Perchè la ricerca biomedica italiana non deve

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Perchè la ricerca biomedica italiana non deve
Perchè la ricerca biomedica italiana non deve morire
Oggi alle 16:30 è previsto il seguito della discussione e la votazione di
quattro mozioni sul tema ‘’ Promozione della cultura contro i
maltrattamenti degli animali’’. Tre di queste riguardano l’uso degli
animali a fini scientifici, primi firmatari rispettivamente la
Sen.Taverna (capogruppo al Senato del M5S), Amati (PD) e Fucksia
(M5S). Le mozioni sono evidentemente bipartisan, dato che, per
esempio, la mozione Amati porta anche la firma di De Petris (SEL) e
di Bonfrisco (senatrice di FI-PDL, già distintasi come sostenitrice del
metodo Stamina).
Le mozioni intendono impegnare il Governo a rendere ancor più
restrittivo il decreto legislativo del 4 marzo 2014 n. 26 di Attuazione
della direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a
fini scientifici, complicando ulteriormente l’approvazione delle
autorizzazioni a utilizzare gli animali da esperimento.
Segnaliamo infatti che in Italia la ricerca sull’animale è di fatto
bloccata da più di quattro mesi e che, a giudicare dal tenore delle
contestazioni sollevate su quelle poche richieste di autorizzazione
esaminate dal competente ministero, sorge il sospetto che si stia
cercando di ottenere per via burocratica ciò che il decreto 2014/n.26
non è riuscito a fare esplicitamente, cioè bloccare del tutto la
sperimentazione animale.
Bisogna infatti ricordare che già il decreto 2014/n. 26 aveva
introdotto il divieto all’uso degli animali per studi sulle sostanze
d’abuso e sugli xenotrapianti di organi e il divieto di allevamento di
animali da esperimento a scopo commerciale. Inoltre, lo stesso
decreto aveva introdotto pesanti limitazioni alla possibilità di
sviluppare e mantenere linee di animali transgenici. Questi divieti
sono una peculiarità della legge italiana, dato che non sono presenti
nella Direttiva UE e non sono adottati dagli altri paesi della UE, che, al
contrario dell’Italia, alla direttiva si sono strettamente attenuti.
Il risultato di questa disparità rispetto all’Europa creata dal decreto
2014/26 ha come conseguenza l’impossibilità dei ricercatori italiani a
partecipare a progetti di ricerca europei e all’utilizzazione di risorse
che l’Italia comunque versa all’UE come contributo nazionale ai
progetti di ricerca europei. Questi divieti, quindi, non solo
contravvengono al principio dell’uniformazione legislativa tra le
nazioni europee come base per la collaborazione internazionale, ma si
traducono in un danno economico, culturale e di immagine per il
nostro paese.
Ora questi nostri rappresentanti presso il Senato della Repubblica
intendono proseguire nell’opera iniziata con il decreto 2014/26.
Per capire di cosa si tratta basta leggere le finalità delle mozioni.
La mozione Taverna, per esempio, intende impegnare il Governo a
promuovere metodologie alternative alla sperimentazione animale con
la finalità di abbandonarne progressivamente l’uso fino alla completa
sostituzione dello studio in vivo con metodi in vitro o in silico. Secondo i
firmatari, infatti ‘’ la sperimentazione sugli animali veniva utilizzata in
passato, ma oggi esistono metodi più efficaci, come quelli che utilizzano
tessuti prodotti in vitro.’’
Ma la questione dei metodi alternativi può applicarsi solo ad un certo
tipo di ricerca biomedica. Il decreto 2014/26, pur nella sua restrittiva
attuazione della Direttiva UE, consente l’uso degli animali non solo per
la ricerca finalizzata al benessere dell’uomo e alla cura delle malattie
ma anche per la ricerca di base, quel tipo di ricerca che ha come fine
primario la conoscenza. Come il Sommo Poeta fa dire ad Ulisse, che
incita i suoi a superare le colonne d’Ercole, ‘’fatti non foste per viver
come bruti ma per seguir virtude e conoscenza’’. Perchè il bisogno di
conoscenza è una caratteristica dell’uomo che lo distingue dagli altri
esseri viventi ed è una pulsione che per l’uomo è altrettanto forte dello
stesso istinto di sopravvivenza. Forse questi nostri rappresentanti in
Parlamento non sanno che del corpo dell’uomo, in salute e ancor di più
in malattia, conosciamo solo una minima parte. In effetti, ciò che vale
per l’infinitamente piccolo, per cui la fisica rende conto di non più del
5% della materia, si applica anche alla biologia e alla medicina.
Prendiamo al cervello. Come possono pensare i nostri senatori di
riprodurre in vitro la complessità dei meccanismi cerebrali che
generano il comportamento ? Quanto alla possibilità di utilizzare
sistemi in silico, il limite è evidentemente dato proprio dalla mancanza
di conoscenza. E il fatto che i robot siano in grado di imitare alcuni
comportamenti semplici degli organismi viventi non significa che
questo corrisponda all’utilizzazione degli stessi algoritmi e processi
utilizzati dal cervello anche del più semplice dei mammiferi.
D’altra parte, il concetto di metodo alternativo, se è applicabile alle
procedure codificate dalle agenzie regolatorie per il rilascio delle
autorizzazioni all’introduzione in commercio di farmaci e presidi
terapeutici, non può applicarsi alla ricerca di base e neppure alla
ricerca di nuovi farmaci. In questo caso, il ricercatore dovrà essere
libero di applicare metodologie diverse e tra loro complementari
piuttosto che alternative , in base alle necessità della ricerca e non a
standard di natura regolatoria. A patto, naturalmente, che sia
rispettato il principio della utilizzazione di metodi che non
comportano una sofferenza dell’animale.
A questo proposito, giova ricordare che la sofferenza dell’animale da
esperimento e lo stress ad esso associato è indice di cattiva
metodologia sperimentale. Perciò, a meno che sia il dolore stesso e lo
stress l’oggetto dello studio, queste condizioni sono accuratamente
evitate per motivi, ancor prima che etici, strettamente scientifici, da
qualsiasi sperimentatore degno di questo nome.
Il fatto che nella ricerca sia necessario utilizzare una varietà di
metodologie tra loro complementari significa che il ricercatore potrà
avvalersi, oltre che di metodi in vivo, anche di metodi in vitro e in
silico. Tuttavia è bene ricordare che negli studi biomedici vale il
principio: in vitro hypotheses, in vivo veritas. I metodi in vitro
consentono di studiare in condizioni controllate un processo ma solo
l’esperimento in vivo potrà fornire la conferma che quel processo
avviene effettivamente nell’organismo in toto.
Quanti integratori alimentari fanno meraviglie in vitro. Si pensi al
resveratrolo, un agente pubblicizzato come la panacea contro
l’invecchiamento grazie alle sue proprietà antiossidanti e antiradicali.
Somministrato nell’animale da esperimento solo una quantità irrisoria
di questo composto raggiunge il sangue, dato che viene distrutto già
nell’intestino e infine nel fegato.
La proibizione all’uso degli animali nella ricerca biomedica italiana
significherebbe un danno mortale alla ricerca biomedica in generale.
Finiremmo per diventare dipendenti dall’estero per tutta la ricerca
preclinica
e ci rimarrebbe come unica possibilità quella di
sperimentare direttamente sull’uomo farmaci e ipotesi sviluppate
fuori dal nostro paese.
Altro che ‘’magnifiche sorti e progressive’’ della nostra ricerca
preclinica grazie all’abolizione per decreto o per semplice burocrazia,
della ricerca in vivo. Potremmo essere fieri di essere un paese che
tutela gli animali più dell’uomo, un paese buono per trials clinici
controllati, come dire, un buon allevamento di cavie umane.
Gaetano Di Chiara, 05 maggio 2015