3 marzo 2016

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3 marzo 2016
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Storia di una fedeltà fallita
Giovedì, 3 marzo 2016
(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.052, 04/03/2016)
Riconoscersi peccatori ed essere capaci di chiedere perdono è il primo passo per rispondere con
chiarezza, senza intavolare negoziati, alla domanda diretta che Gesù rivolge a ciascuno di noi: «sei
con me o contro di me?». L’invito ad aprirsi incondizionatamente alla misericordia di Dio è stato
rilanciato dal Papa durante la messa celebrata giovedì mattina, 3 marzo, nella cappella della Casa
Santa Marta.
All’inizio della prima lettura, ha fatto notare subito Francesco, il profeta Geremia (7, 23-28) «ci
ricorda il patto di Dio col suo popolo: “Ascoltate la mia voce e io sarò il vostro Dio e voi sarete il
mio popolo; camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”». È «un patto di
fedeltà». E «ambedue le letture — ha proseguito — ci raccontano un’altra storia: questo patto è
caduto e oggi la Chiesa ci fa riflettere sulla, possiamo chiamarla così, storia di una fedeltà fallita».
In realtà «Dio rimane sempre fedele, perché non può rinnegare se stesso» invece il popolo inanella
infedeltà «una dietro l’altra: è infedele, è rimasto infedele!».
Nel libro di Geremia si legge che il popolo non tenne fede al patto: «Ma essi non ascoltarono, né
prestarono orecchio alla mia Parola». La Scrittura, ha spiegato Francesco, «ci racconta anche tante
cose che ha fatto Dio per attirare i cuori del popolo, dei suoi: “Da quando i vostri padri sono usciti
dall’Egitto fino a oggi, io vi ho inviato con assidua premura tutti i miei servi e profeti. Ma non mi
hanno ascoltato né prestato orecchio. Anzi hanno reso dura la loro cervice, divenendo peggiori dei
loro padri”». E questo passo di Geremia finisce con un’espressione forte: «La fedeltà è sparita! È
stata bandita dalla loro bocca».
L’«infedeltà del popolo di Dio», come la nostra infedeltà, «indurisce il cuore: chiude il cuore!»; e
«non lascia entrare la voce del Signore che, come padre amorevole, ci chiede sempre di aprirci alla
sua misericordia e al suo amore». Nel salmo 94 «abbiamo pregato tutti insieme: ascoltate oggi la
voce del Signore; non indurite il vostro cuore!». Davvero, ha affermato il Pontefice, «il Signore
sempre ci parla così» e «anche con tenerezza di padre ci dice: ritornate a me con tutto il cuore,
perché sono misericordioso e pietoso».
Però «quando il cuore è duro questo non si capisce» ha spiegato Francesco. Infatti «la misericordia
di Dio si capisce soltanto se tu sei capace di aprire il tuo cuore, perché possa entrare». E «questo
va avanti, va avanti: il cuore si indurisce e vediamo la stessa storia» nel passo del Vangelo di Luca
(11, 14-23) proposto oggi dalla liturgia. «C’era quella gente che aveva studiato le Scritture, i
dottori della legge che sapevano la teologia, ma erano tanto tanto chiusi. La folla era stupita: lo
stupore! Perché la folla seguiva Gesù. Qualcuno dirà: “Ma lo seguiva per essere guarito, lo seguiva
per questo”».
La realtà, ha fatto presente Francesco, era che la gente «aveva fede in Gesù! Aveva il cuore aperto:
imperfetto, peccatore, ma il cuore aperto». Invece «questi teologi avevano un atteggiamento
chiuso». E «cercavano sempre una spiegazione per non capire il messaggio di Gesù». Tanto che in
questo caso specifico, come racconta Luca, dicono: «Ma no, questo caccia i demoni in nome del
capo dei demoni». E così cercavano sempre altri pretesti, continua il brano evangelico, «per
metterlo alla prova: gli domandavano un segno del cielo». Il problema di fondo, ha rimarcato il
Papa, era il loro essere «sempre chiusi». E così «era Gesù che doveva giustificare quello che
faceva».
«Questa è la storia, la storia di questa fedeltà fallita — ha detto Francesco — la storia dei cuori
chiusi, dei cuori che non lasciano entrare la misericordia di Dio, che hanno dimenticato la parola
“perdono” — “Perdonami Signore!” — semplicemente perché non si sentono peccatori: si sentono
giudici degli altri». Ed è «una lunga storia di secoli».
Proprio «questa fedeltà fallita Gesù la spiega con due parole chiare per finire questo discorso di
questi ipocriti: “Chi non è con me è contro di me”». Il linguaggio di Gesù, ha rilanciato il Papa, è
«chiaro: o sei fedele, con il tuo cuore aperto, al Dio che è fedele con te o sei contro di Lui: “Chi non
è con me è contro di me!”». Qualcuno potrebbe pensare che, forse, c’è «una via di mezzo per fare
un negoziato», sfuggendo alla chiarezza della parola di Gesù «o sei fedele o sei contro». E in
effetti, ha risposto Francesco, «un’uscita c’è: confessati, peccatore!». Perché «se tu dici “io sono
peccatore” il cuore si apre ed entra la misericordia di Dio e incominci ad essere fedele».
Prima di proseguire la celebrazione, il Pontefice ha invitato a chiedere «al Signore la grazia della
fedeltà». Con la consapevolezza che «il primo passo per andare su questa strada della fedeltà è
sentirsi peccatore». Difatti «se tu non ti senti peccatore, hai incominciato male». Dunque, ha
concluso Francesco, «chiediamo la grazia che il nostro cuore non si indurisca, che sia aperto alla
misericordia di Dio, e la grazia della fedeltà». E anche «quando ci troviamo noi» a essere «infedeli,
la grazia di chiedere perdono».
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
L'equazione del perdono
Martedì, 1° marzo 2016
(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.050, 02/03/2016)
È la misericordia l’«asse» della liturgia di martedì 1° marzo. È la «parola più ripetuta» e su questa si
è soffermata la riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta.
In tutta la liturgia della parola risuona questo concetto. Nel salmo responsoriale si ripete:
«Ricordati, Signore, della tua misericordia». Ed è, ha spiegato il Pontefice, come «dire: “Ma,
ricordati del tuo nome, Signore: il tuo nome è misericordia!”».
Anche nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Daniele (3, 25.34-43), la richiesta di
misericordia è al centro del racconto. Si legge infatti della «preghiera di Azaria, uno di quei ragazzi
che erano nel forno perché non volevano adorare l’idolo d’oro»: questi «chiede misericordia, per
lui e per il popolo; chiede a Dio il perdono». Non «un perdono superficiale», non un semplice
togliere una macchia «come fa quello della tintoria quando portiamo un vestito». La richiesta, ha
sottolineato Papa Francesco, è di un «perdono del cuore» che, quando viene da Dio, «sempre è
misericordia».
Azaria «chiede umilmente: “Per amore del tuo nome, ricordati di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe”». Il ragazzo, cioè, «fa memoria, a Dio, di tutte le sue promesse», ma riconosce il
bisogno di perdono: «siamo diventati più piccoli, ora non abbiamo niente, né principe né profeta
né olocausto a causa dei nostri peccati».
Entra qui, ha detto Francesco, la seconda parola chiave della meditazione odierna: «perdono». La
dinamica è la seguente: «mi rivolgo a Dio ricordandogli la sua misericordia e gli chiedo perdono»,
ma «il perdono come lo dà Dio».
Qui il Pontefice ha approfondito una caratteristica di questo perdono di Dio, la cui perfezione è
tanto incomprensibile a noi uomini da arrivare al punto che egli si “dimentica” dei nostri peccati.
«Quando Dio perdona — ha detto il Papa — il suo perdono è così grande che è come se
“dimenticasse”». Così «una volta che siamo in pace con Dio per la sua misericordia» se
chiedessimo al Signore: «Ma, ti ricordi quella brutta cosa che ho fatto?», la risposta potrebbe
essere: «Quale? Non ricordo...».
È, ha spiegato Francesco, «tutto il contrario di quello che facciamo noi» e che emerge spesso dalle
nostre «chiacchiere: “Ma questo ha fatto quello, ha fatto quello, ha fatto quello...”». Noi «non
dimentichiamo» e di tante persone conserviamo «la storia antica, media, medievale e moderna».
E la ragione si ritrova nel fatto «che non abbiamo il cuore misericordioso».
Rivolto al Signore, invece, Azaria può fare «un appello» alla sua misericordia «perché ci dia il
perdono e la salvezza e dimentichi i nostri peccati». Perciò chiede: «Fa’ con noi secondo la tua
clemenza»: e ancora: «Secondo la tua grande misericordia, salvaci!». È la stessa preghiera che
ritorna nel salmo responsoriale: «Ricordati, Signore, della tua misericordia».
Anche nel passo liturgico del Vangelo di Matteo (18, 21-25) si affronta lo stesso argomento. Qui il
protagonista è Pietro, il quale «aveva sentito tante volte parlare il Signore del perdono, della
misericordia». L’apostolo, evidentemente, nella sua semplicità — «non aveva fatto tanti studi, non
era un laureato: era un pescatore» — non aveva compreso in pieno il significato di quelle parole.
Perciò «si avvicinò a Gesù e gli disse: “Ma, dimmi, Signore, se il mio fratello commette colpe
contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Ti sembra, fino a sette volte?”». Sette volte: forse
gli sembrava di essere stato addirittura «generoso». Ma «Gesù lo ferma e dice: “Non ti dico fino a
sette volte, ma fino a settanta volte sette”».
Per spiegarsi meglio, Gesù racconta la parabola del re «che vuole regolare i conti con i suoi servi».
A costui, si legge nella Scrittura, venne presentato «uno che gli doveva diecimila talenti», una
quantità enorme per la quale, «secondo la legge di quei tempi», sarebbe stato costretto a vendersi
«tutto, anche la moglie, i figli e i campi». A questo punto, ha detto il Papa riprendendo il racconto
evangelico, il debitore «incominciò a piangere, a chiedere misericordia, perdono», finché «il
padrone ebbe “compassione”».
«Compassione», ha spiegato il Pontefice, è un’altra parola che si accosta facilmente al concetto di
misericordia. Quando nei Vangeli si parla di Gesù e quando si descrive il suo incontro con un
malato, si legge infatti che egli «ebbe “compassione” di lui».
La parabola quindi continua con il padrone che «lasciò andare» il servo «e condonò il debito». Si
trattava di «un debito grosso». Invece il servo, incontrato «il compagno che aveva con lui un
debito di spiccioli, voleva mandarlo in carcere». Quell’uomo, ha spiegato il Papa, «non aveva
capito quello che il suo re aveva fatto con lui» e così si «comportò egoisticamente». A conclusione
del racconto il re richiama il servo a cui aveva condonato il debito e lo incarcera perché non era
stato «generoso». Cioè, non aveva fatto «al suo compagno quello che Dio aveva fatto con lui».
Per trarre un insegnamento valido per tutti, Francesco ha richiamato la frase del Padre nostro
nella quale si dice: «Perdona i nostri debiti come noi perdoniamo ai nostri debitori». E ha
affermato che si tratta di «un’equazione», ovvero: «Se tu non sei capace di perdonare, come potrà
Dio perdonarti?». Il Signore, ha aggiunto il Papa, «ti vuole perdonare, ma non potrà se tu hai il
cuore chiuso, e la misericordia non può entrare». Qualcuno potrebbe obiettare: «Padre, io
perdono, ma non posso dimenticare quella brutta cosa che mi ha fatto...». La risposta è: «Chiedi al
Signore che ti aiuti a dimenticare». In ogni caso, ha aggiunto il Pontefice, se è vero che «si può
perdonare, ma dimenticare non sempre ci si riesce», sicuramente non si può accettare
l’atteggiamento del «“perdonare” e “me la pagherai”». Bisogna invece «perdonare come perdona
Dio», il quale «perdona al massimo».
Concludendo la sua meditazione il Papa si è soffermato sulle nostre difficoltà quotidiane: «Non è
facile, perdonare; non è facile» ha riconosciuto, ricordando come in tante famiglie ci siano «fratelli
che litigano per l’eredità dei genitori e non si salutano mai nella vita; tante coppie che litigano e
cresce, cresce l’odio e quella famiglia finisce distrutta». Queste persone «non sono capaci di
perdonare. E questo è il male».
La quaresima allora, ha auspicato Francesco, «ci prepari il cuore per ricevere il perdono di Dio. Ma
riceverlo e poi fare lo stesso con gli altri: perdonare di cuore». Avere, cioè, un atteggiamento che
ci porti a dire «Forse non mi saluti mai, ma nel mio cuore io ti ho perdonato».
È questa la maniera migliore, ha concluso, per avvicinarci «a questa cosa tanto grande, di Dio, che
è la misericordia». Infatti «perdonando apriamo il nostro cuore perché la misericordia di Dio entri
e ci perdoni, a noi». E tutti noi abbiamo motivi per chiedere il perdono di Dio: «Perdoniamo e
saremo perdonati».
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
La salvezza viene dal piccolo
Lunedì, 29 febbraio 2016
(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.049, 01/03/2016)
La salvezza di Dio non viene dalle cose grandi, dal potere o dai soldi, dalle cordate clericali o
politiche, ma dalle cose piccole e semplici che, alle volte, suscitano persino sdegno. È la
meditazione proposta da Francesco durante la messa celebrata lunedì mattina, 29 febbraio, nella
cappella della Casa Santa Marta.
«La Chiesa ci prepara alla Pasqua e oggi ci fa riflettere sulla salvezza: come noi pensiamo che sia la
salvezza, quella salvezza che tutti noi vogliamo» ha affermato Francesco. E proprio la storia «della
malattia di Naamàn», narrata dal secondo libro dei Re (5, 1-15), «ci avvicina al fatto della morte: e
dopo?». Infatti «quando c’è la malattia, sempre ci rimanda a quel pensiero: la salvezza». Ma, si è
chiesto il Pontefice, «come viene questa salvezza? Qual è la strada per la salvezza? Qual è la
rivelazione di Dio a noi cristiani sulla salvezza?».
Per il Papa «la parola chiave per capire il messaggio di oggi della Chiesa è sdegno». Quando
«Naamàn, arrivato da Eliseo, chiede la guarigione, Eliseo manda il ragazzo a dirgli di bagnarsi sette
volte nel Giordano. Una cosa semplice». Forse proprio per questo «Naamàn si sdegnò»
esclamando: «Ho fatto un viaggio così, con tanti doni...»: tutto invece si risolve con un semplice
bagno nel fiume. Oltretutto, rincara Naamàn, «noi abbiamo fiumi più belli di questo».
Anche «gli abitanti di Nazareth — ha fatto notare Francesco riferendosi al passo evangelico di Luca
(4, 24-30) — si sdegnarono dopo aver sentito la lettura del profeta Isaia, che ha fatto Gesù quel
sabato in sinagoga dicendo “oggi è successo questo”, che parla della liberazione, di come il popolo
sarà liberato». E commentavano: «Ma questo cosa si crede? Questo è uno di noi, l’abbiamo visto
crescere da ragazzo, mai ha studiato». E «si sdegnarono» tanto che «volevano ucciderlo».
Ancora, la proseguito il Papa, «più avanti Gesù ha sentito questo disprezzo da parte dei dirigenti, i
dottori della legge che cercavano la salvezza nella casistica della morale — “questo si può fino a
qui, fino a là...” — e così avevano non so quanti comandamenti e il povero popolo...». Proprio per
questo la gente non aveva fiducia in loro. Lo stesso capitava con «i sadducei, che cercavano la
salvezza nei compromessi con i poteri del mondo, con l’impero: gli uni con le cordate clericali, gli
altri con le cordate politiche cercavano la salvezza così». Ma «il popolo aveva fiuto e non credeva»
in loro. Invece «credeva a Gesù perché parlava con autorità».
«Ma perché questo sdegno?» è la questione posta dal Pontefice. «Perché — ha sottolineato — nel
nostro immaginario la salvezza deve venire da qualcosa di grande, da qualcosa di maestoso: ci
salvano solo i potenti, quelli che hanno forza, che hanno soldi, che hanno potere, questi possono
salvarci». Invece «il piano di Dio è un altro». E così «si sdegnano perché non possono capire che la
salvezza viene soltanto dal piccolo, dalla semplicità delle cose di Dio». E «quando Gesù fa la
proposta della via di salvezza, mai parla di cose grandi», solo «di cose piccole».
In questa prospettiva Francesco ha suggerito di rileggere le beatitudini evangeliche — «Tu sarai
salvo se farai questo» — e il capitolo 25 di Matteo. Sono «i due pilastri del Vangelo: “Vieni, vieni
con me perché hai fatto questo”». E si tratta di «cose semplici: tu non hai cercato la salvezza o la
tua speranza nel potere, nelle cordate, nei negoziati, no; hai fatto semplicemente questo». Ma
proprio «questo sdegna tanti».
«Come preparazione alla Pasqua — ha proposto il Papa — io vi invito, anche io lo farò, a leggere le
beatitudini e a leggere Matteo 25, e pensare e vedere se qualcosa di questo mi sdegna, mi toglie la
pace». Perché «lo sdegno è un lusso che possono permettersi soltanto i vanitosi, gli orgogliosi».
Proprio «alla fine delle beatitudini — ha spiegato Francesco — Gesù dice una parola» forte:
«Beato colui che non si scandalizza di me», cioè «che non ha sdegno di questo, che non sente
sdegno». E riflettendo sulle ragioni di queste parole, il Papa ha ripetuto che «ci farà bene prendere
un po’ di tempo — oggi, domani — e leggere le beatitudini, leggere Matteo e stare attenti a cosa
succede nel nostro cuore: se c’è qualcosa di sdegno». E «chiedere la grazia al Signore di capire che
l’unica via della salvezza è la pazzia della croce, cioè l’annientamento del Figlio di Dio, del farsi
piccolo». Nella liturgia di oggi, ha concluso, «il piccolo» è appunto «rappresentato dal bagno nel
Giordano e dal piccolo villaggio di Nazareth».