Untitled - Biblioteca Ambrosiana

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Biblioteca Ambrosiana – Intorno a un testo
"Mario Cantilena legge SAFFO" – di Sara Pozzi, docente di latino e greco.
L’amore nuoce gravemente alla salute?
Vi è una tonalità dolente nell’amore, sempre, anche quando è sentimento ricambiato?
E’ questa la verità che giace al fondo del notissimo e lungamente emulato frammento 31 di Saffo?
E’ in questo immutabile dato esperienziale, riverberato nell’anamnesi quasi clinica dei pathémata d’amore,
e nel riconoscerlo immediatamente come parte inossidabile della nostra umanità che si gioca la potenza
comunicativa del testo antico?
“A me pare simile agli dei…” : o che l’incipit famosissimo preluda per noi all’eco di un’esperienza già vissuta
o che irrompa con la fascinazione dell’incognito che si teme e, insieme, si desidera, quest’ode sempre ci
regala un sussulto per come sa farsi
contemporanea a età diverse e alla sensibilità di
ogni tempo. In definitiva, anche alla nostra, pure
così sfuggente e frammentata, di lettori
postmoderni.
L’ode ci era nota, non priva di lacune e corruttele,
per tradizione indiretta: solo nel 1965, sulla scorta
di un codice papiraceo contenente un antico
commento a Saffo, è stato possibile emendare
parzialmente il testo riportato da Dionisio Longino
(Sul sublime, I d.C.). La citazione ne testimonia, in
ogni caso, l’ampia circolazione orale, già presso gli
antichi; il successo di pubblico nei simposi,
certamente favorito dall’esecuzione musicale e dai
raffinati rimandi alla tradizione poetica omerica,
l’assunzione di Saffo nel canone lirico alessandrino
e, finalmente, il prevalere della trasmissione
scritta sono certo all’origine di un’ininterrotta
fortuna letteraria, da Catullo a Foscolo, a
Tennyson, per tacere di moltissimi altri.
Ipertrofica anche l’opera di esegesi sviluppatasi
intorno al testo: filologi e psicologi - clinici,
perfino - ne hanno indagato gli aspetti più minuti
e reconditi, talora con esiti sconcertanti o, quanto
meno, curiosi.
Il frammento 31 - detto del Sublime o anche della
gelosia - ha dunque inaugurato, lo scorso 28
ottobre, il ciclo di quatto incontri dedicati alla lettura dei classici greci e latini, promosso dalla Biblioteca
Ambrosiana per desiderio di monsignor Buzzi. L’iniziativa offre alla cittadinanza, soprattutto a docenti e
studenti, una preziosa occasione di riflessione e confronto intorno a un testo, come in questo caso,
particolarmente evocativo della classicità e del suo poliedrico perdurare nel tempo.
Il prof. Mario Cantilena, docente di Letteratura greca presso l’Università Cattolica e accademico della
Veneranda Istituzione milanese, ha subito avvertito il pubblico di come il fr. 31, forse “il più famoso testo
della poesia occidentale”, nonostante le molte cure esegetiche, rimanga, “per molti versi, problematico ed
elusivo”.
Quando ci si confronta con opere così distanti, non solo nel tempo, si è tentati di dire anche quel che, nei
fatti, non ci è dato sapere. Troppo ci sfugge del loro contesto di composizione e, soprattutto, di
pubblicazione; troppo lacunosa e frammentaria la natura dei testi poetici perché si possa loro attribuire,
immediatamente e definitivamente, quel carattere di autobiografismo e, soprattutto, di soggettività, nel
quale si identifica hegelianamente, appunto, la lirica moderna.
Non è banale ricordare che gli antichi, quando ritenevano fosse il caso, davano dei generi letterari una
definizione meramente tecnico-esecutiva: la differenza la facevano, se mai, la modulazione del canto
(melos) e lo strumento utilizzato. Meglio, dunque, spostare lo sguardo sull’orizzonte più vasto di una
cultura in cui la trasmissione del sapere si è mantenuta a lungo nell’alveo dell’oralità e dell’auralità, anche
quando la scrittura era ormai disponibile a fissare parole e concetti, sgravando la memoria dal peso del
ricordo. Occorre, a questo punto, sottolineare come fosse la comunità – e non il singolo intellettuale o il
movimento di tendenza - a sancire nuovi canoni e modelli, sempre elevando il passato a valore – diremmo
oggi – non negoziabile.
Utile, infine, pensare alla cultura antica e alle sue manifestazioni letterarie come a uno spazio in cui
convivono istanze antagonistiche, individualismo e ethos comunitario, oralità e scrittura, di cui ci sono
pervenuti frammenti, spesso significativi, ma forse insufficienti a definire in modo incontrovertibile il prima
e il dopo di quello che, isolatamente, può apparire come il manifestarsi originale e improvviso di una nuova
sensibilità.
L’identificazione della persona loquens con il poeta, la sovrapposizione meccanica dell’uno alla vicenda
biografica dell’altro, la perfetta coincidenza del loro punto di vista, non può essere, quindi, la regola
ermeneutica. Così come non è possibile negare in assoluto la rilevanza dei fatti cantati entro la sfera
soggettiva del cantore: occorre procedere con cautela, anche quando il poeta ci mette il nome.
Diceva Calvino: “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé,
ma continuamente se li scrolla di dosso”. Tralasciando, allora, le molte questioni – testuali, linguistiche e, in
ultima analisi, interpretative - ancora aperte, la vis poetica del frammento scaturisce, plasticamente, dal
dinamismo interno alla situazione descritta, in un drammatico gioco delle parti: proprio nella
contemplazione estatica della vicinanza altrui alla persona amata, la persona loquens – Saffo? Stabilirlo,
adesso, non pare più così importante – è investita da una così acuta percezione dell’eccezionalità del
sentimento d’amore che la lega all’oggetto del suo desiderio da esserne sconvolta “intus et in cute”,
secondo la felice sintesi del relatore, con una violenza tanto sovrumana quanto divinamente olimpica le
appare l’imperturbabilità dell’occasionale interlocutore.
Turbamento e imperturbabilità, dunque, identificano i poli opposti di questa reazione emotiva, descritta nei
suoi esiti più dolorosi con il lessico, sorvegliatissimo e finemente allusivo, di una vera e propria patografia.
Due sottolineature molto apprezzate dal giovane pubblico presente in sala, in virtù delle quali, il frammento
riletto alla luce della tradizione poetica precedente o coeva, ha rivelato una consonanza di idee e di parole,
non sempre ascrivibile a un’emulazione diretta e, perciò, forse ancor più affascinante. Numerosi e puntuali
i rimandi intertestuali. Se ne accennano alcuni, a titolo d’esempio.
Il sentimento di spaesata solitudine che accompagna la
tonalità emotiva del turbamento d’amore si trova anche in
Pindaro (Fr. 108): il poeta, già avanti negli anni, non sa
capacitarsi di come si possa fronteggiare la bellezza
seducente e acerba di Teosseno, senza esserne trafitti:
“ma chi guardando i raggi balenanti
degli occhi di Teosseno
non arde di desiderio
ha il cuore nero
forgiato nel diamante o nel ferro
da una gelida fiamma,
disprezzato da Afrodite, guizzo di sguardi”.
La patografia, a sua volta, è puro lessico omerico. Con qualche
licenza
d’autore
nell’aggettivazione.
Nelle
coppie
perfettamente bilanciate in cui organizza i segni della passione, la poetessa prende a prestito il “sudore” di
Aiace, spossato da lunga battaglia (Il. XVI, 109-110), il “tremito” che percorre i Mirmidoni alla vista delle
armi divine di Achille (Il. IXI, 14); “verdi”, entrambi, sono il pallore dell’innamorato e l’orrore che scuote
Odisseo nell’evocazione delle anime defunte nel rito della nekyia (Od. XI, 43).
Tant’è che Lucrezio, nel terzo libro del De rerum natura, restituisce con puntuale precisione questa
terminologia al suo originario ambito
semantico:
verum ubi vementi magis est commota metus mens
consentire animam totam per membra videmus
“Pure, quando da paura più forte la mente è
sudoresque itaque pallorem existere toto
commossa, vediamo che tutta l’anima sente
corpore et infringi linguam vocemque aboriri
con essa attraverso le membra e in tutto il
caligare oculos, sonere artus
corpo escono fuori, allora, sudori e pallore, e
denique concidere ex animi terrore videmus
saepe homines
s’inceppa la lingua, e svanisce la voce, gli occhi
(De
rer. nat III, 152-158).
si annebbiano, le orecchie sibilano, cedono gli
arti, e, infine, vediamo per terrore spesso
cader giù le persone“
Ma davvero amore e paura sono emozioni così estranee l’una all’altra? Nel paragonare l’incantevole
Nausicaa a un tenero virgulto di palma, cresciuto in
Delo, presso l’altare di Apollo, Ulisse non può tacere il
sentimento di paura, quasi di religioso timore che, ora
come allora, lo coglie nel contemplare la bellezza
sensuale, di una perfezione divina, della giovane
donna: “così te, donna, io guardo con ammirazione e
profondo stupore e temo nello stesso tempo
terribilmente” (Od. VI, 168).
Sincero l’apprezzamento da parte del pubblico per l’apertura e la profondità di sguardo su un testo classico,
certamente familiare ma qui riscoperto nella sua inesauribile ricchezza e complessità. Alcuni studenti hanno
indicato come auspicabile oggetto di future letture in Ambrosiana anche autori di solida tradizione
scolastica: Orazio, Archiloco, Tucidide, tra gli altri.
“D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”.
Pinacoteca Ambrosiana
Gaetano Motelli, copia da Canova, 1806, Busto di Saffo, marmo di Carrara, 54 x 26 x 27, n. inv. 2319