sapevano già quello di cui avevano bisogno. E questa conoscenza la traevano dal testo sacro in cui era
contenuta tutta la storia, passata, presente e futura. Nella Torah trovavano anche l’annuncio della fine
della storia nonché il ruolo che Israele avrebbe avuto nel suo compimento e nell’avvento del regno di
Dio.
La ragione dell’indifferenza del giudaismo rabbinico per la storiografia è stata di volta in volta
individuata nelle sofferenze e nelle persecuzioni subite nel corso del Medioevo, che avrebbero
affievolito la coscienza storica degli ebrei, oppure nella mancanza di uno Stato o di un potere politico.
Comunque il giudaismo rabbinico esercitò un ruolo straordinario nel modellare la mentalità della società
ebraica, che ad occhi moderni può apparire talvolta come una mentalità se non anti-storica, almeno astorica. Pur tuttavia il giudaismo conservò nel corso dei secoli il suo legame con la storia e la memoria
del passato, vitale per il mantenimento dell’identità ebraica che continuò a essere trasmessa di
generazione in generazione.
Di certo rari sono gli esempi di cronache ebraiche medievali. Nel periodo medievale la
storiografia non fu mai il vettore principale della memoria ebraica, che trovò piuttosto nella liturgia e
nel rito i canali in cui esprimersi. I soli avvenimenti affidati alla memoria collettiva sono quelli che,
trasfigurati dal rito e dalla liturgia, assumono un carattere perenne, metastorico. Di qui si comprende
perché il genere letterario destinato a perpetuare il ricordo degli eventi drammatici di cui è disseminata
la storia ebraica nel Medioevo non furono le cronache, ma le selikhot, le preghiere penitenziali13.
Anche il Cristianesimo ebbe, fin dall’inizio, la percezione dell’importanza religiosa e sociale della
memoria che, nel Medioevo, si declinò nel culto dei santi e dei martiri e nelle preghiere per i defunti,
organizzandosi in un complesso calendario liturgico al cui centro si colloca il rito dell’eucarestia, inteso
insieme come ricordo del gesto di Cristo e come viva riattualizzazione della sua presenza14.
Tutto ciò evidenzia come tra i diversi materiali della storia ci sia anche un confronto fra le
diverse elaborazioni (metodologiche e stilistiche) della memoria.
2 Re 21,17.
Per completezza, un’altra forma in cu i si esprime la mentalità ebraica medievale è quella dei Purim “speciali”, ossia quei
giorni festivi che dovevano commemorare uno scampato pericolo per una comunità, modellati sulla festa di Purim che
ricorda come, grazie all’intercessione della regina Ester, gli ebrei dell’impero persiano scamparono allo sterminio che il
ministro Aman aveva progettato per loro. Il Purim biblico diventa un paradigma attraverso cui possono essere compresi e
rievocati gli avvenimenti nuovi. Cfr. P.C. Ioly Zorattini, Una salvezza che viene da lontano. I ‘Purim’ della comunità ebraica di Padova,
Firenze, 2000.
14 P. Jedlowski, Memoria, in A. De Bernardi, S. Guarracino (a cura di), Dizionario di storiografia, Milano 1996, p. 669.
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3. GRECIA
La storiografia greca, nata intorno al VI sec. a.C., se da una parte riconosce un contrasto tra il
modo mitico e la vita reale (critica che non ebbe per altro mai lo scopo di sopprimere quel mondo bensì
solo e sempre di dargli coerenza e di eliminare i contrasti tra questo e i dati ufficiali delle altre
esperienze ritenute accertate); dall’altro concentra la propria osservazione sui fatti della realtà.
In Ecateo da Mileto (499- 494 a.C.) vi è la consapevolezza della diversità tra le leggende religiose
greche e le orientali e perciò del valore relativo e criticabile delle prime, ma la critica della tradizione
obbedisce piuttosto all’esigenza negativa di eliminare quanto contrastasse con la verità, che non
all’esigenza positiva di instaurare la verità.
Tucidide (460- 395 a.C.) si volge alla narrazione storica contemporanea di cui soltanto ritiene
possibile l’accertamento dei fatti, e tenta di intendere gli avvenimenti segnando il loro posto nello
sviluppo storico. Liberatosi da ogni residuo etnografico, è soprattutto teso nello sforzo di comprendere
le ragioni della sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso (che segnò poi la definitiva rovina di
Atene e della grandezza della Grecia antica), selezionando, quindi, come aspetti degni di narrazione
quasi esclusivamente le vicende politico-militari. E nel primo libro delle Storie (così viene chiamata
l’opera: i testi antichi non avevano un vero e proprio titolo), che di tutta l’opera costituisce un vero ed
espositivo prologo, è lo stesso Tucidide che si prende cura di sottolineare che non si è limitato, nella
stesura, a riferire eventi sotto l’influenza della propria opinione, né di aver reperito notizie da chiunque
fosse, ma che la sua esposizione è il risultato di un vaglio scrupoloso di opinioni e testimonianze. In
Tucidide - come in Cesare e, soprattutto, in Tacito- la storia è essenzialmente una disciplina scientifica,
volta alla ricerca e alla scrupolosa cernita di cause e fatti. Concezione della storia sicuramente moderna
(è con Tucidide, infatti, che la storiografia classica raggiunge il suo acme, servendo da modello agli
storici posteriori), e in decisa polemica con il lavoro di Erodoto: la storia non come narrazione di
vicende sovrastate da una imperscrutabile mano estranea all’uomo, ma fatto esclusivamente umano,
quindi razionalmente indagabile.
Diversamente Erodoto (490 o 480- 424 a.C.) non insegue la verità, trascegliendola tra molte
versioni, perché afferma “Io ho il dovere di riferire quello che si dice, ma non ho alcun dovere di
crederci: sia questa la regola valida per tutta la mia opera”15. I nove libri delle Storie, che, stando a
Luciano, Erodoto avrebbe recitato ad Olimpia, nei cinque giorni dei giochi olimpici16, sono il singolare
frutto di una sua conoscenza personale delle vicende riguardanti diversi popoli orientali, conoscenza di
usi, costumi e caratteristiche di quelle popolazioni (compresa quella persiana, sotto la cui dominazione
lo storiografo greco era nato), acquisita nei numerosi viaggi lungo tutto l’arco orientale del
Mediterraneo, dall’Egitto all’Asia anteriore. Certamente anche Erodoto, contribuisce a spostare
l’oggetto dell’indagine, che si determina ormai sempre più in senso propriamente storiografico. Il tema
fondamentale della “ricerca”, dell’historia è la guerra, quella che coinvolge Greci e barbari, che consente
di riconoscere le proprie caratteristiche etiche e politiche e che è tale da permettere una conoscenza
chiara e sicura per la vicinanza del tempo e il carattere diretto delle testimonianze. Ma tra il polo della
tradizione mitica di Ecateo e il polo della tradizione contemporanea di Tucidide, a cui abbiamo
accennato, con Erodoto si stabilisce un terzo polo della storiografia greca in cui importante è
“conservare il ricordo” e in cui sarà più marcata la tendenza epicizzante nella considerazione del
passato.
Già, quindi, nel V sec. a.C. - quando fu anche redatta, per la prima volta, dal sofista Ippia di
Elide, una lista dei vincitori olimpionici e le Olimpiadi furono considerate come punto di riferimento
per il computo del tempo- si profilano i caratteri generali poi tipici della storiografia greca: rilevazione
attenta dei costumi e delle vicende esteriori dei singoli popoli, una seria curiosità per il sovrapporsi e
l’accrescersi delle cognizioni umane e una rappresentazione della vita pubblica.
E’ tuttavia alla severa indagine di fatti e cause praticata da Tucidide che si deve la prima coerente
formulazione di un moderno metodo storico. Da allora sino alla fine dell’età ellenistica, i greci hanno
continuato a riflettere sul corso degli avvenimenti cercando di costruire l’immagine di un tutto unitario
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Erodoto, Storie, VII, 152.3 su cui cfr. M. Bettalli, Introduzione alla storiografia greca, Roma, 2001, p. 58.
Luciano, Erodoto o Aezione 1-3 e 7 cfr. M. Bettalli, op. cit, Roma, p. 24.
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e di trarre dalla molteplicità degli eventi tramandati il senso di un processo interno17. Così dalla storia
tucididea alla storiografia retorica di Teopompo (378- 320 a.C.), alla storia locale di Timeo di
Tauromenio (356- 260 a.C.) si forma e si evolve la coscienza storica.
“La storiografia greca, in particolare, ha avuto una vitalità prodigiosa e ha segnato per molti
secoli la strada a chiunque, in Occidente, intendesse scrivere storia: in greco, in latino, poi negli idiomi
volgari. Si è scritta storia alla maniera dei greci fino all’Illuminismo”18. E i teorici ottocenteschi del
metodo storico che aspira all’oggettività e alla scientificità si richiamarono esplicitamente ai grandi
storici greci, in cui riconoscevano gli antesignani della storiografia critica19.
Non che nei tempi precedenti, e in ambiti geografici differenti, fossero mancate espressioni
scritte di coscienza storica, come ci testimonia Flavio Giuseppe (37- dopo 100 d.C.): “Mi meravigliano
molto quanti credono che sulle vicende più antiche si debba tener conto solamente dei Greci e
solamente da essi apprendere la verità, mentre a noi e agli altri uomini non si debba prestare fede; vedo
infatti che accade proprio il contrario [...]. Si può notare infatti che tutto presso i Greci è recente,
avvenuto, si può dire, ieri o l’altro ieri: intendo con ciò parlare della fondazione di città, della invenzione
delle arti, della stesura delle leggi, ma la cosa più recente presso di loro è probabilmente la
preoccupazione di scrivere la storia”20, che prosegue sottolineando come gli Egiziani, i Caldei, i Fenici e
gli stessi Ebrei hanno un’antichissima e costante trasmissione della memoria fondata sulla registrazione
scritta degli avvenimenti da parte della classe sacerdotale. Solo allora, e con Tucidide in particolare,
però, si pose con estremo rigore il problema della ricerca delle cause.
A partire dal IV sec. a.C., è la retorica ad assumere una funzione centrale e addirittura
coordinante all’interno della cultura greca e il dissidio fra retorica e constatazione dei fatti influenzò
varie generazioni di storiografi sino a Polibio (200-120 a.C.) che, rifuggendo sia dalla retorica sia dalla
semplice descrizione cronachistica, riportò la storiografia greca al massimo livello di penetrazione e
interpretazione21. Come riassume Polibio stesso, la storiografia si basa sull’esame ed il confronto delle
testimonianze finalizzati all’indagine delle cause; sull’accurata conoscenza dei luoghi; sulla pratica della
vita politica. Essere testimoni dei fatti, quindi, non è sufficiente senza l’empeiria che consente di
valutarli22.
Ma la narrazione storica, in quanto costruita sulla base di altre narrazioni, presuppone oltre che
un rapporto dello storico con il materiale documentario, un rapporto con quanto è tramandato, riferito
da altri, sia oralmente che per iscritto, in riferimento al passato o al presente. Nella storiografia greca il
rapporto con la tradizione, che non vuol dire atteggiamento tradizionalista, è essenziale. La storiografia
greca non si presenta come la custode fedele di una tradizione unitaria, già fissata e intrinsecamente
attendibile. Essa non ripete e amplifica, come in alcuni ambienti del vicino Oriente, la voce del potere
politico o sacerdotale. Al contrario è frutto dell’attività e della riflessione degli individui, non ha caratteri
di ufficialità, la sua attendibilità deve essere di volta in volta rivendicata dallo storico.
In seguito la storiografia fu sempre o esposizione dei risultati dell’indagine autoptica e
dell’esperienza personale o esposizione di tradizioni. E in quest’ultimo caso acquistò un assoluto rilievo
la tradizione scritta, rappresentata principalmente dalle esposizioni degli storici precedenti. Lo storico
diventò tradizione per il suo successore, l’autore attendibile e autorevole di storia contemporanea fu
utilizzato da chi si propose di continuare la narrazione come punto di riferimento essenziale per esporre
il passato più recente. Nell’ambito del “ciclo storico”, egli non rifaceva sulle fonti o su nuovi documenti
il lavoro del predecessore la cui narrazione era accettata, in quanto segmento di una tradizione
storiografica rispettabile in sé e fino a prova contraria veridica. Trasferito ormai sul piano di una cultura
scritta, si proponeva, mutatis mutandis, l’atteggiamento erodoteo e tucidideo nei confronti della tradizione
orale: una volta verificata l’attendibilità dell’informatore e certe esigenze di correttezza e ragionevolezza,
il sentito dire era accettato e riferito; lo storico non si serviva dei dati forniti dall’informatore per cercare
di ricostruire in prima persona i fatti, così come appunto lo storico dei secoli successivi accettava
Cfr. L. Canfora, Totalità e selezione nella storiografia classica, Bari, 1972.
Cfr. L. Canfora, La storiografia greca, Milano, 1999.
19 Cfr. J.G. Droysen, Historik. Die Vorlesungen von 1857, ed. it . Napoli, 1994.
20 Flavio Giuseppe, Contro Apione 6-7.
21 Cfr. K. Meister, La storiografia greca. Dalle origini alla fine dell’ellenismo, Bari, 2004.
22 Polibio, XII 25e-g.
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l’esposizione del suo predecessore, e, tranne che per aspetti parziali, non ne utilizzava le informazioni
per proporre una propria ricostruzione dei medesimi fatti.
Per lo storiografo classico i fatti esistono e non devono essere provati, ma solo narrati. Il
confronto con la tradizione, attraverso la quale i fatti raggiungono lo storico e si impongono alla
scrittura, coinvolge in forme diverse sia i protagonisti dell’historia del V sec., sia gli storiografi postclassici, sia i tardi compilatori23.
Da qui sono evidenti e sostanziali le differenze tra il modo greco e quello ebraico di scrivere la
storia. Innanzitutto l’idea di un continuum storico, dalla creazione in poi distingue la storiografia biblica
da quella greca, che prediligeva la selezione e la scelta di periodi speciali (le guerre persiane per Erodoto
o la guerra del Peloponneso per Tucidide). Gli Ebrei, diversamente dai Greci, non conoscevano una
distinzione tra un’età mitica e un’età storica, ossia tra un passato per cui non esistono testimonianze
attendibili e un passato di cui sopravvivono fonti materiali o documenti scritti. Un’ulteriore differenza è
che l’Ebreo ha il dovere religioso di ricordare il passato. Questa importanza della memoria è legata
all’idea del patto tra Israele e il suo Dio, un’idea totalmente estranea alla religione greca. Inoltre, come
scrive Flavio Giuseppe24, lo storico ebreo trae la propria legittimazione dall’autorità dei profeti che
interpretano gli eventi perché conoscono il passato, il presente e il futuro. Ed è significativo che i libri
che noi consideriamo storici appartengono alla sezione della Bibbia chiamata Neviim, ossia profeti.
Le differenze tra la storiografia biblica e quella greca sono dunque numerose e profonde. Greci
ed Ebrei ci hanno insegnato due dimensioni diverse della storia. Se i primi hanno elaborato il concetto
di storiografia come analisi dei dati e ricerca della verità, grazie al loro distintivo atteggiamento critico
verso la registrazione degli eventi, l’Israele antico ha inteso piuttosto la storia come dimensione
esistenziale dell’uomo nel tempo.
4. ROMA
Nel mondo latino, i primi testi anticipatori del genere storiografico sono rappresentati dalle
laudationes funebres, cioè dagli elogi funebri poi scritti e riposti negli archivi delle famiglie. Ma soprattutto,
come attestano numerose fonti, sia epigrafiche sia letterarie, era prassi usuale dei grandi collegia e
sodalitates redigere e conservare nei propri archivi una molteplicità di documenti contenenti le memorie
di fatti legati alle diverse attività di ciascun collegio (istruzioni generali di culto; carmina25, cioè formule
solenni, che potevano riguardare sia preghiere e regolamenti rituali, sia atti solenni di diritto pubblico e
privato; raccolte di decreta e di responsa26, cioè interventi autoritativi o pareri interpretativi in materia di
competenza dei collegio; fasti, ossia liste dei membri del collegio; acta, ovvero processi verbali degli atti
professionali del collegio). Alcuni di tali archivi sacerdotali rivestivano particolare importanza. È il caso
dell’archivio dei pontefici. Spettava, infatti, a questi sacerdoti determinare il calendario annuale,
compilare ed aggiornare i fasti consolari e registrare, fin dal periodo più antico, le cronache cittadineannales- ovvero compilazioni annuali di fatti redatte dai pontefici massimi, trascritte su tabulae deablatae
ed esposte annualmente fuori dalla Regia, la sede delle massime autorità religiose, che furono da ultimo
raccolte in forma definitiva intorno al 130 a.C. negli Annales Maximi, per iniziativa del pontefice
massimo P. Mucio Scevola. Inoltre, la tradizione antica riconduceva all’archivio dei pontefici anche le
leges regiae, i libri e i commentarii dei re e le primitive regole del ius civile.
23 Cfr.
A. Momigliano, La storiografia greca, Torino, 1982.
Cfr.Flavio Giuseppe, Contro Apione 37-38 “Non vi sono discordanze negli scritti ma solamente i profeti hanno appreso per
ispirazione divina i fatti più antichi e lontani e hanno scritto con chiarezza come si è svolto ciò che è avvenuto ai loro tempi.
Ne consegue naturalmente, anzi di necessità, che noi non abbiamo migliaia di libri divergenti e tra loro contraddittori, ma
solamente ventidue libri cui a ragione si presta fede, che contengono la storia di tutti i tempi”. Flavio Giuseppe, Contro
Apione 37-38.
25 Cfr. A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 3a ed., I, Torino 1964, p. 41: “Ora noi dobbiamo per l’appunto riportarci a
quell’epoca, chiaramente riconoscibile non solo presso i Latini ma presso gli Italici in generale, quando ancora non era ben
affermata la distinzione fra la Poesia e la Prosa e col nome di carmen s’indicava qualsiasi espressione un po’ colta (delle
preghiere, delle formule magiche, e anche delle leggi), ritmicamente costruita con varie disposizioni d’accenti e allitterazioni,
rime e simili”.
26 E. De Ruggiero, Decretum, in Dizionario epigrafico di antichità romane vol. 2, 1910, pp. 1497 ss.
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Gli annales ufficiali dei pontefici contribuirono alla formazione di una storiografia peculiarmente
romana, scevra da influssi di origine greca, tracce della quale sussistono ancora in Tito Livio e in
Tacito27.
Il filone degli annales preservò l’intelaiatura cronologica di queste registrazioni, basando sullo
schema anno per anno la narrazione della storia di Roma, anche se bisogna sempre tener conto della
profonda differenza (e quindi della diversa attendibilità) tra i dati che lo scrittore antico ci tramanda su
determinate istituzioni più risalenti e l’interpretazione che egli ne dà, o se si tratta di anticipazioni di
istituti sviluppatisi in epoche più tarde.
A partire dal III sec. a.C., i primi annalisti raccontarono le vicende di Roma dalle origini mitiche
alla II guerra punica.
Colui che è considerato il primo storico romano, Quinto Fabio Pittore (260 - 190 a.C.),
compose la sua opera (Rerum gestarum libri) in greco e non esitò a servirsi di fonti greche, e a citarle, per
la stessa storia arcaica della sua patria. Ciò rispondeva alla necessità di raggiungere un pubblico di
ambito mediterraneo, e significò una rottura con la tradizione della cronaca pontificale, da cui pur erano
tratti strutture e materiali. Q. Fabio Pittore e il suo contemporaneo L. Cincio Alimento (autore anch’egli
di una storia annalistica di Roma dalle origini, in lingua greca) subirono, comunque, l’influenza della
storiografia ellenica, e in particolare quella degli storici siciliani( tra i quali Timeo di Tauromenio, di cui
abbiamo detto), che a Siracusa, città con la quale a partire dalla prima guerra punica si erano stabiliti
stretti rapporti, erano numerosi.
Sarà considerato pater della storiografia anche Quinto Ennio (239- 169 a.C.), uno dei massimi
esponenti del circolo scipionico, che si vantava di possedere la tria corda, per la sua conoscenza di tre
lingue (latino, greco e osco), i cui Annales (il titolo indubbiamente si rifà agli Annales Maximi, quindi alle
registrazioni degli eventi di anno in anno) sono un poema epico celebrativo di tutta la storia di Roma,
della sua grandezza e della sua missione storica, dell’espansione romana sulla base della sua virtus. La
storiografia romana manifesta già ora il suo carattere fondamentale: non ha lo scopo di erigere un
sistema di conoscenze partendo dall’esperienza storica, come la migliore storiografia greca, ma trova la
sua ragion d’essere nella partecipazione dello storico come cittadino che rivive le vicende e riconosce
negli altri quelle stesse virtù da lui apprezzate o i vizi aborriti.
Agli Annales di Ennio e alla tradizione storiografica degli Annali dei Pontefici e a quella degli
annalisti che scrivevano in greco, Marco Porcio Catone il Censore o il Vecchio (234- 149 a.C.)
contrappone le sue Origines: considerando la creazione e la storia dello stato romano come l’opera
collettiva e progressiva del populus Romanus (ponendo sullo stesso piano Roma e le altre città italiche e
considerando la potenza di Roma frutto anche dell’appoggio delle altre popolazioni), stretto intorno
all’ideologia e agli uomini della classe dirigente senatoria, contesta la concezione individualistica,
carismatica della storia come appare nell’epica storica di Ennio e nelle prime opere storiografiche
romane, di cui abbiamo detto.
Dopo l’annalistica pontificale dei primi secoli, la storiografia romana cominciò a manifestare i
suoi caratteri fondamentali: moralismo e retorica. Nella seconda metà del II sec., la nascita di una nuova
storiografia alternativa a quella annalistica sarà opera, in particolare, di L. Celio Antipatro (autore della
prima monografia storica) e Sempronio Asellione (che nelle Historiae esamina un periodo di cui l’autore
è stato testimone diretto). Sorge una forma di narrazione storica che non ha più nulla a che vedere col
metodo annalistico28, e il cui interesse è rivolto, al contrario, alla trattazione di un periodo o di un
evento ben determinati. Antipatro e Asellione applicavano, in questo modo, la concezione storica
prevalente presso i greci (come dimostra l’opera di Posidonio, discepolo di Panezio, concepita nel
medesimo spirito, ovvero come ricerca delle cause degli eventi all’interno di un periodo definito), in
quello stesso periodo. Ciò lascia supporre che l’origine comune sia da ricercare nella dottrina elaborata
Cfr. B.Gentili, G.Cerri, Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica, Roma, 1975.
Vi furono anche, alla fine del II secolo e all’inizio del I, altri annalisti che si limitarono a dare continuità alla tradizione dei
più antichi. Claudio Quadrigario, ad esempio, diffidando dei documenti relativi ai primi passi della repubblica, diede avvio ai
suoi Annales con l’evento della presa di Roma da parte dei Galli; Valerio Anziate si è meritato invece la cattiva fama d’essere
stato un compilatore poco scrupoloso, avendo inventato particolari che non si trovavano nelle fonti ed esagerato le cifre degli armati, dei caduti in battaglia, etc. -, e avendo scelto sempre, fra le varie versioni di un evento, quella più ricca di
elementi fantastici.
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dagli stoici già romanizzati e nell’ambiente di Polibio, lo scrittore greco con il quale la storia si fa
prammatica, frutto e creazione dell’intelligente agire dell’uomo, e lo studio della storia diventa scuola di
formazione dell’uomo politico. E’ significativo, in tale direzione, che questi storici abbiano cominciato
la loro carriera come uomini d’azione: Asellione aveva servito sotto il comando di Emiliano a
Numanzia; Polibio, nella sua giovinezza, aveva cominciato con l’essere “ipparco” nella lega achea;
Posidonio era stato “pritano” della repubblica di Rodi. Per loro la storia è la prosecuzione dell’azione, e
non è ancora diventata opera esclusivamente erudita o letteraria.
Si sviluppano, poi, e in qualche modo sono la premessa alle storie universali che vedranno la
luce nell’età di Augusto, studi di cronografia (Terenzio Varrone, Cornelio Nepote, Pomponio Attico)
contenenti riferimenti alla contemporanea storia greca e orientale, con la ricerca di “coincidenze” tra
fatti della storia romana e di quella greca. M. Terenzio Varrone (116 - 27 a.C.), che agì sul suo tempo
particolarmente come erudito, estendendo la sua riflessione a tutti i campi che si presentavano agli
“antiquari”, concepì la storia (Antiquitates rerum humanarum et divinarum29) soprattutto come storia di
costumi, di istituzioni, e anche di mentalità; è la storia collettiva del popolo romano, sentito come un
organismo unitario in evoluzione. E se Cornelio Nipote (99 ca - 24 ca a.C.) fu autore della più antica
raccolta di biografie latine30 giuntaci (De viris illustribus), il cui intento era quello di fare del genere
letterario della biografia il veicolo di un confronto sistematico fra civiltà greca e romana, Tito
Pomponio Attico (109-32 a.C.) si distinse dagli annalisti tradizionali, trattando rapidamente nel suo
Liber Annalis la storia di Roma dalle origini fino al suo tempo e, parallelamente, facendo riferimento alla
storia di altri popoli.
Esigenza caratteristica della storiografia romana fu, comunque, l’incarnazione dello Stato nel
cittadino e nella capacità di questo di autogiudicarsi. Così anche i Commentarii de bello Gallico di Gaio
Giulio Cesare (100 ca. - 44 a.C.) e le monografie (Bellum Catilinae, Bellum Jugurthinum) di Caio Sallustio
Crispo (85 ca -35 o 36 a.C.) che, ispirandosi a Tucidide e alla storiografia ellenistica, racconta la storia di
Roma carptim, ovvero per argomento.
La storiografia è considerata non solo cronaca di fatti, ma anche ricerca delle loro cause: tende,
quindi, a configurarsi come indagine sullo svolgersi degli eventi, e l’impostazione appunto monografica
ben si presta alla messa a fuoco di un periodo o problema storico: analisi che lo storico conduce a
partire comunque e sempre da un moralismo di fondo, da una profonda contraddizione tra essere e
dover essere, tra le parole e i fatti, tra i propositi e le realizzazioni. Lo scrittore sabino, come i suoi
predecessori, da Catone a Cicerone, si propone come l’avvocato dei valori morali essenziali, un adepto
di quel “conservatorismo intelligente” che, nelle convinzioni di questi intellettuali, è il solo a poter
salvare Roma. E’ questo il programma che Augusto riprenderà alcuni anni dopo. La storiografia è
strumento di indagine politica ed arma ideologica. E’ opera di riflessione sulla politica e sulle vicende
storiche da parte di chi se ne è staccato per scelta o per obbligo, nella solitudine dell’otium.
Tito Livio, il maggior storico dell’età augustea, che guarda al modello di Isocrate ed Erodoto,
concepisce la storia romana come un ciclo conclusosi nell’età di Augusto, periodo in cui Roma aveva
compiuto la sua missione di pacificare e civilizzare il mondo. Le vicende del passato sono narrate in uno
stile che è quello del passato arcaico, idealizzato, come sempre, nella nostalgia, tutta romana, del mos
maiorum. In Livio, che ritorna alla struttura annalistica tipica della storiografia romana, come in molti dei
precedenti storici latini, l’ampiezza della narrazione è dilatata man mano che ci si avvicina alla propria
epoca.
Ma a tal proposito, va considerato che, a partire dai più antichi annalisti, di cui abbiamo detto,
fino a Livio e a Dionigi di Alicarnasso la storiografia romana più antica subì una progressiva
amplificazione, in cui si mescolarono la tendenziosità politica e l’impossibilità di concepire la storia
arcaica troppo più povera di quella della Roma dominatrice. L’intento è quello di fornire ai lettori
un’iniziale ricostruzione etnografica del popolo romano e poi c’è la precisa volontà di offrire nei dettagli
quello che si riteneva avrebbe dovuto essere lo svolgersi effettivo di episodi storici, taluni considerati di
valore epocale (alla ricerca di una verisimiglianza che nel pensiero dello storico greco finiva per divenire
Da Agostino, che ce ne ha conservato lo schema strutturale, apprendiamo che l’opera si divideva in due parti
rispettivamente dedicate alle antichità profane (libri 1-25) e a quelle sacre (libri 26-41).
30 Le prime vere e proprie autobiografie ebbero inizio con M. Emilio Scauro, P. Rutilio Rufo e Q. Lutazio Catullo.
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una sorta di verità inerente agli episodi stessi, al di là dell’aderenza alle evidenze reali offerte dalle
testimonianze).
È questo un processo storiografico erroneamente definito talora come retorico, anche per la
larga presenza di discorsi collocati là dove l’episodio li doveva di necessità presumere (si deve
prescindere naturalmente dall’ovvio impiego di strumenti retorici nell’attuazione di questo programma).
Il procedimento risponde invece alla concezione, basilare, di un ripetersi della storia per la costante
coerenza della natura umana. Come precedentemente evidenziato, già Tucidide da questo rilievo traeva
la conclusione della validità anche pratica della sua opera per i politici del futuro, ma anche ne ricavava
la possibilità, altrettanto pratica, di ripensare e di ricostruire il passato. Nel caso romano si aggiungeva la
immaginata continuità istituzionale, con la conseguenza di una probabile e possibile ricostruzione del
passato sull’esperienza della realtà del presente. Di qui non soltanto la possibilità di ritrovare nel passato
problemi politici contemporanei, ma anche di immaginare lo stesso passato, e di ricostruirlo
concretamente, in termini inevitabilmente attualizzanti e deformati, in quanto si applicavano modelli
interpretativi ricavati dalla vicenda politica contemporanea. A fondamento di questa continuità e
coerenza storiografica e politica stava la concezione di uno sviluppo lineare e statale della vicenda
storica romana, che, al di là di Livio e di Dionigi, e di Cicerone, risale alle origini della storiografia
romana.
Il continuatore della tradizione storica romana è Cornelio Tacito (55-117 d.C.ca) che sceglie il
genere annalistico e riprendendo l’impostazione moralistica dal suo principale modello, Sallustio (circa
un secolo separa però l’opera dei due storici, anni di radicali rivolgimenti politici), cui lo accomunano
l’intento di ricercare le cause della crisi della res publica, ricostruisce le vicende di Roma dal 68 al 96 d.C.
nelle Historiae e dalla morte di Augusto alla morte di Nerone negli Annales (che diventano un’impietosa
analisi a ritroso dell’istituto stesso del principato). Tacito rinuncia alla ricerca delle cause generali, ai
grandi affreschi e si sofferma ad indagare le motivazioni interiori dei suoi personaggi, quasi a voler
ricercare nell’animo stesso dei protagonisti delle vicende una spiegazione, destinata però a restare
contingente e sfuggente. Alle battaglie militari preferisce quelle psicologiche (proprio come quella tra
Agrippina e Nerone). Nei ritratti dei suoi personaggi è sottile e sfumato (e forse per questo obiettivo) e
il suo moralismo non è mai astratto, né generico perché nasce da un’analisi concreta della vita politica.
Ed è sempre il cittadino che giudica come se egli stesso incarnasse lo stato romano. In Tacito
convivono la serietà e la scrupolosità nella documentazione e il fine artistico, che nella storiografia
romana tende a prevalere su quello storiografico: arte e storia sono complementari. E se la storiografia
precedente è tutta a metà strada fra scienza e arte, quasi privilegiando più la forma letteraria che non la
validità scientifica, la storia con Tacito assurge a dignità nuova ed elevatissima. Rispetto a Livio, in
particolare, Tacito è storico contemporaneo, sia nel senso preciso del vocabolo, sia perché ha saputo
rendere contemporanea anche l’età che non aveva vissuto. Ed anche il suo stile, volutamente
controllato, rapido e conciso, è un aspetto fondante di questa sua concezione della storia, storia di idee
più che storia di fatti.
Dopo Tacito, con lo smarrirsi della capacità di interiorizzare lo Stato, la storiografia imperiale
cominciò a scivolare verso la pura erudizione, a scadere nell’indagine biografica che cede al gusto
dell’aneddoto, del pettegolezzo, di cui il De viris illustribus di Svetonio ne è già un esempio.
In età costantiniana, infatti, la tradizione di Svetonio fu continuata dagli Scriptores Historiae
Augustae, e sempre l’intento moralistico mirava a far convergere l’attenzione del lettore quasi
esclusivamente sulle virtù o i vizi dei protagonisti.
Colui che è considerato l’ultimo grande storico di Roma, Ammiano Marcellino (330-400 d.C.),
un greco nato ad Antiochia, si riallaccia a Tacito e unisce alla narrazione annalistica gli schemi delle
biografie imperiali.
5. OBLIO
La storiografia costituisce un genere del tutto nuovo di memoria. A differenza della memoria
collettiva che trasforma gli avvenimenti passati in miti assoluti e indiscutibili, la storiografia da una parte
seleziona gli avvenimenti, e dall’altra aspira a una ricostruzione totalizzante del passato, in cui nessun
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dettaglio sia posto sotto silenzio. Di qui evidenti sono i limiti a cui va incontro ogni tentativo di
costruire una memoria collettiva basata sui risultati “oggettivi” della storiografia. Nonostante che
memoria e storiografia abbiano lo stesso oggetto, il passato, i rapporti che esse intrattengono con la
storia sono radicalmente diversi e, forse, incompatibili. La trasmissione di determinate immagini del
passato svolge funzioni di ordine cognitivo, simbolico e normativo. Particolarmente nella preservazione
e nella trasmissione delle narrazioni riguardanti le proprie origini, ogni società conserva nel tempo la
propria identità. E la memoria è sempre espressione dei lasciti del passato tanto quanto oggetto di
ripetute e mutevoli interpretazioni31.
Pur nella diversità dei metodi e dei principi ispiratori, la fase da cui le ricostruzioni e le
rielaborazioni del passato partono consiste sempre in un processo di selezione. E la mancata
collocazione di alcuni eventi passati nell’universo simbolico è da attribuirsi, in molti casi, al fatto che
certe rappresentazioni del passato ne contraddicono altre già presenti e radicate come legittime nella
memoria collettiva32. In tal senso, la memoria non produce solo ricostruzioni, ma anche oblio. Memoria
e oblio sono ambedue messi in atto sulla base di meccanismi di selezione che permettono al tempo
stesso di plasmare una determinata rappresentazione del passato e di farne un essenziale strumento di
appartenenza. È la storiografia stessa, con i suoi silenzi, a “raccontare” e creare rappresentazioni del
passato coerenti con l’universo simbolico di riferimento: quando si ricostruisce un evento passato,
occorre necessariamente operare una selezione fra gli innumerevoli fatti e i minimi dettagli che lo
costituiscono. È già a partire da questa fase, dovuta all’impossibilità oggettiva di ricostruire il passato
nella sua totalità, che l’oblio svolge la sua azione sulle rappresentazioni del passato. L’oblio è, in questo
senso, il risultato non solo di una semplice amnesia, ma di un processo deliberato che contribuisce a
modellare il passato in rappresentazioni sociali accettate e riconosciute come legittime. La definizione
del passato è in certi contesti decisiva per la continuità o per l’affermazione di nuove identità e
rappresenta il terreno su cui lo scontro si concentra maggiormente.
Certamente l’inesorabile selezione presenta sempre dei rischi. Ma “ogni lavoro storico
scompone il tempo passato, sceglie tra le sue realtà cronologiche, sulla base di preferenze ed esclusioni
più o meno consapevoli”33. E i dati non sono considerati mai sotto l’aspetto puramente quantitativo, né
una testimonianza costituisce un tutto indivisibile che occorre dichiarare veridico o falso. “Per farne la
critica conviene scomporla nei sui elementi, che saranno saggiati l’uno dopo l’altro. [...] Una
testimonianza può peccare per mancanza di sincerità o per mancanza di precisione. Gli storici, come i
giudici, di fronte a ogni testimone, si pongono due questioni: cerca di nascondere la verità? Si sforza di
riprodurla, è in grado di arrivarvi?”34. Accrescere l’informazione significa, forzatamente, spostare,
rompere i vecchi problemi, poi incontrarne dei nuovi, dalle soluzioni difficili e incerte. E le suggestioni
euristiche che provengono dalle fonti aumentano la responsabilità dell’elaborazione.
L’epistemologia sottolinea la necessità di studiare la totalità storico-sociale come un complesso
di resistenze e funzioni che sono di natura assiologia, sono valori che attestano il potere creativo della
società su se stessa. “La storia, del resto, è sempre la somma di tutte le storie possibili, un insieme di
tecniche e di punti di vista di ieri, di oggi e di domani. L’errore sarebbe quello di scegliere uno di questi
indirizzi piuttosto che un altro. Il problema sta sempre nel cogliere tutto l’insieme. Si tratta di definire
una gerarchia di forze, di correnti, di movimenti particolari, poi di riaffermare degli insiemi”35. E’
importante rivelare i motivi reali, profondi e plurali, portare alla luce le motivazioni culturali, etiche e
politiche per giungere ad una ricostruzione di “fatti” che è altro da una registrazione di “dati”. “La
storia è una collezione di esperienze”36. Si tratta soprattutto di interpretarla.
Per concludere. Il rapporto tra storia e memoria, in questo particolare momento storico, si
ripropone con rinnovata determinatezza, e auspicabile consapevolezza, soprattutto se si considera la
memoria come finalizzata ad “attualizzare” il passato, nel senso che il sapere storico, decostruendo il
tempo lineare, ritrasforma i fatti in significati e include, in questa via, un sapere etico. In tale direzione,
P. Jedlowski, Memoria, in A. De Bernardi, S. Guarracino (a cura di), Dizionario di storiografia, Milano 1996, p. 670.
M. Halbwachs, La mémoire collective, Paris, 1968, ed. it. Milano, 1987.
33 F. Braudel, (a cura di), La storia e le altre scienze sociali, Bari, 1974, p. 156.
34 M.Bloch, Histoire et historiens, Paris 1995, ed. it. Torino, 1997, p. 16.
35 F. Braudel, op. cit., pp.166-167.
36 M. Bloch, op. cit., p. 7.
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ovvero se la memoria è strumento importante per la conoscenza del passato e per un suo ripensamento,
è indispensabile anche saperne riconoscere gli eventuali usi distorti, la sua utilizzazione per formare
identità di gruppo politicamente orientare o identità aggressive ed esclusive. I conflitti di memorie
rappresentano un terreno di analisi per misurarsi con le revisioni e le negazioni che periodicamente
attraversano la storia.
Veruska Verratti
Dottoranda di ricerca –Dipartimento di Storia e Critica della politica
Università degli Studi di Teramo
PER APPROFONDIMENTI DI TEMI SOLO SFIORATI IN QUESTO ELABORATO SI RINVIA A:
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Braudel F. (a cura di), La storia e le altre scienze sociali, Bari, 1974
Burke P. (edited by), New Perspectives on Historical Writing, Cambridge 1991 ed. it. Roma-Bari, 1993
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