Fantasmi di cento storie attraversano la mia mente

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Fantasmi di cento storie attraversano la mia mente
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FANTASMI DI STORIE
racconti di Mariovaldo
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FANTASMI DI STORIE
Fantasmi di cento storie attraversano la mia mente.
A volte, nel grigiore di quella terra di confine tra il sonno e la veglia, filtrano tra i
mattoni dei muri, sfiorano con sudari sfilacciati le mie coltri e raccontano di
campi di battaglia, di montagne innevate, di marosi ruggenti nel vento di Capo
Horn.
Se cerco di afferrarli, di trasferire in qualche modo la loro apparizione nel mondo
reale, essi ritornano silenziosamente da dove sono venuti, ed è come se non
fossero mai comparsi, la mente si rifiuta di incidere il loro passaggio nei suoi
archivi per trarne sequenze leggibili.
Altre volte compaiono d'improvviso, sullo sfondo lattescente di un foglio virtuale.
Il tempo di guardarli negli occhi, di sfiorare in quella profondità la loro storia
meravigliosa e spariscono, beffardi, lasciandosi dietro qualche parola effimera,
destinata al cimitero dei racconti mai nati.
Ho provato a parlare con loro, a fermarli con la forza della ragione.
A uno particolarmente insistente, una sera io posi una domanda:
- Fantasma, perchè non ti lasci guardare, come posso aiutarti se mi provochi e
poi sfuggi senza lasciare che io narri di te e del tuo mondo?Incredibilmente mi giunse una risposta, ma non quella desiderata:
- Oh bella, e tu dai del fantasma a me? Ma non ti rendi conto di quanto sia
ridicola la tua pretesa di essere qualcosa di più di un laido insieme di viscere e
membra, governato da una mente limitata? Soffermati un attimo a pensare: da
quanto tempo tu esisti? Trenta, cinquanta, settanta anni? Fossero pure cento, o
mille, cosa sono mai rispetto all'eternità della nostra esistenza?
Noi non siamo fantasmi, noi siamo le Storie. Esistevamo nelle caverne dell'Africa,
quando piccoli artisti nudi ci dipinsero con tinte di terra sulle pareti di roccia.
Noi siamo nell'epopea di Gilgamesh, da quando uno scrivano di Uruk incise
sull'argilla il nostro passaggio, noi esistiamo nelle saghe nordiche, siamo di casa
tra i cavalieri di Artù e sul Nautilus del capitano Nemo, noi siamo sui mondi di
Antares e saremo nell'epopea degli esploratori del cosmo.-
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Mi guardò per un'ultima volta, mentre il suo volto assumeva mille sembianze
diverse, poi prima di sparire del tutto lasciandomi davanti a un foglio bianco, mi
giunse ancora la sua voce.
- Noi siamo immortali. Pensaci bene prima di chiamare "fantasma" una Storia. Tu
sei comparso su questo mondo da un battito di ciglia, e tra un battito di ciglia
sparirai: chi fra noi due è davvero un fantasma?-
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INDICE
- LA STANZA DELLA SIGNORA PINA
- ALLA LUCE ROSSA DELLA CANDELA
- SOGNO DI GHIACCIO ANTICO
- ANCORA UN CANTO DI NATALE
- A CAVAL DONATO
- IL BREVE ADDIO
- LA BOTTIGLIA DI LEIDA
- LA NOTTE DEL DUBBIO
- LA FOCACCIA DI BATTISTIN
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La stanza della signora Pina
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Il titolo del giornale occupava tre colonne nella pagina della cronaca locale:
"Anziana rinvenuta mummificata nella propria abitazione".
L'occhiello precisava: "dramma della solitudine, era morta da almeno sei mesi".
Il signor Peiretto, un omino segaligno dal volto rugoso incorniciato da una chioma
bianca e lunga, ripiegò il giornale con un sorriso soddisfatto. Sarebbe stata una
buona giornata, bisognava solo farla fruttare come si doveva. Con questo pensiero
si avviò a prendere l'autobus. Per una mattina la prospettiva di aprire la sua
bottega gli regalava un senso di urgenza e di soddisfazione.
L'insegna era sobria: "Mobili e accessori d'epoca". Gentile eufemismo per una
frase più veritiera: "Cose vecchie", o magari, "Il paradiso del tarlo".
Entrando si era immersi nella luce fioca di vecchi lampadari a gocce o in ferro
battuto che, pendendo da un soffitto troppo basso, costringevano le persone di
normale statura a compiere tortuosi percorsi per evitare spiacevoli contatti. Non
c'era una parete, una rientranza, una finestra, che fosse libera da specchiere
scrostate, cassettiere dalle maniglie di ottone verdastro, comodini ancora
olezzanti di medicinali e vasi da notte, ante di armadi ornati da volute entro le
quali l'espressione "la polvere del tempo" acquistava un significato palpabile.
Dove lo spazio lo permetteva, grandi tavoli zoppicanti erano sovraccarichi degli
oggetti più inverosimili, dai portacenere asportati negli alberghi di mezzo mondo
ai fonografi a tromba, passando per servizi di piatti spaiati, ventilatori dalle spine
in bachelite e caffettiere napoletane. Nell'insieme, si poteva pensare di essere
scivolati, per un qualche nodo spazio-temporale impazzito, nell'incubo di un
architetto neo barocco.
Di giorno, la bottega era frequentata da un popolo eterogeneo: signore che
volevano arredare alla rustica la casa di montagna, giovani coppie alla ricerca di
pagliuzze economiche per la costruzione del primo nido, anziani che vagavano
con l'aria triste assaporando le dimenticate fragranze della casa della loro
giovinezza.
Alla sera invece, appena il proprietario spegneva le luci e faceva sferragliare la
saracinesca, iniziava il mormorio delle cose.
Chi ha trascorso alcune notti in una vecchia casa ha certo avuto esperienza di
quei rumori misteriosi che rompono il silenzio senza alcuna causa apparente.
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Piccoli colpi ripetuti, un leggero tintinnio, un cigolio simile a un passo sulle scale,
un sospiro sospeso nel nulla. I superstiziosi rabbrividiscono e si tirano le coperte
sulla testa, aspettando con terrore la carezza ossuta di un fantasma; gli scettici
alzano le spalle riservandosi di controllare che un topo oppure un pipistrello non
si sia introdotto in casa da qualche apertura nascosta.
Soltanto pochi visionari, coloro che posseggono un'anima ancora aperta ai sogni
di fanciullo, intuiscono la verità: le cose che accompagnano a lungo le persone
nella loro vita più intima ne assorbono lo spirito e la memoria, e a volte parlano
tra loro con un linguaggio che all'orecchio umano altro non pare che un insieme
di rumori indistinti.
Quella notte nella bottega, in un ambiente ricavato dal muro di fondo e da due
tramezzi di cartongesso, pareva esserci stata una singolare agitazione.
Si trattava di una zona che aveva conservato miracolosamente la sua coerenza di
una dignitosa vecchiaia. Vi si trovava infatti l'arredo di una stanza matrimoniale:
un grande letto dalla testiera in ottone, privo di materassi ma con due reti delle
quali una sola appena infossata, un paio di comodini in legno di noce coordinati
con un grande armadio a tre ante e un comò sormontato da una specchiera dalla
cornice d'ottone. Su di un lato, una poltroncina imbottita, foderata di un bel
tessuto rosso scuro, faceva compagnia a un basso sgabello dello stesso stile e
colore. Sul comò, un portaritratti d'argento racchiudeva una fotografia d'altri
tempi, di quelle fatte in uno studio. Nell'immagine nemmeno tanto sbiadita, una
coppia si scambiava quel sorriso che soltanto due persone in totale sintonia
sanno scambiarsi.
Erano stati proprio quei mobili a rumoreggiare per primi.
- Hanno trovato la signora Pina! - dicevano gli scricchiolii del comò.
- L'avevano lasciata sola, era come se non esistesse; gli uomini non hanno un
cuore -, cigolava il letto.
- Ci hanno messo sei mesi ad accorgersene - aggiungeva con una serie di colpi
secchi l'armadio.
- Da quando quell'uomo l'ha lasciata, lei non è riuscita a ricostruire la sua vita -,
tossicchiarono all'unisono i comodini gemelli, che dicevano sempre la stessa cosa
nello stesso momento.
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Nel loro singolare linguaggio, i mobili seguitavano a scambiarsi ricordi. Tutti gli
altri oggetti nella bottega parevano ascoltare in silenzio. Soltanto una vecchia
pendola a contrappesi, caricata chissà quando e chissà da chi, scandiva i suoi
battiti e puntuale, ogni mezz'ora, batteva un suo commento.
- E pensare che sembrava così innamorato! Se le mie reti vi raccontassero cosa
hanno dovuto sopportare e tutte le cose che abbiamo visto fare...- L'abbiamo visto tutti, non dimenticare che eravamo al tuo fianco; noi a volte più
che di noce ci sentivamo di ciliegio, tanto ci veniva da arrossire!- Erano così felici quando lei rimase incinta, ma poi, dopo che il bambino venne
alla luce, si accorsero di come il destino era stato cattivo. Lui non ce la fece e da
perfetto egoista se ne andò. Mica erano sposati, lui semplicemente mi aprì per
portare via i suoi vestiti e sparì. Non mi voglio nemmeno ricordare il suo nome.- Povera signora Pina, troppo presa da quel bambino, era nato così malformato
che aveva dovuto passare tutta la vita in un istituto. Pensate, oltre trent'anni. - E lei si è ammazzata di lavoro per quel figlio e quando è morto non aveva più
alcuna ragione di vivere.- Sì, ma non doveva farci andare via, a me non piace stare qui.- La voce della
poltroncina aveva un tono risentito.
- Non ci ha fatto andare via, ci ha venduti tutti, ha voluto una bella tomba per
suo figlio, solo quello la interessava ed era l'unico modo per poterla avere.- Ricordo quel giorno. Ci hanno prelevato uno per uno, io che sono il più pesante
sono uscito per ultimo e ho visto sulle pareti i segni chiari dei quadri, i ganci
vuoti dei lampadari, le nostre impronte sul pavimento.- E' vero, ha tenuto soltanto il materasso, ricordo bene il dispiacere quando io e
lui ci siamo detti addio, eravamo insieme da così tanto tempo.- Anche noi l'abbiamo salutato, era davvero un caro amico.- E il signor Peiretto, che delinquente! Le ha dato una somma ridicola, quel porco
ci ha valutati come fossimo dei rottami e si è approfittato della situazione. Ma la
signora non ha mercanteggiato, non le interessava. Le bastava avere il necessario
per la tomba del figlio. E dopo si è capito il perchè.- Già, dopo aver pagato il funerale e la tomba, lei si è sdraiata sul materasso e
non ha più mangiato, non ha più bevuto, si è semplicemente lasciata morire. Era
inverno, sotto le finestre che aveva lasciato aperte c'era il solito traffico del
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quartiere. E il nostro era un bel quartiere, pieno di vita, di negozi, di luci. Eppure
nessuno nel palazzo dove abitava da sempre si è preoccupato. Nessuno da fuori
ha notato quelle finestre sempre aperte, nessuno ha visto quelle luci sempre
spente. Poi sono venuti quelli del gas e senza nemmeno bussare hanno chiuso il
contatore nelle scale, e anche allora nessuno ha fatto domande. Alla fine però il
vicino si è infastidito: era arrivata la primavera, lui teneva la finestra aperta, e da
quella della vicina giungeva un odore così sgradevole. Solo allora ha avvertito i
pompieri. - Eh sì, erano passati sei mesi dal funerale del figlio, e lei era morta di sete, di
fame e di dolore dopo un paio di settimane. Povera signora Pina, che vergogna per
chi non ha saputo aiutarla né da viva né da morta!- E che vergogna per il signor Peiretto, peggio di una iena, non lo sopporto
quando viene qui con qualche cliente e gli racconta quanto siamo pregiati, e ci
vuole guadagnare venti volte quello che ha dato alla signora Pina!- Vergogna, vergogna!- e questa volta era tutta la bottega ad urlare il suo
disprezzo, mentre dall'esterno giungeva il consueto rumore del pesante lucchetto
che veniva aperto.
Sollevando la saracinesca, Peiretto aveva ancora l'espressione allegra.
Aveva messo in tasca il giornale, in autobus si era riletto per la terza volta
l'articolo.
Il giorno prima il viavai di pompieri, polizia, ambulanza e curiosi nel palazzo
vicino lo aveva incuriosito. Qualche domanda in giro e il quadro gli era stato
chiaro. Poi l'illuminazione. La telefonata al suo amico della redazione aveva avuto
l'esito sperato. Il cronista aveva confermato che i mobili di quella disgraziata si
trovavano lì, da mesi, nella sua bottega e aveva pure aggiunto molti dettagli.
Conoscendo la natura umana, Peiretto era sicuro che per parecchi giorni ci
sarebbe stato un corteo di persone morbosamente curiose di vedere "la stanza
della signora Pina", dove c'era persino la sua fotografia in una cornice d'argento.
Questo avrebbe significato un buon incremento degli affari. Di certo avrebbe
trovato qualcuno che avrebbe comperato a un prezzo assurdo quei mobili che da
troppo tempo alimentavano colonie di tarli nell'angolo migliore della sua bottega.
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Per un attimo il signor Peiretto si arrestò sulla soglia, il sorriso congelato sul
volto. Gli era parso come se i soliti suoni che ogni tanto sembravano provenire da
tutto quel ciarpame fossero molto più forti del solito, quasi che avessero appena
cessato di rumoreggiare e l'eco di quell'insolita cacofonia si stesse smorzando in
quel momento.
Scrollò le spalle dandosi del cretino, lasciò la giacca sulla sedia dell'ufficio, prese
da un armadietto uno spray e lo straccio e si diresse verso la camera. Ecco, sì, un
bel cartello con una freccia "Alla camera della signora Pina" ci sarebbe stato
proprio bene. Avrebbe provveduto. Come avrebbe provveduto subito a una buona
spolverata, oggi ci voleva proprio.
Eppure non c'era dubbio: il rumorio delle vecchie cose si faceva sentire più del
solito. Peiretto vene colto da uno strano senso di inquietudine mentre passava tra
due pareti di mobili e i suoni parevano aumentare, circondandolo. Sfiorò appena
una libreria e senza alcun motivo apparente una piccola statua della libertà
piombò giù dallo scaffale più alto, andandosi a infrangere molto vicino, alle sue
spalle. Bestemmiando, decise che sarebbe tornato dopo a fare pulizia dei
frammenti sparsi su tutto il pavimento.
Certo che quella caduta era strana, chissà cosa l'aveva provocata, pensò mentre
raggiungeva la stanza.
Peiretto s'infilò nello spazio tra il letto e l'armadio e si mise a spolverare il primo
comodino. In quel momento la vecchia pendola iniziò a rintoccare e lui
istintivamente si voltò, sorpreso dall'improvviso e questa volta indubitabile
crescendo di cigolii, tintinnii, schiocchi e altri rumori del tutto insoliti, tra i quali
fece in tempo ad udirne uno, molto, molto vicino.
Un trafiletto nella cronaca locale introduceva una colonna scritta frettolosamente.
In fondo era un fatterello come ne capitano tanti, solo un po' curioso nella sua
drammaticità:
"MUORE SCHIACCIATO DA UN ARMADIO A TRE ANTE
proprietario di un negozio di oggetti antichi deceduto a causa di un
inspiegabile incidente".
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Alla luce rossa della candela
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Spesso le porte di legno cigolano.
Ma questa aveva proprio bisogno di una buona oliata, non poté fare a meno di
pensare la donna nerovestita, mentre gli echi di un cigolio inquietante
rimbalzavano nella navata della chiesa deserta.
All’interno, in puro stile gotico, gli archi a sesto acuto si perdevano nel buio,
mentre dal rosone e dai finestroni stretti, chiusi da vetrate policrome, filtravano
solo i toni scuri della luce esterna, un indaco profondo e un rosso sanguigno, che
si spandevano quasi vischiosi sugli antichi legni del coro.
La donna si rese conto di essere sola, e così avanzò senza curarsi del suono
martellante dei suoi tacchi a spillo, sormontati da un paio di gambe affusolate e
nervose.
Era non più giovanissima, Rosetta, ma sotto il velo si intravvedevano due
splendidi occhi verde chiaro e un volto che ancora non avrebbe sfigurato sulla
copertina di qualsiasi giornale di moda. Come il resto del corpo, che il vestito nero
fasciava in modo discreto, ma non celava del tutto. Evidente sotto la stoffa era il
libero sussultare di due seni floridi a ogni passo che avvicinava la vedova, che
tale era da poco, all’altare principale.
Era entrata in quella chiesa con uno scopo ben chiaro in mente: si sarebbe
finalmente tolta ogni peso dalla coscienza.
Sì, avrebbe confessato tutti i suoi peccati e avrebbe rinunciato per sempre ai suoi
molti amanti.
Il rimorso per la morte del marito, l’unico uomo che avesse mai veramente amato,
l’aveva precipitata in una profonda crisi di pentimento. Forse erano stati proprio i
suoi continui tradimenti, mai nascosti, a minare prima lo spirito e poi il corpo del
suo amato Giovanni, che infine una notte le era morto tra le braccia nell’impeto di
uno dei rari amplessi che lei ancora gli concedeva.
Rosetta suonò il campanello del confessionale e un trillo lontano, in qualche
angolo della sagrestia, le confermò che presto un sacerdote sarebbe arrivato ad
ascoltare tutti i suoi peccati. Forse ne sarebbe uscito sconvolto, il pretino, si disse
lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso malizioso.
Nell’attesa si sarebbe preparata. Si avvicinò all’altare, infilò una moneta nella
cassetta delle offerte, prese una lunga candela, l’accese alla fiamma di un’altra e
la fissò sul candeliere in ferro.
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Si inginocchiò mentre la candela ardeva sempre più decisa, più forte, più
luminosa.
- Accidenti, ma quanta luce fa quella candela?- si domandò sorpresa,
accorgendosi di un chiarore strano che si stava diffondendo proprio sopra la sua
testa.
Alzò gli occhi e vide qualcosa che la lasciò a bocca spalancata, mentre una strana
sensazione sembrava irradiarsi dalle radici dei suoi capelli giù, lungo la spina
dorsale.
Un raggio di luce rossastra proveniente dal rosone andava a cadere proprio dove
la fiammella della candela faceva tremolare l’aria sovrastante. In quel pezzetto di
nulla, luminosissimo, si stavano formando delle immagini che, da vaghe e
confuse, diventavano sempre più precise.
Rosetta era come impietrita, incapace di distogliere lo sguardo da... ma santo
cielo, quello era Giovanni! Ed era nudo, in piedi. Non solo nudo, ma nello
splendore, si fa per dire giacché non era molto dotato, della sua erezione. E non
era solo. Una donna inginocchiata davanti a lui si stava dando da fare
volenterosamente.
Per un momento anche il viso di lei divenne chiaro, per
quanto un po’ distorto dall’esercizio che stava compiendo con entusiasmo. Patrizia, quella troia! - esclamò Rosetta. Patrizia, colei che le confidava di aver
avuto cento amanti ma che non avrebbe toccato con un dito il marito di una sua
amica. E infatti, non era un dito quello che stava usando.
Ma già la scena andava sfocando e le si sovrapponeva, come in una dissolvenza
incrociata, un’altra immagine. Il protagonista maschile però era lo stesso, sempre
nudo, ma questa volta comodamente sdraiato sopra un letto che Rosetta
riconobbe come il loro. Sopra di lui un paio di tette prosperose sussultavano a
ogni movimento - e si muoveva, eccome se si muoveva - di Roberta, la moglie del
panettiere.
- La santarellina, brutta maiala, e pure sul mio letto! Rosetta si alzò in piedi quasi urlando, mentre la terza scena si componeva
lentamente, mostrando questa volta un groviglio di corpi nel quale a fatica si
distinguevano due donne sconosciute e il solito Giovanni, che si rotolavano in
quella che pareva la stanza di un motel di lusso, con tanto di enorme materasso
ad acqua e specchi dappertutto.
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Rosetta non aveva più parole, lo stupore stava lasciando il posto alla furia.
Come, il suo Giovanni, il suo tranquillo, remissivo, dolcemente e coscientemente
cornuto Giovanni, l’aveva ripagata della stessa moneta? E lei, cretina, che si stava
per pentire, stava per rinunciare ai suoi amanti e dedicare il resto della sua vita
al ricordo del suo amore? Un porco, ecco quello che era!
Rosetta strappò con rabbia la candela dal candelabro, sbattendola per terra e
lasciando così interruptus il coito multiplo che si stava allegramente consumando
nella luce sopra la sua testa.
Si voltò di scatto, incrociando un basito sacerdote che, diretto al confessionale,
nulla aveva veduto se non il gesto violento che aveva spento la candela.
I tacchi risuonarono come fucilate sul pavimento di pietra mentre Rosetta frugava
nervosamente nella borsetta alla ricerca del suo cellulare. Non era ancora arrivata
a far cigolare la porta che le parole della donna, quasi urlate, giunsero alle
orecchie del povero sacerdote che si affrettò a segnarsi avvampando: - Preparati,
tesoro, che arrivo e ti faccio un servizio come non hai mai avuto in vita tua!Una mano elegante, affusolata, spense il monitor sulla scrivania.
- Geniale, devo ammetterlo - fu il commento soddisfatto - stavamo proprio per
perdercela quella cliente, e invece ecco dimostrato ancora una volta che la
strategia a lungo termine paga. Tra grandi fratelli, dibattici politici, e come li
chiamano... ah sì, reality, la gente oramai crede a tutto, basta propinarglielo
sopra un bello schermo a colori. E questa volta è stato ancora più divertente,
eravamo pure in trasferta... - concluse con una risatina ironica.
Si accese un sigaro, si accarezzò il pizzetto ben curato e si allungò rilassato sulla
poltrona, arrotolando la lunga coda puntuta in modo che non gli facesse quello
scomodo mucchietto sotto al sedere.
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Sogno di ghiaccio antico
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Ancora pochi passi e il bosco di larici era alle mie spalle, appena più in basso.
Qua e là, dove il terreno volgeva a nord, aspro e perennemente ombroso, chiazze
di neve crostosa ricordavano che l'inverno non era trascorso da molto. Eppure, il
pascolo appariva già punteggiato dal croco e dai primi tarassachi.
Dall'alto, nel silenzio del canto degli uccelli e del fruscio del vento, giungeva ogni
tanto lo schiocco del ghiacciaio, quel suono secco e scrosciante che si fa quasi
tuono rimbalzando tra le pareti rocciose.
Mi aggiustai sulle spalle lo zaino leggero e ripresi a salire, aggirando le rocce e
attraversando i numerosi ruscelli che cantavano per chiunque fosse disposto ad
ascoltare. Superai i canaloni ombrosi, dove i nevai stillavano lentamente
immolandosi al sole per donare l'acqua alle fioriture di primavera. Infine, dopo
molti passi faticosi, giunsi ai piedi dall'antico gigante dai riflessi azzurrini,
immobile solo in apparenza.
Perché il ghiacciaio è vivo; scivola lento nei valloni con tutta la forza della
creazione, incide e spacca la roccia, sospinge i massi come fossero mandrie di
strani camosci; poi, alla fine del viaggio, raggiunge il fronte, cadendo a schegge, a
brani, a costoni e ritorna tra le braccia di madre acqua, per morirvi nel sole in un
ultimo fremito di gocce lucenti.
Così, al suo termine, si forma uno specchio grigio, continuamente mosso dal
vento e dal precipitare di ghiaccio e rocce, mentre piccole isole in dissoluzione
ondeggiano sulla superficie, sospinte dal capriccio dei venti.
Dopo aver superato l'ultima salita, mi fermai rapito da quello spettacolo che pure
avevo già visto altre volte.
"C'è qualcosa di nuovo, oggi nel sole, anzi d'antico". Una reminiscenza scolastica
mi salì alle labbra spontaneamente. C'era effettivamente un ché di indefinibile in
quella visione senza tempo. Provavo una strana inquietudine, mi pareva ci fosse
qualcosa di sospeso, qualcosa che mi sovrastava. Respirai a lungo l'odore del
ghiaccio e dell'aria finissima, mentre il ritmo del cuore e dei polmoni rallentava
senza fretta, a ricordarmi che l'età esige il suo pedaggio.
Inquieto, camminai ancora un poco sulla riva morenica, verde di bassa
vegetazione e degli ultimi larici, alla ricerca del luogo asciutto e riparato dal vento
che ben ricordavo.
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Era quello un piccolo seno del lago dove, millenni prima, una roccia appiattita,
scivolando e rimbalzando giù dal crinale irto di pinnacoli spezzati, si era arrestata
e ora offriva uno spazio di rude comodità per il riposo di chi vi si fosse inerpicato.
La trovai, mi liberai dello zaino e indossai indumenti asciutti al posto di quelli
fradici del sudore della salita. Mi sdraiai, godendomi il sole come una lucertola
alla sua prima uscita dopo l'inverno.
Silenzio. Il volo di un'aquila. Lo sciacquio tra le pietre, forse le ombre sfuggenti
degli stambecchi, lassù tra le rocce.
Di nuovo mi posi la domanda di come fosse nato quel nome, lago della battaglia, e
chi mai fosse arrivato sino là per corrompere con l'odio e col sangue quel tempio
della natura.
Guardando e ascoltando, mi era impossibile concepire due eserciti, o anche
soltanto due manipoli di uomini armati alla meglio, arrampicarsi sin lassù per
darsi la morte, in quel santuario di vette che perdendosi tra le nubi
annichiliscono qualsiasi uomo e qualunque sua superbia.
Avevo fatto ricerche, ma nessuno aveva saputo darmi una risposta certa su quale
battaglia si fosse combattuta, e neppure se mai una battaglia vi fosse davvero
stata.
Questi pensieri attraversavano la mia coscienza mentre il tepore, il mormorio
delle acque e il fruscio del vento mi facevano chiudere gli occhi. Ben presto, la
testa appoggiata sullo zaino, caddi in quello strano torpore dove il sonno ancora
non chiude la porta alle sensazioni del mondo, ma già i sogni si infiltrano
silenziosi tra i pensieri.
Un'altra persona camminava sulla riva.
C'era solo una parola che poteva definirla al suo apparire: un guerriero.
L'elmo di cuoio indurito, la spada forgiata nel ferro, lo stesso metallo della cotta di
maglia indossata sulla lunga tunica di lana grezza. I calzari, di pelle come lo
scudo rotondo e rinforzato di borchie. Lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle a
incorniciare una barba già grigia e un volto duro. E gli occhi, dello stesso freddo
colore dell'acqua e del cielo.
Il guerriero si fermò sulla sponda, osservando il lago, dove un pesce, in un guizzo
di scaglie lucenti, afferrò una libellula in volo. Ristette immobile sino a quando i
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cerchi si infransero sulla riva con un lieve sciacquio, poi si volse verso di me, ma
quasi parlando a sé stesso.
- Vedi, le nostre vite sono come questi cerchi, creati da qualche essere che ci è
estraneo. Egli è indifferente sia a ciò cui ha dato vita, sia alla sua rapida fine.La voce era bassa, poco più di un sussurro. Dopo un breve silenzio, riprese:
-Tu riposi dove io dormo da mille e più anni. Mille e più volte ho visto le nevi
coprire il lago ghiacciato. Lievi, le zampe dei camosci mille e più volte sono
passate sul mio corpo disfatto e mille e più volte in questo tempo senza fine ho
sentito il vento spirare dal Nord, portando gli odori lontani del mio paese, dove i
miei figli mi attesero invano e la mia donna fu data ad un altro.
Ci crearono gli Dei, e poi ci dissero di andare a combattere genti sconosciute, che
gli ori, le femmine e le messi sarebbero stati nostri, perché così era scritto. Il guerriero si volse e iniziò a risalire il sentiero che si perdeva sulla morena, ma
la sua voce ancora giungeva chiara.
- Uomo, ora io lo so, tutto è un inganno che non abbiamo ancora imparato a
riconoscere. Gli dei sono crudeli e indifferenti alla nostra sorte, e le stesse cose
che dicono a noi le dicono ai nostri nemici. Così, in loro nome, ci spingono a dare
e ricevere la morte, mentre loro amano, bevono il vino migliore e mangiano miele.
E ricorda: essi ridono dell'umana stupidità.Io mi riscossi dal torpore e mi guardai intorno spaventato, ma non vidi altro che il
lago e le montagne. Scesi sulla riva, tra le rocce e i pini mughi e mi chinai a
bagnare il viso con l'acqua gelida, quasi a scacciare l'immagine che mi aveva
appena invaso la mente.
Dall'alto del ghiacciaio, con il consueto suono schioccante, si staccò uno dei tanti
frammenti. Rimase a galleggiare sulla superficie, ondeggiando semisommerso
come se fosse più pesante del solito.
Al suo interno, in quella trasparenza incerta, una massa scura. Pareva un corpo,
e forse fu solo suggestione, ma vidi una spada, uno scudo, una massa di capelli
biondi.
Di lì a poco il frammento di ghiaccio, spinto dal vento verso il centro del lago, si
spezzò e quell'ombra appena intravvista s'inabissò nella sua dimora di fango e
pietre con un gorgoglio sommesso.
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Io rimasi ancora ad osservare la luce del sole che giocava con le increspature
della tramontana; l'inquietudine che mi aveva accompagnato da quando ero
giunto sulla riva mi aveva lasciato, svanita come inghiottita dal lago insieme a
quell'ombra. Al suo posto, un senso di quiete e appagamento.
Mi chinai, ma sull'acqua non vidi il mio volto di uomo anziano.
Ciò che osservai nel tremolio lattescente fu solo il riflesso dei secoli trascorsi da
quando quell'acqua si era posata lassù, in forma di neve, al confine tra il cielo e
la montagna.
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Ancora un canto di Natale
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Da sempre quando consumo un pasto in solitudine mi piace leggere.
"Marley was dead, to begin with."
Tanto per cominciare, Marley era morto. Un incipit folgorante che non potevo fare
a meno di associare al mio tacchino, assaporato in ricca porzione; il tacchino
Marley in effetti era morto come un chiodo in una bara, per citare ancora la mia
lettura aperta a fianco del piatto.
Forse perché il Natale era alle porte, forse perché fuori nevicava fitto, forse perché
da alcuni giorni stavo facendo il bilancio di tante cose, mi era venuto il desiderio
di riprendere in mano il "Canto di Natale" di Charles Dickens.
Un'ora dopo, del povero tacchino Marley non era rimasto che qualche ossicino,
del contorno di cavolini nemmeno quello e quanto al vino, un Fumin delle cantine
Grosjean, nel decanter non aleggiava altro che il profumo: il soave, corposo, ben
strutturato nettare mi aveva deliziato le papille gustative e poi infuso un certo
torpore. Così, giunto alle ultime pagine del libro, mi andai ad avvoltolare
anzitempo nelle coperte per godermi il totale silenzio di una notte di neve in
montagna.
A una certa ora però mi svegliai allarmato. Qualcosa si muoveva nella casa, non
c'era dubbio. Accesi la luce e mi guardai attorno. Nulla.
- Chi c'è? Ho il cellulare, chiamo la polizia!Bel bluff, come rilanciare con una coppia di due: anche trascurando il fatto che
lassù il cellulare funzionava oppure no secondo indecifrabili umori, i carabinieri
più vicini erano a una trentina di chilometri di strada di montagna innevata: se
c'era un malintenzionato avrebbe fatto in tempo a spennarmi, cucinarmi e
rosicchiarmi sino all'ultimo ossicino, proprio come il tacchino Marley.
Per tutta risposta, dalla stanza attigua mi giunse uno strano rumore, come uno
zampettio. Poi un chiarore intermittente dove diversi colori si alternavano con
ritmo lento.
Decisi che dovevo andare a vedere, costasse quello che costasse. Impugnai il
bastone da trekking che avevo lasciato accanto alla porta-finestra e mi avviai
verso l'altra stanza. Mi piacerebbe dire che lo feci risolutamente, ma l'avverbio più
adatto era "tremebondamente".
Entrai in sala e subito mi fu chiara la fonte di quella luce policroma: il piccolo
albero di Natale, uno di quelli di plastica che si acquistano al supermercato già
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addobbati. Ma io ero certo di averlo lasciato con la spina staccata, non avevo
alcuna intenzione di accenderlo.
Per quello che viene dopo occorre intenderci subito, se no è meglio che cambiate
lettura.
Il padre di Amleto è morto stecchito già all'inizio del dramma. Se non crediamo
agli spettri, la sua successiva passeggiatina sugli spalti del castello di Elsinore è
una solenne baggianata. Ora, chi vuole sostenere che l'Amleto sia una solenne
baggianata?
Dicevo dell'alberello che rischiarava la sala. Subito dopo quella scoperta mi sentii
rimescolare la cena nello stomaco.
Traslucido come un miraggio, enorme, grasso, oscenamente spennato, gli occhi
che mi fissavano iniettati di sangue, c'era Marley, il tacchino. Era verde, poi
giallo, era rosso, poi ancora verde. Era del colore delle luci dell'albero che si
accendevano in sequenza.
- Ma... ma tu sei morto e mangiato - dissi stupidamente brandendo il bastone.
- Certo, ma non te ne voglio, non sono qui per questo.Parlava. Chissà perché la cosa non mi sorprese più di tanto.
- E allora cosa stai facendo qui, cosa vuoi da me? - Io? Non voglio molto e a dire il vero non sono nemmeno un tacchino. Ho pensato
di presentarmi così per non spaventarti troppo.- Grazie, molto gentile, in verità sono abbastanza spaventato anche così. Ma se
non sei un tacchino, chi diavolo saresti?- Hai appena finito di leggere un certo racconto e quindi puoi immaginarti chi
sono.- Veramente nel "Canto di Natale" di spettri ce ne sono a bizzeffe, a iniziare da
quello di Marley. Ma io non ho soci d'affari, quindi suppongo che tu pretenda di
essere uno degli spiriti del Natale.- Io non pretendo, io sono. Per l'esattezza sono lo spirito del Natale Presente e
sono venuto, tra le altre cose, perché tu mi devi delle scuse.Spettro oppure tacchino, chiunque fosse non vedevo perché avrei dovuto chiedere
scusa a qualcosa che nemmeno credevo reale, e glielo dissi.
Per tutta risposta venne fuori con una specie di ruggito accompagnato da uno
strano rumore metallico che fece tremare i doppi vetri della sala.
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- Tu non accogli più lo spirito del Natale, dovresti vergognarti, implorare il mio
perdono, correre fuori a fare festa, comperare i regali e fare felici tante persone!Io sono un po' timido e pure incline a mediare, ma non aggreditemi sopratutto
quando penso di essere dalla parte della ragione. A quel punto l'arrabbiato ero io,
e ben deciso a farmi valere.
- Bene, sono contento che tu sia venuto, almeno ti dico di persona perché non ti
voglio, anzi ti detesto, e sempre più persone la pensano come me!- Ma cosa dici? In tutto il mondo brillano le luci, si canta "Jingle bells", si
scambiano doni, io sono ovunque più vivo e presente che mai! - Ecco, questo è proprio un aspetto del problema. Sei fin troppo vivo.- E da quando essere troppo vivo sarebbe un problema?- Lascia che ti racconti io una storia. Vedi, quando ero piccolo...- Aaah che palle, sempre la solita solfa! Tutti a dire com'era bello il Natale da
bambini, il calore di mamma e papà, dei fratellini o sorelline, l'albero, i regalini...
bla bla bla, che lagna! Possibile che non vi rendiate conto di quanto sono più
bello adesso, più allegro e sopratutto più ricco?- Questo è il punto, mio caro. Sei ricco, sfacciatamente ricco come uno sceicco del
petrolio e se non bastasse, sei pure cieco, muto e sordo. Assomigli alle tre
scimmiette, sai quelle che si mettono le mani sugli occhi, sulla bocca e sulle
orecchie? E' inutile che adesso inizi a sferragliare trascinando chissà quali
catene, saranno certamente d'oro e proprio non mi fai pena. - Sei tu che mi fai pena, e pensare che ho acceso il tuo miserando alberello,
volevo tirarti su di morale, magari farti venire voglia di prendere la macchina e
andare in paese. Sai, c'è festa giù nel Pub, c'è musica e gente felice.- Gente che pensa di comperare la felicità, vuoi dire. Felice era un tempo, sì
proprio quel tempo con mamma e papà, l'angelo di cartone sull'alberello vero, il
regalino povero ma atteso come un miracolo. Se tutto ciò ti fa dire "che palle" puoi
dirlo, ma io ti vorrei ancora così, con quelle serate in famiglia dove il calore era
quello di una stufa a legna e non c'era bisogno di decine di pacchetti costosi per
sentirsi felici. Tu sei qui, bello grasso e chiassoso, ma non sei come dovresti
essere.-
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- Se parli di queste forme da tacchino hai ragione, ma per il resto come dovrei
essere, di grazia? Tutto si evolve, tutto cambia e pure io sono cambiato, c'è
qualcosa di male in questo?Oramai nulla mi avrebbe trattenuto e così gli snocciolai una tiritera che avevo
bella e pronta da tempo ma che nessuno era ancora riuscito a tirarmi fuori.
- Oh no, non è il cambiamento in sé, è come si cambia. E tu sei cambiato troppo e
male. Ma guardati! Se ti prendessi la briga di usare quelle alucce da tacchino e di
andare un po' in giro per il mondo, vedresti quello che vedono tutti, vedresti ciò
che accade ogni altro giorno dell'anno, non solo a Natale. E cosa vuoi che sia un
giorno di ipocrita bontà rispetto ai trecentosessantaquattro dove tu non ti fai
vivo? - Io veramente... - tentò di interloquire l'ombra del pennuto, ma io ero lanciato e
non lo lasciai continuare.
- Era una domanda retorica, e ora te ne faccio un'altra: dove sei tu, quando i
mercanti nel tempio svendono la giustizia, l’onestà, la salute, la fede, persino il
Bambino, il bue e l’asinello? La capanna non la toccano solo perché c'è la crisi del
mercato immobiliare e non è il momento di vendere.Era un tantino sconcertato, si vedeva dai bargigli afflosciati, più penduli che mai
e si percepiva dal tono della voce quando tentò una risposta.
- Ma pure nei tempi passati esistevano queste cose, e persino peggiori di queste,
eppure il Natale era un giorno felice.- In passato era molto più facile non sapere o far finta di non sapere. Oggi
sappiamo, sappiamo tutto, ce lo fanno vedere a colori e alta definizione tra una
pubblicità e l'altra.
Sai, altro che iene e tigri, è l’uomo l’unica autentica belva feroce, l’unico del
creato che sorride coi denti arrossati del sangue del fratello mentre ti augura
“Buon Natale”.Non replicò. Restammo a fissarci per lunghi istanti mentre gli occhi di Marley
cambiavano colore: verde, giallo, rosso, ancora verde. Poi nelle sue pupille il
riflesso di un lampo improvviso, seguito immediatamente da un tuono
vicinissimo.
L'alberello si spense e con lui pure la luce nella camera da letto. Il buio era di
nuovo padrone della casa.
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Andai a tentoni a ripristinare l'interruttore che era saltato, accesi tutte le luci e
chiamai, cercai, confesso che guardai persino sotto il letto come un imbecille.
Nessuno.
Alla fine mi convinsi di aver avuto uno strano incubo, complici i cavolini e un
bicchiere di troppo.
Ma chi avrebbe potuto ancora dormire?
All'alba aveva smesso di nevicare e lo spettacolo era meraviglioso. Mi vestii di
tutto punto, presi dal ripostiglio le racchette da neve e uscii per andare a fare una
camminata lungo i sentieri che conoscevo bene. Forse il freddo e l'aria tersa mi
avrebbero rischiarato definitivamente le idee.
Non mi meravigliai troppo se per un lungo tratto, dalla porta sino ai margini del
bosco, le mie orme si sovrapponevano passo dopo passo ad altre ancora fresche
che al mio occhio poco esperto parevano quelle di un grande tacchino. Là, dove la
neve tornava intatta, un piccolo abete si ornava di ghiaccioli che, illuminati dal
primo sole, brillavano di tutti i colori del creato.
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A caval donato
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Calimero stava suonando.
Il mio cellulare era piccolo e nero come il famoso pulcino della pubblicità, da qui
il nome che gli avevo affibbiato; quindi non c’era nulla di strano nel fatto che
suonasse, a volte un telefono suona, lo hanno costruito per quello.
Di strano c'era la suoneria: non era la solita.
Invece dell'allegra marcetta de "Il ponte sul fiume Kway", stava scandendo delle
note solenni. Avevo l'orecchio esercitato alla musica classica e mi sembravano
proprio le famose quattro note iniziali di... ma no, impossibile, che diavolo era
successo al mio telefonino? Me lo chiesi mentre cercavo di leggere senza occhiali
il nome sullo schermo.
Questa fu la prima avvisaglia, avrei dovuto alzare le antenne e forse non sarei
nelle condizioni nelle quali mi trovo ora. Ma si sa, del senno di poi...
"NESSUN NUMERO", diceva Calimero.
- Pronto?Una serie di rumori confusi, poi una voce femminile, un poco strana per via di un
rimbombo, o forse di un'eco:
- Marco? Sono io, tua cugina Angela.La cugina Angela? Una cugina alla lontana, di un ramo femminile della famiglia a
me quasi sconosciuto.
L'avevo vista un paio di volte da ragazzo, in occasione di qualche funerale, o
matrimonio, non ricordavo bene. Ma ricordavo la sua figura sgraziata, alta e
pallida, e un sorriso strano portato dai denti all'infuori. Non era certo la cugina
per la quale si sollevano tempeste ormonali negli adolescenti, seppure in
affannosa ricerca di un'alternativa al biblico peccato di Onan.
- Angela? Ma saranno trent'anni che non ci vediamo, dove sei? - Qui. Una risposta illuminante. Poi, senza darmi il tempo di chiedere "qui dove?"
proseguì:
- Ricorderai certo la prozia Marta... La prozia Marta? Cos'era, "caramba che sorpresa"? Prima la semisconosciuta
cugina, ora una prozia della quale, da ragazzo, udivo talvolta favoleggiare tra
parenti nel salotto di casa; ne parlavano come di una vecchia zitella agiata,
maligna e che adorava i cavalli.
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- Veramente non credo di averla mai vista, pensavo fosse morta chissà da
quanto.- Infatti è morta, ma mi ha lasciato un incarico, qualcosa da fare nel giorno di
quello che sarebbe stato il suo centesimo compleanno. - Un incarico? E io cosa c'entro, scusa?- Tu sei il destinatario di un suo dono, devo consegnartelo personalmente, il suo
compleanno sarebbe oggi.Istintivamente il mio sguardo corse al calendario sulla scrivania e tutto mi parve
chiaro: era il primo d'Aprile. A me gli scherzi non sono mai piaciuti e poi di farmi
prendere per i fondelli da una sedicente lontana cuginastra proprio non mi
passava per la testa. Così risposi con un tono di voce che avrebbe congelato sul
posto una colata di lava:
- Senti, Angela o chiunque tu sia, io quando voglio il pesce vado in pescheria,
quindi ti saluto e a non risentirci.- Aspetta, non è uno scherzo ti assicuro, io sono un notaio, e ci sono in ballo
anche dei bei quattrini.Quattrini? Soldi? Palanche? Euro? Qualunque valuta in quel momento sarebbe
stata una manna dal cielo. La mia attività era andata a puttane e si vede che lì si
trovava bene: era sparita, dissolta, accidenti alla crisi. Il mio conto, già così
striminzito da figurare nei tabulati della banca come terzo decimale dopo la
virgola, stava dissolvendosi pure lui. Un aiuto in vil denaro sarebbe stato come
quelle scosse che i medici di ER danno ai moribondi e quelli si mettono a saltare
sul lettino, mai capito se per la scossa o perché sono felici di essere di nuovo tra i
vivi.
- Ah sì, e di cosa stiamo parlando, cugina notaia? - risposi riscaldando appena un
poco il tono.
- Cosa esattamente non te lo posso dire ora, ma parlando di soldi, non meno di
qualche decina di migliaia di euro. E poi c'è dell'altro.Migliaia di Euro!
In quel momento per qualche decina ero disposto a farmi
prendere per i fondelli, per qualche centinaio a calarmi i pantaloni e che mi
prendessero dove volevano.
- E cosa dovrei fare per avere tutto questo ben di Dio?- Solo venire al mio studio e firmare un atto di accettazione INCONDIZIONATA 29
notai l'enfasi sull'ultima parola - e devi farlo oggi stesso, alle 19.- E dove sarebbe il tuo studio? - Vico del Boia 66 interno 6, notaio Angela Dellamorte. Ciao, ti aspetto,
arrivederci a questa sera.E riattaccò.
Notaio Dellamorte, vico del Boia? Un’istintiva corsa della mano verso il basso alla
ricerca di un contatto scaramantico chiarì cosa ne pensavo.
Di chiedere a Calimero di richiamarla non se ne parlava, quel "nessun numero" lo
rendeva più omertoso di un picciotto corleonese. Ma potevo fare qualche
controllo.
Andai al computer, aprii le pagine gialle, inserii professione, cognome, indirizzo:
nulla, sconosciuto. Andiamo bene, mi dissi.
Ripetei l'operazione con le pagine bianche: stesso risultato, in compenso appresi
che in città c'era un Dottor Dellamorte Celeste, geriatra. Sarei stato curioso di
conoscere i suoi eroici pazienti.
Prima di arrendermi e decidere che si era trattato davvero di uno scherzo idiota
ma ben congegnato, mi rammentai di avere ancora una vecchia edizione cartacea
delle pagine gialle, risalente a una decina d'anni prima.
Mi ci vollero pochi minuti per cercare nella categoria e trovarla: Dottor Dellamorte
Angela, studio vico del Boia 66. E c'era, ovviamente un numero di telefono.
Presi in mano Calimero ma mi accorsi che doveva essergli capitato qualcosa: sul
suo display lampeggiava disperatamente il numero 666 e non c'era verso di
ripristinarlo. Provai a estrarre la batteria per azzerarlo, ma quando la rimisi al
suo posto il risultato non cambiò: 666 lampeggiante.
Accidenti, prima la suoneria impazzita, ora il display: povero Calimero, lui era
defunto ed io, che non avevo più il numero di rete fissa, ero tagliato fuori dal
mondo.
Uscii sbattendo la porta per andare di corsa a comprarmi un altro telefonino.
Per il resto della giornata tentai più volte di comporre quel numero, ma non
accadeva nulla: nessun segnale, nessuna dannata vocina che dicesse "siamo
spiacenti ma il numero da voi selezionato..." . Il silenzio totale.
Feci pure qualche telefonata ai pochi parenti che mi restavano e che forse
potevano darmi notizie della cugina, ma o non li trovai, o non sapevano nulla.
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Alla fine mi arresi, tanto alle 19 mancava poco. Cosa mi costava andare a vedere?
Alla peggio avrei trovato un gruppo di amici sghignazzanti, pronti a sventolarmi
un pescione di carta sulla faccia, ma tanto non avevo impegni: quando la fortuna
ti gira le spalle c'è una folla di persone che fa la stessa cosa e taglia i ponti. Beh,
almeno se fossi caduto in un pesce d'Aprile avrei potuto contare gli amici che mi
restavano.
Vico del Boia era in pieno centro storico, una delle tante viuzze medievali
inaccessibili al traffico privato, quindi presi un autobus e mi feci un po’ di strada
a piedi tra vecchie case, vecchie botteghe e vecchie puttane che offrivano la loro
merce a prezzo di saldo.
Il numero 66 era un portoncino grigio, tra una bottega di barbiere deserta e un ex
cinema a luci rosse chiuso da tempo, impallinato dai DVD e da internet, Non
c’era alcuna targa di notaio o altro, solo un riquadro chiaro a lato lasciava
intendere, forse, la sua presenza in tempi passati; ma non c’era neppure la
temuta congrega di burloni sghignazzanti.
Salii la scala buia tra un tanfo di muffa e altri sentori che preferivo non
identificare e al terzo piano mi trovai davanti ad un uscio aperto che dava su un
ingresso illuminato. Avevo contato le porte, di numeri non se ne vedevano ma
doveva essere l’interno 6.
- Sei in ritardo entra.La stessa voce che avevo udito al telefono, la cugina notaio esisteva, dopotutto.
- Ciao cugina, se ti dico che hai l’ufficio in un posto… un tantino particolare ti
offendi?- Volevo dire un posto di merda, ma mi ero corretto, forse non era
l’approccio migliore con chi doveva darmi dei soldi.
- Accomodati, sbrighiamo la cosa in pochi minuti-, mi disse dopo avermi dato una
mano gelida e avermi accompagnato in uno studio illuminato solo da una
lampada da tavolo.
- Ti ho già spiegato al telefono le cose essenziali- e così dicendo armeggiò in un
cassetto dal quale alla fine estrasse una voluminosa busta di colore marroncino.
- Qui ci sono titoli al portatore per un valore di venticinquemila euro, controlla
per favore.-
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Venticinquemila euro? Non mi risolvevano i problemi della vita ma un bell'aiuto
me lo avrebbero dato. Esaminai il contenuto della grossa busta e in effetti trovai
dei BOT e dei CCT per quel valore.
- Bene, ora leggi quest’atto di accettazione irrevocabile, firmalo e sarai
proprietario di questi titoli e di quant'altro la prozia ti ha destinato.- Prima posso sapere di cosa si tratta?- Non è qui, ti sarà recapitato a casa questa sera stessa, ma solo se firmerai,
beninteso. Ti posso garantire che non si tratta di qualcosa d’illegale, o comunque
nocivo, sempre che sia trattato col rispetto dovuto a qualcosa di molto antico.- E questo cosa vuol dire esattamente, che se dovessi trascurarlo esploderebbe, o
mi ucciderebbe, o che altro?- Nulla di così drammatico, la tua vita non sarà certo in pericolo, anche questo te
lo posso garantire. Ora leggi e firma, se no questa busta finisce in beneficenza, e
sarebbe stupido, non credi? Come dice il proverbio, a caval donato non si guarda
in bocca - disse in tono conclusivo, battendo un dito sulla grossa busta.
Avrei dovuto notare il lampo malizioso che le attraversò lo sguardo mentre finiva
di pronunciare quella frase. Avrei dovuto, e invece... come scrisse il buon
Manzoni a proposito della monaca di Monza corteggiata dal perfido Egidio? "La
sventurata rispose". Io, lo sventurato, firmai.
Lei, l'Angela Dellamorte, notaia, si lasciò sfuggire un sorrisetto, subito
ricomposto, che io interpretai come un ringraziamento. Ero proprio un ingenuo.
La cugina fu irremovibile nel mantenere il segreto e non volle neppure dirmi chi e
a che ora mi avrebbe consegnato il misterioso lascito. Ci salutammo abbastanza
freddamente ed io me ne andai.
Giunto nel vicolo, mi accorsi che si era fatto buio. Alzai istintivamente lo sguardo
verso le finestre del terzo piano, ma non vidi alcuna luce filtrare dalle persiane
chiuse.
La prima, tragica sorpresa la ebbi appena rientrato a casa.
Andai alla scrivania, aprii la busta per esaminare bene i titoli e metterli a riposare
in cassaforte, in perfetta solitudine, poveretti.
Mi si presentò un fascio di carte ingiallite. Su ogni foglio, con caratteri desueti e
svolazzanti, campeggiava la dicitura “Regia Banca d’Italia, Buono del Tesoro al
portatore”
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L’importo di ciascuno era di Lire 100, e ce n’erano venticinque, per un totale di
2500 Lire.
La data in calce era I Aprile 1920.
Rimasi seduto a lungo con quei fogli inutili in mano. Mi sentivo un imbecille.
Ero stato raggirato, o derubato, ancora non lo sapevo. Evidentemente Angela,
dopo avermi mostrato la busta con i veri titoli di stato, in qualche modo l’aveva
sostituita e mi ero ritrovato con un pacco di vecchie cartacce senza valore.
Naturalmente pensai che l’altra donazione, quella che attendevo a casa, non
sarebbe mai arrivata, probabilmente faceva parte del piano per distrarre la mia
attenzione e farmi tornare a casa senza troppe domande.
Ma mi sbagliavo, e invece sa il cielo quanto sarebbe stato meglio che avessi avuto
ragione.
Mi strappò dallo sconforto lo squillo, questa volta regolare, del mio nuovo
Calimero.
Era lo zio Augusto, uno dei parenti ai quali avevo rotto le scatole nel pomeriggio.
- Ciao, scusa l’ora- mi resi conto che erano quasi le 23 ed io, tra l’altro, non avevo
cenato, me ne era passata la voglia.
Lo zio Augusto mi disse che, incuriosito dalla mia richiesta, aveva fatto pure lui
qualche ricerca chiamando qualcuno che sapeva della cugina Angela.
- Sai, non so perché tu la cerchi, ma è meglio che rinunci, Angela viveva con una
sua vecchia parente, una certa Marta. Si sono entrambe uccise col gas, una
decina di anni fa.Non ricordo cosa pensai e cosa balbettai in risposta, salutando e ringraziando.
Dopo qualche tempo ero riuscito a riprendermi, aggrappandomi alla mia
razionalità: si era certo trattato di un magnifico, elaborato, perfido pesce d’Aprile.
Messo in scena con abilità impressionante da un parente al corrente della mia
situazione economica e di molti dettagli di famiglia. Domani questo genio si
sarebbe fatto vivo per prendermi per il culo ed io l’avrei mandato a cagare: sulle
disgrazie altrui non si deve scherzare.
Nel frattempo si era fatta mezzanotte, e di colpo tutto il mio traballante castello di
razionalità crollò come la Borsa dopo il fallimento della Lheman Brothers.
Un cavallo roano attraversò la parete del salotto, passeggiò per qualche minuto
sul mio tappeto persiano, mi guardò ”con occhi di bragia”, per dirla col Poeta, e
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poi scaricò una quantità impressionante di cacca proprio al centro della stanza.
Evidentemente soddisfatto, si diresse verso il corridoio, si librò a mezz’aria e sparì
attraverso il soffitto.
Il significato delle parole di Angela mi fu finalmente chiaro: A caval donato… la
zia Marta mi aveva regalato un cavallo, o meglio, lo spettro di un cavallo!
Ed io avevo firmato un’accettazione incondizionata.
Da allora la scena si ripete ogni notte: puntuale come un cavallo svizzero, al tocco
delle dodici lui arriva, passeggia, si scarica e se ne va.
Ma io ho fatto una scoperta inaspettata, chissà se può interessare a qualche
cervellone universitario. Forse ne posso ricavare qualche soldo.
La cacca di un cavallo fantasma puzza esattamente come quella di uno in carne e
ossa.
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Il breve addio
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Mi svegliai, o forse no, nella penombra, senza un perchè.
Non era un rumore consueto quello che mi aveva svegliato, di questo ero certo.
Fuori si udiva il tranquillo picchiettare della pioggia sulle foglie del giardino e più
distante il bisbigliare del canale che, in quella stagione, trasportava una grande
quantità d'acqua melmosa giù, verso il grande fiume.
D'istinto allungai la mano dove il letto era inesorabilmente vuoto.
Lo era da tanto tempo.
Pareva tutto uguale alla notte prima, e a quella prima ancora.
Ma fu allora che iniziai a notare le differenze.
Il chiarore, prima di tutto. Una strana luce gialla era soffusa in tutta la stanza e
sulle prime non mi fu possibile capire da dove provenisse. Fu il rumore che mi
guidò. Un fruscio continuo, come di cascata lontana, echeggiava tra le pareti della
stanza.
Qualcosa si muoveva nel grande specchio dell'armadio, un’impalpabile nebbia
azzurrognola che si avvolgeva su sè stessa per poi salire e perdersi verso un cielo
solo intuíto.
Dal suo interno, un suono che mi faceva rabbrividire ogni volta che l'udivo.
Io ho sempre pensato che in qualche mia vita precedente avessi cavalcato tra la
neve delle Highlands diretto al villaggio di Glencoe.
O forse avevo suonato la mia bagpipe marciando verso Cullodeen More, dove le
giacche rosse del Duca di Cumberland mi avrebbero dato una morte gloriosa.
Di fatto, il suono della cornamusa ridestava in me sensazioni primordiali,
inspiegabili.
Se poi la melodia era "Amazing Grace", quella che si suona nelle cerimonie
funebri, l'effetto era di una sorta di commossa esaltazione, come quella quella che
mi invase immediatamente, mentre cercavo di capire cosa stesse accadendo.
- Chi sei? Perchè suoni quest'aria in casa mia?- Devo dirti addio. E questo mi pareva il modo migliore.La musica era cessata, ora da quella nebbia proveniva una voce.
Non aveva un timbro preciso, non era maschile, non era femminile; era vecchia,
questo sì, e aveva un tono vagamente famigliare, con delle asprezze improvvise e
delle evanescenze che parevano innalzarla, allontanarla, come quando si ode una
eco nella vallata e quella si affievolisce o si rinforza rimbalzando qua e là.
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- Addio? E dove vai?- Vado via e basta, dove andiamo tutti prima o poi. Io non so esattamente dove,
nessuno lo sa, anche se molti dicono di saperlo. Ma poi, che importa. Se c'è un
luogo, noi non lo scegliamo, ci andiamo e basta, quindi che vale parlarne? E se
non c'è, che vale parlarne?Ma non mi aveva detto chi fosse. Glielo chiesi di nuovo.
- Io sono chi hai voluto che fossi: ascolta.Degli accordi ben noti risuonarono dolcissimi e la voce, insieme cristallina e
possente, riempì la stanza:
"Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,..."
- Ma questa è la Callas! Non è possibile, questo era il suo cavallo di battaglia, io
ho imparato ad amarla ascoltando quest'aria, ho amato la lirica per lei, era... no,
non smettere, ti prego.La voce, sino a pochi istanti prima così melodiosa e ricca di calore si era fatta di
colpo nasale e gelidamente impersonale, come quella di un lettore di notiziari di
molti, molti anni prima.
- Oggi alle 18.00 ora locale, a Panmunjom è stato firmato il trattato che pone fine al
sanguinoso conflitto tra la Corea del Nord che, sostenuta dal regime comunista di
Pechino aveva attaccato la repubblica della Corea del sud, e la coalizione guidata
dagli Stati Uniti d'America che si è battuta per la libertà e l'indipendenza della
repubblica di Seoul.
Si calcola che la guerra abbia causato oltre un milione e mezzo di caduti da ambo
le parti...- Non capisco, ma cosa stai dicendo, cosa c'entra ora la guerra in Corea?Di nuovo una musica, allegra questa volta:
- Quando nel mio juke-box
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c'e' un disco dei Platters
voglio riascoltare
soltanto Only you… - Il quartetto Cetra! Ma come, prima la Callas, poi quello speaker, ora i miei
adorati Cetra. Ma chi sei, cosa vuoi?
- Te l'ho già detto - la voce era di nuovo quella strana, evanescente che avevo
ascoltato all'inizio, soltanto si era fatta più flebile, mentre il suono della cascata
prorompeva sempre più forte, quasi tumultuoso.
- E' ora che io vada, volevo soltanto dirti addio, e grazie per l'amore che mi hai
portato. Solo il tuo amore e le tue cure hanno conservato il mio calore sino a oggi,
ma oramai non bastano più.Ancora la cornamusa. Ora scandiva una marcia quasi baldanzosa che sembrava
allontanarsi nelle nebbie delle Highlands, mentre il fragore di cascata invadeva la
stanza.
Spalancai gli occhi, mi guardai intorno.
Non era stato soltanto un sogno, il rumore c'era davvero, e così la luce giallastra,
anche se tutto era molto attenuato rispetto a ciò che mi aveva risvegliato.
Con preoccupazione, mi accorsi che nell'aria si spandeva un vago odore di
bruciato, un sentore strano, come non avevo più percepito da anni, quando mi
dilettavo con stagno, saldatore e passione a mettere insieme strani congegni
elettronici che qualche volta funzionavano e altre, più spesso, esalavano
quell'odore senza alcun altro risultato.
Accesi la lampada sul comodino.
Mi ero addormentato ascoltando la mia vecchia, anzi antica, radio a valvole,
proprio quella che mio padre, trionfante, aveva portato a casa... quando?
Cinquanta? No di più, quasi sessant'anni fa.
Ero un bambino, e spesso passavo il tempo girando per quelle stazioni scritte in
piccolo sulla scala luminosa: Napoli II, Stuttgard, Liepzig, M.Ceneri, persino
Edimbourgh, e il mondo entrava in casa con i suoni di lingue sconosciute, le
canzoni e la musica che avrei amato da allora per sempre, e pure con le sue
realtà, a volte crude e manipolate, ma comunque parte di una conoscenza fruibile
da ciascuno, anche da un bambino curioso e stupito.
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La radio, non una radio qualunque, la mia radio, era accesa, col suo quadrante
giallo pieno di nomi oramai senza significato; dall'altoparlante usciva soltanto un
fruscio come di cascata e dal retro, dove ancora rosseggiava il bagliore delle
valvole, un sottile fumo azzurrognolo si alzava leggero verso il soffitto.
Osservandolo, mi sembrava quasi di scorgere un'anima che lasciava il suo corpo
per andare... e chi lo può dire?
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La bottiglia di Leida
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Giorgio Benincasa, basso di statura, una cinquantina d'anni mal portati, parecchi
chili di troppo e una laurea in lettere chiusa in qualche cassetto, era di carattere
timido e scontroso. Solitario, un po' per scelta e molto per incapacità a costruire
un rapporto umano, aveva per compagno di vita un cagnolino, che amava
moltissimo e lasciava a malincuore nel miglior ricovero per animali della città
quando doveva assentarsi per qualche giorno.
E il suo lavoro lo faceva assentare spesso.
Non amava particolarmente quell’attività, ma l’accettava perché gli lasciava molto
tempo libero, gli dava da vivere più che dignitosamente e gli permetteva di
coltivare le sue due passioni.
La prima era quella di visitare antiche città alla scoperta degli angoli più remoti.
Da solo, naturalmente.
Quella volta il lavoro l'aveva portato a Leida, non lontano da Amsterdam.
Sapeva di essere in una cittadina antica, famosa in passato per i suoi alchimisti,
per
l'università
e,
dando
fondo
alle
sue
reminiscenze
scolastiche,
per
un'invenzione chiamata appunto "bottiglia di Leida". Da quel che si ricordava,
aveva a che fare con la corrente elettrica, ma di questo poco gli importava. Invece
molto gli interessava potersi dedicare alla seconda delle sue passioni, la più
segreta e solitaria: una collezione di oggetti erotici di antiquariato che custodiva
nella sua casa e cercava di arricchire con sempre nuove scoperte.
Da persona colta, sapeva bene quante opere gli avi avevano contrabbandato come
arte, mentre altro non era che raffinato erotismo e talvolta pornografia. Ma la
morale dei secoli andati, con l'occhiuta vigilanza dell’onnipresente Chiesa pronta
a invocare le fiamme dell'inferno, non consentiva altra scappatoia.
Molti di quegli oggetti del passato, tele, sculture, libri e opere di artigianato si
trovavano nei maggiori musei, ma se ne potevano ancora scovare in qualche
mercatino di cose usate o in bottegucce di antiquariato. Proprio come quella che
aveva davanti.
Più che una bottega, vista da fuori, pareva un ibrido tra un suk orientale e
l'incubo di un netturbino.
All'interno, l'impressione rimaneva la stessa.
La proprietaria gli si fece incontro e Giorgio si ritrovò incerto tra un brivido di gelo
lungo la schiena e un fragoroso quanto maleducato scoppio d'ilarità.
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D'età indefinibile ma certamente vecchia, pareva la strega del film di Biancaneve,
tranne che per il camicione grigio che ricopriva sino alle caviglie un corpo ossuto,
sormontato e dominato da un naso adunco e bitorzoluto. Naturalmente teneva in
braccio un gatto nero, che lo stava fissando con gelidi occhi verdi.
Se fosse stato superstizioso, Giorgio avrebbe fatto gli scongiuri e, voltate le spalle,
se la sarebbe svignata. Ma non lo era, o almeno, non abbastanza per apparire un
maleducato, e quindi si rivolse a quella specie di megera con un sorriso e un
"Buonasera, cercavo qualche cosa di particolare".
A quanto pareva, si era imbattuto in uno dei pochissimi olandesi che non
parlasse inglese; questo lo capì dal miscuglio di tedesco, francese e chissà
cos'altro col quale la proprietaria gli rispose.
Tentarono di comunicare in tedesco o in francese, ma il vocabolario di Giorgio era
troppo limitato. Stava per rinunciare e uscire quasi con una sensazione di
sollievo, quando la donna lo sorprese:
- Latine loqui? Latino! Impreciso, come testimoniava quell'infinito al posto del presente, ma pur
sempre riconoscibile nonostante una pronuncia dura e fortemente accentata.
Rispose nella stessa lingua, che si ricordava tanto bene da tenerla viva con molte
letture di classici in lingua originale, letture faticose ma ricche di soddisfazioni
intellettuali.
Pur con qualche difficoltà, Giorgio riuscì a far capire cosa stesse cercando e la
vecchia s'illuminò mentre gli rispondeva di avere un oggetto veramente unico, che
certamente lo avrebbe soddisfatto.
Da una tasca estrasse una chiave e la usò per aprire la cassaforte. Poteva essere
appartenuta a Creso in persona, tanto era d'aspetto antiquato, pensò Giorgio
nascondendo a stento un sorrisetto.
Ma quando vide ciò che la vecchia aveva estratto e gli stava porgendo con un
ghigno complice, il sorrisetto sparì per lasciare il posto a un'espressione prima
incuriosita e dopo addirittura attonita.
Era una normale bottiglia di vetro chiaro, certamente antica per via della forma
irregolare dovuta a un mastro soffiatore non particolarmente abile. Forse aveva
contenuto del vino, forse un liquore. Ma non era importante ciò che vi era stato
racchiuso chissà quanto tempo prima.
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L'importante era ciò che conteneva adesso: una statuina di donna. Bellissima,
giovane, nuda.
La vecchia gli porse una grossa lente d’ingrandimento dicendogli di guardare
bene tutti i meravigliosi dettagli, cosa che Giorgio iniziò a fare dopo aver sollevato
con estrema cautela la bottiglia per poterla osservare meglio alla scarsa luce che
filtrava dalla vetrina.
Ciò che stava all’interno non era un rozzo simulacro senz’anima, come quei velieri
che spesso trovano posto nelle bottiglie, ricchi di dettagli, ma inesorabilmente
privi del soffio vitale.
Quella donna invece era un vero capolavoro.
Appariva calda e sensuale; era come in attesa del bacio di un principe che la
risvegliasse. Ma certamente non per scambiare un casto "buongiorno".
Stava infatti distesa, ad occhi chiusi e labbra socchiuse, sopra un minuscolo
giaciglio ricoperto da un drappo di seta rossa. La pelle aveva quel roseo naturale
così a lungo e invano ricercato dai pittori del rinascimento. I capelli nerissimi le
scendevano con ondulazioni perfette quasi a ricoprire i seni, che appena
schiacciati dalla forza di gravità, pure parevano sollevarsi in un sospiro di
languore. Sopra, capezzoli bruni e turgidi chiedevano, imploravano un bacio
sensuale.
L'atteggiamento era sfrontatamente lascivo, una gamba leggermente flessa e
l'altra lasciata scivolare oltre il bordo del letto, col piede a sfiorare il vetro. Dove le
gambe lunghissime si aprivano impudiche, una mano era posata a sfiorare la
rada peluria scura che non celava il prorompere carnoso di tutto ciò che fa
perdere a un uomo qualsiasi ragione e ritegno.
Giorgio era stupefatto, soggiogato. Non riusciva a staccare gli occhi da
quell’oggetto e non poteva certo fare caso allo sguardo quasi irridente della
vecchia.
Oggetto? Taceva fatica a definirlo tale; "oggetto" significa qualcosa d’inanimato e,
in quanto costruito dall'uomo, imperfetto. Ma lei, sì "lei" era il termine giusto,
sembrava viva, ed era perfetta.
Stava osservando il volto della ragazza, i lineamenti decisi ma estremamente
graziosi, quando gli parve di vedere le sue labbra fremere. Osservò meglio: non
c'era dubbio, si stavano schiudendo, e subito apparve la lingua che, con un moto
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estremamente sensuale, percorse tutto il labbro superiore per poi tornare a
scomparire. Le labbra però restarono atteggiate a un sorriso invitante. E gli occhi,
improvvisamente socchiusi, lo fissavano.
Per poco non lasciò cadere la bottiglia. Invece la lente gli sfuggì di mano e
s'infranse al suolo, a pochi centimetri dal gatto nero che in un balzo scomparve
tra le ombre della bottega.
- Ma... ma si è mossa! Nell'emozione si era dimenticato di parlare in latino, ma la vecchia pareva aver
capito ugualmente. Annuì sorridendo e gli strizzò l'occhio.
Era impossibile, si era lasciato suggestionare, quella vecchiaccia aveva saputo
creare un'atmosfera quasi surreale. Tornò a guardare, infatti gli occhi e le labbra
erano tornati esattamente com'erano al primo sguardo.
Ma la bellezza e il fascino di quell'oggetto, anzi no, di "lei", erano indiscutibili.
Doveva averla.
Il prezzo richiesto era stranamente ragionevole e lo pagò senza la minima
esitazione, aggiungendoci un piccolo extra per la lente rotta.
La vecchia preparò con cura un imballo, usando una scatola di legno da
champagne riempita di paglia e applicandovi un rozzo manico di corda.
-"Parva sed apta...". Cave noctem! - lo salutò con un sogghigno.
Giorgio stette un momento sulla porta cercando di capire il significato nascosto di
quella frase finale: attento alla notte? Strano commiato. Poi concluse che
probabilmente la megera voleva solo recitare la sua parte sino all'ultimo.
- Gratias tibi ago - rispose, facendo tintinnare la campanella della porta del
negozio.
Fuori era calata la notte e per qualche inconscia ragione Giorgio si sentì
angosciato ed eccitato allo stesso tempo. Non vedeva l'ora di tornare nella sua
casa per potersi gustare in pace e solitudine il suo nuovo acquisto. "Lei"
dopotutto gli aveva sorriso.
Il maresciallo Lopresti non ci capiva un accidenti. Anzi, più ci pensava e meno
riusciva a capire.
Eppure i fatti all'inizio parevano banali: l'abbaiare insistito di un cane durava da
molti giorni, e i vicini si erano insospettiti, oltre che scocciati.
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Poi qualcuno si era ricordato che quel tale un po' strano, Benincasa, non si
vedeva in giro da più di una settimana. Di per sé non era insolito, ma quel tipo
non lasciava mai il cane da solo per tanti giorni. Quando si assentava, spariva
anche l'animale, probabilmente lasciato in qualche ricovero.
Qualcuno aveva provato a suonare alla porta, senz'altra risposta che nuovi guaiti.
Così avevano chiamato i Carabinieri.
Dopo aver appurato che dall'interno giungeva solo l'abbaiare disperato del cane, e
dopo aver parlato coi vicini, si era deciso di entrare e controllare se fosse successo
qualche cosa di strano, un malore, o peggio.
Ma la porta era blindata, antisfondamento. I carabinieri avevano chiamato i
pompieri perché portassero la scala ed entrassero da una finestra. Non era stato
facile, anche la serranda aveva un sistema che ne impediva il sollevamento, ma
alla fine era stata semplicemente demolita a colpi di ascia e il vetro era stato
rotto.
I pompieri avevano rabbonito il cane con una buona razione di carne e una
ciotola d'acqua. L'animale, un piccolo meticcio bianco e nero, si era accucciato
accanto a un tavolino, mugolando piano.
Ma da quel momento era nato il problema che stava facendo perdere la testa al
maresciallo.
I pompieri avevano riferito di aver trovato tutte le finestre sbarrate, le chiavi sul
mobiletto dell'ingresso, la porta chiusa dall'interno non solo con le mandate della
serratura, ma pure con un chiavistello, uno di quelli che non si possono aprire
dall'esterno.
Con ogni evidenza il proprietario si era chiuso in casa e nessuno ne era più
uscito.
Ma, eccetto per il cane, in casa non c'era anima viva. E nemmeno morta.
Semplicemente, la casa era deserta.
Assodato che il cane non avrebbe potuto inserire il chiavistello e sbarrare le
finestre, Lopresti si era reso conto di essersi imbattuto nel più classico degli
enigmi polizieschi: il delitto della stanza chiusa. Accidenti, proprio a lui doveva
capitare. Ne aveva lette molte versioni, la letteratura gialla che gli piaceva tanto
ne era piena: un assassino astuto e ingegnoso compiva un omicidio in un luogo
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chiuso dall'interno e poi spariva senza lasciare traccia, mentre gli investigatori
impazzivano, alle prese con un rompicapo apparentemente insolubile.
Ma qui la cosa era ancora più complicata, maledizione. Non solo c'era una stanza
chiusa
dall'interno,
non
solo non
c'erano tracce
che
potessero portare
all'assassino, ma era persino sparito il cadavere. Ammesso ci fosse mai stato un
cadavere.
- Signor maresciallo, ha visto che strana collezione? L'appuntato indicava la grande parete della sala, carica di dipinti di ogni
dimensione accomunati dall'essere tra il piccante e l'osceno.
- Ci sono pure quelli, guardi in quelle vetrine, tutti quei fermacarte a forma di
cazzo. - Fallo, - corresse Lopresti - si dice "oggetti fallici". Ristallo impara, mica puoi
scrivere "cazzo" sul rapporto. Poi non ci sono solo quelli, c'è un sacco di altre cose
strane, ma sempre e comunque hanno a che fare col sesso. Sì udì un guaito prolungato.
Lopresti diede uno sguardo al cane ancora accucciato davanti al tavolino, lo
sguardo triste.
- Ristallo, il cane, mica possiamo lasciarlo qui. Chiama quelli della protezione
animali, che vengano a prendersi 'sto povero cristo.- Signorsì, chissà cosa gli è preso al cane, da quando siamo entrati è lì, in
adorazione di quella bottiglia... a proposito, ha visto cosa c'è dentro?Il maresciallo diede un altro sguardo alla bottiglia posta in orizzontale sopra un
supporto. L'aveva notata subito e già osservata per bene. Un altro oggetto molto
particolare.
- Ho visto, ho visto, è chiaro che fa parte di questa collezione, un oggetto erotico
come gli altri.- Accidenti maresciallo, due che fottono... mi scusi, copulano, giusto? Dentro una
bottiglia. Ma si è mai visto? E poi, un pezzo di gnocca come quella, cavalcare in
quel modo un ometto tanto più vecchio. E lui che se ne sta beato, con quel
sorriso cretino, sdraiato a panza in su e le mani su quelle belle chiappe... scusi,
natiche. Lo guardi, avrà quasi sessant'anni. Roba da pervertiti.- Già, l'ho visto, è vero, roba da pervertiti - rispose distrattamente il maresciallo,
osservando la foto del passaporto ritrovato sul comodino della stanza da letto.
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Era perplesso. Pervertito o no, doveva capire che fine avesse fatto quel tipo. Il
nome non gli diceva nulla. La foto nemmeno. Eppure...
- Ristallo! Io questa faccia l'ho già vista da qualche parte. Fa controllare se il
Benincasa aveva precedenti.Il cane intanto continuava a guaire.
Non capiva perché il suo padrone ancora non tornasse da lui. Eppure non era
lontano.
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La notte del dubbio
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"Ecco io adesso non vorrei che questo disagio risvegliato in me dal reiterare ciò
che è condannato dalla legge di Dio e degli uomini rendesse più fragile la mia
determinazione: in verità nulla di ciò che si compie è giusto o sbagliato ma è il
pensiero che lo guida a renderlo tale."
Così andava ragionando la persona
incappucciata che, uscita da una casa in Bishop Gate, s’incamminava a passo
rapido stando il più accosto possibile ai muri della chiesa di St. Helens.
Sulla quarantina, dal portamento eretto e agile, quell'uomo possedeva un volto
particolare, dove una rada barba grigia e un’alta stempiatura che si spingeva sino
al sommo del capo parevano espedienti studiati sapientemente per mettere in
risalto lo sguardo intelligente e curioso. Ma esibire quel viso ed essere
riconosciuto era quanto di più lontano dai suoi desideri, per questa ragione aveva
atteso l'oscurità e accolto come un dono gradito la nebbia che, risalita dal Tamigi,
rendeva la sua invisibilità quasi perfetta.
Sempre di buon passo, si diresse un tratto verso ovest, oltrepassò la chiesa di
San Paolo per poi svoltare a sud, attraversando la zona che un tempo ospitava il
monastero dei Blackfriars e, scesi alcuni scalini, si arrestò infine sulla riva del
fiume.
Qui l’uomo emise due fischi modulati, evidentemente un segnale. Infatti, la luce
di una lanterna venne fatta dondolare poco distante, dove una piccola
imbarcazione era accostata all’attracco. Senza una parola l’incappucciato vi prese
posto e il barcaiolo iniziò a vogare prendendo subito il filo della corrente.
- Solito posto, mio signore?- Solito posto, e stai attento che all’approdo non vi sia alcuno.- Non dubitate, con questa serata da fantasmi e spiriti malvagi la gente se ne sta
rintanata nelle case oppure a bere birra nelle taverne.L’incappucciato trasalì a queste parole. Possibile che il barcaiolo sapesse più di
quanto doveva? Poi scrollò le spalle: il popolino era superstizioso e molte leggende
circolavano, sussurrate di bocca in bocca. L’importante era che non ci fosse gente
per le strade: il suo volto era familiare in tutta Londra, e non solo tra il popolino.
Il suo scopo e la sua meta dovevano restare assolutamente segreti. Per questa
ragione doveva affidarsi al barcaiolo: attraversare il Bridge era fuori discussione,
più che il rischio vi era la certezza di incappare nella ronda e di dover fornire
spiegazioni.
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L’uomo alla voga interruppe il filo dei suoi pensieri.
- Signore, che notizie avete della Regina? E’ così malata come si dice?La Regina Elisabetta, che lo aveva onorato del suo favore, che aveva voluto le
fosse presentato, e al primo incontro ne erano seguiti altri. La Regina dalla
grande intelligenza, dall’acuto senso critico e dal grande sapere, tutte cose che lo
avevano dapprima piacevolmente stupito e poi pervaso di un profondo senso di
rispetto, ricordò con tristezza l’incappucciato.
- Sì, mio buon Harry, ella forse ci dovrà abbandonare presto e si preparano tempi
difficili, non avere eredi lascia i Tudor senza un successore, temo che molti
pretendenti si faranno avanti non senza spargimento di sangue.- E’ triste ciò che dite, mio signore. Sentiremo molto la mancanza della buona
regina Bess.Senza più domande, Harry governò in modo da scendere il fiume tagliando nello
stesso tempo verso la riva opposta e, lasciandosi andare a qualche imprecazione
per la difficoltà di trovare i riferimenti nella nebbia, prese infine terra a South
Wark, non lontano dal Globe.
- Aspettami qui, tornerò prima del chiarire dell’alba, ma se non mi vedessi ancora
al battere delle sette, va via e dimentica di avermi visto.- Che il Cielo vi sia propizio, mio signore.–
- Non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi, ricordalo
sempre mio buon Harry. Ma, comunque grazie.Il passeggero non aveva dubbi, il barcaiolo era un uomo fedele e lo avrebbe
atteso, e poi la ricompensa era generosa, come le altre volte.
Presa la lanterna, s’incamminò lungo una stradina che dal fiume, evitando il
Globe e la fila di casupole che si affollava sulla riva, pareva perdersi nella
campagna. Era evidente che conoscesse la via, tanto era sicuro il passo pure alla
scarsa luce della lanterna.
In pochi minuti arrivò a un’alta siepe di tasso che racchiudeva uno spazio incolto
e un’abitazione fatiscente. Strani arbusti contorti e privi di foglie gareggiavano
con i rami adunchi di un’antica quercia a rendere spettrale l’angusto sentiero che
conduceva alla porta della casa.
Un lume acceso e il battente semiaperto stavano a indicare che l’ospite non
giungeva inaspettato.
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Senza esitare l’uomo varcò la soglia e si ritrovò in un ambiente illuminato
soltanto da un camino acceso. Tre figure avvolte in panni lerci e rattoppati erano
intente a una discussione con toni da cantilena:
- Dove sei stata, sorella?- Ad ammazzare porci.- E tu sorella, dove?- La moglie di un marinaio aveva nel grembiale delle castagne e biascicava, e
biascicava: "Dammene un po'", faccio io. "Fatti in là, strega!" grida quella rognosa
cibata di frattaglie. E allora… ma il nostro ospite è arrivato, sorelle, su, che non ci
paga generosamente per udire i nostri discorsi da vecchie.- No, no - disse l’uomo che nel frattempo, liberatosi del mantello, si era seduto su
di uno sgabello sgangherato. - il vostro parlare è interessante, mai arriverei a
immaginarlo dovessi io scriverlo dal nulla.- Vossignoria è sempre molto buono con noi - rispose untuosamente la donna che
aveva parlato per prima, e così facendo voltò il viso verso l’uomo che, pur non
essendo la prima volta, non seppe trattenere una piccola smorfia di disgusto alla
vista di quel volto oscenamente grinzoso e quasi barbuto, tanta e tanto fitta era la
peluria giallastra che ne ricopriva labbra e mento.
La vecchia parlava anche in nome delle altre, quasi bisbigliando:
- Tutto è preparato secondo la vostra richiesta, ma né il cielo, che sia maledetto,
né la profondità dove regnano fiamme e tormenti, possono assicurare che avverrà
ciò che volete che avvenga.- Ben lo so, non abbiate preoccupazione, che il vostro compenso è garantito in
ogni caso, tranne quello in cui le fiamme dell’inferno ghermiscano pure me.- Siate prudente e parlate solo quando ne avrete il nostro permesso, senza mai
offendere e soprattutto senza nominare o invocare il cielo né i santi o altri che
non sia colui che verrà. In questo caso tutto andrà per il meglio.- Molto bene, sarò prudente, ma ora è tempo di iniziare. Dal passato ho capito
che l’evocare gli spettri, specialmente quando se n’invoca uno in particolare, è
cosa che non si compie senza attese e inganni.E molto tempo passò infatti, durante il quale le tre megere, liberatesi dai vestiti, a
tratti danzavano urlando parole incomprensibili, in altri momenti si gettavano a
terra distese, mormorando oscene cantilene; più volte orrende forme presero
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corpo nella cappa del camino, scheletri ghignanti ancora riempiti di visceri, corpi
mutilati e corrotti, ectoplasmi a contorcersi sopra le fiamme sfrigolanti, ma furono
tutti respinti e dissolti da gesti e grida delle celebranti quel rito demoniaco.
L’uomo, apparentemente calmo ma intimamente atterrito, assisteva in silenzio
dall’angolo più distante, sino a quando apparve una forma completamente umana
tranne per la mancanza quasi totale del naso. Era senz’altro colui che era atteso:
si sapeva come avesse perduto il naso per un colpo di spada nel corso di un
duello e in vita portasse una protesi d’oro, certo rimasta nel sepolcro assieme ai
suoi resti mortali.
- Ora potete parlare, ma rammentate ciò che vi abbiamo detto – sussurrò una
delle
streghe.
L’uomo si fece avanti, cercando con tutta l’arte di cui era in possesso di celare
l’emozione e la paura.
- Siete voi quel Tycho Brahe che scrutando il cielo da Uraniborg, nel regno di
Danimarca, svelò tanti misteri del cosmo sino a quando perì di malattia
subitanea, almeno così dicono, non più di un anno orsono?- Sì, io fui quell’uomo di scienza, acclamato e onorato nel regno di Danimarca e
non solo, e ora condannato a errare nella notte per molto tempo fin che siano
purgati i peccati da me commessi in terra. Ebbi nel mio letto centinaia di donne
lascive, ira, gola e superbia furono altri miei peccati. Ma a portarmi anzitempo tra
le fiamme degli inferi non fu la malattia.- Questo è il mormorio che, varcando il mare, giunse sin qui ed essendo io in
procinto di scrivere del regno di Danimarca, mi spinse a evocarvi. Si è affermato
che voi foste colpito da ferale malore al termine di un grande banchetto, dove vi fu
esagerazione da parte vostra nell’onorare cibi e bevande. Non fu così?- Dunque ascolta! Se mai pietà alberga nel tuo cuore, tu devi rendere noto a tutti
il mio assassinio!- Assassinio? Allora non fu una morte naturale la vostra, seppure improvvisa e
dolorosa?- Turpe assassinio, qual è in ogni caso anche il più giusto; ma questo fu di tutti il
più nefando, il più mostruoso e il più innaturale.- Ditemi tutto, affrettatevi che l’alba s’avvicina.-
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- Ascolta, è voce generale ch'io sia morto per quel terribile malore mentre dormivo
nel giardino: è così che gli orecchi dei Danesi e del mondo tutto sono stati
ingannati da una falsa versione dell'evento. Sappi, invece, che mano assassina fu
quella di mio cugino Erik, ma colui che lo mandò a togliermi la vita fu mio figlio!- Vostro figlio? Ma è mostruoso!- Ancora più mostruoso ti apparirà quando saprai che il figlio dannato in eterno
per questo delitto è colui che regge lo scettro di Danimarca e ignobilmente si
chiama Cristiano, quarto del suo nome.- Ma come potete voi, uomo di scienza, aver per figlio un monarca regnante?- Oh, è facile. Quell'adultera bestia lasciva che fu moglie del precedente sovrano,
con me giacque più volte e insieme generammo quel mostro che mai fu rinnegato
e divenne il principe erede al trono di Danimarca. Una volta divenuto re e reso
edotto da un cortigiano delle sue vere origini, egli prese ad odiarmi nel timore
assurdo che io un giorno potessi rivelare la verità, causando così la mia e la sua
rovina.- Io non posso che credervi, può mai uno spettro dannato mentire? Quel regno è
dunque corrotto ancor più di quanto io avessi immaginato. Ma dite, se la cosa
non vi causa troppo dolore, come avvenne la vostra uccisione? Fu davvero cosa
tanto abile da trarre tutti in inganno?- Abile e vile. Già conosci che il giorno della mia morte io partecipai a un convivio,
ma si trattò di qualcosa di più. Gola e lussuria furono i peccati che
commettemmo, per il troppo cibo servito e per due femmine discinte che
iniziarono a toccarsi tra loro il seno, e poi altro ancora. E come le cagne in calore
aizzano i maschi a gettarsi su di loro, così fecero quelle peccatrici che infine si
concessero senza vergogna alle voglie di ciascun commensale.- Fu dunque un’orgia degna più di Babilonia che della cristiana Danimarca?- Così fu, per la dannazione dell’anima mia. Avvenne che dopo aver gustato i cibi,
essermi abbandonato all’allegrezza portata dalle libagioni ed essermi preso il
piacere che una di quelle femmine mi offriva, provato dal vino e dalle fatiche
dell’amore io mi ritirai nei miei appartamenti. Tu forse conosci quella sensazione,
quando la casa con saggezza sembra abbia approfittato dei tuoi momenti
d’euforia per prepararsi a riceverti nel più accogliente dei modi. Così, mollemente
cullato dalla mia illusione di sicurezza e riposo, mi addormentai nel giardino; e in
53
quel sonno mi sorprese l’uccisore, con una fiala piena d'infame succo di
quisquiano, e dentro il padiglione dell'orecchio mi versò quella lebbra distillata
d'effetto sì nemico al sangue umano da serpeggiare come argento vivo e far che il
sangue si rapprenda, come in latte aceto a gocce.
Così fui spogliato della mia vita, falciato senza comunione, senza poter contrire la
mia anima, spedito a rendere il mio conto a Dio col fardello di tutti i miei peccati.- Orribile! Tremendamente orribile!- Se conservi in te natura d'uomo, non consentire che il regno di Danimarca resti
impunito. Rendi noto al mondo quale nido di lussuria, incesti ed assassini siano
le mura di Elsinore.
Ma sento già il respiro del mattino, è forza ch'io ti lasci... Addio.Il fuoco nel camino si spense sfrigolando come se qualcuno vi avesse gettato un
secchio d’acqua, lasciando la stanza nell’oscurità rotta solo dal rosseggiare di
qualche brace. Le tre streghe, oppresse da un’invincibile spossatezza crollarono al
suolo pronunciando un’ultima bestemmia.
L’uomo, svanita di colpo la tensione e la paura che lo avevano dominato per
lunghe ore, si sentiva a sua volta molto provato ma, come lo spettro, doveva
affrettarsi: l’alba oramai era prossima.
Gettò sul pavimento un borsellino con dieci corone, il prezzo pattuito per quella
spaventosa nottata come per le altre che l’avevano preceduta, poi si avvolse nel
mantello e uscì.
Non era tranquillo mentre ripercorreva la strada verso il luogo dove l’attendeva il
barcaiolo. Ciò cui aveva assistito era al di sopra della comprensione ma
certamente metteva a rischio la sua vita, la sua fortuna, la sua anima. Valevano
tanto la fama, gli onori e il denaro? "Dubbi, sempre dubbi", pensò. "Essi sono dei
traditori che spesso fanno perdere ciò che si potrebbe ottenere soltanto perché
non si ha il coraggio bastante per tentare".
Sì, era un rischio che valeva la pena di correre, anche questa volta aveva avuto
nuove, terribili rivelazioni. La sua memoria, allenata in tanti anni di mestiere
d’attore, era in grado di rammentare tutto ciò che aveva udito quella notte e lo
avrebbe usato per rendere ancora più efficace il nuovo lavoro. Certo non poteva
scrivere la verità, ma poteva impiegare metafore e ricalcare situazioni.
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In giornata avrebbe iniziato una profonda revisione del testo che aveva già
abbozzato. Se non vi fossero stati imprevisti, entro un mese avrebbe convocato la
compagnia per le prove.
Così ragionando giunse in riva al Tamigi. Già lanciava un segno di intesa al
barcaiolo, ma si voltò un momento a guardare la sagoma massiccia del Globe che
si stagliava nel diradarsi della nebbia.
Sorrise al pensiero che poneva fine a ogni altro ragionamento:
- Il dubbio è meglio lasciarlo nell'anima e sulla bocca dei miei personaggi; presto
la folla gremirà quel teatro per applaudire il nuovo dramma.
La storia di Hamlet è il nome che darò al figlio delle mie notti, a ricordo del
virgulto del mio stesso sangue, quell’Hamnet che mi fu tolto da un fato crudele.-
N.D.A il brano contiene citazioni non virgolettate da “Amleto”, “Macbeth” e altre
opere di W. Shakespeare.
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La focaccia di Battistin
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...
Me l'aseunno de neutte e poi m'adescio
che perdo e bave comme 'na lumassa.
Chi ha coraggio me digghe che son nescio,
mi ghe diggo de scì ... e tetto fugassa.
Me la sogno di notte e poi mi sveglio / che perdo le bave come una lumaca / chi ha
coraggio mi dice che son fesso / Io gli dico di sì … e mangio la focaccia
...
(V. E. Petrucci "A Fugassa" ).
- Betta, anche questa notte lo stesso sogno, come se ci fossero due che ratellano1
dentro la mia testa, cosa vorrà dire?Giovanbattista Sciaccaluga, Battistin per tutti, aveva la barba lunga di una
settimana, gli occhi rossi e le rughe sulla fronte sembravano ancora più profonde
del solito mentre accendeva la vecchia abatjour sul comodino.
La Betta, compagna di vita da tanti anni che nemmeno li contava più, si svegliò
brontolando:
- Ancora quei due? Vuol dire che devi andare dal tabacchino a giocare i numeri al
lotto, cosa rompi alle quattro di mattina, dormi, non ne hai passate abbastanza di
notti in bianco negli ultimi anni? –
- E cosa ghe cuntu2 a quello del botteghino? Mi dia i numeri che mi sogno due tipi
che tutte le notti mi parlano di quanto era buona la mia focaccia?- Te li do io i numeri: sessanta come gli anni che hai passato a fare la focaccia,
due come le balle che mi hai rotto e novanta come gli euro della bolletta della
luce, che se non spegni quella lampada e dormi poi quando arriva il postino ti
lamenti come un gatto in amore!Betta si girò dall'altra parte avvoltolandosi ancora di più nelle coperte e
brontolando, come faceva sempre. Per lei il "mugugno"
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era una filosofia di vita.
Dormire, già, facile a dirsi, i pensieri affollavano il cervello di Battistin.
Sessant'anni infarinato, a passare le notti a impastare, plasmare, infornare
rosette, libretti, e sopratutto "a fugassa", la sua focaccia genovese che lo aveva
reso famoso in tutta la città tanto da aver avuto la coda fuori dalla sua bottega
giù, dalle parti di Canneto il Lungo, in un vicoletto impregnato degli aromi della
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Litigano
Gli racconto
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Il mugugno è il tipico brontolare genovese, ironico e tagliente, mai volgare.
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Genova di un tempo: vecchi cordami, lo stoccafisso messo a bagno nelle vasche di
marmo, le friggitorie e appunto il profumo inconfondibile della "fugassa", meglio
se con la cipolla, profumava di più.
Battistin ascoltava il respiro regolare della Betta. Si era riaddormentata, beata lei.
Lui invece non dormiva bene da quando avevano deciso di chiudere il forno. Non
era stata la vecchiaia, che pure i settanta erano passati da un po', era stata una
questione di palanche e di testa dura.
"La focaccia come la fai tu dovremmo metterla almeno venti euro al chilo solo per
rifarci delle spese, e chi ce la compra, u sciù
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Berlusconi?" diceva la Betta.
Perché lui la faceva con la farina "giusta", fornita da un molino artigianale, ma
che aveva ceduto ai tempi e aveva chiuso. E sul mercato la farina "giusta" oramai
costava un occhio. Per non parlare dell'olio di oliva! Ci voleva quello ligure,
naturalmente della riviera di Ponente, e doveva essere di quello buono, pressato a
pietra, con olive scelte. Figuriamoci! E la betta a incalzare: "Ma piantala con
quella farina, e usa l'olio della Tunisia che ci offrono a pochi euro la latta da
trenta chili, oggi chi vuoi che se ne accorga, belandi,5 imangiano tutti come se
avessero u'diao, il diavolo, alle calcagna".
"Oh nu, oh nu! mi nu ghe mollu!”6 Su questo lui non mollava: la focaccia si fa così,
non s'imbelinano7 dentro delle porcherie! L'aveva fatta per cinquant'anni come gli
aveva insegnato suo padre, quella era la ricetta, quello era il profumo, quello era
il gusto che doveva avere. Punto e basta.
E così anche il forno di Battistin era andato a fare compagnia alle botteghe dello
stoccafisso, ai negozi di cordami e alle friggitorie di Sottoripa: superati dai tempi,
fuori mercato, spariti per fare largo al kebab e alle paccottiglie per i turisti che
andavano a visitare l’acquario.
E lui ancora non ci dormiva la notte.
Era stato persino da u megu, il dottore che lo conosceva da tanto tempo.
"Battistin, prendila bassa e riposati, il tuo cuore non mi piace, è stanco. Niente
stress, cammina, cerca di stare sereno, e poi prendi queste medicine" e giù un
elenco di nomi strani che avrebbero pagato le vacanze del farmacista per i
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Il signor
Interiezione intraducibile, equivalente a “accidenti”
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Oh no, io non mollo!
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s’infilano
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prossimi dieci anni; ne aveva già a basta
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di mantenere la Betta, la casa e aiutare
Giorgio e Roberto, i gemelli che erano andati a fare quella cosa lì, il master. Mica
le trovava per la strada le palanche! Altro che medicine, ora che avevano tempo, i
soldi servivano magari per andare a vedere come vivevano i figli, la a Boston, loro
erano già ingegneri, mica impastavano la farina tutte le notti! E così le ricette
erano finite nel sacchetto della spazzatura.
Battistin trovò finalmente una posizione comoda, da quando si era coricato si
sentiva strano ma adesso una sensazione di rilassamento e di benessere l'aveva
pervaso. Ma i sogni tornavano, anche se un po' diversi dal solito.
- Battistin, è tutto pronto, ti aspettiamo, non vediamo l'ora di gustare la tua
focaccia –
Eccola, la voce un po' arrogante, un po' suadente, sempre quella.
- Belin9, te l'ho già detto, mica ho deciso ancora, e poi pronto cosa? –
- Le scorte di farina e di olio, quello giusto; addirittura abbiamo il mugnaio, u
Giancu,10 e il padrone del tuo frantoio di Albenga, u sciu'
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Renato. Possiamo fare
una bella società, ti troverai bene.- E già, quelli sono morti, andati! Dove la mettiamo la sede della società, al
cimitero di Staglieno? - Sapessi quanti notai e avvocati ci sono qui da noi... una soluzione si trova, non
ti preoccupare.- E il forno? Mica sarà elettrico, vero? Ci vuole quello a legna, e pure il legno
giusto che non dia sapore di fumo o d'altro. –
Una risatina. - Beh, il fuoco è l'ultimo dei problemi. Non ti preoccupare che di
forni con una bella fiamma ne abbiamo quanto basta.- Ci sarà mica da pagare troppo per la legna?- Legna? Vedremo di aggiustarci, qui di combustibile ne arriva a tonnellate ogni
giorno. –
- Si, ma Betta, mica posso lasciarla da sola, posso portarla?- Magari non subito, ma poi arriverà, certo che arriverà. Mi domando perché non
vi siete mai sposati... ma non sono affari miei, almeno per adesso. Allora, deciso?
–
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Averne a basta; averne abbastanza
Interiezione genovese, letteralmente “cazzo!”
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Il Bianco, in questo caso chiaramente un soprannome
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Il signor
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Prima che Battistin potesse rispondere intervenne l'altra voce. Lui l'aspettava, era
una bella voce, dolce e amichevole.
- Tu sei libero di scegliere, per te si è deciso di fare un'eccezione. Sai, il profumo
della tua focaccia arrivava in alto, molto più in alto di quanto tu abbia mai
pensato. Quando ti dicevano che "è così buona da tentare i santi in Paradiso",
magari esageravano un pochino, ma non troppo.- Vuoi dire che anche lì da voi io potrei...- Certo, mica hanno il monopolio dei forni laggiù. La Luce può scaldare molto, lo
sai? E per il resto, avrai sentito parlare dell'Eden: là ci sono tutte le piante e gli
alberi che sono cresciuti su questa terra dall'inizio dei tempi, il tuo grano e i tuoi
ulivi sono proprio nella zona migliore, basta raccoglierne i frutti.- E già, fai presto a dirlo, con tutte le palanche che costa la manodopera... –
- Credo che troveremo i volontari, in fondo molti dicono che la routine lassù sia
un tantino monotona, - il tono divenne confidenziale - sai, devo ammettere che le
virtù sono meno eccitanti dei peccati, sopratutto se devi esercitarle per l'eternità.- E Betta, la mia Betta, cosa ne sarà di lei?- Lei? Non dare retta a cosa ti dicono gli altri, Betta è già destinata quassù:
qualunque peccato abbia commesso lo ha già scontato passando una vita con te,
tirchio e brontolone come sei.Il sogno proseguiva, le voci si accavallavano in un crescendo che lo faceva stare
male, sembrava che la testa gli si dovesse spaccare da un momento all'altro. Non
ci capiva più nulla, uno lo tirava da una parte, uno dall'altra, gli dolevano le ossa,
gli doleva una spalla, gli doleva il petto...
- Basta, finitela, ho deciso! –
Betta si svegliò di soprassalto, le era sembrato di udire il suo nome ripetuto più
volte, assieme ad altre parole incomprensibili. Accese la luce e guardò il suo
vecchio compagno disteso accanto a lei.
Aveva quasi il volto del ragazzino di tanti anni prima, quello che le aveva rubato il
cuore con un sorriso e un pezzo di focaccia appena sfornata. Era pallido,
tranquillo, l'espressione distesa. Betta lo chiamò, lo scosse, pianse, gridò. Poi,
dopo qualche tempo recuperò la lucidità.
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Allora era successo! Quello che temeva il medico, e gliel'aveva confidato con
preoccupazione: "Betta, se non lo convinci a curarsi, quel testone potrebbe vivere
qualche anno, ma potrebbe pure andarsene domani."
Si diresse verso il telefono, doveva comunque chiamare il dottore. Ma prima si
fermò accanto al letto, si sedette sulla sponda, depose una carezza su quella
guancia irsuta e trovò persino la forza di sorridere.
- Battistin, hai preso la tua decisione, finalmente. Ma belin, potevi almeno farti la
barba prima di presentarti. Fammi sapere dove, che appena posso vengo, mica
puoi impastare tutta quella focaccia da solo. –
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