Dall`architettura della lingua italiana all`architettura linguistica dell`Italia

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Dall`architettura della lingua italiana all`architettura linguistica dell`Italia
Dall'architettura della lingua
italiana all'architettura linguistica
dell'Italia
Saggi in omaggio a Heidi Siller-Runggaldier
A cura di Paul Danler e Christine Konecny
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Ossimoro e Adynaton.
Per una linguistica delle figure di stile
LORENZO RENZI (PADOVA)
1. Introduzione
La linguistica moderna e la filosofia del linguaggio ci forniscono oggi gli strumenti per capire meglio, e anche per classificare in un ordine più perspicuo, quei
procedimenti della lingua che la retorica antica chiamava “figure”. Con questo,
possiamo riacquisirle alla stilistica, di dove Charles Bally (1905; 1909; 1965), il
fondatore della moderna stilistica della lingua (distinta dalla stilistica letteraria),
le aveva bandite, seguito dai suoi epigoni, molti dei quali di non poco conto.
Le figure di stile si possono ordinare secondo una gerarchia linguistica che va
dai livelli più alti, quelli pragmatico e logico, a quelli via via inferiori: sintattico,
morfologico, fonologico, lessicale. Questo ordinamento è diverso da quelli dei
trattati di retorica. La gran parte delle figure sono quelle trasmesse dalla tradizione
della retorica, spesso riprese nella poetica strutturalista. Le figure corrispondono in
genere a intuizioni sicure da parte di chi le osserva. Per es. che “quel ragazzo è un
terremoto” sia una metafora è altrettanto intuitivo del fatto che “terremoto” sia un
nome e “il” articolo. A qualcuno potrà mancare il nome, ma l’idea c’è già. Ai margini dei fenomeni, tuttavia, come è normale, ci sono dei casi di dubbi. Possiamo essere
incerti in certi casi di quale figura si tratti. L’assegnazione infatti, sempre come
nella grammatica, può essere dubbia, o si raggiunge non di colpo ma solo con
analisi più sottili. Così Nicolas Ruwet (1975) può argomentare per pagine e pagine su casi incerti tra sineddoche e metafora, dando argomenti per decidere per
una o per l’altra. In molti altri casi, nella grande maggioranza, credo, di dubbi
non ce ne sono.
2. Tipi di figure
Le figure di pragmatica, assieme a quelle basate sulla logica, si situano al livello
di stile più alto. Sono le più complesse e riguardano porzioni di testo non inferiori alla frase (anzi, all’enunciato, come chiariremo subito), e possono estendersi
facilmente al di là di questa dimensione fino a comprendere larghe porzioni di
testo e addirittura testi interi. C’è poi il livello della semantica, che con le figure
precedenti costituiva le “figure di pensiero” della vecchia retorica. Quelle poi che
l’antica retorica chiamava le “figure di parola”, e che sono per noi le figure di
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Lorenzo Renzi
morfologia e di fonologia, possono riguardare anche sequenze più limitate, anche
inferiori al sintagma.
Le figure di stile sono delle possibilità della lingua, di ogni lingua, e come tali, ma solo in un secondo momento, possono essere usate in letteratura. Questo è
un punto teorico importante, che richiede naturalmente una verifica empirica
accurata. Ma i primi sondaggi sono stati assolutamente incoraggianti. Per illustrare una figura con esempi, bisogna prenderli prima dalla lingua comune, e solo dopo
anche dalla letteratura. Gli esempi tratti dalla lingua comune, per quanto spesso
banali, sono già delle figure, cioè dei procedimenti stilistici. Una metafora non
cessa di essere una metafora perché usata in un giorno di mercato (secondo la
famosa immagine di Du Marsais).1
3. Due figure di pragmatica: Ossimoro e Impossibile (Adynaton)
A modo di esempio passiamo in rassegna due figure di pragmatica: l’ossimoro e
l’impossibile. Per la loro appartenenza alla pragmatica ci ispiriamo alle prospettive
aperte da Paul Grice (1993) e seguite da molti studiosi di filosofia del linguaggio,
ma rimaste estranee, ci sembra, a chi si occupa di stilistica o di poetica. Grice ha
spiegato alcune figure “di pensiero” (come l’ironia, la metafora, la litote e
l’iperbole) come infrazioni apparenti alle “massime” che reggono la conversazione.
L’apparente mancanza di pertinenza di alcuni enunciati viene per così dire riparata
dalla sua interpretazione figurata. La collaborazione comunicativa viene ripristinata e le espressioni apparentemente non pertinenti riacquistano senso. Anche le figure che tratteremo noi nel paragrafo seguente appartengono alla stessa categoria.
3.1 Ossimoro
Nei manuali di retorica correnti (Lausberg 1969, par. 389.3; Mortara Garavelli
1997, 243-245; Reboul 1996, 136; ecc.) troviamo numerosi esempi di ossimoro.
È una figura “paradossale”, che offende cioè il senso comune. Esempi letterari
sono: obscure clarté, Racine; gaia crudeltà e serena disperazione, Saba; esempi
filosofici: coincidentia oppositorum, Cusano; concordia discors; ecc. Ma non
sarà vero dell’ossimoro quello che già du Marsais aveva detto della metafora,
che se ne fanno di più in un giorno di mercato che in cento sedute accademiche?
Nel livello di stile della lingua di ogni giorno, le figure sono presenti in folla nel
“folklore verbale”, come lo ha chiamato Paolo Valesio (1967).
Il folkore verbale è rappresentato dal fondo di frasi idiomatiche, o quasi idiomatiche, di una lingua, dai suoi clichés, dai detti proverbiali. Ma accanto a questo
patrimonio vecchio della lingua, ci sono anche le espressioni nuove, i tormentoni
1
Du Marsais, Tropes (1730), ricordato in Croce (91950, 486).
Ossimoro e Adynaton
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che ci deliziano e ci tormentano ogni giorno. Eccone uno tra tanti, ossimorico:
tutto e il contrario di tutto.
Ho raccolto qui di seguito qualche esempio per far vedere che noi viviamo
ogni giorno in compagnia di ossimori, anche se in genere non ce ne accorgiamo.
Come succede, sono troppo vicini a noi perché possiamo osservarli. Verba
volant. Ma basta un piccolo sforzo per farli venire fuori e inchiodarli come farfalle a una tavoletta di legno.
Vietato vietare, è in sé una frase contraddittoria, in quanto dice di non vietare
e contiene un divieto. È un ossimoro. Tuttavia viene intesa normalmente come se
significasse solo che è male introdurre divieti. La ripetizione delle due parole
dalla stessa radice (vietato e vietare: figura di “derivazione”) e il significato
letterale contraddittorio rendono questa espressione più penetrante e spiritosa,
utilizzabile come figura retorica vera e propria. È stato infatti uno slogan del ’68
italiano, dal senso libertario.
La stessa analisi vale per Mai dire mai, che è probabilmente la traduzione
dell’espressione idiomatica inglese never say never, il cui significato pragmatico
è ‘non mettere mai la parola fine, non arrenderti’. Alla lettera, è autocontradditorio
perché nel momento in cui qualcuno dice di non dire mai, lo dice.
Simile è anche l’espressione tutto e il contrario di tutto, scorretta logicamente
perché a qualcosa che è “tutto” non si può aggiungere niente, nemmeno il suo
contrario, che è già compreso in tutto. Significa in realtà ‘davvero tutto’, basandosi sull’assunto del linguaggio comune che tutto voglia dire in realtà molto,
nello stesso modo in cui mai può voler dire ‘raramente’ o sempre vale per ‘spesso’
(per es. quando si dice “il tram non passa mai” o “mi sbaglio sempre tra destra e
sinistra”). Contrariamente alle due espressioni precedenti, questa non è percepita
come spiritosa, ma è piuttosto enfatica, magniloquente. Spiritosa invece è il
francese on ne peut pas contenter tout le monde et son père, dal senso e la struttura
logica (cioè illogica) simile al precedente.
Come si vede, l’ossimoro appare tale alla luce dell’analisi logica del contenuto,
che risulta contradditorio, ma il senso scioglie poi la contraddizione, e rende la
frase, o il semplice sintagma, ossimorico, utilizzabile nel discorso.
Un sintagma, di gran voga oggi, delizia dei giornalisti, è silenzio assordante.
Anche in un tempo, in una società, in un momento in cui non si fa che parlare, ora,
secondo i commentatori politici, è D’Alema, ora Berlusconi, ora Bersani che ci
colpiscono per il loro “silenzio assordante”. L’ossimoro si scioglie facilmente così:
qualcuno tace su un argomento sul quale ci si aspetterebbe che parlasse, per cui il
suo silenzio colpisce di più (è più assordante) di qualunque cosa potrebbe dire.
L’espressione inglese Last (but) not least (nel “King Lear” di Shakespeare,
che lo riprendeva probabilmente, penso, dal folklore verbale inglese del suo
tempo) viene reso spesso in italiano con Ultimo ma non ultimo. L’originale inglese è
basato su un bisticcio o paranomasia (last / least), la traduzione italiana invece è
ossimorica. Ricordo anche il ted. einmal keinmal, espressione proverbiale.
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Alle volte l’ossimoro è spiegato: Non è bello ciò che è bello, è bello ciò che
piace. La prima frase è ossimorica (il bello non è bello), la seconda dà la chiave
che risolve l’ossimoro e restituisce il senso.
Infine, l’ossimoro, come le altre figure, può essere neutralizzato nell’uso, può
ridursi cioè a un’espressione linguistica priva di qualsiasi rilievo, inghiottita
dall’uso comune (“catacretizzata”, in termini tecnici). Un esempio è la risposta: –
Sì e no… La domanda potrebbe essere, per es.: – Sei stato contento?; risposta: – Sì e
no… Quello che segue scioglierà l’ossimoro: sì, perché… no, perché…
Applicando Grice, diremo che nell’ossimoro vengono presentate due espressioni linguistiche contrarie come se fossero compatibili. Con questo viene violata
la prima “massima conversazionale”, quella della “qualità”, perché si asserisce
che qualcosa è lo stesso del suo contrario. Ma l’interpretazione figurata provvede
a fare in modo che le due espressioni non vengano in conflitto. Questo avviene in
modi diversi nei diversi casi. Per es. in “obscure clarté”, “clarté” è intesa in senso
letterale, ma “obscure” vale per sinistro, spaventoso. In “sì “ e “no”, come abbiamo
già detto, l’affermazione e la negazione si riferiscono a due realtà diverse. E così
via caso per caso (o gruppo di casi per gruppo di casi).
3.2 Impossibile (Adynaton)
La figura dell’adynaton (in lat. e in it. impossibile)2 condivide con l’ossimoro
l’aspetto paradossale. Si tratta di una figura che presenta una situazione fattualmente impossibile, un rovesciamento dello stato delle cose nel mondo. La fantasia può galoppare, e ci sono esempi di adynata in tante lingue e in tante civiltà
diverse e lontane nello spazio e nel tempo. Sviluppano l’adynaton testi lunghi e
sviluppati sia popolari che colti. Ne hanno scritto sia un folklorista come Giuseppe Cocchiara (Il paese di Cuccagna), sia uno storico e teorico della letteratura
come Mihail Bachtin.
Ecco, tra i mille possibili, due esempi letterari di adynata. Il primo è latino,
anonimo, proveniente dai muri di Pompei distrutta dall’eruzione del 79 d.Cr.:
(1) Alligit hic auras, si quis obiurgat amantes,
et vetet assiduas currere aquas
“rimproverare gli amanti è come legare l’aria,/ e impedire che sempre corrano
le acque di fonte” (Pompei, CIL IV 1649; Canali / Cavallo 1998, 28-29)
Il secondo esempio è provenzale antico, e appartiene al grande trovatore Arnaut
Daniel:
2
Cf. Lausberg (1969, par. 189, 3 b); Mortara Garavelli (1997, 181); ecc.
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(2) Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura
E chatz la lebre ab lo bou
E nadi contra suberna
“Io sono Arnaut che stipa i suoi granai di vento,/ va a caccia della lepre con
un bue/ e nuota contro la marea che sale” (Bandini 2000, 46-47)
È possibile che anche questa figura, così paradossale, abbia la sua radice nella
lingua comune? Sì, e gli esempi non sono certo difficili da trovare. Molti hanno
perduto del tutto la loro carica paradossale, sono esempi catacretici, come i due
che seguono (Mortara Garavelli 1988, 181):
(3) Non lo dimenticherò, campassi mille anni
Non mi muovo di qui, neanche morto
O anche:
(4) Mi mangio la testa se l’hai indovinata
Ti sei per caso bevuto il cervello?
Ma ci sono anche esempi popolari lunghi e sviluppati, paragonabili a quelli colti?
Senz’altro ce ne sono. Eccone uno da una canzone popolare in dialetto veneto:
(5) se il mare l fusse de tocio (di sugo)/ e i monti de polenta/ o mama che tociade (cioè: si potrebbe far scarpetta!)/ polenta e bacalà
Forse popolare, forse di origine colta ma passata nel popolo, la filastrocca che
segue mi incantava da bambino. L’avevo letta in uno dei miei libri preferiti, I
passatempi del giovedì, della collana per bambini “La Scala d’Oro”, e ora si
trova facilmente in Internet (http://www.nenanet.it/favole/filastro/storiell.htm):
(6) Sapevo una canzone alla rovescia,
alla diritta non la so cantar:
mi levai una mattina era di sera
presi la falce e me ne andai a vangar.
D’in sull’uscio montai su una quercia
e giù ciliegie cominciai a mangiar;
venne fuori il padron di quelle mele
e mi disse: – lascia star le mie cipolle.
- Avessi tanti occhi e tanto fiato
quante delle tue noci t’ho mangiato.
Avessi tanto fiato e tanti occhi
quant’ho mangiato io dei tuoi finocchi.
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Gli adynata sono di due tipi. Il primo è quello in cui l’assurdità si scioglie. Alcuni esempi vogliono dire semplicemente ‘mai’, come l’esempio latino e i due
esempi dalla lingua di ogni giorno di Bice Mortara Garavelli. I due esempi aggiunti da noi presuppongono che una certa cosa non sia come dice il suo interlocutore, oppure non succederà, aggiungendo che se così non fosse allora potrebbe
succedere un’altra cosa ben più assurda. Il secondo tipo presenta delle realtà impossibili in modo fine a se stesso, e la impossibilità non si scioglie. Nell’esempio di
Arnaut Daniel si capisce che il trovatore si rappresenta nell’atto di fare cose
impossibili, ma nessun critico ha saputo dire il perché. Nella filastrocca c’è una
rappresentazione del mondo alla rovescia: ma perché lo sia, nessuno lo può dire.
Nella prima varietà dell’ossimoro, e in modo massimo nella seconda, è presente la componente ludica del parlare. Il ludismo verbale, una funzione del
linguaggio della cui importanza spesso ci si dimentica (ma che è già presente
nella prima fase del parlare del bambino), è presente in tutte le figure di stile (a
esclusione di quelle catacretiche). Spiega in particolare perché produciamo figure,
quando si potrebbe benissimo parlare senza farne nessun uso, cosa che succede
meno spesso di quanto si creda.
Bibliografia
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Croce, Benedetto (91950): Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale.
Bari: Laterza.
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Lausberg, Heinrich (1969): Elementi di retorica. Bologna: Il Mulino. [Ed. orig. tedesca 1949.]
Mortara Garavelli, Bice (1988/1997 [nuova ed. ampliata]): Manuale di retorica. Milano:
Bompiani.
Reboul, Olivier (1996): Introduzione alla retorica. Traduzione italiana a cura di Gabriella
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Ruwet, Nicolas (1975): “Synecdoques et métonymies.” In: Poétique 23, 371-388. [In it.:
Ruwet, Nicolas (1986): “Sineddochi e metonimie.” In: Ruwet, Nicolas: Linguistica e
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Valesio, Paolo (1967): Strutture dell’allitterazione. Grammatica, retorica e folklore verbale. Bologna: Zanichelli.