Passa quella palla qualche volta, non puoi andare

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Passa quella palla qualche volta, non puoi andare
I
– Passa quella palla qualche volta, non puoi andare in
ogni azione da solo! – dissi nervosamente.
Ero sempre agitato quando giocavo. Non so perché,
era qualcosa che pulsava dentro. Non riuscivo a reprimerlo. Tante volte cominciavo le partite promettendomi
di non protestare con l’arbitro o con gli avversari, ma
era più forte di me. Era una forza che non riuscivo a controllare. L’arbitro faceva un errore? Glielo facevo notare. Più glielo facevo notare e più lui si incazzava. Più lui
si incazzava e più mi divertivo. Con gli avversari era la
stessa cosa e infatti molto spesso arrivavamo alle mani,
anche se a botte, poi, facevano i miei compagni, perché
io, normalmente, tiravo il sasso e nascondevo la mano.
Solamente dopo, negli spogliatoi, puntualmente si arrabbiavano, rinfacciandomi il fatto di essere uno che durante la partita rompe troppo i coglioni, che la dovevo
smettere, che non si può tutte le volte giocare alla boxe
e che non era possibile farsi riconoscere a ogni partita,
eccetera eccetera... Io li guardavo mortificato e in mia
difesa ricordavo loro di non essere mai stato espulso da
una gara in tutta la mia vita calciofila e così fine dei rimproveri.
– A chi la passo? Sembrate piantati in terra con i
chiodi! – rispose Aldo adirato e con il fiatone. Un altro
uguale a me. Stesso carattere, stessi modi di fare. La
cosa esaltante era che non eravamo gli unici. Assolutamente no, assomigliavamo molto alla “classica squadra
che va in guerra” piuttosto che a una squadra di calcet9
Matteo Falleri
to. C’erano amici che venivano a vederci solo per scommettere in quanti avremmo finito la partita! Ogni incontro che giocavamo era uno spettacolo teatrale, la messa
in scena di uno di quei romanzetti tascabili con la copertina gialla che andavano in voga negli anni Ottanta e
che raccontavano di storie svoltesi durante il secondo
conflitto mondiale. Inizio tranquillo con buoni propositi, in attesa di una scintilla da parte di un avversario e
conseguente battaglia finale per difendere l’orgoglio e il
territorio conquistato. A parte questo, non eravamo solamente buoni per fare a fucilate, perché alla fine, da ex
giocatori di calcio, qualcuno di noi aveva anche i piedi
buoni, non eccellenti ma buoni e qualche bella giocata
ogni tanto veniva pure fuori. Insomma, eravamo una
squadra da guerra con i piedi buoni. O almeno mi era
sempre sembrato così. Soprattutto a inizio anno.
E quella sera stavamo giocando la solita partita di
calcetto infrasettimanale, quell’ennesima partita di un
torneo che da anni provavamo a dargli la caccia senza
essere mai andati vicino alla vittoria... almeno una volta.
Ogni anno, da cinque, era sempre la stessa storia, alla
fine dell’estate ci ritrovavamo al bar da Oreste, davanti
a una bella birra, progettando i nostri sogni di gloria.
Io giocavo perché era l’unico momento che ci faceva
stare insieme, uniti come ai vecchi tempi, quelli dell’adolescenza, dove tutto sembrava non finire mai.
Seduti a quel tavolo ci inventavamo nuovi stimoli,
anche se assomigliavano più a scuse, per affrontare l’annata calcistica. Non ci veniva mai a noia, era praticamente impossibile.
Come in un rituale, perfezionato dal tempo, facevamo la lista dei giocatori (sempre gli stessi!) proiettando
la testa alla vittoria finale e nominavamo uno pseudo allenatore che nessuno, in seguito, avrebbe cacato e che
alla terza partita, essendosi rotto le palle, avrebbe inizia10
Era solo uno sguardo?
to a trovare scuse di lavoro per non venire più. Facevamo poi scommesse infruttuose su chi avrebbe segnato
più gol e per finire, ci lasciavamo andare alle immancabili sfide dialettiche che non si sarebbero mai verificate
sul campo:
– ...e io sono meglio di te, ...cinque euro a tunnel? ...
Se trovassi tutti difensori del tuo livello sarei Ronaldinho!... – eccetera eccetera. Insomma, gli scemi di sempre! E questo può rientrare in una normalità sociale collettiva. Quel che ci differenziava dal resto del mondo,
rendendoci a parer nostro unici, era che all’inizio di ogni
stagione andavamo a ricomprare maglie e scarpe perché
credevamo che quelle dell’anno precedente fossero state
la causa della nostra sconfitta. Per essere più esplicito,
credevamo portassero sfiga.
Quegli anni, senza volerlo, avevano trasformato quel
campetto alla periferia di Prato, tra prese in giro e litigate, nel luogo dove sfogavamo lo stress accumulato di
settimana in settimana, fino a ritrovarsi a trent’anni e voler essere ancora dei ragazzini.
Proprio tutti gli anni.
Solo che non lo eravamo più. I veri ragazzini nelle
partite ci asfaltavano, ci surclassavano e ci salutavano
lasciandoci strisciate di vernice sui fianchi. Non voglio
dire che uno a trent’anni sia vecchio, anzi, ma per quanto riguarda il calcio sì. Superi i trent’anni e sei sulla via
del tramonto e anche se non volevamo accettarlo, il
tempo era volato e non essendo mai stati dei veri atleti,
l’età non era più una fonte alternativa di energia capace
di compensare il nostro precario stato di forma. I chili si
aggrappavano ai nostri muscoli senza chiedere il permesso, calamitandoci a terra e modificando dei movimenti fluidi e giovanili, in vecchie e arrugginite azioni
alla moviola, e i polmoni, anche per colpa delle sigarette, erano diventati delle riserve troppo piccole che ba11
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stavano a malapena per cinque, dieci minuti tirati, di
corse e scatti.
Cresci e va pure bene, è un fenomeno biologico naturale, ma che stai invecchiando te ne rendi conto osservandoti bene solo dopo un po’ di tempo.
Perché non si può fare niente contro l’inesorabile
scorrere delle stagioni, l’orologio che gira, il tempo che
passa. Abbiamo la facoltà di combatterlo, è vero, ma
tanto chi vince è sempre lui.
E per difenderci da questi attacchi, credevamo che il
calcetto fosse la nostra ultima possibilità di rimanere
sull’Isola che non c’è di Peter Pan, illudendoci così che
le responsabilità accettate svanissero.
Per queste ragioni, ogni fine agosto, ci riempivamo
la bocca con grandi parole valorose attorno a un tavolino rotondo da Oreste, per farsi coraggio, cercare di vincere quel cazzo di torneo gongolando a colpi di birre alla
spina.
Questo è tutto, non so se rendo l’idea.
Quella sera stavamo perdendo tre a due. Era una di
quelle partite che anche in caso di sconfitta non ci sarebbe stato niente da recriminare, se non per la sfortuna
e con l’arbitro, perché stavamo giocando veramente
bene. E noi a lamentarci eravamo dei veri assi. Avrebbero potuto darci la coppa delle proteste. Quando perdevamo gli errori non erano mai di nessuno. Solo degli
altri e ripensandoci bene la colpa era proprio degli altri,
nel senso che se non ci fossero stati sarebbe stato meglio.
Alla fine del campionato, tra i premi, c’era anche una
coppa chiamata Coppa Disciplina. Veniva data alla
squadra più corretta. Per noi un miraggio. Sarebbe stato
più semplice vincere i mondiali di calcio che non quella
coppa. Chi l’avrà inventata? Un seguace di De Couber12
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tin? L’importante è partecipare! Cazzate! Vincere procura una goduria troppo grande per pensare solo a giocare
e non al risultato. Be’... comunque sia, la cosa certa, era
che a noi non interessava e quel giorno mancavano ancora quattordici minuti alla fine della partita quando
l’arbitrò fischiò una punizione a nostro favore, per un
fallo da dietro ai danni di Michele, al limite dell’area.
Le proteste si levarono alte facendo eco sotto quella
specie di pallone che ricopriva il campo di gioco durante l’inverno per limitare il freddo e l’acqua, quando pioveva. Ogni grido si trasformava in un boato e tutto si
amplificava rendendo ogni lieve discussione una piccola guerra. Non durava molto, a volte il tempo di un’ammonizione, a volte bastava qualche spintone e tutto tornava come prima: adrenalina per la partita e rabbia ingoiata da far pagare nel corso del match.
Riportata la finta calma mi posizionai sul pallone.
– La tiro io, toccamela Emanuele – mi bisbigliò Aldo
nell’orecchio.
Mi voltai per controllare come ci eravamo posizionati, dissi a Luca, che era l’ultimo uomo, di fare un
passo in avanti, poi misi il piede sopra il pallone e aspettai il fischio dell’arbitro.
Era una buona occasione e gli avversari lo sapevano.
Come mi ero accorto di quella ragazza seduta a fianco dell’allenatore dei nostri avversari e che mi stava
puntando dall’inizio della partita. Non potevo essermi
sbagliato. Ero stato un tempo e mezzo a fare il pavone
cercando il suo sguardo e lei non faceva altro che fissarmi. Ogni volta che mi giravo, i suoi occhi erano incollati ai miei. Non c’erano dubbi. L’unico problema e non di
poco conto, era che molto probabilmente era la fidanzata di uno dei giocatori ai quali stavamo cercando di fare
il culo e con i quali avevamo già avuto qualche piccola
divergenza di vedute nel corso della gara!
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Ancora tredici minuti e avrei saputo la verità.
L’arbitro fischiò, spostai la palla alla sinistra di Aldo
di una trentina di centimetri, come al solito prese poca
rincorsa, si avvicinò al pallone con il sinistro e facendo
finta di calciare esitò un attimo. Così nella barriera si
creò uno spiraglio nel quale il bomber ci fece passare la
palla che andò, senza che il portiere potesse farci niente, a insaccare il tre a tre.
Quel gol ci aveva portato in parità, ma soprattutto ci
stava proiettando al terzo posto in classifica a due punti
dalla prima, i temuti New Think.
In questo tipo di campionati ci sono nomi di squadre
che fanno venire i brividi. Non so la gente da dove li tiri
fuori, è un’abilità che noi non avevamo. La nostra fantasia si fermava a Oreste Team, che poi era anche quello che sganciava i soldi per pagare l’iscrizione! E poi io
non avrei mai giocato in una squadra che si chiamava
“L’è polemica, A. C. picchia o Paladini della giustizia”;
un po’ di dignità cazzo. Il calcetto in fondo è anche una
cosa seria. No?
In quel giochino sfogavamo sì lo stress accumulato
di settimana in settimana ma non del tutto. E i calci che
per vincere prendevamo e tiravamo ogni volta, erano la
dimostrazione dell’impegno e la foga che ci mettevamo.
– Grande Aldo! – urlavamo mentre lo rincorrevamo
per abbracciarlo.
– Non molliamo adesso! – gridava Andrea dalla panchina.
Mancavano ancora cinque partite prima dei play off
e se tutto fosse girato per il verso giusto saremmo potuti anche arrivare in testa al nostro girone. Tutto sembrava andare come da previsioni di inizio anno. Se davvero
fossimo arrivati in testa, alla fine delle ventiquattro giornate, sai che goduria. Alla faccia di tutti quelli che non
credevano in noi. Avremmo tenuto alta, anche in città, la
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bandiera del paese. Non ho il ricordo di una squadra del
Mugello che abbia vinto un campionato fuori dalle mura
contadine. Perché è così che ci considerano questi cittadini snob. Dei contadini.
E forse potevano avere anche ragione, come noi che
avremmo provato una libidine doppia. Se avessimo vinto. Ovviamente.
Ma c’è sempre qualcosa dietro l’angolo che non riesci a prevedere e che rende tutto maledettamente complicato, quella cosa che arriva e ti lascia nudo, quella
cosa che appena passata ti fa dire: “lo sapevo che andava così!”. Quel giorno non fu da meno. Solo che non
eravamo pronti, o almeno, non per quello che stava per
accadere.
Dopo il gol mi voltai immediatamente verso quella
ragazza, tanto per vedere la sua faccia, curioso di capire
se avrebbe esultato correndo ad abbracciarmi, fregandosene del suo ragazzo e lasciando tutti con la bocca spalancata dallo stupore prestando però fede ai suoi sentimenti o avrebbe esultato in silenzio, in maniera composta, strizzandomi un occhio come per dirmi ci vediamo
dopo. Ero, davvero curioso, ma per mia sorpresa non mi
stava guardando, aveva la testa rivolta verso il basso e
sembrava dispiaciuta. Cosa diavolo stava facendo? Perché non condivideva con me la gioia del pareggio? La
osservai per qualche altro secondo, forse era un altro suo
giochino psicologico, faceva la preziosa adesso ma dopo
mi avrebbe spolpato vivo... quando saremmo stati da
soli.
I ragazzi stavano esultando e io l’aspettavo ancora,
mi stavo perdendo i festeggiamenti per... niente, non ne
voleva sapere di guardarmi, anzi, fece la peggior cosa
che si può fare in quella situazione. Urlò un: “Dai ragazzi non mollate, gli facciamo lo stesso un altro gol a
questi!” che disintegrò tutto il mio interesse per lei. Non
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mi piaceva più. A questi ci aveva chiamati! “Chi si credeva di essere? Naomi Campbell?” Osservandola meglio, non mi era mai piaciuta, a parte le poppe!
Raggiunsi i miei compagni, sorridenti e gioiosi a
centro campo. Avevamo ancora dieci minuti a disposizione per battere i Bad Man (che cazzo di nome!).
– Luca, che fai? Abbiamo segnato, non importa che
ti getti a terra e fai quei versi! – disse ridendo Dario mentre esultava per il risultato.
Non c’era tanto da sorridere.
– Luca che cazzo stai facendo?!... Lucaaa!, Lucaaa!
Che hai?! – gridava Gianni che era il più vicino a lui.
– Ragazzi, si sente male! Aiutatemi!
Era a terra e tremava.
Semplice, composto, disponibile, piaceva alle ragazze e aveva grande personalità; in poche parole, Luca era
un leader. Uno di quelli che quando non c’era se ne sentiva la mancanza.
Da adolescenti lo avevamo scelto come capo gruppo all’unanimità, non che ci fossero state votazioni o
dibattiti per quel ruolo, a quell’età, tutto nasceva
spontaneamente senza bisogno di parole, erano i comportamenti nella giungla che sceglievano per noi e
così, senza rendercene conto, quello che diceva lui ci
sembrava ogni volta perfetto, andava sempre bene a
tutti e con il passare del tempo ci ritrovammo a cercare di imitare ogni cosa facesse perché qualsiasi azione
fatta da lui, ci sembrava degna di essere presa come
esempio.
Era sempre avanti anni luce, non facevo a tempo ad
avere quello che aveva lui che già era passata di moda.
Era tutto un rincorrerlo inutilmente, perché le sfumature
che metteva nei suoi gesti e nei suoi movimenti, lo rendevano inimitabile, irraggiungibile.
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A causa sua la mia adolescenza è stata un continuo
turbinio di luci e ombre, gelosia e invidia, capire e non
capire, vestiti alla moda e canzoni fighe, gelatina nei capelli e pettinature che stavano bene solo a lui, sala giochi e mini golf, Arnold e A-team, Hazzard e Ralph supermaxieroe, cinture El Campero e bomber, seghe di
gruppo e partite di calcio ai giardini pubblici, ragazze e
due di picche. Tutto come fosse un grande puzzle da
montare buttato dentro una scatola da scarpe, perché la
custodia originale con la fotografia del disegno finale
era stata persa e non sapevo da che parte rifarmi.
Come odiavo il suo modo di gestire gli appuntamenti!
Arrivava sempre con minimo tre quarti d’ora di ritardo.
Come faceva a essere così lento nei preparativi proprio
non riuscivo a capirlo. Quanto ci vuole a mettersi un paio
di jeans e una maglietta? A me bastavano dieci minuti e
anche se mi provavo mille maglie, alla fine mettevo sempre le solite. I buoni vecchi indumenti che non ti tradiscono mai, maglia nera a maniche lunghe con scritta dietro di Terzani sull’importanza della luce, jeans strappati
della St.Diego e scarpe rosse Adidas modello Mexico ’70.
Ripensandoci bene forse non l’odiavo, ma invidiavo
questo suo modo di fare, per essere più precisi invidiavo i risultati che otteneva con questo sistema. Mi sarebbe piaciuto un casino arrivare dopo tutti e sentirmi la
star, il protagonista principale, l’invitato speciale. Io
quasi non mi permettevo neanche di pensarla una cosa
del genere, avevo il timore che se lo avessi fatto sarebbero partiti senza di me e non so se sarei riuscito ad accettarlo. Lui invece riusciva a farsi attendere e nessuno
si lamentava mai, anzi, quando si presentava veniva abbracciato e accolto come se fosse stato in coma irreversibile, come se si fosse risvegliato dopo essere stato dato
per spacciato, tutti tiravamo un sospiro di sollievo e la
serata prendeva una direzione migliore.
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