a teoria chiamata Satyagraha si realizzò prima che se ne coniasse il

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a teoria chiamata Satyagraha si realizzò prima che se ne coniasse il
L
a teoria chiamata Satyagraha si realizzò prima
che se ne coniasse il termine, quando venne alla
luce io stesso non capivo cosa fosse. Anche in gujarati
la indicavamo con l’espressione inglese “resistenza
passiva”. Quando durante un congresso di europei mi
resi conto che l’espressione “resistenza passiva” era
tanto modesta da dare adito alla supposizione che si
trattasse dell’arma del debole, che poteva essere
stigmatizzata dall’odio e alla fine esprimersi con la
violenza, dovetti chiarire tutti questi dubbi spiegando
la vera natura del movimento indiano. Fu evidente
che gli indiani dovevano trovare una nuova parola
per definire la loro battaglia. Io proprio non riuscivo
a trovarla, per cui tramite “Indian Opinion” offersi un
premio al lettore che avesse trovato il miglior suggerimento. Maganlal Gandhi coniò la parola Sadagraha
(cioè Sat = verità, Agraha = fermezza) e vinse il premio. Poiché fosse più comprensibile io poi cambiai la
parola in Satyagraha, che da allora è diventata comune in lingua gujarati per definire la nostra lotta.
(Gandhi)
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXVIII (2008)
n. 7
LA SFIDA
DI GANDHI
Lorenzo Perego
PROBLEMI
DI PERCEZIONE
Luigi Giorgi
Paolo Marangon
ESISTONO
ANCORA I
CRISTIANI LAICI?
Roberto Antolini
L’IRA DEI RICCHI
Paolo Grigolli
Periodico mensile - Anno XXVIII, n. 7, lug.-sett. 2008 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb.
postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz. e amministraz.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20
www.il-margine.it
Eugen Galasso
VIAGGIO IN
AMERICA,
IN ATTESA
DELLE ELEZIONI
DOSSETTI
E ILRAPIMENTO
DI MORO
Enrico Peyretti
COLPEVOLE
DI PROPORRE
LA PACE
Silvio Mengotto
LE DONNE NEGLI
SNODI DEL
CAMMINO DI GESÙ
IL MAR
MARGINE
7
SETTEMBRE 2008
Paolo Marangon
3
Roberto Antolini
12
L’ira dei ricchi.
Sulle radici della crisi della sinistra
Paolo Grigolli
21
Viaggio in America, in attesa delle elezioni
Eugen Galasso
27
La sfida di Gandhi
Lorenzo Perego
31
Problemi di percezione.
Matrix era Disneyland, al confronto…
Luigi Giorgi
33
Dossetti e il rapimento di Moro
Enrico Peyretti
40
Colpevole di proporre la pace
Silvio Mengotto
41
Esistono ancora i cristiani laici?
Le donne negli snodi del cammino di Gesù
Quanto costa un pieno di carburante? E quanto si spende per la bolletta energetica? Il
dibattito sul caro-petrolio occupa le cronache dei giornali, mentre contemporaneamente cresce l’attenzione per il “costo” ambientale e sociale del nostro stile di vita.
Anche quest’anno la fiera “Fa’ la cosa giusta! Trento”, in programma dal 31 ottobre al 2 novembre 2008 presso le strutture di Trentofiere, si proporrà come punto di
riferimento per coloro che hanno deciso di prestare maggiore attenzione alla sostenibilità dei loro acquisti. Durante la quarta edizione della manifestazione, che mira a
bissare il successo dell’edizione precedente a cui hanno partecipato oltre 8700 persone, si potranno scoprire le proposte di diverse aziende agricole biologiche, i prodotti provenienti dai quattro angoli del pianeta del commercio equo e solidale e le
soluzioni per la bioedilizia di aziende come Suntek, uno dei partenr storici della mostra-mercato. Inoltre ci saranno stand di associazioni che promuovono il loro impegno umanitario, spazi dedicati ai bambini e visite guidate per gli studenti, un punto di
ristoro che sfornerà pasti biologici e laboratori pratici per gli adulti. Biglietto: 2,5
euro; informazioni: [email protected].
IL MARGINE
mensile dell’associazione
culturale Oscar A. Romero
Direttore:
Emanuele Curzel
Mentre andiamo in stampa…
A Roncegno (Tn), lo scorso 29 agosto, nell’ambito della Scuola di formazione politica della Rosa Bianca, un folto pubblico ha potuto ascoltare le
parole di Romano Prodi. L’ex presidente del Consiglio ha tenuto un discorso
di ampio respiro sulle prospettive dell’attuale contesto mondiale (dalla Cina
agli USA, dalla Russia all’Africa, dall’India all’Unione Europea), ricco di
dati e valutazioni che fanno riflettere, in qualche caso preoccupare, sotto altri aspetti sperare; sperare, soprattutto, che l’umanità sia capace di superare
le difficoltà che le si prospettano.
Una lezione politica, insomma, di grande spessore, presentata da una
persona che ha fatto capire di considerare esaurito il proprio impegno diretto, lasciando coerentemente ad altri la responsabilità di proseguire il cammino intrapreso. Tra i presenti non è mancato chi ha sottolineato come la permanenza a capo del governo di questo competente “cristiano impegnato in
campo politico” (appartenente, dunque, ad una categoria di persone di cui a
parole si lamenta la carenza) sia durata davvero troppo poco.
In redazione:
Alberto Conci, Marco Furgeri,
Pierangelo Santini, Angelo Scottini
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ASSOCIAZIONE
OSCAR ROMERO
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Segretario: Veronica Salvetti
Chiesa
ai pastori», facendosi voce dei fedeli laici, «che da ogni parte del paese, da
ogni comunità cristiana, supplicano i loro pastori perché vogliano, attraverso
i mezzi più opportuni, aiutarli a crescere secondo le loro esigenze vocazionali» (p. 79).
Esistono ancora
i cristiani laici ?
Sussulto e declino
PAOLO MARANGON
N
el marzo 1986, due mesi prima della morte, Giuseppe Lazzati – per 15
anni rettore dell’Università Cattolica e indimenticabile maestro di laicità cristiana – dava alle stampe la sua penultima operetta, significativamente intitolata Per una nuova maturità del laicato, che anche nel titolo si richiamava a un analogo volume, da lui pubblicato 25 anni prima, alla vigilia
del concilio Vaticano II1. Quelle del 1986 erano dunque riflessioni di un
uomo che, anzitutto come testimone esemplare, aveva dedicato la vita per
una reale maturazione dei cristiani laici e che ancora in età avanzata girava
infaticabilmente l’Italia per far conoscere a giovani e adulti il tesoro nascosto della vocazione laicale secondo il Concilio. La sua esperienza di «oratore itinerante» l’aveva infatti
«portato a costatare la larga ignoranza della prospettiva conciliare riguardante i fedeli laici e il permanere dell’accettata concezione che dà per scontato quale solo risultato possibile avere alcuni generosi laici che si prestano a sostenere la vita parrocchiale quali animatori di momenti formativi» (p. 70).
Ma egli non si rassegnava affatto a tale situazione: a suo parere, «discutibilissimo ma fondato», «è mancata e manca una convinta e diffusa azione
pastorale volta a presentare a tutti i laici che conservano un minimo di fedeltà alla vocazione cristiana il significato della chiamata del concilio» e per
questo, al termine del suo aureo libretto, egli rivolgeva un accorato «invito
1
G. Lazzati, Per una nuova maturità del laicato. Il fedele laico attivo e responsabile nella
chiesa e nel mondo, Ave, Roma 1986. Il libro precedente si intitolava Maturità del laicato, La Scuola, Brescia 1962 e può essere facilmente reperito anche in Id., Chiesa,
laici ed impegno storico. Scritti (1947-65) riediti in memoria, Vita e Pensiero, Milano
1987, pp. 121-192.
3
L’operetta di Lazzati era indirizzata in realtà non solo ai vescovi e ai
preti della Chiesa italiana, ma «audacemente» voleva essere «anche un modesto contributo alla preparazione del sinodo dei vescovi», che nel 1987 avrebbe visto il convergere a Roma, da ogni parte del mondo, dei rappresentanti dell’intero episcopato cattolico, chiamati a discutere proprio della “Vocazione e missione dei laici nella chiesa e nel mondo a vent’anni dal concilio Vaticano II”. E in verità l’esortazione apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II Christifideles laici non lasciava dubbi sulla volontà del papa e
dei vescovi di continuare e di sviluppare su questo punto il magistero del
Concilio. Era la fine del 1988 e pochi mesi prima nella Chiesa italiana era
scoppiato il cosiddetto “caso Lazzati”, che intorno alla figura cristallina del
rettore scomparso due anni prima aveva visto l’emergere vivace, ma anche
polemico e scomposto, delle diverse anime dell’associazionismo cattolico e,
in filigrana, delle divergenze di linea pastorale che da parecchio tempo attraversavano varie componenti della Chiesa italiana. Sono passati vent’anni
e quell’infuocato dibattito, di cui anche la “Rosa Bianca” e questa rivista
furono protagonisti non secondari, mi appare oggi l’ultimo sussulto di un
movimento cattolico che da tempo andava disaggregandosi e in parte dissolvendosi, ma che soprattutto appartiene a un passato ormai molto lontano.
Cosa sia successo in questi vent’anni ai cristiani laici italiani – organizzati
nei loro movimenti oppure impegnati in parrocchia ovvero semplici praticanti domenicali – non è affatto facile a dirsi e meriterebbe una lunga e paziente disamina storica. Quel che mi pare difficilmente contestabile è la direzione di fondo del processo, ossia il loro declino non solo sulla scena pubblica della società italiana, ma anche nelle dinamiche interne della Chiesa.
Paola Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica, in un recente
libro dal titolo altamente significativo, ha parlato di una pericolosa «afasia»
del laicato, osservando – tra le molte considerazioni lucide e sofferte – che
4
«la Chiesa sta pagando un tributo non piccolo alla civiltà dei media»2. Ma il
problema non è solo, né principalmente quello della visibilità. Del disagio,
delle difficoltà, della progressiva residualità dei cristiani laici, si sono accorti da qualche tempo anche i vescovi:
«Si ha talora la sensazione che lo slancio conciliare si sia attenuato – scrivono nella
loro Lettera ai fedeli laici del marzo 2005 – Sembra di notare, in particolare, una
diminuita passione per l’animazione cristiana del mondo del lavoro e delle professioni, della politica e della cultura ecc. Vi è in alcuni casi anche un impoverimento
di servizio pastorale all’interno della comunità ecclesiale. Serve un’analisi attenta
ed equilibrata delle ragioni, dei ritardi e delle distonie, per poterle colmare con il
concorso di tutti»3.
gante di un cattolico maturo che cerca interlocutori qualificati con i quali
poter portare avanti la ricerca» (p. 10). Per questo, nella conclusione, egli
rivolge un caldo invito a leggerlo non solo ai laici, ma agli stessi «confratelli
vescovi» (p. 12).
Perché i cristiani laici sono paragonati dall’Autore al brutto anatroccolo?
«Cercando una cifra sintetica e unitaria per esprimere il disagio del laicato – spiega
De Giorgi – mi è venuta in mente l’immagine del brutto anatroccolo. Bisogna infatti
riconoscere che dai media emerge spesso un’immagine pubblica della Chiesa cattolica, e del laicato in particolare, sgradevole e sgraziata». Essa appare «come un “animale sociale” diverso da tutti gli altri, un anatroccolo differente dal resto della covata. Un anatroccolo brutto, perché goffo e superato, dal parlare cacofonico, avulso
dal resto, dalle gioie e dalle speranze, dalle tristezze e dalle angosce degli uomini e
delle donne normali; oppure perché – per paura dell’isolamento e della marginalizzazione – cerca di uniformarsi alle logiche spettacolar-mercantili di un certo conformismo mediatico» (pp. 16-17).
Il brutto anatroccolo all’interno di grandi mutamenti storici
È su questo sfondo che acquista tutto il suo rilievo l’appassionato saggio di Fulvio De Giorgi, che ha visto la luce da pochi mesi4. Si tratta di «riflessioni critiche sulla situazione ecclesiale italiana (ma non solo) dal concilio Vaticano II a oggi», precisa mons. Carlo Ghidelli, presidente della Conferenza Episcopale Abruzzese-Molisana, nella sua bella e autorevole prefazione. Riflessioni critiche – aggiunge – «sempre garbate e serenamente esposte» che si presentano certo «come una risposta alla Lettera che i vescovi italiani hanno scritto ai fedeli laici nel 2005» – una risposta «aperta e
franca, anzi coraggiosa» – ma che hanno «un respiro» e spaziano in un «orizzonte storico» ben più ampio, «a tutto beneficio della serenità dei giudizi
espressi» (p. 5). Il libro, dunque, ha una prospettiva storico-pastorale, ma –
osserva acutamente mons. Ghidelli – è frutto anche della «spiritualità dialo2
P. Bignardi, Esiste ancora il laicato? Una riflessione a 40 anni dal Concilio, Ave, Roma
2006, pp. 45-46. Ma conserva una grande importanza per il nostro discorso anche A.
Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi, Torino 2004.
3
Commissione episcopale della CEI per il laicato, «Fare di Cristo il cuore del mondo».
Lettera ai fedeli laici, 27 marzo 2005.
4
F. De Giorgi, Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano, Paoline, Milano 2008.
De Giorgi è amico e intellettuale ben noto ai lettori fedeli del “Margine”. Forse pochi
di loro, però, sanno che attualmente è professore ordinario di Storia della pedagogia e
dell’educazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e che negli ultimi anni
ha pubblicato vari libri, tra i quali spicca Laicità europea. Processi storici, categorie,
ambiti, Morcelliana, Brescia 2007.
5
Le cause specifiche di questa immagine pubblica spesso impacciata e
sgraziata sono parecchie, alcune di vecchia data, altre più recenti, e chiamano in causa anche i media, oltre che la Chiesa. Ma, osserva l’Autore, una
simile immagine tradisce problemi più profondi. Vi è senza dubbio una crescente difficoltà di comunicazione reale tra i laici, soprattutto quelli “di base”, e i vertici pastorali. Donde proviene questa perdita di contatto? In parte
è fisiologica, perché la Chiesa è un soggetto sociale articolato e complesso,
ma in buona parte – ed è questo che preoccupa di più – può trattarsi della
proiezione intraecclesiale dell’attuale crisi della democrazia: infatti, come
l’allontanarsi della responsabilità dalla partecipazione, e della partecipazione dalla responsabilità, denuncia una crisi interna della democrazia, che in
Italia (ma non solo) è sotto gli occhi di tutti, «così l’allontanamento della
corresponsabilità pastorale dalla partecipazione comunitaria, e della partecipazione comunitaria dalla corresponsabilità pastorale, denuncia una crisi interna dell’ecclesiologia conciliare vissuta»: «la comunità ecclesiale sta forse
cambiando senza smentirsi verbalmente: le stesse parole del Concilio, pur
mantenute, non significano più le stesse cose. La prospettiva esterna continua a sembrare integra, ma nel suo intimo appare invece sottoposta a tensioni al limite della rottura». È questo, secondo De Giorgi, «il vero problema
della Chiesa italiana», «il vero rischio di scisma sommerso» (pp. 75-76). È
difficile dire con precisione – aggiungo – quanto queste dinamiche interne
6
siano state accentuate dalla svolta pastorale impressa negli anni novanta dalla lunga presidenza CEI del card. Ruini, ma un concorso mi sembra innegabile, se non altro per «la ripresa di forte centralità della Chiesa-istituzione»5.
In ogni caso si tratta di
blicitario che inonda quotidianamente i media e che è colonna portante di
quella che De Giorgi chiama «la dottrina antisociale mediatica»):
«Penso che la grave malattia che mina la salute delle Chiese occidentali sia la “secolarizzazione interna”, data dai germi patogeni assorbiti dall’esterno, da una società
costruita sull’individualismo assoluto, sulla logica del soddisfacimento dei bisogni
materiali, sul dominio generale del denaro, sull’emarginazione – sociale, culturale,
spirituale – dei valori di gratuità, solidarietà, amicizia, fraternità, comunità» (p.
119).
«La nostra Chiesa ha i mali del benessere: il colesterolo alto dell’individualismo, il
diabete dell’accettazione dell’ingiustizia, le cardiopatie dell’egoismo e del potere.
Ha poi tutte le malattie psichiche della società occidentale ricca: la schizofrenia tra
fede e vita, la nevrosi da accerchiamento, la depressione dello spirito evangelico.
Tutto questo porta a un’anoressia della comunità e a un deficit immunitario che rende vulnerabili ai bacilli dell’individualismo materialista ed edonista» (p. 120).
«un’incrinatura pericolosa perché avvia involuzioni educative con effetti di lungo
periodo, spinge alla disgregazione, può preludere a future frantumazioni le cui forme sono oggi difficilmente immaginabili. È un pericolo di deriva verso la sfiducia,
la paralisi, la caduta di entusiasmo, la demotivazione, lo stallo, il senso di impotenza» (pp. 77-78)6.
È all’interno di questa “incrinatura pericolosa” che fanno breccia non
solo «i movimenti carismatico-entusiastici» che occupano più di un tempo il
campo e la scena, ma gli stessi rigurgiti tradizionalisti volti a mettere il Concilio tra parentesi e a far rivivere nostalgicamente forme di religiosità preconciliari, tanto anacronistiche quanto disastrosamente fallimentari sul piano
pastorale (pp. 72 e 78).
Mondanizzazione strisciante
Eppure anche questi rigurgiti sempre più diffusi (l’Autore non fa nomi,
ma il pensiero corre spontaneamente al “culto” di padre Pio, al successo di
“Radio Maria”, al ritorno della messa in latino…) non farebbero così breccia
se l’«incrinatura pericolosa», di cui si è detto, non si combinasse nel caso di
molti cristiani laici con la tacita omologazione agli stili di vita consumistici
indotti dal mercato e dal clima culturale dominante (si pensi al diluvio pub-
5
Cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia
del ‘900, Il Margine, Trento 2008, pp. 251-255.
6
Registra al riguardo Paola Bignardi nel suo libro: «Il disagio dei laici nasce dal riconoscimento che la propria presenza nella comunità viene desiderata in quanto necessaria
a mandare avanti le attività, ma sopportata e messa in discussione quando diventa
l’offerta di un punto di vista diverso sulla realtà. La presenza di un laicato che si pone
con inquietudine domande sulle forme della missione della Chiesa viene guardata con
diffidenza – e non solo dai preti –, non serve ad aprire nuovi spazi di dialogo, di interpretazione, di comunicazione con la realtà. Il disagio dei laici in genere non si esprime
in forme polemiche, conflittuali, o rivendicative, ma in quelle più pericolose della rinuncia» (p. 31).
7
Il quadro – aggiungo – può apparire cupo, tuttavia si tenga presente che
già da qualche decennio parecchi sociologi parlano di logoramento del legame sociale come effetto portato alle sue estreme conseguenze, con e dopo
la rivoluzione tecnologica tuttora in atto, dalla fase consumistica e globalizzata dello sviluppo capitalistico7. Ma tale fase, va pure detto, è ormai strutturale nelle economie occidentali e, per altro verso, i suoi effetti in termini di
crescita e di offerta diversificata di beni, di servizi e di opportunità sono generalmente apprezzati dalla quasi totalità degli italiani (e dei cattolici). È
dunque impensabile che questo logoramento ai limiti della disgregazione
sociale non coinvolga in modo duraturo anche il tessuto di relazioni delle
famiglie, delle comunità parrocchiali, delle associazioni, delle Chiese locali
e non tocchi in vario modo la stessa religiosità dei cristiani laici, che vivono
immersi in questa società e in questo clima: è qui, nella separazione di fatto
7
8
Per quanto mi risulta, e per quanto avesse davanti una società capitalista prima della rivoluzione informatica, almeno da J. Schumpeter e dalla sua teoria dell’effetto boomerang, enunciata in Capitalism, Socialism and Democracy, London 1950. Ma le citazioni potrebbero moltiplicarsi anche tra gli storici: uno per tutti E.J. Hobsbawm, Il secolo breve – 1914/1991 – trad. it. BUR, Milano 1997, che al termine dell’introduzione
parla di una «terza trasformazione» avvenuta nel Novecento, «in qualche modo la più
inquietante», ossia «la disintegrazione dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali, da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni, vale a dire tra il passato e il presente» e una società che «consiste nell’assemblaggio di individui egocentrici tra loro separati, i quali perseguono solo la loro gratificazione (sia essa definita
come profitto, come piacere o con qualunque altro nome)».
dal credo oggettivo comunicato – non sempre adeguatamente – dalla Chiesa
e dagli operatori pastorali, che a mio avviso attecchisce e si alimenta il fenomeno della privatizzazione della fede con i suoi risvolti sovente relativistici: «sono credente, ma a modo mio: il Vangelo, la Chiesa e i suoi dogmi
non mi riguardano». È il trionfo della religione neo-borghese, ma è chiaro
che una religiosità del genere, frutto spesso di ignoranza religiosa e di un
anticlericalismo tanto istintivo quanto diffuso, non può essere confusa né
con l’interiorizzazione personale, né con la soggettivizzazione della fede,
che sono tipologie ben diverse e assai meno recenti, che non comportano
esiti relativistici almeno finché permane nel soggetto il riferimento, per
quanto problematico, alla rivelazione di Gesù di Nazareth o anche a valori
assoluti esplicitamente riconosciuti e praticati come tali (cristiani anonimi).
Ma bisogna anche considerare che la privatizzazione della fede, che contagia molti laici adulti ed è quasi la norma tra quelli più giovani, coesiste oggi
con la crescente perdita della memoria collettiva (memoria del Concilio e,
ancor più grave, memoria delle origini cristiane) e con l’inedito pluralismo
religioso della società italiana, che nel giro di vent’anni è divenuta multientnica e multiculturale, ponendo nuovi problemi non solo di dialogo interreligioso, ma anche di convivenza civile che interpellano quotidianamente le
comunità ecclesiali, le quali devono fare i conti con il diffondersi a macchia
d’olio di «chiusure xenofobe se non cripto-razziste» (p. 74).
Per una ripresa del Vaticano II e di un progetto pastorale di alto profilo
È evidente che in uno scenario del genere il problema principale non è
più solo quello di «una convinta e diffusa azione pastorale volta a presentare
a tutti i laici che conservano un minimo di fedeltà alla vocazione cristiana il
significato della chiamata del concilio», come auspicava Lazzati vent’anni
fa. Ci troviamo di fronte – secondo l’Autore – a «sfide inedite e impensabili
ai tempi del Concilio», che hanno ormai assunto un carattere globale e strutturale, con il rischio di «una drammatica sfasatura tra Chiesa e mondo» (p.
72). E prima ancora con il rischio, se si andrà avanti così per troppo tempo,
che comunità e associazioni cristiane deperiscano irrimediabilmente per inedia spirituale ovvero, per usare l’espressione evangelica, diventino sale
insipido. Per questo a De Giorgi «appare oggi necessaria una ripresa del Vaticano II» (pp. 28, 50 e 89) o, ancora meglio, «un Vaticano III per riprendere
in fedeltà e aggiornare il Vaticano II» (p. 75).
9
Anche per la Chiesa italiana occorre recuperare «le intuizioni del decennio 1975-1985: da una parte Evangelizzazione e promozione umana e
dall’altra Comunione e comunità» (p. 89) in un disegno pastorale «nuovo e
di alto profilo» (p. 81) che contribuisca a sanare «le cinque piaghe» dei cristiani laici, che rosminianamente rappresentano altrettanti «crinali critici»
per il futuro della Chiesa: l’urgenza di «un’adeguata spiritualità cristiana»,
ispirata al radicalismo evangelico, ossia al Vangelo sine glossa (p. 90); il
passaggio nell’azione pastorale «da una soggettività individuale a una soggettività di coppia» (p. 92); una chiara scelta «di libertà e di liberazione» per
gli «ultimi» e per «la gente tuttora priva dell’essenziale: la salute, la casa, il
lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione» (pp. 9697); «la necessità della libertà di parola nelle comunità ecclesiali e
nell’ambito dei rapporti tra laici e gerarchia», in un clima di rinnovata «fiducia, confidenza, franchezza, lealtà di linguaggio fra pastori e laici» (p. 101
e 105); il riconoscimento effettivo della «dignità fraterna del laico», «trasformare cioè in realtà di vissuto ecclesiale la piena uguaglianza battesimale
di tutti i cristiani, uomini e donne, superando ogni paternalismo e ogni forma di persistente clericalismo» (p. 105). Come si può notare i cinque crinali
«si co-implicano e si integrano a vicenda» (p. 89).
Se poi crescerà il diretto protagonismo familiare nella comunità ecclesiale, dalle coppie cristiane verrà anche «una spiritualità per tutta la Chiesa»
(p. 141): infatti – sostiene De Giorgi citando il card. Tettamanzi – «se in tutti i membri della Chiesa le due dimensioni, secolare ed escatologica, della
Chiesa stessa sono tra loro profondamente connesse, è proprio il loro intreccio, la loro compenetrazione e unione a presentarsi qui [nelle famiglie cristiane] con un volto veramente originale» (p. 140). Non si tratta di utopia,
ma di credere sul serio nella «possibilità e bellezza della famiglia cristiana»:
«oggi, sempre di più, quando la gente comune parla di cattolici non pensa solo o
non tanto ai preti (sempre meno visibili, per diversi motivi), ma soprattutto a persone che non praticano l’aborto, che hanno una visione alta ed esigente – pienamente
umana ma anche spirituale – della sessualità, che ritengono che l’ambiente migliore
per la crescita psicologica e umana dei bambini sia la famiglia monogamica, che affermano l’ideale di un matrimonio che duri tutta la vita» (p. 138).
Se nel medioevo il cristiano per eccellenza era il monaco e nell’età moderna era il prete, nell’età contemporanea sono i coniugi cristiani, primi missionari verso i loro figli e testimoni consapevoli di essere sul territorio una
«comunità alternativa» (pp. 132-134), ma insieme «pronti ad assumere e a
10
Economia
valorizzare i germi di bene ovunque si trovino», «pronti perciò a valorizzare
la convivenza coniugale, in quanto tale», visto che ormai in Europa oltre un
milione di coppie, pur volendosi bene, vivono separate, trascorrono insieme
i fine settimana e le vacanze, dopo di che ognuno torna a casa propria.
Insomma la prospettiva indicata da De Giorgi – e non mi soffermo sulla formazione del clero, sulle esigenze di una «conversione pastorale» della
parrocchia «famiglia di famiglie», sulle frontiere della «laicità europea» –
prefigura un «nuovo paradigma» per la Chiesa di domani: non un ritorno
ideologico e anacronistico a quello pre-costantiniano, ma un «parto» (p.
248) graduale e sicuramente non facile delle nostre comunità cristiane in
quella direzione, perché le sfide della società in cui viviamo e insieme le esigenze del Vangelo e del Vaticano II lo richiedono. È difficile per un commentatore che si sente profondamente vicino al pensiero dell’Autore8 distinguere quanto di evangelicamente utopico e quanto di realisticamente lungimirante ci sia in una tale prospettiva: sarà il tempo a dirlo, ma senza dubbio
il lucido e appassionato saggio di De Giorgi può favorire non poco la presa
di coscienza, il discernimento e le scelte di tutti, pastori e laici. Per questo
merita di essere letto, meditato, discusso con quella mite e fiduciosa franchezza e quel grande amore alla Chiesa che lo ispira dalla prima all’ultima
pagina.
8
Nella medesima direzione era orientato il mio articolo La via di Dossetti: una strada
impraticabile per la Chiesa?, “Il Margine”, 25 (2005), n. 7, pp. 10-20.
11
L’ira dei ricchi
Sulle radici della crisi della sinistra
ROBERTO ANTOLINI
«Perché vent’anni fa protestavamo perché il rapporto tra un operaio e il suo manager era di 1 a 20, e oggi è di 1 a 400 e nessuno
dice niente? Cosa è successo nelle nostre teste?»
Romano Prodi (citato in Bartocci 2007)
C
redo ci possano essere pochi dubbi sul fatto che le recenti elezioni politiche del 13 e 14 aprile rappresentino un passaggio storico nella vicenda recente del nostro paese. Un momento in cui sono precipitati massicciamente (nel senso che si sono resi visibili oltre ogni possibile dubbio) processi la cui origine va molto indietro negli anni, e molto oltre il ristretto campo
dei confini nazionali. È come se la mutazione cromosomica della costituzione materiale del nostro paese, avviata già da tempo tramite robusti movimenti tellurici interni, si fosse alla fine scaricata all’esterno, ponendo pesantemente la questione dell’adeguamento anche della costituzione formale,
fino ad ora ancora apparentemente costretta nella camicia di forza del compromesso da cui è nata la costituzione repubblicana: il compromesso fra capitale e lavoro, fra istanze socialisticheggianti e natura capitalistica, con il
risultato di mettere in crisi quell’incorporazione nel funzionamento dello
stato delle istituzioni del movimento operaio (sindacati e partiti della sinistra) che è stata alla base dello sviluppo occidentale successivo alla rovinosa
crisi economica del 1929. Un compromesso, questo, che trovava origine nella risposta americana alla “guerra civile europea” degli anni 1914-1945, e al
confronto con il conseguente mondo sovietico, che ha trovato nella dottrina
economica keynesiana il suo manuale, e nello stato sociale la sua prassi.
Ne consegue una drammatica crisi della sinistra, che si ritrova come se
si accorgesse solo adesso che le è stata tagliata l’erba sotto i piedi, e non sapesse più bene raccapezzarsi. E non intendo qui parlare solo della lista che
ho votato io, la Sinistra Arcobaleno, che sembra saper rispondere
all’esiguissimo 3% tributatole dagli elettori con nient’altro che la disgregazione di lacerazioni intestine. Ma anche di quel PD (che non so bene se si
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possa ancora considerare dentro la sinistra, ma che comunque interessa il
ragionamento che stiamo qui facendo per l’origine comunista di una sua parte costitutiva) che partendo dalla stretta guida di un governo che sulla carta
avrebbe dovuto continuare ancora diversi anni, e di cui aveva la quasi totalità dei ministri (i ministeri che la sinistra aveva in mano nel governo Prodi
erano assolutamente marginali alla definizione di una politica complessiva),
dal momento della scelta di Veltroni come sua guida ha condotto un’opera
di destabilizzazione della compagine governativa – rinnegando, stando al
governo, l’alleanza su cui si era costituito – fino alla sua rovinosa caduta,
dovuta non alla sinistra, come profetizzavano i soliti beninformati, ma alle
crepe aperte da questa destabilizzazione a destra, verso Berlusconi. E che si
trova ora schiacciato in minoranza in parlamento e nella società (direi quasi
avulso, se consideriamo le leve del potere reale attuale, mezzi di comunicazione in primis), privo di un sistema di alleanze (anche il rapporto con Di
Pietro è subito sfociato nella rissa), condannato all’ininfluenza. E tutto questo dopo anni di governo di Berlusconi più che sufficienti per far percepire
benissimo cosa sarebbe arrivato, sia a livello sociale che di legalità. Una
sconfitta del genere viene evidentemente da lontano, ed ha a che fare direttamente con l’insediamento sociale di destra e sinistra, ma anche con
l’egemonia culturale.
1977, pp. 149, 148, 109]. Ed oggi la Marcegaglia, nuova presidente di Cofindustria, dice che finalmente anche in Italia si “respira impresa”. Il cerchio
si è chiuso: missione compiuta, fin nella provinciale periferia dell’impero.
Il fatto è che negli anni settanta il “compromesso” fra capitale e lavoro,
che aveva preso forma nello stato sociale, da una parte non serviva più, e
dall’altra si mostrava troppo oneroso. Il confronto con il mondo comunista
era infatti già bell’e vinto (il blocco sovietico aveva dimostrato carenze di
dinamicità e quindi non reggeva il confronto economico-sociale con
l’occidente, e doveva affidare il suo incerto futuro ai carri armati, come in
Ungheria e Cecoslovacchia), ed il meccanismo di sviluppo che aveva trainato il mondo nel dopoguerra, rimettendo in piedi Europa e Giappone, mostrava segni di crisi, e si stava inceppando.
«Negli Stati Uniti, per esempio, la percentuale del reddito nazionale percepita dall’1
per cento che si trova in testa alla scala delle entrate precipitò dal 16%
dell’anteguerra all’8% scarso della fine della Seconda guerra mondiale, e si assestò
più o meno su quel livello per quasi trent’anni. Finché la crescita era forte, questa
limitazione sembrava accettabile. Ricevere una percentuale fissa di una quantità
complessiva crescente è una cosa, ma quando negli anni ’70 la crescita si interruppe, i tassi di crescita reali divennero negativi e dividendi e profitti divennero generalmente irrisori, allora le classi alte si sentirono ovunque minacciate. Negli Stati
Uniti la ricchezza (distinta dal reddito) controllata dall’1 per cento più facoltoso della popolazione era rimasta relativamente stabile per tutto il XX secolo, ma negli anni settanta subì una caduta precipitosa, mentre il valore dei patrimoni (azioni, proprietà, risparmi) crollava» [Harvey 2007, p. 24].
La lunga marcia del neoliberismo
Ricordo quando, a metà degli anni settanta, si cominciava a leggere su
“Il Manifesto” della Commissione Trilateral (formata da grandi manager
delle multinazionali, accademici e politici). Anche lo stesso “Manifesto”
non sapeva bene dove collocarla, e da principio prese qualche abbaglio. Oggi, che abbiamo visto negli anni ottanta e novanta all’opera i think-tanks neoconservatori (lautamente finanziati dal mondo economico, formati in prevalenza da accademici, e non solo accolti come consulenti dai presidenti
USA, ma in grado di fornire direttamente personale politico
all’amministrazione americana) capiamo meglio di cosa si trattava allora. La
Trilateral parlava di «uno spirito di democrazia troppo diffuso, invadente,
[che] può costituire una minaccia intrinseca… allentando i vincoli sociali
che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità», parlava di «un “sovraccarico” sul governo» e di un «espandersi disequilibrato dei suoi interventi»
sotto la pressione delle richieste di «gruppi sociali marginali» [Crozier etc.
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Qualcosa bisognava fare, e a Chicago c’era qualcuno che ci stava pensando già da un po’. «Pochi ambienti accademici sono circondati da un alone mitologico pari a quello del Dipartimento di Economia dell’Università di
Chicago negli anni ’50 – ci spiega la Klein – un luogo profondamente consapevole di essere non soltanto una scuola, ma la Scuola di Pensiero» [Klein
2007, p. 60]. Il guru era, dalla metà degli anni quaranta, Milton Friedman,
uno dei fondatori nel 1947 della Mont Pèlerin Society (l’incubatrice del pensiero neo-con) e suo presidente nel 1970-72, premio Nobel per l’economia
nel 1976. Friedman era un economista apparentemente molto “tecnico”, ma
in realtà con una forte matrice politico-ideologica. Per lui, ed i suoi seguaci,
l’unica vera forma di democrazia era il mercato, ed odiava il «collettivismo
nelle sue molteplici forme: comunismo, socialismo o stato di benessere
(welfare state)» [Friedman 1987, p. 54].
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Già da tempo offriva schemi matematici per dimostrare la necessità di
liquidare tutta la politica sociale allora vigente (livelli salariali minimi, programmi di assistenza sociale, programmi pensionistici pubblici, scuola pubblica, edilizia pubblica), di ridurre al minimo la tassazione sui profitti, di eliminare piani di programmazione economica, dazi e restrizioni finanziarie e
di privatizzare praticamente tutto, compresi parchi naturali come Yellowstone o il Grand Canyon (vi viene in mente niente di casa nostra?)
«Innanzitutto, l’ambito di attività di governo deve essere limitato [scrive nel suo
manifesto politico Capitalism and Freedom pubblicato nel 1962]. La sua funzione
essenziale deve essere quella di proteggere la nostra libertà sia dai nemici esterni
che dai nostri concittadini: mantenere la legalità e l’ordine, conservare forza operativa ai contratti privati, salvaguardare la competitività e il mercato. Oltre questa funzione essenziale, il governo, in certe circostanze, può metterci in condizione di realizzare insieme ciò che sarebbe più difficile o costoso realizzare singolarmente. Tuttavia, ogni impiego siffatto del governo è carico di pericoli» [Friedman 1987, pp. 67].
[Commenta la Klein]: «Se Walter Wriston, amico di Friedman e direttore della Citibank, si fosse fatto avanti per chiedere l’abolizione del salario minimo e delle imposte societarie, sarebbe stato accusato di essere un barone e un rapinatore. Ed è qui
che entrava in gioco la Scuola di Chicago. Divenne ben presto chiaro che quando
Friedman, brillante matematico e oratore prestigioso, portava le stesse argomentazioni esse apparivano in maniera molto diversa. Si potevano liquidare come errate,
ma erano circonfuse di un’aura di imparzialità scientifica. Il vantaggio enorme di
poter diffondere opinioni imprenditoriali attraverso istituzioni accademiche (o quasi) non soltanto attirò alla Scuola di Chicago fiumi di donazioni, ma in breve generò
la rete globale di think tanks conservatori che avrebbe ospitato e alimentato i missionari della controrivoluzione in tutto il mondo» [Klein 2007, p.68].
La propaggine italiana di questi chicago boys la troviamo attiva nel
1994 al momento della discesa in campo di Berlusconi e della costituzione
della sua Casa delle libertà. Per esempio, Antonio Martino, uno degli stretti
collaboratori del boss di Arcore, è stato allievo di Friedman nel suo mitico
Dipartimento di Economia dell’Università di Chicago dal 1966 al 1968, e ne
è rimasto amico e collaboratore, promotore delle sue idee in Italia, curatore
di edizioni italiane delle sue opere ed autore di presentazioni e biografie del
maestro. Una bella lezione di teoria gramsciana per la sinistra italiana!
(In realtà nella nascita della Casa delle libertà c’era anche un altro
background, quello della P2 – di cui Berlusconi era un tesserato, come molti
suoi collaboratori – che nel suo Piano di rinascita democratica aveva già
previsto la liquidazione dell’autonomia della magistratura ed il bavaglio alla
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libertà di stampa. Ma questa della P2 è un’altra lunga storia, anche se convergente, più italiana, anche se radicata nella guerra fredda: quella di Gladio, delle protezioni alla mafia, degli apparati dello stato deviati, delle stragi
di stato ecc.).
Negli anni settanta l’aria stava cambiando radicalmente. Lasciandosi
dietro le spalle keynesismo e welfare, e progettando il ritorno ad un capitalismo “puro”, senza compromessi, il movimento neo-conservatore aveva ormai una teoria economica di ricambio ed un programma politico, bisognava
solo sperimentarlo. E l’occasione per sperimentare un programma radicale
di neo-liberalizzazione venne dal Sud-America, dove colpi di stato militari
in Cile ed Argentina, spazzando via con sterminii e desparecidos tutto quanto c’era precedentemente di sinistra in quei paesi in grado di opporsi, offrirono ai chicago boys (economisti ex allievi della scuola friedmaniana) una
tabula rasa su cui fare i loro esperimenti. Che funzionarono benissimo per
quello che contava, dimostrando che quelle ricette spazzavano via i ceti medi e rimpinguavano classi dominanti e multinazionali.
Dopo le dittature sudamericane, fra 1979 e 1980 arrivarono al potere
con ricette simili Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli
USA, ed il capitalismo cambiò marcia per davvero.
«Dopo l’attuazione delle politiche neoliberiste alla fine degli anni ‘70 la percentuale
del reddito nazionale percepita dall’1% più ricco della popolazione americana è cresciuta vertiginosamente, fino a raggiungere, alla fine del secolo, il 15% (avvicinandosi molto al livello dell’epoca precedente la seconda guerra mondiale). Lo 0,1%
della popolazione statunitense che percepisce redditi più alti ha visto crescere la
propria fetta del reddito nazionale dal 2% del 1978 a oltre il 6% del 1999, mentre il
rapporto tra salari medi dei lavoratori e gli stipendi dei massimi dirigenti d’azienda
è passato dal 30 a 1 del 1970 al quasi 500 a 1 del 2000 … E se guardiamo altrove,
vediamo emergere ovunque concentrazioni di ricchezza e potere eccezionali» [Harvey 2007, pp. 26-27].
Harvey ci informa anche, riportando un documento del 1999
dell’United Nations Development Programm, che «il divario dei redditi tra il
quinto della popolazione mondiale che vive nei paesi più ricchi e il quinto
che vive in quelli più poveri era di 74 a 1 nel 1997, di 60 a 1 nel 1990 e di
30 a 1 nel 1960»! [Harvey 2007, p.29].
Ormai, mentre anche organismi di controllo internazionale come il
Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono perfettamente
allineati ad impostazioni di stretta osservanza neoliberista, più nulla si oppone alla neoliberalizzazione dell’intera economia-mondo. Forme partico-
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larmente brutali di liberismo si sono imposte nei paesi ex-sovietici ed anche
in Cina. E nella stessa Europa occidentale, dove a livello dei vecchi stati nazionali gli ultimi baluardi di stato sociale opponevano una resistenza, si impegnano a sgomberare il campo i burocrati di Bruxelles usando il processo
di unificazione europea, con accordi come quello di Maastricht del 1992,
che limitano in maniera sostanziale lo spazio di manovra sociale dei governi
nazionali ponendo dei parametri vincolanti. Contro i quali nulla possono neanche le scelte degli elettori, che continuano ad esercitare una potestà politica al solo livello nazionale, mentre a quello sovranazionale europeo, dove
ormai si compiono le scelte fondamentali, la rappresentanza che si esercita è
solo indiretta, e paralizzata da veti, vincoli e quant’altro in grado di impedire
veri meccanismi democratici, ed il conseguente esplicitarsi di una autentica
volontà popolare europea.
Il campo che si apre all’orizzonte del vorace capitalismo del XXI secolo è quello di una globalizzazione che rovescia il vecchio invito di Marx
“proletari di tutto il mondo unitevi” («In pochi lustri – osserva Luciano Gallino – circa 1 miliardo e mezzo di lavoratori “globali” sono stati quindi deliberatamente posti in competizione con i lavoratori dei paesi più avanzati»
[Gallino 2007, p. 38]), e di una nuova accumulazione originaria che si appropria e riduce a pura fonte di profitto ogni diritto storico “all’europea”
come istruzione e salute ed ogni bene comune, dall’acqua e gli altri beni
ambientali fino al genoma.
L’Italia e l’Europa di Maastricht
Vista nel contesto di questo trend storico internazionale, la sconfitta ed
il declino della sinistra italiana appare in un’altra luce, più comprensibile,
forse inevitabile stretta com’era dalla potenza di un simile assedio mirato.
Trova infatti puntuali riscontri all’estero, escluso forse il Sud-America, terreno della prima sperimentazione violenta del neoliberismo ed oggi sempre
più spesso in mano a presidenti populisti che si propongono di invertire la
rotta di marcia.
La messa in scadenza, nel cuore del sistema, del compromesso capitale/lavoro da parte del capitale è stata la cosa che le ha tagliato l’erba sotto i
piedi, rendendo vacui fin gli sforzi delle sue componenti moderate di rendersi “accettabili” anche nelle nuove condizioni. La caduta del vecchio
compromesso la ha dappertutto privata del vecchio ruolo, della sua funzione
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storica nel dopoguerra di forza di governo in grado di risolvere i problemi
degli strati sociali che a lei si sono in questi anni affidati per una protezione
(o collocata lì intorno in posizione non ininfluente, quando il fattore K ne
impediva una piena partecipazione al governo: “governare dall’opposizione”
è stato lo slogan del vecchio Partito Comunista Italiano in tempo di guerra
fredda). Ed ha invece messo il vento in poppa a personaggi in Italia quasi
mai all’altezza del loro ruolo storico, come Berlusconi e Bossi, ma collocati
dalla parte giusta per raccoglierne i frutti. Il secondo governo Prodi è stato
probabilmente l’ultima speranza possibile nella vecchia direzione, ed in
campagna elettorale ha raccolto – con un colpo di reni – tutta l’energia disponibile che lo ha portato, nel massimo dello sforzo, ad un sostanziale pareggio, ed è stato l’inizio peggiore dell’ultima fase. Dalla delusione per gli
esiti dei primi 2 anni del secondo governo Prodi – impossibilitati ad essere
dissimili, nella sostanza sociale, da quelli berlusconiani, anche se indubbiamente molto migliori per qualità tecnica – è partita la frana che ha travolto il
centro-sinistra, in tutte le sue componenti.
C’è stato un momento nella vita del Prodi 2 nel quale la sua natura “a
sovranità limitata” si è esplicitata esemplarmente. È stato quando nel governo si discuteva di un utilizzo sociale del fantomatico “tesoretto”, frutto
dell’aver finalmente provato a far pagare le tasse a tutti gli italiani. Mentre i
ministri italiani discutevano, si è levata la voce di non ricordo più qual
commissario europeo a rammentare che il governo italiano non era libero di
impiegare le risorse come credeva: aveva firmato trattati per i quali era tenuto a destinare le risorse prima di tutto al pagamento del debito pubblico,
quindi che la facessero finita con simili discussioni. Erano di fronte da una
parte un governo nazionale liberamente eletto dal suo popolo, sulla base di
un programma che prevedeva proprio di far pagare le tasse a tutti in cambio
di una loro parziale redistribuzione sociale (naturalmente parallela alla restituzione del debito, ma non alternativa ad essa), e dall’altra una commissione
europea che nessuno ha mai eletto liberamente, che non risponde quindi del
proprio operato in nessuna tornata elettorale. Chi è titolare ultimo della potestà politica nella nuova Europa? Una risposta ce la offre Luciana Castellina:
«con i Trattati viene sancita la autonoma disciplina del capitale, cui viene conferita
la sovranità su uno spazio vastissimo che non può essere internalizzato dagli stati
nazionali. L’economia, così, viene “tagliata fuori dalla sfera delle decisioni politiche”. Ma non era questo forse – si chiede Kles van der Pijl – l’obiettivo della famosa Trilateral Commision, quando, nel 1975, con il documento redatto da Michel
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Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki Crisis of Democracy – raccomandò di
ridurre la ormai troppo pericolosa domanda di democrazia? Suggerendo perciò di
sottrarre la troppo delicata competenza sull’economia affidata a governi e parlamenti» [Castellina 2007, p. 64].
Chiaro che una simile evoluzione politica svuota la sinistra del suo ruolo di tutela dei lavoratori e dei ceti popolari. C’è una discussione postelettorale che mi è sembrata spesso fuorviante, quella sul voto operaio alla
Lega, tutta giocata – come è stata – sul piano ideologico dell’identità pubblica/privata di una presunta nuova classe operaia, invece che su quello degli interessi materiali [vedere, per un buon esempio: Ianeselli 2008]. Ma è
spiegato in ogni manuale di sociologia che il razzismo popolare nasce dalla
pressione concorrenziale esercitata sugli strati più bassi della popolazione
dagli ultimi venuti. E senza dubbio oggi gli operai italiani subiscono anche
direttamente in fabbrica (non solo a livello di globalizzazione, come ci ha
ricordato Gallino) la concorrenza al ribasso degli immigrati, presi per il collo da legislazioni ricattatorie, che danno ai padroni la possibilità di usare il
loro precario lavoro per logorare i diritti acquisiti fino ad ora dalla classe
operaia. Come meravigliarsi che gli operai al momento della scelta elettorale
abbiano premiato chi una protezione reale sembra offrirla proponendo di eliminare semplicemente la concorrenza?
Che fare?
Dopo tutti questi (sconsolanti) ragionamenti, viene legittimo un dubbio:
che sia finita l’epoca di qualunque sinistra? Questo è senz’altro nel novero
delle possibilità. Ma se, dopo il pessimismo della ragione, vogliamo invece
armarci dell’ottimismo dell’intelligenza, bisogna cominciare a dire che senza dubbio, se sinistra potrà esserci, dovrà essere diversa da quella vista fino
ad ora. Quella attuale sta pagando l’incapacità di risposta al liberismo, forse
potremmo dire – andando indietro – una incomprensione sostanziale di tutta
la modernità neocapitalistica, come suppone Rossanda [Rossanda 2005, pp.
236-252 e passim]. La vulgata neoliberista è stata quindi assunta in modo
idealisticamente acritico dalle componenti moderate ed ignorata ideologicamente da quelle radicali, che non hanno saputo far altro che riproporre sé
stesse (il proprio ombelico organizzativo) come risposta. Insomma la sinistra paga una subalternità ai piani del capitale, che intanto, invece, un’altra
volta scomponeva e ricomponeva il mondo, mettendo la sinistra fuori gioco.
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Quella futura – se ci sarà – dovrà dar risposta al quesito che Harvey
pone al lettore: «Se questo processo [la neoliberalizzazione] è stato uno
strumento per la restaurazione del potere di classe, allora dovremmo essere
in grado di capire quali forze lo hanno guidato e ne hanno tratto beneficio»
[Harvey 2007, p. 42]. E dovrà assumere come concretamente, operativamente, centrale la dimensione internazionale in cui giocare una propria parte. Per
quello che riguarda l’Italia prima di tutto la dimensione europea, da rifondare democraticamente. Sull’Europa attualmente arrivano riflessioni appropriate più da certi ambienti della destra, come dimostra l’ultimo libro di
Tremonti, che propone di attribuire al Parlamento europeo «competenza legislativa piena» e che ai limiti imposti sulle politiche di bilancio nazionali
corrisponda «un piano di investimenti pubblici e privati in settori strategici
per lo sviluppo, finanziati da emissioni europee di Euro-bond» [Tremonti
2008, pp. 102-103, 108].
Per tutto questo non serve a nulla né un miope buonismo
tranquillizzante, né il folklore ideologico e la propaganda; servirebbe invece
molto studiare: far funzionare bene riviste e pagine web, fondazioni, centristudi. Superando, dentro la sinistra, l’attuale unidimensionalità burocratica.
Certo, a noi non arriveranno mai “fiumi di donazioni”, ma non sono arrivate
nemmeno al vecchio movimento operaio, che pure è stato in grado di
combattere la sua battaglia per l’egemonia culturale, ed imporre spesso un
suo punto di vista dentro la scena sociale europea otto-novecentesca.
Anche perché nemmeno l’avversario neoliberista è privo di contraddizioni. Ne ha una colossale che gli si rovescerà addosso prima o poi: quella di
far sognare astrattamente a tutti gli individui una progressione di benessere
infinita, in un mondo che non ha affatto infinite risorse. Un nodo che sta già
arrivando al pettine.
Bibliografia. Matteo Bartocci, Basta scontri. E adesso, crescita, in “Il Manifesto”,
12.1.2007; Luciana Castellina, Cinquant’anni d’Europa, UTET, 2007; Michel Crozier Samuel P. Huntington - Joji Watanuli, La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Angeli, 1977; Milton Friedman, Capitalismo e libertà, Edizioni Studio Tesi, 1987; Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, 2007; David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, 2007;
Franco Ianeselli, Si può fare, ma bisogna lavorare, in “Solidarietà”, anno 20, n.2
(16.5.2008); Naomi Klein, Shock economy, Rizzoli, 2007; Rossana Rossanda, La ragazza
del secolo scorso, Einaudi, 2005; Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori,
2008.
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Oltrefrontiera
Viaggio in America,
in attesa delle elezioni
PAOLO GRIGOLLI
U
n viaggio in America non è mai una scoperta ex novo di luoghi ignoti,
ma piuttosto un entrare in un film e srotolare una pellicola in cui per
un attimo ci si accorge di essere non solo spettatori. La sensazione è strana,
ma accade solo qui: troppe immagini, fumetti, musica, video-clip, racconti,
libri si sono succeduti in tutti questi anni per non avere la sensazione di ritrovarsi dentro storie già incontrate, anche in mezzo a un deserto attraversato da una strada. Tempi e soggetti diversi hanno modulato questo viaggio
fino a farlo diventare un must e un deja vu allo stesso tempo, perché finora
nessuno come gli americani è riuscito a gestire le leve della comunicazione
portando questo mondo nell’immaginario altrui.
Riprendo il taccuino di viaggio per fissare alcune immagini e riflettere
su alcuni momenti vissuti percorrendo seimila km di Sud-Ovest americano:
California, Arizona, New Mexico, Utah, Colorado, Nevada gli stati attraversati – oltre a una ricognizione oltre la frontiera a Tijuana (Messico) – senza
poter cambiare una “dieta” fatta di hamburger o steak e patatine fritte inondate da ketchup.
Il mondo come dovrebbe essere
The world as it should be. Ascolto queste parole di Michelle Obama,
moglie di Barack, alla convention dei democratici a Denver in un discorso in
cui tocca tutte le corde emozionali delle migliaia di persone nel Pepsi Center
(!) e dei milioni alla televisione, e rifletto su due cose: come dovrebbe essere
il mondo visto con la prospettiva di questo continente, e come può pensarlo
un americano?
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“Believe” (credere) non è il motto di Obama o di Mc Cain, ma il titolo
di uno spettacolo all’interno del Sea World di San Diego, una delle più
grandi arene del mondo per giochi e animazioni con gli animali marini. Qui
l’orca Shamu diventa un’ulteriore occasione per ribadire il mito fondativo su
cui si basa la prospettiva delle persone che vivono da queste parti: quell’idea
che se uno ci crede, alla fine riesce a coronare il suo sogno (parola che Michelle Obama ha pronunciato 5 volte nei 4 minuti finali del suo discorso).
Ecco cosa succede: dieci minuti di pre-spettacolo di un paio di intrattenitori
che riscaldano il pubblico emotivamente prima dello show vero e proprio (e
in questo dovremo imparare qualcosa, invece di trascurare il pubblico in attesa qui lo si coinvolge e lo si emoziona ex-ante, mentre da noi invece lo
spettatore subisce l’attesa in maniera colpevole e le star entrano in gioco con
un ritardo “necessario”, calate dall’alto e non servitori di un pubblico pagante). Lo show scatta puntualissimo all’ora e al minuto previsto e un ragazzo
in muta bianca e nera (diciamo Rob per comodità) spiega la sua storia dell’incontro da piccolo con un’orca e del suo sogno di creare un’”impossibile”
relazione con l’animale; il tutto mentre su dei megaschermi montati alla
spalle del ragazzo vengono proiettate le immagini in bianco e nero della
storia e di un ragazzino che con le mani intaglia un legnetto fino a farlo
diventare la coda dell’orca che poi si mette al collo come una collana
propiziatoria.
Improvvisamente, Rob diventato adulto abbraccia veramente l’orca che
entra nella megapiscina a un suo richiamo, e insieme fanno dei salti e delle
evoluzioni pazzesche. A questo punto viene chiamato un ragazzino di chiare
origine messicane che, incoraggiato dagli applausi, si avvicina a Rob che gli
spiega che anche lui da piccolo aveva il sogno di parlare all’orca. A quel
punto gli consegna un pesce e gli dice di darlo all’orca quando ricompare. Il
bambino prende il pesce e lo lancia con un certo timore reverenziale nella
bocca spalancata dell’orca appena appare sul bordo della piscina... applausi:
nel tripudio del pubblico il bimbo riceve al collo da Rob la coda intagliata di
legno e tutti ascoltano lo speaker che dice «se vuoi veramente qualcosa, se
ci credi veramente, arriva sicuramente il giorno in cui la otterrai»; ovazione
delle cinquemila persone sugli spalti.
Il pubblico ora guarda le evoluzioni dell’orca Shamu e inneggia gridando “Sha-mu, Sha-mu” ad ogni salto: e il nome è fondamentale perché
fuori dalla piscina ci sono le magliette, i beveroni, i peluche, i cappellini, le
felpe e l’intero stand Shamu a disposizione, non più un’orca ma un simbolo.
Perché questo spettacolo non è mai stato solo un pesce che salta fuori
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dall’acqua, di certo non solo un’orca ammaestrata, ma una metafora. “Believe”, appunto. E uno deve poi potersela mettere addosso, quella esperienza!
(rigorosamente made in China, come tutti i gadget: a quando la gestione cinese anche dei parchi divertimenti?)
Obesità
Questa mattina, tra le varie notizie del tele-giornale “Good morning
America” (!), dicono che entro 40 anni la stragrande maggioranza degli americani sarà obesa. Non si stenta a crederlo, guardando come si muovono –
sempre in macchina da soli – cosa mangiano – quantità sempre over sized e
qualità sempre e solamente industriale, se ne acquisti di più costa di meno,
in una logica incomprensibile in un’economia della qualità e coerente invece
con l’economia della quantità. Ovunque in questi cinquemila km percorsi gli
stessi odori di fritti falsi e gli stessi sapori di plastica. Impensabile per noi,
normale per loro. Li vediamo aggirarsi con galloni di ghiaccio e bibite gassate, secchiate di pop-corn, hamburger devastanti, prodotti essi stessi di un
modello che ha bisogno sempre di rilanciare, del 4 per 2, di sentirsi pieni, di
avere la sensazione appagante del troppo.
Highway
Sette corsie conducono nel cuore di Los Angeles e sette corsie sputano
fuori gli automobilisti dal suo cuore ingolfato. È proprio la settima ad essere
dedicata al car pooling, ossia a coloro che decidono di condividere un momentaneo destino almeno con un altro passeggero. Il fatto interessante è che
la settima corsia è sgombra e le altre sei sono ferme in entrambi i sensi di
marcia perché si vedono solo singoli guidatori in immensi veicoli che possono trasportare almeno 7 umani + quantità industriali di cose, ma sono tutti
soli, single. Mi viene in mente Sting che con i Police cantava «packed like
lemmings into shining metal boxes, contestants in a suicidal race» (“Synchronicity”: altri anni).
È un paese che, da queste piccole cose alle più grandi, rende evidente la
sua necessità di mantenere a ogni costo un sistema totalmente inadeguato ai
nuovi scenari, in cui la popolazione non è assolutamente preparata a uno
shock petrolifero e si ostina a viaggiare in pick-up e SUV e si pubblicizza
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come economico un consumo di 1 gallone per 20 miglia (4 litri per 30 km):
il modello del tessuto urbano costringe a trasporti individuali in macchina, il
trasporto pubblico è assente e/o scarso e anche fare i piccoli gesti quotidiani
prevede, nelle immense distanze delle città grandi e piccole, l’uso del mezzo
proprio, e sembra ai loro occhi uno scandalo l’attuale prezzo di 1 dollaro al
litro (la metà rispetto all’Europa). Si riattivano pozzi in disuso, si fanno trivellazioni nei campi privati, ma con il sole che scalda fino ai 51 gradi su
immense distese desertiche non ho visto pannelli solari. In tutto questo rimane la sensazione di un modello profondamente incapace di ripensarsi,
strenuamente convinto di percorrere lo stesso solco già abbondantemente
scavato. Sarà che qui sono abituati ai canyon.
Benché una piccola speranza l’abbia lanciata Barack Obama che, contrariamente a Mc Cain che ha parlato di 40 nuove centrali nucleari da avviare nel suo mandato, crede nello sviluppo delle energie alternative.
Le olimpiadi e la guerra
La sera, facendo tappa nei vari motel e alberghi sparsi nel sud-ovest
americano, si ritrovavano sempre gli stessi canali televisivi nello stesso ordine, e ogni tanto ci colleghiamo per avere notizie e aggiornarci anche sui
giochi olimpici cui la rete NBC dedica il prime time serale. Il focus sugli
atleti americani è quasi imbarazzante e le Olimpiadi sembrano diventare una
sfida USA-resto del mondo. Rispetto alle ginnaste e alle tuffatrici cinesi, si
aprono dibattiti sulle loro presunte irregolarità per età e altri motivi, visto
che hanno sfidato e in molti casi sconfitto le atlete americane. Ma il momento migliore avviene in un fine collegamento quando il cronista legge il medagliere, inquadrato pochissimi secondi, e sentenzia che l’America è ancora
il paese più medagliato perché l’interpretazione made in USA evidenzia la
loro superiorità in termini di quantità di medaglie totali, senza considerare
minimamente che la Cina ha vinto 51 ori rispetto ai 36 degli States. In pieno
spirito olimpico.
US 41
È un’immensa portaerei ancorata al porto di San Diego in funzione dalla Seconda Guerra Mondiale fino al Desert Storm in Kuwait nel 1991, re-
24
staurata e messa nelle condizioni di essere visitata da centinaia di migliaia di
persone all’anno grazie al volontariato di decine di veterani e reduci che
hanno lavorato alacremente per anni in un’opera di pulizia e di riassetto, e
che ora si preoccupano di guidare i turisti alla sua scoperta.
Insieme a loro esploriamo le caldaie dove arrostivano gli operai addetti
al loro buon funzionamento, i loculi dove dormivano fino a 4.500 soldati e
addetti di vario livello, la sala comando e la sala radio, il ponte dove partivano in condizioni estreme centinaia di aerei, la War Room (stanza di guerra) dove venivano decise le strategie. Qui un altro veterano esclama «questa
sala è rimasta proprio come era durante le operazioni di Desert Storm, la
prima guerra del golfo, erano veramente tempi eccitanti quelli». Lo guardo e
gli chiedo cosa vuol dire con quell’exciting times e di nuovo esclama «erano
tempi di guerra!», convinto, nostalgico e con uno sguardo fiero ed energico.
Tempi tristi, ribatto, e se ne va disgustato. E così, su questo tratto di costa
californiana non troppo distante da Pearl Harbour, la portaerei tiene alto il
mito necessario di una guerra che continua a replicarsi ed andare in onda.
La fontana di Bellagio
ma lascia migliaia di persone a terra ad arrangiarsi a trovare un volo e una
soluzione di rientro). Tocchiamo quindi con mano quei fenomeni come la
deregulation e la parallela de-responsabilizzazione delle compagnie che
stanno creando dei disastri di cui i terremoti finanziari di quest’anno sono
solo delle pallide avvisaglie di quello che avverrà tra non molto. Si ascoltano le notizie sull’uragano Gustavo, pronto a scatenarsi su New Orleans con
minore intensità rispetto a quanto temuto, e l’annuncio a sorpresa della nomina a futura possibile vice-presidente della governatrice dell’Alaska Sarah
Palin in cordata con Mc Cain. Interessante apprendere dal New York Times
che il profilo della Palin è stato cambiato pochissime ora prima
dell’annuncio del tandem sul sito Wikipedia, dove la maggior parte delle
persone hanno potuto conoscere il curriculum di una persona ignota pescata
dallo Stato più remoto, debitamente “sistemato” a dovere.
Anche questa è la campagna elettorale per le presidenziali americane
che entra ora nel vivo. Temo che il Paese abbia subito gli otto anni di amministrazione Bush molto più in profondità di quanto non si pensi, e faccia fatica ad immaginarsi diverso da quello che purtroppo è diventato, e preferisca
le obsolete certezze del veterano di guerra al nuovo sogno del primo afroamericano possibile presidente.
Intorno, trecento miglia di nulla, deserto e temperature impossibili. Poi
un’oasi artificiale che ruba acqua a tutta la regione circostante: Las Vegas.
Fondata come piccolo centro di divertimento per i soldati delle basi militari
che sperimentavano armi e si esercitavano nella zona, è cresciuta sino a diventare qualcosa di assurdo in un crescendo di investimenti che la hanno resa il più grande centro di gioco del mondo. Solo qui penso poteva capitare di
assistere a qualcosa di così paradossale: di sera, davanti all’hotel Bellagio, si
trova un’immensa piscina che improvvisamente prende vita ogni quindici
minuti con le musiche di motivi famosi. Quando passiamo noi, scattano le
note di Singing in the rain e improvvisamente la piscina si trasforma in una
fontana con giochi d’acqua di tutti i tipi, con un pubblico numeroso appoggiato alle balaustre di marmo. Dopo cinque minuti lo spettacolo finisce e la
gente applaude. Applaude una fontana. Intorno, centinaia di messicani che
hanno superato indenni il confine, portano sulle loro spalle la pubblicità al
neon di prostitute, casinò, ristoranti in una versione aggiornata e tecnologica
dell’uomo sandwich.
Trascorriamo gli ultimi giorni a New York, dato il fallimento della
compagnia aerea (che con una e-mail due giorni prima si dichiara spiacente
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26
Testimoni
La sfida di Gandhi
EUGEN GALASSO
O
gni nuovo testo di Gandhi arricchisce la nostra conoscenza di un autore
tanto grande quanto (tuttora) sottovalutato. Con Gandhi (e poi, con
sfumature diverse, con Aldo Capitini e Martin Luther King) si afferma il
dover essere hic et nunc della pace stessa, rispetto all’orizzonte illuministico
o anche kantiano che auspicava la pace, magari “perpetua”, come orizzonte
ideale. La pace di Gandhi non è un’idealità lontana, “di là da venire”, ma il
“venturo prossimo”, i cui germi devono essere già, per dirla evangelicamente, in mezzo a noi (il soggetto, nei Vangeli, è il Regno di Dio, ma esso non è
poi altro rispetto alla pace; il Regno di Dio comporta e vuole la pace, come
diceva il grande “collaboratore” di Gandhi, Lev Tolstoj). Altra è poi la questione della non realizzazione dell’ideale gandhiano: ma gli eventi recenti
non falsificano la tesi, o meglio l’imperativo etico gandhiano, ma in qualche
modo lo rafforzano, come necessità, come spinta etica ineludibile.
Quanto al battage che ha preceduto il “decollo”, ossia la pubblicazione
del testo gandhiano1, sponsorizzato, ciò esula da una trattazione specifica.
Certo che le modalità, alle volte, possono quantomeno lasciare perplessi, se
non sconcertare. Che i nuovi poteri (mediatico-elettronici nella fattispecie)
oggi diano il “la” non dovrebbe stupire più di tanto (anche evangelicamente
bisognerebbe diventare astuti, quindi attenti a leggere i segni del tempo nel
mondo, non anacoreti disincarnati).
Analisi del testo
Si tratta del discorso tenuto da Gandhi alla conferenza per le relazioni
interasiatiche, a New Delhi, il 2 aprile 1947. L’audio completo, a quanto pare, è stato ritrovato da poco. Un discorso improvvisato, dove Gandhi usa la
1
Il testo (http://avoicomunicare.myblog.it/files/discorso_di_Gandhi.pdf) è stato riportato
di maggiori quotidiani (anche italiani) lo scorso 15 agosto 2008, con il commento di
Tara Gandhi Bhattacharije.
27
“retorica asiana”: sentita, immaginifica (la grande capacità di tutta l’Asia, di
tutto l’“Oriente”, di dire argomentando per immagini, similitudini, allegorie,
simboli; altrimenti quale peso avrebbero le parabole, nel Nuovo Testamento?). In un’ampia premessa rivendica la dignità dello Hindustani, ossia della
lingua maggioritaria in India: premessa non casuale né effimera, perché
Gandhi dice chiaramente che la “sua” lingua è assolutamente pari alle altre,
il che conteneva un fortissimo messaggio anticolonialista, per nulla implicito. Il Mahatma esorta quindi veramente i suoi uditori e le sue uditrici ad ascoltare e a pensare quale in realtà sia la vera India: «ho visto i villaggi, i
miserabili esemplari dell’umanità, gli occhi senza vita, eppure sono l’India e
ciò nonostante in quelle umili case, nel mezzo dei mucchi di letame troviamo gli umili Bhangs, dove troverete un concentrato di saggezza». Parole che
sono pietre, trattandosi della totale rivalutazione dei paria, come esseri, anzi
persone, in sé e per sé.
Poi Gandhi smonta il pregiudizio della «saggezza arrivata dall’Occidente e andata verso l’Oriente» mostrando come invece Zoroastro, Buddha,
Mosè, Gesù venissero invece tutti da Oriente (il mito retorico e autoreferenziale dell’”Occidente cristiano” è stato invece quello di Francisco Franco y
Bahamonde, di Antonio Salazar, di Ion Antonescu, del clericofascismo
spesso annidato non solo in ambiti dichiaratamente ed esplicitamente reazionari, ma anche in posizioni conservatrici). Riferendosi alla bomba atomica (erano recenti Hiroshima e Nagasaki, ma era anche l’incipit della “guerra
fredda”), e «alla sua proliferazione», vista come «completa distruzione non
solo dell’Occidente, ma del mondo» Gandhi, richiamando la profezia biblica
del diluvio universale, ci fa capire come tale profezia sia da intendersi non
solo come narrazione storico-simbolica, ma come richiamo alla necessità di
liberarsi (testuale) «dalla malvagità, da quel peccato», quindi come concretezza, come monito etico-religioso rivolto al presente e al futuro. Un monito
che, come esplicita Tara Gandhi nella sue nota esplicativa, si richiama al Satyagraha, quale «verità e nonviolenza».
Un appello che, quindi, non può liberarsi assolutamente dall’obbligo di
proseguire coerentemente e duramente nella (e sulla via) della coerenza
nonviolenta, che non potrà mai essere schiava di un progetto “nonviolento”
una tantum, come quello ogni tanto lanciato situazionalmente da un partito
italiano (ma anche sedicente transnazionale) che riduce tali iniziative alle
proteste contro singole azioni, senza mai aggredire il “cuore”, la sostanza
del problema, la proliferazione delle armi, la violenza come ragione d’essere
(anche economica) delle super-potenze, la stessa “praticabilità delle guerre”.
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Contestualizzazione del testo
Non si può certo dire che questo inedito rappresenti una novità nel corpus della vasta opera gandhiana, dove si deve ricordare che l’opera scritta
non esaurisce affatto l’“opera” complessivamente intesa. Opera intesa come
Satyagraha, come volontà fattiva di far scaturire giustizia sociale, verità e
nonviolenza, che Gandhi intende quale indiscutibile endiadi teoria-prassi.
Per quanto riguarda il cristianesimo, egli non esita spesso a criticare quella
cristallizzazione storica che l’Occidente non ha fatto che perseguire:
«L’Occidente, a mio parere, ne ha distorto il messaggio» (di Gesù)2. Ancora,
il richiamo ai giovani amici Singalesi: «Non lasciatevi abbagliare dallo
splendore che vi arriva dall’Occidente»3. «Sono giunto alla conclusione che,
se è opportuno e necessario scoprire una sottintesa unità di fondo tra tutte le
religioni, occorre procurarsi un passe-partout: quello della verità e della
nonviolenza»4. La consueta vexata quaestio del décalage tra religioni e
chiese è sempre presente nella riflessione del grande pensatore indiano, come anche la concezione per cui, nella diversità anche radicale, in tutte le religioni è comunque presente un fil rouge basato sulla pace, sulla nonviolenza, sull’amore concreto per il prossimo. Non a caso Gandhi – accusato di
essere un buddista da uno dei suoi figli5, poi colpevolizzato come “traditore
dell’induismo”, infine ucciso parte un fanatico indù – cercò sempre di tessere ponti tra le diverse religioni (è noto che, quando si parla di induismo, bisognerebbe invece parlarne al plurale).
Se questo è un aspetto della questione, il richiamo al Satyagraha, in
Gandhi, è sempre presente:
«Quando, durante un congresso di europei, mi resi conto che l’espressione inglese
“resistenza passiva” era tanto modesta da dare adito alla supposizione che si trattasse dell’arma del debole, che poteva essere stigmatizzata dall’odio e alla fine esprimersi con la violenza, dovetti chiarire tutti questi dubbi spiegando la vera natura del
movimento indiano».
Ciò avviene, dice ancora Gandhi, chiarendo che invece Satyagraha deriva da “Sat = verità” e “Agraha = fermezza”6: e il Sat, la verità, è strettamente legata alla verità di Dio, anzi, come Gandhi chiarisce, ne deriva. Il
che non toglie che l’ultra-religioso Mahatma, strenuamente convinto della
“forza dello spirito”, sia poi stato convinto, pur se con qualche remora, della
capacità anche per laici e non credenti di essere promotori di Satyagraha:
pur senza riferimenti diretti, ciò è implicito anche nel testo inedito da cui
siamo partiti.
Le parole di Gandhi sono senz’altro attualissime, purché si accolga la
“lezione della storia”: siamo lontani dal quadro emerso dal secondo dopoguerra. La stessa situazione indiana d’oggi è diversa, e la dicotomia Islam/induismo direbbe poco. Dopo Gandhi, nel campo della nonviolenza, vi
sono stati ampliamenti significati, dal punto di vista concettuale come anche
pratico, con Martin Luther King, Vinoba, ma anche con Aldo Capitini, autore di un’”ortodossia” e di un’”ortoprassi” della nonviolenza rigorosamente
laiche; per non dire di esperienze che, dopo Luther King, si sono consolidate
negli anni sessanta, sviluppando una nonviolenza non propriamente ispirata
da e a Gandhi e sempre in chiave laica.
C’è poi la grande lezione laica di Jean Jaurès, uomo politico francese e
pensatore socialista, ucciso nel 1914 da fanatici nazionalisti che lo ritenevano spia al soldo dei Tedeschi. Egli affermava: «il capitalismo porta in sé la
guerra come la nuvola porta la burrasca», che il pensatore libertario Maurice
Lesaint trasponeva in «il potere porta in sé la guerra come la nuvola porta la
burrasca»7. Più convinto dell’argomentazione di Jaurès che di quella lesaintiana (non credo esista un Potere unico ed onnivoro, ma vari poteri sempre
conflittuali), penso che una prospettiva e argomentazione laica non possa
sostituire quella religiosa gandhiana, ma integrarla. Ecco che, in un mondo
non necessariamente secolarizzato ma “laicizzato”, religiosità e argomentazione “laico-razionale” possono incontrarsi positivamente, fecondandosi a
vicenda nella ricerca di una pace forse non “perpetua” (pur se a quel tèlos
bisogna sicuramente tendere) ma, almeno, stabile e durevole.
2
In “Young India”, 08.12.1927, citato in Buddismo, cristianesimo, islamismo, Roma,
Newton Compton, 1993, p. 72.
3
Ibidem, p. 75.
4
In “Harijan”, 13.07.1940, citato in Buddismo, cristianesimo, islamismo, p. 85
5
In “Young India”, 24.11.1927, originariamente pubblicato come”Message to Buddhists”, citato in Buddismo, cristianesimo, islamismo, p. 24.
29
6
Gandhi, La mia vita per la libertà, Roma, Newton Compton, 1988 (prima edizione in
tascabile; prima edizione italiana 1973, l’originale inglese è del 1925!).
7
Citato e detto in M. Lesaint, Si tu veux la paix, prépare la paix, Conférence tenue a Valence le 11 mai 1984, Asnières, Groupe de la Boetie, 1984, p. 11.
30
Corsivo
Problemi di percezione
Matrix era Disneyland, a confronto…
LORENZO PEREGO
N
ei giorni scorsi ho ascoltato due interviste, durante il telegiornale. Il
Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, commentava la decisione di
schierare i militari nelle nostre città, dicendo che ciò avrebbe aumentato nei
cittadini la percezione della sicurezza. Gli faceva eco il generale al comando del contingente incaricato di pattugliare Milano: anch’egli sottolineava
l’importanza della presenza militare, per aumentare la percezione della sicurezza.
È evidente come ormai non ci sia più nessun pudore, nemmeno nel linguaggio. Se durante la campagna elettorale la destra faceva leva su una
questione di sicurezza necessaria al cittadino, adesso i veli sono caduti, i
ministri del Caimano si sono accorti che agli Italiani bastano le sensazioni,
non sono richiesti i fatti. E tutto questo passa al telegiornale senza che venga battuto ciglio.
La maggioranza degli elettori si sente appagata, sul tema della incolumità personale, dalle proprie sensazioni e percezioni. Detto per inciso, io
forse sono fatto al contrario, ma se vedo l’esercito nel centro della mia città, mi agito molto di più, penso subito a quale cosa terribile può essere accaduta. Ad ogni modo, non c’è nessun bisogno di confrontarsi con il mondo
reale, perché nell’Italia di oggi si vive come sospesi in un paese inventato,
si abita il paradosso accettandolo come normalità. Siamo il paese in cui fa
scandalo chi pubblica le intercettazioni, non chi commette gli illeciti. In Italia è possibile fare una politica della sicurezza tagliando nella finanziaria
centinaia di agenti di polizia, rimpiazzandoli con l’esercito: visivamente
l’impatto è innegabile, mediaticamente il “botto” è assicurato. E nella mente di chi non riesce ad oltrepassare le apparenze, tutto ciò si trasforma nella
fatidica frase: “Finalmente qualcosa è stato fatto”.
Nel suo articolo sul numero 6/2008 del Margine, Emanuele Curzel ha
esposto le sue tesi sul terrorismo. Mi ricollego alla quinta: «Il terrorismo è
31
sempre violenza, anche senza spargimento di sangue». Evidentemente ciò
che è in atto nel nostro paese è una diffusa violenza psicologica. Si violentano le menti tramite l’ormai collaudato mezzo televisivo, si fa conto sul fatto che il giudizio critico dello spettatore si fermi all’immagine, alla percezione della verità; che non si vada a scavare “dietro la notizia” (e, ahinoi,
purtroppo spesso succede così). Il terrorismo non è solo quello che imbraccia i mitra o lancia le bombe, ma è anche parte dell’azione di chi ci governa, quando vince le elezioni con la paura e alimenta l’angoscia dei cittadini, sfruttandola per mantenerne il controllo. Non è necessario ricordare ciò
che sono stati gli anni settanta, per questa nazione.
Chi riesce a non cadere nel torpore della ragione, dopo aver faticosamente superato le accuse di vivere al di fuori della realtà, di essere buonista
(o, sempre più spesso, comunista, nonostante siamo nel 2008), ha l’arduo
compito di risvegliare le coscienze altrui senza lasciarsi abbattere, senza
cadere nella tentazione di abbandonare altri nell’ignoranza per rifugiarsi in
una condizione pseudo-privilegiata intellettualmente.
Con le parole, ma ancora di più con le azioni e i comportamenti quotidiani, è possibile cambiare quella percezione distorta, è possibile mostrare
ciò che sta oltre le sensazioni emotive e togliere il velo dagli occhi di chi,
per comodità o per mancanza di mezzi, vive in un’irrealtà ormai legittimata
e spacciata per verità. (8 agosto 2008).
32
Studi su Giuseppe Dossetti
di noi in questi giorni. Ma per resistere, per emergere dai flutti, per non essere travolti e precipitati nell’abisso del mare come Giona, non c’è altra via che questa: aggrapparci, non istintivamente, ma in modo eminente, veramente dominante, alla parola del Signore e all’esperienza dell’itinerario concreto che, giorno per giorno, ci
viene proposto attraverso le celebrazioni del mistero pasquale»3.
Dossetti
e il rapimento di Aldo Moro
In chiusura dell’Omelia di quel giorno Dossetti si concentrava di nuovo
sulla Parola:
LUIGI GIORGI
«bisogna immergere la nostra esperienza cristiana di questi giorni, l’esistenzialità
vera, effettiva attuale del nostro cristianesimo, in questa atmosfera. Voglia il Signore, voglia il Cristo pasquale riempirci in questi giorni della sua forza e della sua soavità in modo così totale che nulla in noi resista e nulla si irrigidisca»4.
T
rent’anni fa Aldo Moro, dopo un lungo rapimento, veniva barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse. Molto si è scritto in questi ultimi tempi
sulla vicenda, sui tentativi (veri e presunti) di risolverla in modo pacifico
con la liberazione dello statista democristiano.
Anche Dossetti sembra essersi adoperato, in modo ufficioso, per favorire la liberazione di Moro.
Al di là delle ipotesi, però, vale la pena, a mio giudizio, riportare le riflessioni fatte da Dossetti in quei giorni, valutazioni che ci sono state consegnate dal volume sulle Omelie di Pasqua edito dalla Piccola Famiglia
dell’Annunziata1. In queste Omelie2 l’accaduto verrà citato poche volte direttamente, ma Dossetti, come era suo costume, cercherà nella Parola e nella
preghiera l’ispirazione per affrontare quei tragici momenti, traendo dalla
lectio la forza e la chiave per comprendere ciò che succedeva al caro amico
e a tutta la comunità nazionale. Indicativo è quanto disse a Monteveglio nella cappella di casa Santa Maria il 27 marzo del 1978:
«Per prima cosa, perciò un accorato appello a tutti, a me per primo, ai miei fratelli e
alle mie sorelle, a tutti voi: non lasciamoci distrarre da nulla. Certo, sono tante le cose, tante le ondate dell’uragano della storia che ci incalzano, che si abbattono sopra
Fra questo primo intervento e il seguente la situazione dello statista
democristiano non sembrava sbloccarsi. Continuavano a giungere le sue lettere, ritenute però dai più non vere perché carpite in una situazione di oggettiva sofferenza e coercizione. Significativo quanto scritto da Fanfani nei suoi
diari del periodo:
«Grande spazio alla lettera di Moro, però svuotata come libera espressione
dell’autore, certamente costretta dai rapitori. Al pomeriggio alla Camilluccia vertice
Dc. Consiglio una massima intesa sulla fermezza Dc di fronte ai ricatti, e invito il
governo ad affrontare i problemi tattici in consultazioni con i partiti che lo sostengono»5.
Persisteva, inoltre, uno stato di incertezza e confusione da parte degli
inquirenti. In una tesa riunione al Viminale l’onorevole Lettieri apriva con
parole molto dure il suo intervento:
«In effetti fino ad oggi – disse il sottosegretario all’Interno – non si hanno idee chiare sul rapimento dell’onorevole Moro, e chiede qual è il significato di queste riunioni serali … chiede pertanto ai presenti di fare in modo che l’opinione pubblica non
pensi che lo Stato sia nelle mani dei brigatisti»6
1
G. Dossetti, Le Omelie del tempo di Pasqua, a cura della Piccola Famiglia
dell’Annunziata, Paoline editoriale libri, Milano 2007.
2
Ha scritto Enzo Bianchi: «Don Giuseppe appariva veramente un uomo curvato dalla Parola di Dio, un servo fedele e attento nel dispensarla, un cristiano sempre più nascosto
dietro questa parole che lui voleva assoluta, regnante nella vita del cristiano, della comunità monastica, della chiesa … Le sue lunghe omelie … impegnavano tutte le sue
energie, e per la Parola di Dio spendeva tutto se stesso». E. Bianchi, L’esperienza di
fede nel monachesimo, in G. Alberigo (a cura di), Giuseppe Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, Il Mulino, Bologna 1998, p. 135.
33
3
G. Dossetti, Le Omelie del tempo di Pasqua, p. 164.
Ivi, p. 173.
5
G. Bianconi, Eseguendo la sentenza, Einaudi, Torino, 2008, p. 145.
6
Ivi, p. 151.
4
34
re sfiorare col mio pensiero e posso solo adorare. E sono forse le tensioni complesse
di questo momento nella mia anima – credo condivise da molti di voi – che mi fanno dire “Signore”, parola che mi porta naturalmente ad adorarlo come il Signore divino, ma che non solo richiama la mia attenzione sul dominio del Cristo su di me, su
tutto il mio essere e su tutti i miei moti volontari e involontari, ma, insieme, rivolge
il mio sguardo verso la storia. Mi sembra che, in questo momento, questa parola mi
richiami fortemente a riconoscere il Signore Gesù come Signore di tutta la storia, di
questa storia che si fa in questi giorni, e che mi impegni a pensarla a desiderarla, a
volerla conforme alla signoria del Cristo. E, d’altra parte, “mio Dio” mi assorbe al
di là della storia e mi pone semplicemente in una prostrazione orante e basta»9.
Nell’Omelia del 2 aprile, sempre a Monteveglio, Dossetti ritornava su
quei giorni così travagliati:
«Questa quindicina, peraltro, è stata anche per noi, come per tutti, ripiena del travaglio in cui si trovano i nostri fratelli che sono nel mondo, tutta la nostra nazione e,
con uno sguardo più ampio, possiamo dire tutti gli uomini di questo nostro tempo,
che ritrovano in sé quel fuoco di prova di cui parla Pietro nella sua lettera (1Pt 1,7):
in quanto cristiani, a questo fuoco di prova siamo chiamati in virtù del nostro stesso
battesimo e oggi ascolteremo le Scritture che ci vengono proclamate proprio col desiderio grande di lasciare posto in noi a quello spirito di fede al quale Gesù stesso
invita Tommaso, perché non si sia increduli, ma fedeli»7.
E proprio il Vangelo di Tommaso rappresentava, a suo giudizio, una
chiave per rinsaldare la comunità, per confortare se stesso, i suoi fratelli e
sorelle, i fedeli che l’ascoltavano.
In un momento in cui forse si poteva dubitare, raccogliersi in domande
profonde e “intaccare” la propria fede, Dossetti, attraverso la Scrittura, cercava una pista per rafforzare il cuore di chi lo ascoltava e finanche il suo.
«Vedete – disse – io sono proprio un cristiano da niente … però ogni tanto percepisco una certa gioia: per esempio in questi giorni ho cominciato a pensare: ah, posdomani, domani è la domenica di Tommaso. Ed è bellissimo: cambia la vita! Non è
che il mondo scompaia, il mondo resta; resta anche la mia mondanità, restano i problemi, resta il travaglio di ciascuno di noi, il travaglio del nostro Paese in questo
momento, il travaglio delle persone che abbiamo conosciuto, che abbiamo amato.
Tutto questo resta, come resta il travaglio della nostra impotenza di fronte a queste
cose che sentiamo provocate dalla nostra complicità col male… però è la domenica
di Tommaso: ecco, il Signore viene a noi e ci dice: Palpa, tocca!»8.
Egli proseguendo nella sua Omelia analizzava la riposta dell’apostolo
Tommaso al Cristo: «mio Signore e mio Dio». A queste parole Dossetti dava un significato rispettivamente storico e divino, quasi a simboleggiare il
significato di tutta la sua esperienza di fede nella storia. Esse assumevano il
tono di una preghiera, un affidarsi al volere del Signore nella storia.
«Allora queste parole – disse – che cosa smuovo in me questa mattina ? “Signore”
mi fa sentire veramente la signoria universale del Cristo su tutta la realtà e su tutta la
storia; “Dio” mi fa sentire in Gesù veramente il Dio eterno, che io non posso neppu-
Nell’Omelia del 16 aprile Dossetti sembrava ancora riferirsi indirettamente a quello che avveniva a Moro, invocando Cristo come pastore contro
la morte:
«Il Cristo è il pastore che si pone in modo antagonistico rispetto al pastore
dell’umanità, quello che nella concreta situazione storica ha il potere sulla umanità e
di cui si può dire che l’umanità è il suo gregge, cioè la morte»10.
Egli richiamava la capacità dell’Agnello di far passare per il varco della
vita chi aveva saputo seguirlo. Appare quasi un richiamo ad aprire uno spiraglio per la vita a chi aveva riconosciuto l’Agnello, affidandosi di fronte a
difficoltà, oscurità e rischi alla forza di sintesi e chiarezza del Signore:
«sappiamo che la chiarezza vera non è quella semplificatrice che si rifiuta di entrare
nei meandri di questi contrasti, ma è quella che si può acquistare soltanto se noi, secondo la prova e secondo la grazia che momento per momento ci viene data, assumiamo tutte le apparenti contraddizioni di questa rivelazione. Immergendoci in essa
e ad essa abbandonandoci, lasciamo poi che il Signore ricomponga la sintesi, l’unità
e la chiarezza, in ogni tappa della nostra esistenza, al di là degli inevitabili incontri,
che ciascuno di noi deve affrontare, con la contraddizione, l’oscurità, lo smarrimento, la confusione»11.
Queste parole di Dossetti, dettate dall’attenta e meditata lectio della
Scrittura, apparivano un tassello posto a puntellare spiritualmente le richieste che venivano fatte da Moro nella sua condizione di prigioniero innocente.
9
Ivi, p. 185.
Ivi, p. 190.
11
Ivi, p. 194.
7
10
G. Dossetti, Le Omelie del tempo di Pasqua, p. 175.
8
Ivi, p. 183.
35
36
Scriveva infatti lo statista democristiano nella lettera a Zaccagnini recapitata il 4 aprile che:
con il messaggio di Papa Montini. Ha scritto la giornalista Anna Chiara Valle in un suo recente volume che:
«Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono
prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono prigioniero politico che la vostra brusca
decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n’è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi … Tener duro può
apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche
politicamente utile … Fatto il mio dovere di informare e richiamare, mi raccolgo
con Iddio, i miei cari e me stesso. Se non avessi una famiglia così bisognosa di me
sarebbe un po’ diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la
D.C., avendo dato sempre con generosità. Che Iddio v’illumini e lo faccia presto,
com’è necessario»12.
«A Monteveglio … Giuseppe Dossetti ha ascoltato le parole del Papa mentre aspettava l’avvocato Forcella e non è contento. Non gli piace quella frase che chiede “la
liberazione senza condizioni” e, in generale, il tono della lettera gli sembra troppo
generico e non adatto smuovere le Br dalle loro posizioni. “Ma è il Papa”, dice Dossetti a Forcella che è appena arrivato. Il sindaco di Foggia è convinto che sia comunque utile anche l’appello del monaco. Ma Dossetti è irremovibile: “Non si può
correggere il Papa”, gli risponde laconico. E davanti ai suoi occhi fa in mille pezzi il
foglio che ha ancora in mano. “Un testo che spiegava chi era Moro ai brigatisti e
che apriva alla trattativa”, dirà l’avvocato pugliese14.
La vicenda, nelle sue evoluzioni convulse, avrebbe toccato anche Dossetti (stando a quanto emerso da alcuni recenti lavori). Fra i più significativi,
anche se indiretto, è quello citato da Andreotti nei suoi diari. Il presidente
del consiglio infatti ragionando sulla possibilità di utilizzare uomini particolarmente rappresentativi per intavolare una trattativa umanitaria tesa a salvare Moro, scriveva:
Luigi Pedrazzi, amico e collaboratore di Dossetti, fonte fra le più autorevoli in materia, ha fornito all’ANSA la sua versione dei fatti. Ha dichiarato infatti che quel testo non esiste, non perché sia stato distrutto o sia andato
perduto, ma perché Dossetti non lo avrebbe mai scritto:
«Credo che la voce sia nata per il colloquio telefonico che ebbe con lui il professor
Carlo Forcella, – ha detto il prof. bolognese all’ANSA il 7 maggio 2008 – molto
amico di Aldo Moro ma vicino anche a Giuseppe Dossetti fin dal 1946. Forcella gli
chiese di scrivere alle Brigate rosse una sorta di profilo politico di Moro, spiegando
così ai suoi sequestratori, al di là del fatto umano e della crudeltà del gesto che stavano compiendo, quale fosse la portata del loro errore di strategia politica. Dossetti
lo ascoltò, probabilmente disse mezze parole di rassicurazione ma non mi risulta
che poi scrisse quella lettera … Per quanto lo conoscevo, credo che Dossetti fosse
più incline a pensare ad una soluzione tipo quella per il sequestro Dozier, ovvero
un’azione di polizia che portasse alla liberazione o, se non si profilava questa possibilità, all’apertura di una vera e propria trattativa». Pedrazzi ha ricordato poi che
«Dossetti fece una veglia per Moro. Dopo una notte intera di preghiera, al mattino,
provato dalla fatica, ebbe la notizia che il papa si era rivolto direttamente agli uomini delle Brigate rosse. Lo seppe con grande gioia, forse con sollievo per non aver
preso iniziative e disse che a quel punto, essendosi espressa la massima autorità della Chiesa, non servivano più altre voci»15.
«[Lelio] Basso è scartato per il timore di vederlo partecipe di richieste impossibili;
Poletti per non clericalizzare; la Croce rossa di Ginevra per non internazionalizzare
e “bellicizzare”. Si accenna a Don Dossetti, ma si pensa sia più adatto Lazzati …
per un appello ad Amnesty International»13.
Si è parlato, inoltre, di una presunta lettera di Dossetti ai brigatisti. Il
testo sarebbe stato stracciato dallo stesso autore per non entrare in contrasto
12
Analoghe affermazioni Moro le farà nella lettera recapitata a Taviani qualche giorno
più tardi. Per una valutazione complessiva delle lettere rimando al prezioso lavoro curato da Miguel Gotor, A. Moro, Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008. La lettera citata è nelle pagine 13-14.
13
G. Bianconi, Eseguendo la sentenza, p. 215. Singolare inoltre, nello stesso testo, quanto
riportato dall’agente di polizia addetto in quei giorni alle intercettazioni: «Massimo
chiama Giancarlo Quaranta; qualcuno deve incontrarsi a Bologna con un monaco per
costringerlo a scendere in campo». Scrive Bianconi a commento di questa notizia:
«L’apparente messaggio in codice è un semplice riferimento al tentativo di coinvolgere don Giuseppe Dossetti, l’ex dirigente democristiano degli anni Cinquanta che si è
ritirato dalla politica ed è divenuto sacerdote» (p. 334).
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Il riferimento più articolato e diretto alla vicenda di Moro lo troviamo
però nell’Omelia del giorno di Pentecoste del 14 maggio, dove Dossetti af14
A. Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo, Rizzoli,
Milano 2008, p. 71. Si vedano anche le pp. 65-66.
15
S. Fratini, MORO/30: 9 MAGGIO, ERANO TANTE LE TRATTATIVE IN CORSO,
ANSA, 7 maggio 2008.
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Testimoni
frontava direttamente la morte di Aldo Moro, avvenuta pochi giorni prima.
Egli, partendo dalla Pentecoste come vittoria dello Spirito sulle nostre paure
e sulle nostre chiusure, disse:
«La Pentecoste è questo. E io quest’anno cerco di viverla espressamente e particolarmente in questo senso, collocandomi anche nel contesto storico di questi giorni»16.
Ancora la Scrittura dava a Dossetti la forza di interpretare i fatti storici
e per motivare e confortare la propria persona in quei difficili frangenti. Nella chiusura della sua Omelia egli accomunò Moro agli strastoterpzi russi,
cioè coloro che hanno sofferto la passione secondo una tipologia di santità
russa per cui la morte è ingiustamente ricevuta: «non in connessione con una
particolare formalità della professione di fede, ma ricevuta e a un certo momento, in Cristo, accettata»17. Quindi la sofferenza di Moro colta non come
cercata, ma come subita eppure accolta in Dio, con il silenzio dell’anima secondo la volontà del Signore (inteso forse secondo i riferimenti fatti al Vangelo di Tommaso). Queste le parole “ufficiali”, diciamo così, che Dossetti
spese in quei frangenti così delicati e tragici del nostro “consorzio”18 nazionale.
Si evince comunque la sofferenza del suo animo di fronte alla tragica
sorte dell’amico e collaboratore. Forte era la volontà di affidarsi alla Parola
come strumento di conforto e di riflessione, ma anche come mezzo per pronunciarsi senza mezzi termini a favore della vita: della vita cercata, inseguita e vissuta nella sua pienezza, della vita che vince sulla morte.
16
G. Dossetti, Le Omelie del tempo di Pasqua, p. 215.
Ivi, p. 219.
18
Proprio in quei giorni ragionava sul significato di questa parola: «fui molto colpito da
questa parola e dissi a me stesso e ai primi che erano con me che così doveva essere la
nostra vita, veramente un consorzio … un consorzio nel senso assoluto della parola:
una sorte comune. Ecco quello che prima di tutto bisogna avere in comune: la sorte, il
destino, e non secondo il significato mondano, profano, di queste parole, ma secondo
il loro significato più forte: veramente l’esistenza, nel suo principio nel suo procedere,
nel suo avanzare, nel suo concludersi”. Ivi, pp. 179-180.
17
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Colpevole di proporre la pace
ENRICO PEYRETTI
L
a conoscenza in Italia della non piccola resistenza nonviolenta al nazismo da parte di cittadini tedeschi si arricchisce con la pubblicazione
delle lettere di Max Josef Metzger (La mia vita per la pace. Lettere dalle
prigioni naziste scritte con le mani legate, Edizioni San Paolo 2008).
Metzger (1887-1944), prete, fu condannato e decapitato (come i giovani della Rosa Bianca) per pacifismo, anti-nazismo, collaborazione col nemico, perché, per amor di patria, tentò di far arrivare a Hitler il consiglio di
dimettersi al fine di cercare una pace d’intesa ed evitare al popolo tedesco i
disastri della sconfitta certa, e perché fece conoscere all’estero questi propositi. Metzger fu pioniere audace dell’ecumenismo, nonostante i divieti cattolici, formulò programmi politici di pace (già nel 1917, forse influendo sul
famoso appello di Benedetto XV), era rigoroso vegetariano, e scrisse nel
1939 a Pio XII chiedendo un «concilio di riforma» (come Bonhoeffer nel
1934) insieme ai protestanti, per l’unità delle chiese, che vedeva necessaria
all’unica Chiesa cristiana, insieme all’umiltà che non autogiustifica i propri
difetti, per potere testimoniare la pace al mondo.
Dal carcere, con le mani sempre incatenate (come l’obiettore-contadino
austriaco Franz Jägerstätter), con grande coraggio e serenità, scrisse lettere e
riflessioni, sulla pace, sulla Chiesa visibile e invisibile: «L’essenziale non è
la sua visibilità … ma piuttosto l’appartenenza (invisibile) per mezzo della
fede e della carità»; «La Chiesa invisibile è più decisiva per la salvezza che
quella visibile»; scrisse sulla morte e sulla vita eterna che già ora abbiamo
con la fede. Le lettere di commiato, scritte il giorno della morte, furono sequestrate per non farlo apparire martire, e riscoperte negli archivi ventisei
anni dopo. Offriva la sua vita per la pace del mondo e l’unità della Chiesa. È
aperto il processo canonico per dichiarane la beatitudine (già dichiarata per
Jägerstätter).
Mentre in tedesco sono usciti finora circa cinquanta libri, in italiano
questo (a parte la lettera a Pio XII pubblicata in riviste specializzate) è il
primo libro di Metzger, mai nominato nelle opere tradotte (Schirer, Williamson, Hoffmann, Semelin) su nazismo e resistenza.
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Fede
toricamente, la Chiesa ha dimostrato disagio e un certo fastidio per la
presenza delle donne nei racconti evangelici. Il libro di Lilia Sebastiani
Svolte – donne negli snodi del cammino di Gesù (Edit. La Cittadella, 2008,
314 pp., euro 18), in un certo senso, ricuce questo strappo. Il volume non è
una lettura femminile o femminista al tema degli incontri di Gesù con le
donne della Palestina, ma una lettura integrale, non integralista, dei vangeli
con una spiccata sensibilità verso il protagonismo delle donne. Sensibilità
che l’autrice ha sempre avuto nei suoi libri e articoli specializzati
sull’argomento.
Tutti i vangeli dicono che le donne sono le prime testimoni fondamentali della passione, morte e risurrezione di Gesù. Precisazione importante e
contraddittoria con la mentalità ebraica del tempo, profondamente discriminante verso le donne al punto di non ammetterle come testimoni. Il volume è
ben strutturato, metodologicamente aiuta il lettore a non smarrire, nel cammino di Gesù, le svolte controcorrente a volte dirompenti e laceranti, con la
presenza del femminile.
Il libro si suddivide in sette articolati capitoli: le nozze di Cana, il discepolato femminile, l’apertura alla stranierità (sirofenicia e samaritana), un
modo inedito di rapportarsi con il peccato (dove si sottolinea maggiormente
non l’osservanza rigida dei precetti, ma l’interiorità personale e il criterio
dell’amore). È significativo che i tre risuscitamenti, non risurrezioni, riportate dai vangeli sono sollecitate, richieste, da tre donne. L’unzione di Betania
quale rito profetico che annuncia anticipatamente la morte di Gesù. Per ultimo l’Ora di Gesù, in cui il senso della morte si comprende alla luce della
Pasqua dove le donne, in primis Maria di Magdala, svolgono un protagonismo a tutto campo.
La partecipazione di Gesù alle nozze di Cana significa che il Maestro
non disprezza la gioia e la convivialità, anche perché in Israele le nozze erano considerate una festa importante. Il miracolo di Cana si concretizza per-
ché Gesù fa spazio al principio femminile. Sin dall’inizio dell’attività pubblica di Gesù a lui si uniscono non solo discepoli, ma anche discepole, come
ci descrive quasi in dettaglio il vangelo lucano (cap. 8). In un certo senso
«Gesù non discute la parità, ma la attua». Con Marta e Maria si capisce che
Gesù apre alle donne, atteggiamento controcorrente, l’ascolto della Parola.
Significativo l’episodio con la samaritana al pozzo, nella sua terra scomunicata, dove la donna è tre volte irregolare: perché donna e, in quanto tale, rappresenta marginalità e sospetto; poi perché gli israeliti per ragioni storiche, disprezzavano profondamente i samaritani (dare del “samaritano” significava dare del bastardo e dell’eretico contemporaneamente); e poi perché la samaritana, con i suoi cinque mariti, aveva una vita personale alterata
e instabile. Eppure, paradossalmente, con lei Gesù ha il colloquio più complesso del Vangelo. Sarà la samaritana a porre una domanda non banale
quando chiede quale fosse il luogo dello Spirito, e Gesù risponde dicendo
che è quello della verità. È la samaritana ad essere la prima annunciatrice
del Vangelo tra i pagani dove, a sorpresa, Gesù rimane per dialogare più
giorni.
Al centro del Vangelo c’è la proposta di vita nuova, cioè il Regno, non
solo il pentimento. In Israele l’adulterio è considerato un peccato grave. Il
Talmud prevede anche la pena di morte per lapidazione, mentre il ripudio è
consentito solo agli uomini. Nell’episodio dell’adultera alla fine ci sono due
solitudini che si uniscono – Gesù e l’adultera – ma entrambi avvertono, a
vario modo, che la morte era vicina.
Sembra che il cristianesimo sia più attraversato dal dolorismo che porta
ad adorare la croce più del crocifisso risorto. Non a caso l’ultimo capitolo
del volume si focalizza sul pullulare di donne che dal Golgota vanno al giardino della risurrezione quale nuovo ritorno all’Eden della nuova creazione.
In questo passaggio le donne non sono le tifose di Gesù, ma le discepole. La
tomba vuota non fa scattare subito la fede. La vera svolta passa da Maria di
Magdala, citata da tutti gli evangelisti: per Giovanni è la sola che si reca alla
tomba, dimostrando un’assoluta e smisurata tensione verso Gesù. La risurrezione di Gesù non è un tornare indietro nel tempo della propria storia, come
succede all’amico Lazzaro che morirà successivamente, ma un andare avanti. L’autrice parla, giustamente, di risurrezione solo per Gesù. «Ho visto il
Signore», con queste parole Maria di Magdala esprime l’accettazione del
cambiamento, un aprirsi all’accoglienza della risurrezione. Come afferma
l’autrice la risurrezione non è “nostalgia del passato, ma la nostalgia del futuro”.
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Le donne negli snodi
del cammino di Gesù
SILVIO MENGOTTO
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