La professione accademica. Reclutamento, carriera e retribuzione in
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La professione accademica. Reclutamento, carriera e retribuzione in
La professione accademica. Reclutamento, carriera e retribuzione in una università autonoma e responsabile di Giliberto CAPANO pubblicato su G. Tognon (a cura di), Una dote per il merito, Bologna, Il Mulino-Arel, 2006, pp. 89-115 Il personale accademico costituisce la risorsa più importante dell’istruzione universitaria. Più di qualsiasi altra cosa, sono la qualità e il numero dei docenti e dei ricercatori a condizionare la capacità di una università di formare i propri studenti e di creare e disseminare nuova conoscenza (Kogan, Moses e El-Khawas 1994, p.9) 1. Introduzione La questione del personale rappresenta un vero e proprio terreno “minato” in ogni settore della pubblica amministrazione. Cambiare le caratteristiche del reclutamento, della carriera e della struttura salariale dei dipendenti pubblici costituisce un ostacolo quasi intrattabile per ogni riformatore: il personale è fatto di carne ed ossa, di uomini e donne portatrici di interessi, di aspettative sedimentate, di idee, di voti. Eppure nessuna riforma degli apparati pubblici può avere effetti concreti e duraturi senza modificare le caratteristiche essenziali connesse alla “gestione delle risorse umane”. Si possono ridisegnare gli assetti istituzionali ed organizzativi, le procedure, le regole generali delle azioni pubbliche quanto si vuole, ma se queste strategie non sono accompagnate da una significativa ed “effettiva” trasformazione degli elementi essenziali del lavoro dei dipendenti (il reclutamento, la carriera, la formazione, la retribuzione, ecc.), le riforme perdono slancio e piano piano si spengono perché deboli, troppo deboli, sono le gambe sulle quali esse camminano. Se tutto ciò è vero per qualsiasi comparto della pubblica amministrazione, esso lo è ancor di più per quel mondo particolare e veramente sui generis quale è quello universitario. C’è poco da fare, a parità delle altre condizioni (finanziarie, organizzative e ambientali), sono la qualità e la capacità dei docenti a determinare la qualità della prestazione delle istituzioni universitarie. Non a caso Karl Jaspers sosteneva che “il carattere di una data università è determinato dai professori ad essa assegnati” (1960, p.112). Ma, se certamente il disegno istituzionale delle caratteristiche del reclutamento e dell’accesso alla professione accademica sono un elemento decisivo per la qualità dell’istruzione superiore e della ricerca avanzata di un dato paese, al tempo stesso, non 1 si può dare per scontato che vi siano delle caratteristiche immutabili nella professione accademica. La società cambia, e con essa si trasformano le richieste che essa avanza al mondo universitario. Tutto ciò ha degli effetti strutturali sulla professione accademica che è chiamata, anzi costretta, ad adattarsi alle nuove esigenze se vuole mantenere una sua propria utilità sociale e, quindi, consentire ai suoi valori storicamente sedimentai di persistere, seppur in un altro contesto e con una diversa modulazione pratica. E’ per questo che la mia esposizione, prima di arrivare a proporre alcuni elementi essenziali di una possibile strategia di riforma della carriera accademica, disegnerà il quadro sistemico all’interno del quale deve essere inserita qualsiasi proposta di trasformazione dei processi di reclutamento e carriera dei docenti universitari. Dapprima, quindi, presenterò il quadro generale, in una prospettiva comparata, di come la professione accademica sta cambiando; successivamente, dopo aver osservato la statica inerzialità del dibattito sulla questione nel nostro paese, approfondirò il legame, necessario visto il contesto italiano, tra il ridisegno degli assetti di governo delle istituzioni universitarie e la riforma della docenza; infine, verrà delineato uno schema per un nuovo sistema di carriera dei docenti universitari. Un’esposizione forse laboriosa ma assolutamente necessaria, poiché il docente universitario non lavora in un vacuum e, pertanto, anche la riforma della carriera accademica deve essere inserita in un contesto reale e pratico e non, come troppo spesso accade, nell’alveo di un dibattito astratto e normativo che cela ignoranza dei fatti e visioni auto-interessate. 2. Uno sguardo generale e comparato a una professione che sta cambiando La professione accademica ha cominciato ad essere sottoposta, nel corso degli ultimi decenni, a pressioni sistemiche decisive che ne hanno imposto e ne stanno imponendo, in tutto il mondo occidentale ma non solo, seppur con una tempistica diversa da paese a paese, una importante revisione dei tratti costitutivi. Si tratta di un processo di cambiamento che, coinvolgendo direttamente le università, sta producendo i suoi effetti anche sulle corporazioni accademiche. La massificazione, dovuta e necessaria, dell’accesso all’istruzione superiore ha implicato un aumento dei carichi didattici e al tempo stesso ha trasformato la funzione formativa dell’università e le richieste che ad essa provengono dalla società Se, infatti, la funzione formativa dell’università “per pochi” era quella di preparare le elités, l’università di massa è chiamata ad aumentare la qualità del capitale umano complessivo e la società si aspetta che essi prepari non solo le classi dirigenti del futuro ma anche personale qualificato per i ranghi intermedi delle imprese e delle organizzazioni pubbliche. La società e il sistema economico si aspettano che l’università accompagni per tutta la vita le esigenze di formazione dei singoli individui, articolando stabili filiere di educazione permanente. Alla trasformazione delle richieste sociali ha corrisposto, in un periodo di strutturale crisi finanziaria degli Stati, una progressiva trasformazione del modo di governare e fare le politiche universitarie. I governi, che nella gran parte dei paesi sono i principali finanziatori delle istituzioni universitarie, hanno trasformato il loro rapporto con le università, modulando meccanismi di governance sistemica basati sulla responsabilizzazione e sull’autonomia delle istituzioni universitarie (Amaral, Jones e Karseth 2002). Questa politica autonomistica, iniziata anche in Italia, seppur in ritardo rispetto ad altri paesi, nel corso degli anni Novanta (Capano 1998), ha comportato la 2 rimodulazione radicale del contenuto delle politiche universitarie nazionali e delle singole università. Valutazione, accountability, accreditamento, qualità, efficienza sono le parole d’ordine del nuovo modo di fare l’istruzione superiore. Tutto questo ha cambiato il contesto in cui si muovono le università e, conseguentemente, ha sollecitato la ridefinizione delle caratteristiche costitutive della professione accademica. Le università sono chiamate ad offrire una variegata gamma di percorsi didattici (metodologici, professionalizzanti, di educazione permanente); devono formare le élites; devo creare conoscenze di base ma devono anche interagire con il sistema economico per produrre ricerca applicata. Insomma, le università sono chiamate a svolgere diverse funzioni socialmente rilevanti, dovendo dar conto alla società della qualità delle loro performance (Tierney 1998). Questa tendenza strutturale ha messo in discussione la concezione humboldtiana sulla quale si è basata l’autopercezione del ruolo degli accademici negli ultimi due secoli: il fatto, cioè, che il professore universitario debba, al tempo stesso, fare ricerca avanzata ed insegnare, trasferendo le conoscenze acquisite attraverso la sua ricerca, agli studenti. Questo valore fondante, al quale sono state socializzate generazioni di accademici, è stato progressivamente messo in crisi da diversi punti di vista: a. la massificazione degli accessi al sistema universitario e la diversificazione della domanda sociale di conoscenze ha modificato le caratteristiche della didattica, di ciò che può e deve essere insegnato. Se, infatti, in un sistema elitario i docenti possono insegnare la loro disciplina a livello avanzato, in un sistema di massa, con una articolata struttura degli ordinamenti didattici (ad esempio, nel caso italiano, i corsi di laurea e di laurea magistrale, i dottorati, i master, le scuole di specializzazione, i corsi di alta formazione), i docenti sono chiamati ad insegnare modulando la complessità delle conoscenze impartite a seconda del tipo di target studentesco che hanno davanti; b. la pressione ambientale sull’università e sull’efficacia e l’efficienza formativa dei corsi di studio universitari, rappresenta un vincolo forte alla concezione individualista dell’attività didattica degli accademici. Le istituzioni universitarie hanno bisogno di certificare rispetto all’esterno che cosa viene insegnato nei propri corsi di studio e ciò implica un’invasione dell’autonomia dei singoli docenti. I docenti non possono più insegnare quello che ritengono più opportuno ma debbono concordare collegialmente il contenuto dei propri corsi; c. i finanziamenti pubblici per la ricerca di base sono diminuiti, seppur con percentuali diverse, in tutti i paesi. Ciò rappresenta una pressione strutturale sugli accademici affinché si prodighino per acquisire finanziamenti all’esterno, presso sponsor privati i quali, però, richiedono un tipo di ricerca maggiormente orientato all’applicazione tecnologica; in molti paesi sia i governi sia le istituzioni universitarie incentivano i docenti a cercare finanziamenti “extra-statali” alla ricerca. Queste dinamiche, pertanto, hanno rappresentato una profonda, radicale ed ineludibile sfida alla concezione humboldtiana di professione accademica. In molti paesi, ad esempio, si è reagito all’aumentata richiesta di un’articolata offerta didattica in assenza di maggiori finanziamenti pubblici per accrescere il numero dei docenti di 3 ruolo - creando delle posizioni a tempo determinato finalizzate unicamente all’attività didattica. Un’altra strategia è stata quella di suddividere i carichi didattici in modo ineguale tra i diversi livelli del professorato di ruolo - con i professori ordinari alleggeriti di didattica affinché possano svolgere in modo più consistente attività di ricerca e di fund-raising per la ricerca - (Altbach 1997; Farnham 1999; Enders 2001; Enders e de Weert 2004). Al tempo stesso, giova osservare come, in molti paesi, le istituzioni universitarie acquisiscano importanti commesse di ricerca dall’esterno (da imprese private, da Fondazioni, dall’UE) con le quali vengono finanziate posizioni temporanee per giovani ricercatori. Insomma, nella realtà, lo stretto rapporto tra insegnamento e ricerca come nocciolo duro dell’identità della professione accademica si è allentato dando origine a situazioni estremamente diversificate da paese a paese e da università a università (ed anche dentro le singole università). Ciò ha comportato una certa proliferazione di posizioni temporanee per svolgere attività di docenza e/o di ricerca. Quando in Italia si sottolinea, negativamente, il cosiddetto “precariato”, facendo riferimento alle varie figure che dentro le università svolgono attività di ricerca e di attività didattica (in teoria integrativa ma spesso fondamentale), come i borsisti post-dottorato, gli assegnisti di ricerca, i docenti a contratto - in realtà non ci si rende conto che queste figure, con denominazioni diverse, esistono in tutti gli altri paesi (Huisman e Bartelse 2001). Quello che di diverso si riscontra, però, nel caso italiano, sono le condizioni contrattuali e i dati di contesto (condizioni lavorative ambigue, retribuzioni più basse e carenti prospettive per un impiego consono, nell’università o nel mondo del lavoro esterno, ma su questo torneremo successivamente). Inoltre, se si volge lo sguardo alle altre attività che fanno parte della professione accademica, non possiamo constatare che le premesse per la diversificazione e la differenziazione, e quindi dell’allontanamento dalla concezione tradizionale del ruolo, aumentano ulteriormente (Trowler 1998). In primo luogo merita ricordare le attività professionali. Ci sono professori universitari che sono anche professionisti e svolgono attività permanenti e retribuite all’esterno: pensiamo agli ingegneri, agli architetti, agli psicologi, agli avvocati (e ai medici, ovviamente). In molti paesi non è consentito svolgere un una professione e al tempo stesso essere di ruolo nell’università ovvero ciò è consentito sulla base di precise regole poste dalle istituzioni. In secondo luogo, vi sono le attività di consulenza esterna che molti professori universitari svolgono con diversa intensità e remunerazione a seconda delle capacità individuali e del tipo di disciplina: pensiamo, ad esempio ai docenti che fanno gli editorialisti, i consulenti per le imprese e le pubbliche amministrazioni, ecc.. In terzo luogo, vi sono le attività amministrative ed istituzionali. Le prime riguardano tutte quelle attività che sono legate ai processi formativi (la selezione degli studenti nei casi dei corsi a numero programmato, la partecipazione ai vari consigli e comitati,ecc.). Le seconde concernono gli incarichi istituzionali e coinvolgono un numero ristretto di docenti (rettori, presidi, direttori di dipartimento, presidenti di corsi di studio, ecc.): si tratta di attività che con le nuove politiche autonomistiche e di responsabilizzazione delle istituzioni universitarie (e, quindi, a cascata delle unità organizzative delle singole università) hanno acquisito maggiore complessità soprattutto nei paesi dell’Europa continentale dove, in passato, le politiche centralistiche rendevano quasi simboliche queste cariche. Quella dell’amministratore istituzionale è diventata una specie di nuova “professione quasiaccademica” (Kogan, Moses e El-Khawas 1994). Infine, un’altra attività, quasi un’esigenza funzionale, che viene richiesta ad almeno una parte dei professori universitari è quella di essere leaders istituzionali ed 4 imprenditori di policy. Ogni università, facoltà, dipartimento ha bisogno di individui capaci di costruire relazioni istituzionalizzate con il mondo esterno, ovvero di docenti capaci di assicurare alla propria unità accademica risorse ed opportunità per svilupparsi e crescere magari individuando quelle nicchie di mercato per specifici programmi di studio o di ricerca. Come si può vedere, la professione accademica è molto diversa da quella che gli stessi professori universitari immaginano: i compiti degli accademici si sono moltiplicati e diversificati e molto spesso si crea una tensione, non riconosciuta dagli stessi protagonisti, tra le diverse funzioni che un docente è chiamato a svolgere. Inoltre, sebbene vi siano dei valori comuni che legano tra di loro gli accademici appartenenti alle varie discipline (soprattutto la tensione verso la ricerca avanzata), è indiscutibile che vi siano consistenti differenze tra di essi, che sono basate proprio sulla loro diversità disciplinare; diversità che non possono essere celate dalla comune tensione verso il “fare scienza”. Essere professori in chimica, diritto privato, ingegneria elettronica o sociologia significa fare mestieri diversi: le procedure e i protocolli di ricerca sono diversi; il modo di insegnare e il contenuto dell’insegnamento sono diversi. Insomma, sotto il cappello “professione accademica” si celano mestieri tra loro assai variegati e disomogenei. Non ci si deve stupire, pertanto, qualora si dia uno sguardo agli annunci di selezione per posizioni accademiche delle università anglosassoni - ma anche, ormai, di quelle europee, come le olandesi le svedesi e di alcune università tedesche - di scoprire come il reclutamento del personale sia ormai legato ad una specifica ed articolata analisi organizzativa che ogni ateneo fa per individuare le competenze e le funzioni che si intende attribuire ai docenti universitari (sia quelli di ruolo che quelli a contratto). Ogni istituzione universitaria si dà una strategia di sviluppo nella ricerca e nella didattica. Ecco, pertanto, che se si è carenti, per quanto concerne la ricerca, in un determinato settore disciplinare, si investirà per cercare talenti in quel campo; se si vuole creare un nuovo dipartimento, si cercherà di reclutare studiosi affermati con un curriculum internazionale ineccepibile affinché possano organizzare e sviluppare la nuova struttura. Insomma sempre di più gli atenei pianificano in modo dettagliato il loro sviluppo didattico e scientifico nel medio periodo e, di conseguenza, individuano le diverse posizioni accademiche di cui hanno bisogno che vengono coperte attraverso modalità flessibili ed articolate. E non potrebbe essere altrimenti: i docenti universitari sono un a risorsa preziosa per le università. E per farla fruttare bisogna che le università sappiano cosa vogliono essere e sappiano reclutare le persone adatte e farle crescere professionalmente. Bisogna, insomma, che le università possano, e sappiano fare, la gestione delle risorse umane. Ovviamente questa considerazione può scandalizzare quei colleghi che continuano a pensare che le università sono il luogo in cui i professori (liberi di insegnare e ricercare) trovano l’ambiente adatto alla loro attività. Ma le università non sono solo, ovvero non possono essere più solo, delle arene in cui si muovono singoli individui, i professori, che autonomamente fanno scienza: sono istituzioni con strategie di azione e di sviluppo all’interno delle quali i professori universitari svolgono un ruolo certamente essenziale ma non “indipendente”. 3. Ma in Italia si fa finta di nulla e non si affronta il problema alla radice 5 A fronte a questa grande “varietà” e diversificazione della professione accademica, e delle attività che i docenti universitari sono chiamati a svolgere, che emerge dall’analisi comparata, il dibattito italiano è, come spesso accade in molti settori di politica pubblica, assolutamente impermeabile. Il problema della docenza universitaria continua ad essere affrontato, sia dalla gran parte dei professori universitari sia dai mezzi di comunicazione, come se fossimo un secolo indietro. Le parole d’ordine attorno ai quali si agglutina la discussione - come emblematicamente dimostrato anche dalle vicende relative alla legge sullo stato giuridico, la 230 del 2005, approvata dal governo Berlusconi - sono sempre le stesse da decenni: “precariato”, riconoscimento dell’anzianità, posti riservati, “ricercatori sì, ricercatori no”, concorsi nazionali/concorsi locali. Nessun o pochi riferimenti alla letteratura internazionale o alle esperienze degli altri paesi (spesso citati a sproposito, usando dati poco attendibili e non parametrizzati al fine di renderli comparabili); nessuna riflessione sulle diverse funzioni che gli accademici sono chiamati a svolgere; nessuna riflessione di carattere organizzativo ed istituzionale. Niente. E alla fine tutto si riduce sempre al problema dei concorsi, mantenendo una concezione della professione accademica del tutto avulsa dal contesto e storicamente sorpassata (Capano 1995; Moscati 2001). Ecco, allora, i dibattiti ideologici sul ruolo del ricercatore (deve essere di ruolo o no?). Ecco allora il dibattito su quante fasce professorali di ruolo vi debbano essere: tre, due, una? Ecco allora l’uso improprio, falsato e decontestualizzato delle esperienze straniere: il ministro che dice che nella gran parte dei paesi occidentali vi sono due fasce (non è vero!), gli oppositori che dicono che nella gran parte dei paesi occidentali le posizioni accademiche sono tutte di ruolo (non è vero!). Ecco allora alcuni colleghi che dicono che si deve tornare al concorso nazionale perché funziona meglio mentre dall’altra parte altri colleghi sostengono il contrario:il tutto senza alcuna analisi empirica di lungo periodo, ragionando solo sulla base di astratti principi. E così via, in un crescendo di batti e ribatti che, però, si caratterizza per non aggredire mai il vero problema: la correlazione stretta tra le modalità di reclutamento e carriera dei professori universitari e l’autonomia delle istituzioni universitarie. Si continua, cioè, a ragionare come se l’autonomia universitaria non debba avere come necessaria conseguenza la trasformazione dello stato giuridico dei professori universitari. Questi continuano ad essere concepiti come una realtà a se stante rispetto alle istituzioni universitarie e le università di fatto dipendono dalle decisioni delle corporazioni accademiche rispetto alla gestione delle loro risorse umane. Sono i professori che, sulla base delle loro logiche interne, stabiliscono chi e come debba essere reclutato o debba fare carriera. E questo vale a prescindere da qualsiasi sistema concorsuale venga utilizzato. Fin qui non vi sarebbe nulla di male: la cooptazione, da che mondo è mondo, è lo strumento mediante il quale si scelgono i professori in tutti i paesi civili. Ma come tutti gli strumenti può essere utilizzato in un modo o in un altro. E’ il problema sta nel vincolare i cooptatori a scegliere il meglio. Già, ma il meglio per chi o sulla base di cosa? Per incentivare i cooptatori a scegliere il “meglio” non servono regole formali (concorsuali) di alcun tipo che, in ultima istanza, non fanno pagare alcun costo ai cooptatori stessi. Servono meccanismi istituzionali nei quali vi sia una chiara attribuzione di responsabilità. E fino a prova contraria questa responsabilità, in ultima analisi, è proprio quella delle università: sono queste che “scelgono” di assumere i 6 professori. Ed è per questo che i meccanismi di reclutamento e carriera devono, in qualche modo, attribuire la piena responsabilità alle istituzioni universitarie. 4. Autonomia universitaria, governance e status dei docenti Insomma, se una università è autonoma e responsabile deve potersi scegliere i docenti che vuole e deve poterli premiare, promuovendoli, se lo ritiene opportuno. Raramente si riflette sul fatto che per promuovere un proprio valido docente al rango superiore un ateneo debba bandire un concorso nazionale ovvero aspettare che il proprio docente riesca a conquistarsi un’idoneità nella lotteria concorsuale mediante una procedura macchinosa ed arzigogolata. E raramente si riflette sul fatto che quello che ho appena detto non si potrebbe dire: dal punto di vista formale nessuna università bandisce per promuovere i suoi docenti ad un rango superiore: i concorsi sono pubblici ed imparziali! Eppure questo accade continuamente, spesso in modo irresponsabile ma sulla base di una esigenza vera: la necessità di che ogni università ha di fare gestione delle risorse umane e, quindi, anche di promuovere i suoi docenti! Gli atenei, insomma, hanno il diritto di essere i datori di lavoro dei propri docenti: il meccanismo del concorso pubblico, che sia locale o nazionale, e lo status giuspubblicistico dei docenti fa sì che il datore di lavoro dei docenti universitari sia una specie di ambigua ed evanescente entità; il che, di fatto, rafforza il pericoloso convincimento che il docente universitario sia una specie di libero professionista «pubblico», invece che un formatore ed un ricercatore dal quale dipendono il capitale umano e lo sviluppo, e quindi il futuro, della nostra società. Ma se l’idea di fondo che sto abbozzando, e che approfondirò, nel paragrafo successivo, è quella di attribuire alle singole università la piena autonomia nella gestione del proprio personale accademico, è evidente che queste università devono essere attrezzate a questo compito. E qui sta un passaggio essenziale per qualsiasi proposta di riforma della docenza universitaria che superi la situazione attuale e non sia la mera riproposizone, sotto diverse forme, di soluzioni già adottate e poi abbandonate nel passato. Le università debbono essere capaci di gestire in modo responsabile il proprio personale docente. L’attuale assetto istituzionale degli atenei non consentirebbe che ciò possa verificarsi in modo soddisfacente. Ora, il problema della governance è un altro nodo strutturale del nostro sistema universitario che è già trattato in un altro intervento in questo volume. Non posso, però, non riferirmi direttamente ad esso laddove è evidente che, come per altre tematiche, nessun cambiamento significativo delle principali componenti del sistema universitario italiano è percorribile se non si cambia il sistema di governo degli atenei e il sistema di governance complessivo. Come non è ipotizzabile che le università possano fare un salto di qualità nella didattica e nella ricerca senza darsi una programmazione strategica vera, che non sia la mera sommatoria di tutti gli interessi interni, senza una verticalizzazione degli assetti istituzionali, così non è pensabile che esse siano capaci di fare una politica del personale accademico efficiente ed efficace senza che i meccanismi istituzionali interni siano radicalmente cambiati. Sarebbe possibile immaginare il Senato e il Consiglio di amministrazione di una università che richiedono un monitoraggio delle competenze didattiche e scientifiche dei docenti del proprio ateneo e, sulla base di questo, decidono 7 di investire, ad esempio, il 20% delle risorse aggiuntive per il personale docente per il quinquennio successivo per sviluppare solo tre ambiti disciplinari (ad esempio: informatica biotecnologie e scienza della formazione)? Domanda retorica, evidentemente. D’altra parte la vicenda della gestione del sistema concorsuale approvato nel 1998 fornisce una rappresentazione emblematica dell’inadeguatezza degli attuali assetti di governo degli atenei a garantire una gestione responsabile del personale. Di fronte all’incapacità di resistere alla pressione del numero consistente di idonei creato dall’applicazione maldestra della legge 210/98, gli atenei, mediante la Conferenza dei Rettori, hanno cominciato a premere sul ministro dell’università affinché riducesse ad uno il numero degli idonei esprimibili da ciascuna commissione in sede di concorso. La richiesta è stata fatta propria dal governo mediante un decreto-legge approvato nel marzo del 2005 (legge 43/2005). Tutto questo perché gli atenei non riuscivano più a resistere, con effetti gravi sullo stato delle proprie finanze, alla pressione delle corporazioni accademiche ad assumere (o a promuovere) gli idonei: pertanto la soluzione migliore, spacciata come un ritorno ad un sistema più meritocratico, è parsa quella di chiedere una modifica del sistema concorsuale. Le istituzioni universitarie sono governate in base ad un principio democraticocorporativo. Tutti gli organi monocratici sono elettivi, tutti gli organi collegiali devono rappresentare le diverse componenti dell’università (professori, studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo). Insomma le università si autogovernano attraverso meccanismi istituzionali che «costitutivamente» non possono che produrre scelte distributive (dare qualcosa a tutti) e riprodurre lo status quo, ignorando ogni dimensione tenica del problema. In questo contesto istituzionale gli interessi dei singoli attori sono semplicemente fotografati. Questo sistema riproduce i medesimi rapporti di forza, i medesimi interessi, il medesimo modo di vedere le cose. Può un’istituzione governata in questo modo prendere decisioni responsabili? Può un’università governata in questo modo decidere di distribuire le proprie risorse in modo strategico? Ovviamente no. Il fallimento evidente della politica dell’autonomia, per come declinata nel nostro paese, è sostanziata dalla crisi finanziaria di molti atenei, dalla pessima allocazione delle risorse, dal proliferare di corsi di laurea, e ha nel meccanismo di governo degli atenei un fattore estremamente facilitante. L’altra faccia, però, di questa dinamica, non dimentichiamolo mai, è costituita dagli assetti di governo nazionali: un ministero tecnicamente inadeguato che ha rinunciato al proprio ruolo istituzionale a favore o del Cun ovvero dei consiglieri di turno dei ministri; la presenza di una formula di finanziamento pubblico che tende, ancora, a favorire troppo la spesa storica rispetto alla performance delle istituzioni; la presenza di due diversi attori in rappresentanza del mondo accademico (la Crui e il Cun); l’assenza di un monitoraggio legittimato della ricerca e della didattica. Questi fattori hanno reso monca la politica delle autonomie: se il centro del sistema non ha una chiara strategia e non ha gli strumenti per perseguirla, oltre che la volontà, ovviamente, il sistema non viene né governato, né indirizzato. Il circolo diventa vizioso e lo strutturale sotto-finanziamento del sistema ne aumenta vorticosamente la velocità. In questo contesto istituzionale, strutturalmente deresponsabilizzato e deresponsabilizzante quindi, le diverse logiche degli attori possono liberamente esprimersi e persistere nel corso del tempo. Tutti pensano di portare a casa qualche vantaggio (e penso qui, provocatoriamente, anche agli studenti che pensano di avere un vantaggio se possono fare l’università sotto casa, ovvero se possono iscriversi ad un dato corso di studio nella città che preferiscono! Ovvero ai professori che possono 8 continuare ad insegnare quello che insegnavano e nello stesso modo in cui lo insegnavano anche dopo la riforma degli ordinamenti didattici!). Ma alla fine il sistema entra in crisi, le decisioni tendono a riprodurre idee vecchie e gli interessi esistenti, lentamente il sistema prende la strada del declino e, solitamente, a vedere gli effetti del declino sono le generazioni future. In un sistema di questo tipo qualsiasi riforma dello status giuridico dei docenti e del sistema di reclutamento e carriera fallirebbe miseramente, riproponendo ciclicamente i soliti vecchi dilemmi: concorso/nazionale o locale, precariato non precariato, ecc. Ovviamente molti sono in disaccordo con la mia analisi. Anzi, vi è chi sostiene che il problema del governo delle università sia costituito da una specie di deficit democratico, rappresentato dal fatto che il diritto di voto è attribuito solo ai docenti (con una piccola rappresentanza degli studenti e del personale tecnico-amministrativo). Secondo costoro, il sistema funzionerebbe molto meglio se fosse completamente democratico, se, cioè, tutte le componenti dell’ateneo potessero partecipare, ad esempio, alle elezioni del rettore e se la composizione degli organi collegiali non fosse troppo accademico-centrica. Ma, se fossimo realisti e seri, dovremmo sapere che simili soluzioni non farebbero altro che aggravare i problemi dell’università, innescando ulteriori degenerazioni dell’attuale pessimo funzionamento. Un esempio: se tutto il personale tecnico-amministrativo partecipasse alle elezioni del rettore, avremmo il curioso caso di una organizzazione pubblica in cui il datore di lavoro è eletto dai propri dipendenti. Come potrebbe detto datore di lavoro svolgere bene il suo mestiere, ad esempio nella contrattazione integrativa, essendo, di fatto, costantemente sotto il ricatto della controparte negoziale? No, non potrebbe funzionare. D’altra parte ben sappiamo, o dovremmo sapere, che, nell’ultimo decennio, altri paesi dell’Europa continentale, che prima del nostro avevano intrapreso la strada della politica universitaria autonomistica, hanno radicalmente cambiato il sistema di governo degli atenei, proprio perché si erano resi conto che l’autonomia abbisogna di una grande responsabilità istituzionale e che il meccanismo democratico-corporativo tende a produrre, per contro, decisioni irresponsabili. Sto parlando di paesi come la Svezia, la Danimarca, l’Austria, l’Olanda. Qui, con grande realismo e lungimiranza, si è deciso di seguire, per quanto possibile, l’esempio dei paesi anglosassoni, dove il principio di autogoverno delle università è stato declinato in altro modo. Essi, infatti, hanno drasticamente spezzato la catena dell’autogoverno fondato sul principio della rappresentanza corporativa, proprio della tradizione universitaria dell’Europa continentale, per scegliere la strada della nomina a cascata propria della tradizione anglosassone. Essi hanno introdotto un diverso meccanismo per formare gli organi collegiali e, al tempo stesso, hanno rafforzato il ruolo e le responsabilità degli organi monocratici (che nel nostro sistema sono continuativamente in balia dei propri elettori). In sostanza, con declinazioni diverse, questi paesi hanno stabilito che gli organi di governo degli atenei (con l’esclusione del Senato accademico) debbono essere formati attraverso un meccanismo di “nomina” e non mediante il meccanismo elettorale. I consigli di amministrazione sono nominati dagli stakeholders (forze sociali, istituzioni pubbliche, in alcuni casi anche, in parte, dal Senato accademico). Il CdA nomina il rettore, il quale ha poteri pieni, decisamente superiori a quelli che sono ora a sua disposizione. Il Rettore nomina i dirigenti, i presidi ed i direttori di dipartimento. Non voglio entrare in possibili dettagli (si veda Capano 2004). Quello che conta è che, in un sistema strutturato in questo modo, si verticalizzano i processi decisionali e si individuano dei centri di responsabilità in modo netto e trasparente. Certo, questa 9 soluzione istituzionale può creare dei problemi (ad esempio il rischio che il CdA, composto, per lo più da esterni, possa essere un organismo politicizzato e partigiano), ma, di certo, problemi che possono essere risolti con il buon senso e con un attento design istituzionale. Ovviamente il principio di organizzazione istituzionale che propongo abbisognerebbe di alcune puntualizzazioni soprattutto in relazione al ruolo e alle caratteristiche del centro del sistema universitario, la cui funzione strategica necessiterebbe di: un sistema di valutazione e monitoraggio stabile e professionalizzato, capace di svolgere le proprie funzioni in modo celere, efficace ed altamente legittimato; un attore che rappresenti in modo inequivocabile gli interessi delle istituzioni universitarie; un apparato ministeriale altamente professionalizzato capace di supportare continuativamente l’attività di indirizzo e programmazione del ministro. Ma, prima di tutto, bisogna avere il coraggio di aggredire il feticcio «democraticista» sul quale si fonda il sistema di governo degli atenei. Se si andasse in nella direzione qui proposta, si consentirebbe alle università di poter essere veramente responsabili e, al tempo stesso, si potrebbe superare altre impasse che, storicamente, caratterizzano il sistema universitario in relazione, soprattutto al personale docente. Rimodellando, infatti, sulla base delle linee appena tracciate gli assetti istituzionali della governance del sistema universitario italiano si metterebbe in grado tutti gli attori di giocare in modo chiaro e trasparente la propria partita. Al tempo stesso, verrebbero minate le basi storiche e funzionali che limitano l’autonomia sostantiva e procedurale delle università su un elemento essenziale quale quello del reclutamento, la carriera e le mansioni del personale accademico. 5. Un nuovo status giuridico per l’Università responsabile A questo punto, dopo questa lunga premessa sulle trasformazioni della professione accademica e sull’inderogabile necessità di cambiare gli assetti di governo delle università, non posso esimermi dal presentare una proposta, seppur schematica, di un nuovo modello di status giuridico dei professori universitari. Come è evidente, i paragrafi precedenti erano necessari per individuare il contesto sistemico all’interno del quale la riforma della docenza universitaria deve collocarsi, per avere dei punti di riferimento non autoreferenziali e, pertanto, per non rischiare di ricadere nella circolarità argomentativa e propositiva che da sempre caratterizza i dibattiti sulla questione docente nel nostro paese. Prima, però, di presentare la mia proposta merita fare alcune considerazioni generali, ed introduttive, sulle caratteristiche costitutive dei sistemi di carriera e sulle finalità che con essi si intende perseguire. Il disegno di un sistema di carriera coinvolge tre dimensioni: quella della politica universitaria nazionale; quella delle istituzioni universitarie; quella dei singoli individui che possono potenzialmente aspirare ad intraprendere la professione accademica ovvero di coloro i quali l’hanno già intrapresa (Olsen, Kyvik e Hovdhaaugen 2005). Dal punto di vista della politica nazionale (e quindi dei governi), il sistema di reclutamento e carriera deve: assicurare che la professione accademica sia capace di attrarre individui altamente capaci e dotati; rafforzare la produttività e la qualità nella ricerca e nella didattica; stimolare la mobilità inter-istituzionale Per le istituzioni universitarie il sistema di carriera non deve solo assicurare i tre obbiettivi appena elencati ma anche consentire di selezionare, e trattenere, personale di eccellente levatura - per le diverse attività necessarie alla propria missione istituzionale e 10 programmazione strategica - e perseguire l’adeguata copertura di discipline non sufficientemente presenti nell’istituzione stessa. Dal punto di vista individuale, il sistema di carriera deve essere caratterizzato da un’equa e trasparente competizione tra i potenziali candidati e deve essere capace di motivare fortemente l’impegno prospettando sia una crescita di carriera sia un progressivo ed adeguato aumento stipendiale. Un buon sistema di carriera deve essere capace di conciliare, per quanto più possibile tutti gli elementi suddetti: un sistema di carriera funzionale e funzionante deve, pertanto, essere capace di compendiare gli interessi del governo nazionale (che è il responsabile delle risorse pubbliche che vengono assegnate al sistema universitario), quelli delle singole università (che hanno la responsabilità di perseguire in modo efficiente la qualità nella didattica e nella ricerca) e quelli dei singoli individui (poiché senza qualificate e motivate risorse umane non si può fare “buona” università). E sulla base dell’aspirazione a tenere insieme, per quanto possibile, tutti questi elementi, che ho costruito la proposta operativa della quale vado ad esporre di seguito i punti salienti. 5.1. Lo status giuridico: la contrattualizzazione per dare un vero datore di lavoro agli accademici Lo status giuspubblicistico del docente universitario lo omologa al funzionario dello Stato ottocentesco. Tale persistenza non si giustifica più tenendo conto sia della contrattualizzazione di tutto il pubblico impiego sia della concessione di ampia autonomia alle università. Pertanto, un primo elemento essenziale della riforma della docenza deve essere quello di omogeneizzarne lo status giuridico a quello degli altri lavoratori dipendenti. Si può immaginare che la contrattazione nazionale tra la rappresentanza dei datori dei lavoro (le università e quindi la Conferenza dei Rettori) e la rappresentanza delle associazioni sindacali verta su alcuni punti essenziali e generali quali la fissazione degli aumenti salariali biennali e il quadro normativo di riferimento quadriennale su: le scale retributive, il livello minimo di impegno didattico, formazione ed aggiornamento sulle tecniche per la didattica, i criteri generali per regolare le attività esterne dei docenti, ecc. A livello decentrato, si potrebbe ipotizzare una contrattazione sui criteri per l’attribuzione della retribuzione aggiuntiva (per maggiori carichi didattici, ovvero per gli incarichi istituzionali, ovvero per attività di ricerca particolarmente intense e fruttifere) lasciando alla concertazione o solo all’informazione materie quali i criteri per la progressione nella scala retributiva dei singoli docenti, i criteri per la valutazione dell’attività didattica e scientifica, ecc. Ovviamente la contrattualizzazione implicherebbe l'incompatibilità del docente di ruolo con lo svolgimento di professioni esterne. Se uno vuole fare l'avvocato faccia quello. Se, dopo 10 anni di professione, vuole fare il professore, bene, una università potrà assumerlo ma solo se abbandonerà la professione; alla quale potrebbe poi tornare finita l'esperienza universitaria. Ovviamente la contrattazione nazionale ovvero il contratto di lavoro che il docente stipula con la propria università potrebbe prevedere alcune parziali deroghe a detta incompatibilità sulla base, però, di un evidente interesse reciproco tra docente e istituzione universitaria. Inoltre, sempre all’interno del nuovo status giuridico, è plausibile che venga sancito l'obbligo di svolgere qualsiasi attività esterna (strettamente correlata con l'ambito 11 scientifico di riferimento) attraverso la mediazione istituzionale. In questo caso lo Stato dovrebbe predisporre delle norme che non penalizzino finanziariamente il docente che, essendo professionalmente ricercato dall'esterno, viene richiesto delle sue prestazioni consulenziali o di ricerca. Per capirci: se un docente universitario fa una consulenza all’esterno, sarebbe opportuno che l’università di appartenenza ne abbia un vantaggio. Basterebbe, ad esempio, che lo Stato consentisse che la retribuzione aggiuntiva che il docente ottiene dalla prestazione esterna non venga sottoposta alla trattenuta previdenziale ma che questa (ovvero parte di questa) possa essere incamerata dall’ateneo per innescare, fra l’altro, un meccanismo virtuoso di auto-finanziamento degli atenei mantenendo l’incentivo finanziario a prestare opera per conto terzi per i docenti universitari. Per quanto concerne le funzioni e le attività dei docenti, il modello che propongo assume che le università siano sufficientemente autonome nello stabilire “che cosa” debbano fare i propri docenti e “come”. Ovviamente, nel caso di una piena contrattualizzazione, dovrebbero essere i contratti nazionali a stabilire, ad esempio, il monte orario minimo di didattica complessiva o di docenza in aula, anche se, in linea generale, si tratta di aspetti la cui regolazione potrebbe essere demandata alle scelte interne ai singoli atenei. Nel momento in cui, infatti, il docente universitario è un dipendente del proprio ateneo, spetterà al suo datore di lavoro stabilire il contenuto dell’attività, fermi restando i limiti costituzionali posti a tutela della libertà di insegnamento (che, però, non possono essere interpretati come libertà a insegnare quello che si vuole, prescindendo, cioè, dal contenuto formativo dei curricoli istituzionali). Che sia il singolo ateneo a stabilire la modulazione dei carichi didattici a seconda delle caratteristiche della propria missione istituzionale (ad esempio, vi possono essere università più interessate ad investire risorse umane per aumentare la mole e la qualità della ricerca ovvero università più orientate a privilegiare la dimensione della didattica). In un contesto di questo tipo, come in altri paesi, ci si aspetta che il centro del sistema svolga un’attività di costante orientamento mediante attività di monitoraggio, informazione ed indirizzo anche su questa, come su altre tematiche. 5.2. Struttura della carriera, reclutamento e promozioni L’università è un sistema sociale che ha come obbiettivo primario quello di creare, riprodurre, comunicare ed applicare conoscenza. Tale obiettivo comporta che l’organizzazione degli addetti ai lavori, gli accademici appunto, sia fondata sulla competenza professionale e che tale competenza sia acquisita attraverso un complesso ed articolato processo di tirocinio. Ne consegue la necessità di costruire schemi di carriera capaci di interpretare adeguatamente il processo di acquisizione delle competenze professionali e al tempo stesso di stimolarlo ed incentivarlo. Lo status nell’organizzazione accademica non è e non può essere direttamente legato alla funzione bensì al livello di maturità professionale (che, sia chiaro non è direttamente correlata all’anzianità). Dei singoli individui nello svolgimento della medesima funzione (didattica, di ricerca, istituzionale). Fare carriera significa vedersi riconosciuta una maggiore autorevolezza professionale. Si tratta di una “remunerazione” di status intrinsecamente necessaria per l’efficienza e l’efficacia della professione accademica che spesso è più incentivante e qualificante della mera remunerazione economica. Non è un caso, pertanto, che nella gran parte dei sistemi universitari (ad esclusione, sostanzialmente della Francia) le carriere sono organizzate in almeno 3 qualifiche. 12 Qualsiasi proposta che neghi questa evidenza empirica e proponga un’unica qualifica professorale (come si fa, ad esempio, in Astrid 2005) rischia di incorrere in un devastante errore di valutazione e di indirizzare la professione accademica, come ci insegna la teoria organizzativa, verso la completa burocratizzazione. Pertanto il sistema di carriera che qui propongo mantiene questa tripartizione, così declinata: professore incaricato, professore associato, professore ordinario. La qualifica di entrata, quella di professore incaricato, viene qui pensata come una posizione tenure-track: penso ad un contratto la cui durata non può superare i 5 anni (e non essere inferiore ai 3), non rinnovabili, entro il termine dei quali l’ateneo decide se immettere o no in ruolo il docente. Come vengono reclutati e promossi i docenti? Dagli atenei in modo totalmente autonomo. Siano gli atenei a stabilire la ripartizione dei propri organici effettivi tra ordinari associati ed incaricati e siano gli atenei a stabilire, a regime, quanti reclutarne dall’esterno e quante promozioni operare periodicamente. Le modalità di valutazione possono essere lasciate ai singoli atenei, proponendo, però, dei criteri generali ai quali essi si debbono ispirare. Ad esempio, qualora l’ateneo intenda assumere dei professori incaricati, oppure dei professori associati o ordinari che prestano servizio in altri atenei, le commissioni di valutazione dovrebbero essere composte con una qualificata rappresentanza di docenti della disciplina non appartenenti all’ateneo che bandisce. La medesima procedura potrebbe essere utilizzata per le promozioni ad ordinario di interni, mentre le promozioni ad associato e l’assunzione di nuovi incaricati potrebbero essere gestiti autonomamente dai dipartimenti e dalle facoltà. Insomma, un sistema di reclutamento assai simile a quello in uso nei sistemi anglo-sassoni. Ovviamente la prima obiezione che viene in mente davanti a questa proposta è: ma così gli atenei investirebbero tutte le risorse per promuovere gli interni. Per evitare questo rischio, nell’attesa che il nuovo auspicato sistema di governance venga introdotto e produca i suoi effetti, basterebbe che il centro del sistema, lo Stato, il principale finanziatore degli atenei, stabilisse dei vincoli stringenti e sanzionati alle scelte degli atenei. Ad esempio, sulla base di un’analisi della spesa storica, lo Stato potrebbe stabilire che gli atenei debbano programmare di spendere, ogni tre o cinque anni, delle percentuali prestabilite delle cifre da investire per coprire posizioni professorali: ad esempio, la proporzione potrebbe essere del 40-50% per le promozioni interne e del 50-60% per il reclutamento dall’esterno (per coprire posizioni di tutte e tre le fasce). La sanzione per chi non rispetta le percentuali pre-stabilite potrebbe corrispondere ad un decremento del trasferimento statale all’ateneo corrispondente al doppio o al triplo dello sforamento. Con un sistema di questo tipo, si otterrebbero alcuni risultati importanti: a. gli atenei potrebbero decidere autonomamente la composizione dei loro ranghi accademici (quanti ordinari, quanti associati, quanti incaricati), a seconda del tipo di obbiettivi strategici che si prefissano; b. gli atenei dovrebbero fare politiche selettive e meritocratiche di promozione al loro interno; c. gli atenei sarebbero incentivati a reclutare dall’esterno; d. ogni facoltà e dipartimento saprebbe in anticipo di quante promozioni potrebbe disporre in un determinato arco di tempo. Questa informazione sarebbe pubblica 13 e, pertanto, i processi, anche quelli competitivi, trasparenti1. sarebbero finalmente Sia chiaro: i professori incaricati sono a tutti gli effetti dei docenti, seppur giovani. Ad essi spetta di svolgere attività di ricerca e di essere responsabili direttamente di attività didattiche come gli altri professori. D’altra parte se immaginiamo che questa tipologia professorale sia propria di studiosi che, presumibilmente, assumono l’incarico tra i 28 e i 30 anni, appena dopo il dottorato ovvero dopo un periodo di due o tre anni di “borsa” per attività didattica e di ricerca (quindi dopo un periodo di circa 5 anni di socializzazione alla professione accademica), non possiamo pensare che non siano in grado di affrontare l’aula per la didattica frontale. 5.3. Il sistema retributivo e la valutazione Gli aumenti stipendiali dipenderebbero da due voci: la contrattazione economica nazionale (biennale, come gli altri dipendenti pubblici allo stato attuale) e la progressione economica nel livello di appartenenza. Ipotizzo, cioè che ad ogni livello professorale siano attribuite un certo numero di posizioni stipendiali (tra le 5 e le 10), fissate a livello nazionale, alle quali si accede sulla base di criteri fissati dall’istituzione in relazione sia ai carichi di lavoro del docente sia al suo curriculum scientifico2. Ad esempio: la progressione di posizione stipendiale può essere attribuita a docenti che abbiano mostrato particolare capacità ed efficacia didattica ovvero a quei docenti che abbiano conseguito una particolare reputazione scientifica ovvero siano capaci di attrarre fondi di ricerca esterni. Gli atenei dovrebbero programmare su base triennale, conformemente alle proprie possibilità di bilancio, le progressioni stipendiali. La valutazione delle progressioni stipendiali dovrebbe essere regolata dai singoli atenei, sulla base di uno schema, non vincolante, concordato a livello nazionale tra la Crui e la controparte sindacale. In un contesto di questo tipo, l’attività di valutazione sarebbe strutturalmente presente a diversi livelli. I docenti sarebbero valutati al momento del reclutamento ovvero delle promozioni, sarebbero valutati al momento dell’attribuzione, da parte dell’ateneo delle progressioni retributive. L’istituzione di appartenenza sarebbe sempre e comunque strutturalmente incentivata a costruire procedure di valutazione adeguate agli obbiettivi prefissati. 1 In Norvegia e in Svezia, da qualche anno, è stato introdotto un nuovo sistema per la promozione al rango di professore ordinario basato non più sulla competizione per un numero ristretto di posti ma sulla competenza: ogni associato che pensi di avere la competenza scientifica per diventare ordinario lo chiede al proprio ateneo che lo sottopone ad una valutazione di pari (un specie di sistema a ruoli aperti). Questo sistema è certamente ragionevole, poiché prospetta ampie possibilità di carriera ai giovani ma ha, rispetto al caso italiano, due problemi strutturali: disincentiva la mobilità interistituzionale e, soprattutto, costa molto. In linea di principio, però, si tratta di un sistema che ha molti vantaggi e che, in futuro, potrebbe essere sperimentato da singoli atenei. 2 Sul punto è estremamente interessante il meccanismo esistente nel sistema inglese (dove le 4 fasce docenti si distribuiscono in una lista di 22 posizioni stipendiali, che diventeranno 27 con l’implementazione del nuovo contratto stipulato nel 2004) Sul punto si veda la pagina web del sindacato unitario degli accademici inglesi: http://www.aut.org.uk. 14 5.4. Le altre posizioni accademiche Nel sistema di carriera che viene qui presentato non si può non accennare anche al problema del personale che non riveste la qualifica professorale. Come in tutti i sistemi universitari del mondo anche in Italia vi sono forme di contratti temporanei per l’insegnamento e la didattica. Ad esempio, stando alla banca dati dell’Ufficio Statistico del Miur, al 31 dicembre 2003 nel sistema universitario italiano vi erano 22.000 professori a contratto titolari di insegnamento; 10.000 titolari di attività didattiche integrative (e si tratta di dati probabilmente sottostimati); al tempo stesso, per quanto riguarda le attività di ricerca, vi erano circa 21.000 individui titolari di borse post-doc, assegni di ricerca e contratti per prestazione autonoma. Il totale delle posizioni di ricerca e di didattica ricoperte con personale non di ruolo era, pertanto, di circa 53.000 a fronte di un corpo docenti di ruolo di 56.480 unità! Ora, questi dati - che affondano tutte le argomentazioni avanzate dal ministro Moratti quando, nel dibattito sulla sua riforma sosteneva che in Italia vi sono troppe posizioni di ruolo rispetto agli altri paesi - celano realtà variegate. La sostanza però è corposa e inquietante. Vi è una cospicua mole di attività didattica e di ricerca che è svolta da personale temporaneo. Quanta parte di questa attività sia necessaria sarebbe da vedere (penso soprattutto, ad esempio, ai contratti di insegnamento che, in teoria, dovrebbero essere assegnati ad esterni portatori di competenze vocazionali e che, invece, molto spesso sono un modo per pagare, sottocosto, giovani studiosi in attesa di una qualche sistemazione). Tutto questo mondo andrebbe ridisegnato e reso più trasparente, in particolare quello relativo alle borse di avviamento alla professione accademica (le borse di postdottorato e gli assegni di ricerca). Avrebbe qui senso istituire un’unica tipologia di borsa che dovrebbe essere concepita come uno strumento di socializzazione alla professione accademica (e quindi prevedere oltre che all’attività di ricerca precisi e delimitati contributi all’attività didattica). Queste borse, pagate con fondi ministeriali o di ateneo, non potrebbero avere una durata complessiva superiore ai 4 anni (di modo che se il borsista ha le qualità possa competere per una posizione di professore incaricato ovvero, in caso contrario, possa orientarsi verso il mercato del lavoro esterno avendo un età non superiore ai trent’anni). Le posizioni dedicate solo alla ricerca dovrebbero essere coperte solo con fondi di ricerca istituzionali o esterni, come capita in altri paesi – come l’Inghilterra e l’Olanda. La retribuzione dei “borsisti” sia dei ricercatori a contratto dovrebbe essere parametrata a quella dei professori incaricati (è lecito ipotizzare, pertanto, che si tratti di retribuzioni che corrispondano a circa l’80% della retribuzione del professore incaricato). Per quanto riguarda le posizioni di docente a contratto le università dovrebbero essere lasciate libere di decidere come utilizzarle individuando precise tipologie di funzioni. Personalmente credo che una maggiore responsabilizzazione degli atenei e una riforma dei loro assetti di governo interni consentirebbe di ridurre il numero di queste posizioni e di razionalizzarle. 5.5. Alcuni elementi strategici e di sistema 15 Un sistema come quello abbozzato sopra per funzionare a regime abbisogna che siano in essere alcuni fattori quali: a. la disponibilità dello Stato ad aumentare o a favorire l’aumento delle entrate finanziarie degli atenei. Il nuovo sistema retributivo non necessariamente costerebbe più di quello attuale, comunque. Infatti, in prima istanza si potrebbe ipotizzare che vengano ripartite in modo diverso le somme finanziarie aggiuntive che gli atenei investono per pagare gli aumenti stipendiali annuali ai docenti (che ogni anno godono di un aumento corrispondente a quello medio che i dipendenti pubblici hanno ottenuto l’anno precedente) e per pagare gli scatti biennali di anzianità. Comunque sia, per dare una spinta positiva al nuovo sistema, in prima istanza si potrebbe ipotizzare una strategia di questo tipo: lo Stato ogni due anni mette le risorse aggiuntive necessarie agli aumenti economici stabiliti a livello nazionale, mentre le università provvedono alle esigenze finanziarie delle posizioni retributive delle tre fasce. Questa azione di supporto dello Stato potrebbe essere prevista per le prime tre tornate biennali. Nel frattempo, dovrà essere costruita una strategia, sia a livello nazionale sia a livello di singole istituzioni per aumentare le capacità finanziarie delle università (che ne hanno strutturalmente bisogno per svolgere meglio il proprio mestiere). Ma di questo discute con maggiore competenza il Giuseppe Catalano nel volume; b. il reale funzionamento di un sistema di valutazione nazionale della qualità e dell’efficienza delle università. Solo se le università sapranno che le loro attività saranno seriamente valutate potremmo avere dei comportamenti virtuosi nei processi di reclutamento e promozione del personale. La logica è molto semplice: se un ateneo sa che parte consistente del suo finanziamento dipenderà dalle proprie prestazioni nella didattica e nella ricerca possiamo tenderà a pretendere comportamenti virtuosi dalle proprie sotto-unità organizzative (i dipartimenti e le facoltà). Anzi, è plausibile prevedere che molti atenei possano, mutarsi mutandis, applicare, seppur parzialmente, a cascata gli effetti delle valutazioni nazionali anche al loro interno. Come si vede si tratta di due elementi strategici che debbono viaggiare insieme alla trasformazione della governance. A questo proposito merita sottolineare come senza una trasformazione del sistema di governo degli atenei gli effetti di un sistema di valutazione efficiente sarebbero decisamente indeboliti. Infatti, come dovremmo imparare dalle esperienze pregresse dei paesi, citati sopra, che hanno radicalmente cambiato il sistema di governance, la dinamica democratico-corporativa degli atenei tenderebbe, infatti, a preferire una ripartizione distributiva delle eventuali perdite piuttosto che una ridefinizione delle allocazioni interne. 6. Riformare significa andare oltre l’esistente La proposta appena presentata in modo sintetico può apparire a molti estremista e quindi infattibile. Molti, infatti, innalzerebbero i bastioni della tradizione a difesa della necessità di mantenere il sistema di reclutamento e promozione dei docenti nelle mani 16 delle corporazioni accademiche. Altri stigmatizzerebbero la possibilità che un sistema di questo tipo induca un’eccessiva differenziazione tra atenei virtuosi ed atenei viziosi. Altri ancora sottolineerebbero la difficoltà a governare in modo efficace e coerente una simile situazione. Da parte mia non potrei che ribattere che riformare significa proprio rompere i legami con il passato e risolvere la continuità storica. Che venga fatto nel breve o nel medio termine, non importa, ma se si vuole riformare si deve avere come obbiettivo finale quello di discostarsi in modo consistente dallo status quo ereditato dal passato. Sulla differenziazione tra atenei non potrei che sottolineare che essa è nella logica dei fatti e dei trend internazionali: questo processo va governato ed indirizzato per il bene del paese, cessando di inneggiare ad una omogeneità tra le università che non c’è e che non c’è mai stata. A coloro i quali rilevassero i problemi di implementazione, risponderei che un governo consapevole dei propri mezzi e dei propri obbiettivi deve darsi una strategia capace di attuare in modo efficace i propri programmi di riforma e che, se esso si fermasse ad immaginare solo le nuove leggi, senza preoccuparsi delle strategie per implementarle, non sarebbe un buon governo. Ovviamente, la strategia operativa di una riforma come quella appena abbozzata potrebbe essere variamente modulata (non necessariamente la contrattualizzazione deve riguardare, da subito, tutti gli aspetti del rapporto di lavoro; l’introduzione della completa autonomia nel reclutare i propri docenti potrebbe essere introdotta per le prime due fasce professorali, mantenendo una qualche valutazione nazionale, ad idoneità aperta, per il ruolo degli ordinari, ecc.), costruendo un percorso mediante il quale raggiungere la piena autonomizzazione del sistema delle carriere in un arco di 6-10 anni. D’altra parte, qualsiasi governo che voglia veramente cercare di far risalire il sistema universitario italiano dal declino ormai inesorabile nel quale esso è caduto, non potrebbe che aggredire in modo forte il problema della governance e quello dello status giuridico e della carriera dei docenti universitari. Ridisegnare e rafforzare l’autonomia delle università è necessario e, in questo contesto, assegnare alle università – insieme ad una maggiore autonomia e capacità finanziaria – anche la possibilità di poter fare una coerente politica di gestione delle risorse umane è assolutamente prioritario. Bibliografia Altbach P. (1997), An international academic crisis! The American professoriate in comparative perspective, in “Daedalus“, vol. 126, n. 4, p. 315-338 Amaral A., G. Jones e B. Karseth (a cura di) (2002), Governing Higher Education: Comparing National Perspectives, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, pp. 205-229. Astrid (2005), Rapporto di ASTRID sull’Università. Strumenti per cambiare, mimeo. Capano G. (1995), Resiste il dogma dell’omogeneità, in ”Ideazione”, n.2, pp. 104-122. Capano G. (1998), La politica universitaria, Bologna, Il Mulino. Capano G. (2004), Un po’ di coraggio per cambiare l’università, in “Il Mulino”, n.5, pp. 888-898. Enders J. 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