Estratto - Bonaccorso Editore
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Parte Prima I VOLTI DELL’AMORE NEI TEMPI ANTICHI I. Saffo, Anacreonte e l’amore Di lei vorrei vedere l’amabile incesso o il fulgido splendore del viso, piuttosto che vedere i carri di Lidia e i fanti risplendenti delle armi (Saffo, fine sec. VII, prima metà VI sec.) Saffo visse circondata da un tiaso di fanciulle, che esercitavano la poesia, la musica e la danza; “Saffo la bella” come la chiamava Platone visse in una meditazione continua intorno all’amore orientato verso queste allieve. In un frammento di Alceo si legge: Saffo divina, dal dolce sorriso, dal crine di viola. Di sua figlia Celide diceva che era “bella come fiori d’oro” e di se stessa che era “piccola e nera”. Saffo scrisse migliaia di versi nel suo piccolo e chiuso mondo femmineo; le gioie del tiaso erano leggere; cogliere fiori, farne ghirlande, adornarsene, ungersi di profumi, abbandonarsi all’ebrezza della danza e del canto. E, soprattutto, l’amore. Io amo la raffinatezza dice in un frammento, quando scrive ha i capelli bianchi e le ginocchia non la reggono più, come dice essa stessa. Ma la vecchiezza le ha lasciato l’animo giovane perché continua ad amare le cose che ha sempre amato. La vita per questa giovane poetessa era raffinatezza, amore di cose belle e delicate, una delicatezza che non impediva il vigore del sentimento perché quelle di Saffo sono di una spi13 ritualità vera che nasce da un’estrema sensibilità nonché da una profondità di sentimento non superabile. In un frammento restituitoci da un papiro, Saffo esprime la sua concezione della vita e, dunque, dell’amore: Altri dice che un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri una flotta di navi sia, sulla terra nera, la cosa migliore; io dico che la cosa migliore è ciò che si ama. Ecco un vero programma di vita affermato con baldanza e sicurezza, perché l’amore è per Saffo, spregiudicata adolescente, tutta la vita: passione ardente, gioia, dolore, gelosia. La sua arte affonda le radici in questo sentimento dal quale trae ogni ragione di vita per questo, più degli altri poeti antichi espresse se stessa tanto da fare preghiera la sua poesia come quella grande ad Afrodite: un inno personalissimo e liturgico che non resiste ma si abbandona gioiosamente accogliendo, recependo, anche ciò che la fa soffrire. L’amore è in lei una sensazione vivace, immediata e fresca che produce un’arte ardente e leggera che abbellisce con soavi fantasie in una poesia che non trova un’altra che le assomigli, né la eguagli in nessuna letteratura. Leggiamo alcuni suoi componimenti: L’Amore Pari agli dei mi sembra quell’uomo: innanzi a te siede e tanto vicino sente la tua voce dolce. Il desiato riso. Oh, a me il cuore sbatte forte e si spaura. Ti scorgo, un attimo, e non ho più voce; la lingua è rotta; un brivido di fuoco è nelle carni, 14 sottile; agli occhi il buio; rombano gli orecchi. Cola sudore, un tremito mi preda. Più verde d’un’erba sono, e la morte così poco lungi mi sembra... Gelosia Di me ti sei scordata, e non a me vuoi bene: a un altro. Il refrigerio Eccoti. Finalmente. Ero tutta una smania di te. Rechi un rifiato all’anima, bruciante di brama. Il tradimento Sono ancora nel turbine: mi strema Amore, dolcezza amara, inesorata fiera... Atti, pensare a me ti pesa: verso Andromeda tu voli. Anacreonte Né Dio né l’animale Possono provare vergogna. Soltanto l’uomo non può farne a meno. (M. Scheler) Anacreonte (Teo, 570) visse alla corte di Policrate, il geniale tiranno di Samo amante dei poeti che chiamò presso la sua fastosa corte, dove il Nostro passò splendidi anni. Tra il lusso della corte egli cantò il vino e l’amore: gli amori suoi, ma anche quelli del tiranno. Celebrò soprattutto gli 15 efebi. Il suo amore è tuttavia un dio grande e terribile: Eros come un fabbro di nuovo mi ha colpito con la grande scure, e m’ha tuffato nel botro gonfio d’acque. Esprime l’amore con vigore e crudezza, come nei versi nei quali una fanciulla è paragonata a una puledra di Tracia che pascola e salta leggera nei prati. Più spesso Anacreonte è il poeta della grazia delicata come Mimnermo, piange la gentilezza che si allontana, la vecchiezza e la morte che sopraggiungono; ma con minor dolore e intensità di sentimento: la sua tristezza è sincera, ma meno profonda, più molle. La poesia di Anacreonte si riconnette a quella di Saffo e Alceo: ricordo Saffo e le poesie d’amore, e ricordo Alceo e le poesie che celebrano il vino. Ma l’ardore dei lirici eolici è temperato dalla saggezza e dalla mollezza ionica. Anacreonte è il vero poeta delle passioni più temperate: Io non amo chi, bevendo il vino presso il cratere pieno, parla di contese e di guerre lagrimose; io amo chi, unendo insieme gli splendidi doni delle Muse, si ricorda dell’amabile gioia. Di questa gioia leggera e temperata, che non ignora, ma riesce a vincere la passione, Anacreonte è il poeta inimitabile. 16 II. Platone e l’amore Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio. (Platone, Simposio, 192 c-d) Nel Simposio Platone affronta il tema dell’amore, dandone un’interpretazione che comporta una nuova e complessiva concezione della realtà e dell’uomo. Egli respinge sia la convenzionale figura dell’amore offerta dalla mitologia, sia la riduzione dell’amore all’angusta prospettiva della pederastia, sia la concezione medico-naturalistica dell’amore come di un principio di accordo fra gli elementi. Amore, è invece per Platone, desiderio di bellezza e di bene e pertanto avvertimento della loro mancanza; “non è bello e buono, né brutto e cattivo, ma qualcosa che sta di mezzo fra essi”; non è un dio, chè gli dei posseggono bellezza e bontà (perciò non la desiderano), ma piuttosto un demone, qualche cosa di mezzo fra l’umano e il divino; Amore è figlio di abbondanza e di privazione; per un lato è “povero, duro, squallido, senza tetto”, per l’altro è “coraggioso, risoluto, tenace, sempre occupato a trovare vie di uscita”. Amore è insomma la condizione generale dell’uomo che tende a conseguire il bene e la felicità di cui manca. La vita umana si muove tra un mondo sensibile ed uno intellegibile; l’amore spiega il passaggio e la tensione dall’uno all’altro ed è perciò “desi17 derio di possedere il bello e il bene”; amore è quindi la chiave che spiega non solo il passaggio dall’ignoranza alla scienza, ma anche l’intero processo di formazione dell’uomo fino al culmine della filosofia; il cammino dell’amore è il pieno dispiegarsi delle nostre possibilità: “Dapprima, scrive Platone, ama la bellezza sensibile in un corpo, poi si comprende che una e identica è la bellezza che è in tutte le forme visibili, poi si ritiene che la bellezza che è nelle anime è più pregevole di quella che è nei corpi, quindi si considera il bello che è nelle varie forme dell’attività umana e nelle leggi, e infine si giunge alla bellezza che è nelle scienze”; il termine ultimo dell’ascesa amorosa è costituito dall’idea di bellezza “che è sempre, non nasce mai e non muore mai, né cresce, né diminuisce, non è in parte bella e in parte brutta, né ora sì ed ora no, né bella sotto certi aspetti e brutta sotto certi altri, né bella qui e brutta lì”; la bellezza è “per se stessa, con se stessa, unica idea che è sempre”, mentre “tutte le altre bellezze non sono tali che per partecipazione della bellezza”. L’anima, prosegue Platone nel Fedro, è come un cocchio alato, guidato da un auriga e tirato da due cavalli, di cui uno riottoso e cattivo; prima di venire nel mondo sensibile, l’anima segue le schiere degli dei che, in un luogo sovrastante il cielo astronomico, contemplano le supreme essenze ideali; ma, a differenza degli dei, le anime giungono appena e non giungono affatto a vedere le idee, perché i cavalli non sempre obbediscono all’auriga; esse cadono allora nei corpi sensibili e danno luogo agli esseri mortali; le anime cadute s’incarnano o nella natura del filosofo che tiene il grado più elevato della gerarchia della dignità umana, o in quella dell’uomo politico, o in quella del medico e giù giù fino a quella del tiranno. Anche qui la visione mitica adombra la realtà del destino umano, alla cui radice sta una caduta del superiore mondo ideale sot18