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Il labirinto delle piccole cose: Ablativo, di Enrico Testa
di Patricia Peterle
Ablativo non è solo il sesto caso della declinazione latina, è una delle ultime
raccolte uscite nel 2013, per la prestigiosa Collana di Poesia, edita da Einaudi, che già
aveva pubblicato Dickinson, Goethe, Sereni, Zanzotto. Il poeta Enrico Testa, nato a
Genova e professore di Storia della Lingua italiana all’Università di Genova, ha già
lasciato forti segni nel panorama della poesia italiana, sia con Le faticose attese
(1988), In controtempo (1994), La sostituzione (2001) e Pasqua di Neve (2008), sia
con gli scritti saggistici dedicati alla poesia italiana, tra cui vorrei ricordare Per
interposta persona. Lingua e poesia nel secondo novecento (1999).
Il termine ablativo deriva dal verbo latino “ablatus”, il cui significato può indicare
una separazione, oltre ad introdurre, come si sa, dei complementi. È, in effetti, proprio
questa polivalenza che attrae il poeta. Polivalenza che attraversa tutte le sessioni della
raccolta, i cui titoli sono già di per sé emblematici viaggi e naufragi e, perfino, la
stessa grammatica. Polivalenza presente anche nelle attività complementari quella del
poeta-critico e del critico-poeta, che non vanno e non possono essere dimenticate.
Una raccolta che può essere letta come dei “Quadretti di genere”, quinto verso
della seconda poesia di Ablativo, in cui le scene di una vita quotidiana, spesso poche
significative, una volta messe insieme con la tecnica del montaggio, possono
acquistare altre sembianze:
il cagnetto alla catena
il gatto che insegue la lucertola
le settembrine fiorite sulla ripa
il tramonto sulla vetreria…
Quadretti di genere.
Ma allora perché c’inteneriscono
sino alle lacrime?
Forse perché lí brilla
qualcosa di nostro e di perduto
volato via veloce tra le ombre?1
Quattro scene possibili da vedere in una semplice passeggiata, ma qui lo sguardo
non va solo verso il cane, il gatto, le settembrine, o il tramonto. In effetti,
quest’occhio, questa lente oculare, capta un dettaglio, un frammento: il cane preso alla
catena, il gatto che cerca di prendere la sua vittima, le settembrine fiorite sulla ripa –
segno di vitalità –, il tramonto che si riflette sui vetri. Non si sa come sia questo cane
e neppure il gatto, ma c’è in questi primi versi un movimento che è quello della vita,
fatta di piccole cose, di fatti appartenenti ad una quotidianità che offrono delle
aperture di senso per svelare l’esperienza umana. «Quadretti di genere» dice il poeta,
ma in fondo sono barlumi di vita, piccoli semi che ci liberano da un certo modo
convenzionale di pensare la vita. La domanda che chiude questa poesia è
sconcertante, in essa c’è una ripartizione indicata dal deittico «lí», cioè da un lato le
luci e dall’altro qualcosa che si è perduto («volato via») velocemente. Il mondo degli
animali e della natura conserva qualcosa che quello nostro, cioè degli umani, ha
lasciato scappare.
1
Enrico Testa, Ablativo. Einaudi, Torino 2013, p. 6.
1 Nella prima poesia della seconda parte, Tropico dello Scorpione (qui il dialogo con
la tradizione poetica ligure si fa più intenso), l’epilogo dell’estate è pensato dinnanzi
alla desolazione – i pomodori che marciscono, le piante ingiallite, i fagioli rinsecchiti,
le lattughe sminuzzate –, ma è proprio questo paesaggio – termine fondamentale per
questo volume – che permette («Eppure proprio qui siamo pronti») di scoprire «unici
e soli […]/ il verde delle montagne…»2. Lo sguardo acuto del poeta penetra in questi
paesaggi e vi trova importanti “occasioni”. Occasioni che non sono molto lontane da
quelle di un Montale e fanno sì che sia possibile vedere le cesure, le note stonate,
insomma, la disarmonia del mondo, ma anche le sue singolarità. Un semplice e banale
appuntamento dei compagni di scuola «al ristorante sulla piazzetta» che dovrebbe
essere un incontro tra persone che hanno condiviso una parte della loro vita, si
trasforma durante la serata in un’immensa frattura, in un passato che non è più
recuperabile, se non attraverso le rovine che si mostrano nel presente. L’incontro che
permane nel calendario come un appuntamento fisso non trova una corrispondenza:
«[…] ci annusiamo prima dei saluti/ come animali in campo aperto./ Siamo quello che
siamo. Non è più possibile cambiare»3. Infatti, la domanda che si riscontra nell’anima
è perché si continui a provare a incontrarci: tutti amici ed estranei allo stesso tempo. Il
sapore è comunque e può soltanto essere quello del dolceamaro, presente anche negli
altri versi succitati. Ma attenzione: non è solo dolce o solo amaro, è dolceamaro; un
sapore che ripercorre i versi di questa raccolta. Una sensazione che può far ricordare
l’aforisma 295 di La gaia scienza, in cui le abitudini brevi sono considerate
«l’inestimabile mezzo per imparare a conoscere molte cose e situazioni e per calare
giù fino in fondo alle loro dolcezze e amarezze; la mia natura è interamente
predisposta ad abitudini brevi anche nelle esigenze della sua salute corporale, e in
genere, per quanto almeno m’è dato di vedere, dal grado più basso fino a quello più
elevato»4.
In queste pagine c’è uno sconforto, un disagio, che inquieta, e il linguaggio si fa
fondamentale. Nella poesia dedicata a Edoardo Sanguineti, parallelamente al percorso
di questo rapporto dentro e fuori via Balbi, per riprendere la tensione poeta-critico,
critico-poeta, si legge il desiderio di affermare che «[…] i versi, se vuoti di ogni
albagia/ e ridotti quasi a patiti patemi del pathos,/ servono ancora./ A poco ma
servono/ anche se a chi e a cosa non so»5. Forse i versi servono, per riprendere le
parole di Alain Badiou per “indicare” i punti oscuri, gli enigmi, piantarli in modo
libero nel pensiero. Qui le risposte o le soluzioni interessano molto meno che le
problematiche che vengono a galla. Problematiche che se si vuole esistono fin dalla
Repubblica di Platone.
Nella lectio magistralis al Collége de France, nel 2006, intitolata non a caso La
littérature, pour quoi faire?, Antoine Compagnon si pone ancora una volta questo
interrogativo. I versi possono essere dei sintomi di qualcosa che non è ancora del tutto
chiaro (forse non deve esserlo mai) o sono ancora una specie di pharmakon
(rimedio/veleno). Dallo stesso ambiente del Collége de France, Roland Barthes dirà
che la letteratura non permette di camminare ma di respirare, che essa non è allineata
ad un impegno strumentale/funzionale. Quello che conta ormai è il gioco con la
lingua che la violenta e l’arricchisce. In effetti, i versi si mostrano come un accesso a
un’esperienza della sfera del sensibile, elementi che possono provocare una
2
Ivi, p. 23.
Ivi, p. 32-33.
4
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, nota introduttiva di Giorgio Colli e versione
di Federico Masini, Adelphi, Milano 1999, p. 212.
5
E. Testa, Ablativo, cit., p. 37.
3
2 sensazione di sconcerto, disagio, disorientamento. È per questo che «Fasciato nel
silenzio/ vedo e ascolto»6. Il gioco di ombre e luci, già annunciato nella domanda
finale, ma non conclusiva, «Forse perché lì brilla/ qualcosa di nostro e di perduto/
volato via veloce tra le ombre?»7, s’intensifica nella sessione Viaggio d’ombra.
Viaggio, altro termine fondamentale della raccolta di Enrico Testa. Viaggio in altri
paesi e continenti, ma anche uno spostamento allegorico nell’esistenza. Un oggetto
visto, un profumo odorato, un rumore sentito – anche se delicato – possono far
scattare la sensibilità di momenti epifanici. La parte Molo di Alcantara, riferimento
diretto e chiaro a Lisbona, ha delle poesie molto particolari, in certi momenti si ha
quasi l’impressione di essere davanti a dei versi narrativi, aforismi, se si vuole, come
quello che segue:
Può darsi sia il suono della neve che cade o lo schiantarsi di un tronco oppure il tonfo di un uccello
sul selciato. Vi sono infinite possibilità di scoprire cos’è. E spesso è soltanto lo sbriciolarsi dell’umana
malinconia nell’odore dei millenni che si respira all’improvviso.
Il suono silenzioso della neve che cade si avvicina alla madeleine proustiana.
L’espressione scelta, «lo sbriciolarsi>, dà esattamente l’idea della costante
frammentarietà e dei piccoli e minimi pezzi: le briciole. Movimenti che possono
portare da un posto all’altro come nella pagina che parte dal Molo di Alcantara e lo
unisce “all’altrove”. Una Lisbona, fors’anche pessoana, vista sempre con lo sguardo
che si muove tra “qua e là”, in aria umida dove le cose possono perfino scambiarsi di
posto: «Una prospettiva uguale rivolta a un luogo simile si ritrova adesso – distante
negli anni – in questo parco appena a ridosso del mare» 8 . Lisbona e Genova
s’incrociano nello sguardo e nel rimembrare del poeta, finché egli s’interroga su
«quale luogo spinga al riconoscimento dell’altro» ma la risposta precisa non si sa. O
meglio, viene data dalla poesia che dà il titolo a tutta la raccolta, Ablativo, che si
riferisce, anche questa volta, a un ricordo del passato. Cioè, la litania dei tempi del
ginnasio, delle lezioni di latino quando s’imparavano i casi e le declinazioni
(nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo e, infine, ablativo), quella
cantilena che ormai è famigliare e estranea allo stesso tempo.
L’ultimo verso della poesia è emblematico per capire i rapporti di tempi e spazi
diversi, il più delle volte anacronistici: «Ora vivo nell’ablativo». Assumere questa
“vivenza” significa assumere la polivalenza indicata all’inizio e, quindi, pensare
anche alla separazione, all’origine, alla causa, alla misura, al tempo, allo stato in
luogo (in luoghi), alla compagnia, al modo, al mezzo e così via. È soprattutto una
posizione che non è quella della prima linea del nominativo o del genitivo, ma che è
pur sempre fondamentale nella lingua e nella sua struttura, che permette al poeta di
addentrarsi, con una “breve escursione”, nel mondo sudamericano, oltreoceano.
Diamox il nome del diuretico, presente nella prima poesia di questa sessione, in
questo viaggio che “potenzializza” la creazione di luoghi ibridi, diventa Diomax. Il
cambiamento, o meglio, lo spostamento delle vocali segna questa caratteristica di
sospensione che porta alla mescolanza di culture e delle esperienze del vissuto.
Esperienze concrete e reali da vivere, che lasciano dei segni nella memoria, si
perdono e sono solo parzialmente recuperabili, attraverso impressioni e sentimenti.
L’incontro con il Fats Sleep, all’aeroporto internazionale di São Paulo, rimane unico
per quello che ha potuto provocare. Il microscopico ingresso non è proporzionale alla
6
Ivi, p. 39.
Ivi, p. 6.
8
Ivi, p. 62.
7
3 quantità di letti/cuccette distribuite nel labirinto di stanze e di letti a castello. Stanze
senza finestre che servono a quelli che vanno e vengono, che devono passare molte
ore in aeroporto, per riposare un po’. In questo caso c’è forse stato il riposo, ma anche
una specie di vertigine: dopo il volo da La Paz (via Asunción), il poeta si arrende alla
stanchezza, vince il senso di clausura e accetta quei «bianchi rettangoli stretti».
Riposo e rinascita per poi riprendere l’aereo per tornare a Roma, l’esperienza di
quella specie di “microsepoltura” è stata a sua misura.
La separazione presente nel significato di Ablativo va di pari passo, quindi, con i
suoi vari usi e polivalenze. Separazione e possibili altri significati per la terra lasciata
e rivista, per i testi letti e poi riletti, per i posti e le culture nuove conosciute in questi
viaggi potenzializzati dallo/nello spazio e dal/nel tempo. Il sentimento di confusione e
spaesamento rimane anche dopo il ritorno, «nell’eco di una lingua strana»:
Diamox/Diomax. A questo punto il poeta “si sveglia” nell’attraversare le strisce
mentre sente l’autista del 35 che lo maledice. Il 35 ha un percorso che passa in uno
dei posti più caratteristici di Genova, punto di incontro e ritrovo, che è la Piazza De
Ferrari – il rientro a casa.
Uno svegliarsi che poi si rifletterà anche su quello che si lascia, «a mio figlio mi
viene da dirgli»9. La litania presente nelle ripetizioni di latino ha qui un punto in
comune con il vuoto, «possibilità senza risposte,/ popolata però di storie e voci
[…]»10, alla fine una “preghiera”. Quello che resta al figlio è il mondo, la sua
scoperta, e al poeta questa porta semi-aperta verso l’infinito, il tutto e il nulla – «[…]
solo vacua materia/ e cenere…». La lingua strana – straniante – viene espressa e si
mescola con quella più intima negli ultimi versi di questa poesia. Quello che resta si
può spartire, «ognuno diversamente ma insieme», ma senza le maiuscole o le verità,
che di solito ci nascondono le strade. I versi, o se si vuole la letteratura, sono un
esercizio del pensiero e la lettura va intesa come una sperimentazione dei possibili.
Versi quasi sussurrati che si confessano sulla pagina macchiata dalla stampa: «Tu
scrivi solo perché desideri di non doverlo fare mai più», il lato dolceamaro della
poesia. Sono anche queste le voci di uno dei più grandi poeti della letteratura italiana
contemporanea.
9
Ivi, p. 115.
Ibidem.
10
4