Lettera a A. Jacopssen, 23 giugno 1823 […] Senza dubbio, mio caro

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Lettera a A. Jacopssen, 23 giugno 1823 […] Senza dubbio, mio caro

Lettera
a
A.
Jacopssen,
23
giugno
1823
[…]
Senza
dubbio,
mio
caro
amico,
o
non
si
dovrebbe
vivere,
o
bisognerebbe
sempre
sentire,
sempre
amare,
sempre
sperare.
La
sensibilità
sarebbe
il
dono
più
prezioso
di
tutti,
se
si
potesse
farla
valere,
o
se
ci
fosse
nel
mondo
qualcosa
a
cui
applicarla.
Vi
ho
detto
che
l’arte
di
non
soffrire
è
ora
la
sola
che
il
cerchi
di
imparare,
e
proprio
perché
ho
rinunciato
alla
speranza
di
vivere.
Se
fin
dai
primi
tentativi
non
mi
fossi
convinto
che
questa
speranza
era
per
me
del
tutto
frivola
e
vana,
non
vorrei,
non
conoscerei
neppure
altra
vita
che
quella
dell’entusiasmo.
Durante
un
certo
periodo
ho
sentito
il
vuoto
dell’esistenza
come
una
cosa
reale
che
pesasse
brutalmente
sulla
mia
anima.
Il
niente
delle
cose
era
per
me
la
sola
cosa
esistente.
Mi
era
sempre
presente
come
un
fantasma
spaventoso;
vedevo
solo
un
deserto
intorno
a
me
e
non
concepivo
come
si
potesse
assoggettarsi
alle
necessità
quotidiane
che
la
vita
impone,
ben
sicuro
che
esse
non
portano
mai
ad
alcun
risultato.
Ero
così
occupato
da
questo
pensiero
che
mi
credevo
sul
punto
di
perder
la
ragione.
In
verità,
mio
caro
amico,
il
mondo
non
conosce
i
suoi
veri
interessi.
Potrei
convenire,
se
si
vuole,
che
la
virtù,
come
tutto
il
bello
e
tutto
il
grande,
non
è
che
un’illusione.
Ma
se
questa
illusione
fosse
comune,
se
tutti
gli
uomini
credessero
e
volessero
essere
virtuosi,
se
fossero
compassionevoli,
benefici,
generosi,
magnanimi,
pieni
d’entusiasmo;
in
una
parola,
se
tutti
fossero
sensibili
(io
non
pongo
nessuna
differenza
tra
la
sensibilità
e
quella
che
si
chiama
virtù),
non
saremmo
più
felici?
Non
troverebbe
ciascuno
mille
risorse
nella
società?
E
questa
non
dovrebbe
sforzarsi,
per
quanto
possibile,
di
dare
vita
alle
illusioni,
dal
momento
che
la
felicità
umana
consiste
solo
in
ciò
che
è
realmente
vitale?
Nell’amore,
tutte
le
voluttà
che
provano
le
anime
volgari,
non
valgono
il
piacere
che
dà
un
solo
istante
di
rapimento
e
di
emozione
profonda.
Ma
come
rendere
questo
sentimento
durevole
o
frequente
nella
vita?
Come
trovare
un
cuore
che
risponda?
Spesso
ho
evitato
per
giorni
di
incontrare
l’oggetto
che
mi
aveva
affascinato
in
un
sogno
delizioso.
Continuavo
a
pensare
a
quell’oggetto,
ma
vedendolo
non
come
era:
lo
contemplavo
nella
mia
immaginazione
come
mi
era
apparso
nel
sogno.
Era
una
follia?
Mi
lascio
trasportare
dal
romanzesco?
Giudicherete
voi.
È
vero
che
l’abitudine
di
riflettere,
che
hanno
sempre
gli
spiriti
sensibili,
ostacola
spesso
la
facoltà
di
agire
e
anche
quella
di
gioire.
La
sovrabbondanza
della
vita
interiore
spinge
sempre
l’individuo
verso
quella
esteriore,
ma
contemporaneamente
lo
rende
incapace
di
destreggiarsi.
Egli
abbracciando
ogni
cosa
vorrebbe
sempre
essere
appagato;
tuttavia
le
cose
gli
sfuggono,
proprio
perché
sono
più
piccole
della
sua
capacità.
Egli
pretende
anche
dalle
sue
più
piccole
azioni,
dalle
parole,
dai
gesti,
dai
movimenti,
una
grazia
e
una
perfezione
che
l’uomo
non
può
raggiungere.
Così,
non
potendo
mai
essere
soddisfatto
di
se,
né
smettere
di
analizzarsi,
e
diffidando
sempre
delle
proprie
forze,
non
riesce
a
fare
ciò
che
fanno
tutti
gli
altri.
Cosa
è
dunque
la
felicità,
mio
caro
amico?
E
se
la
felicità
non
esiste,
cos’è
mai
la
vita?
Io
non
ne
so
nulla,
ma
vi
amo,
e
vi
amerò
sempre,
con
la
tenerezza
e
la
forza
con
cui
ho
amato
in
passato
i
dolci
oggetti
che
la
mia
immaginazione
si
è
compiaciuta
di
creare,
i
sogni;
nei
quali,
voi
dite,
consiste
in
parte
la
felicità.
In
effetti
appartiene
solo
all’immaginazione
la
possibilità
di
procreare
all’uomo
l’unica
specie
di
autentica
felicità
di
cui
egli
sia
capace.
È
vera
saggezza
cercarla
nell’ideale,
come
voi
fate.
Quanto
a
me,
rimpiango
il
tempo
in
cui
potevo
farlo,
e
constato
con
una
specie
di
terrore
che
la
mia
immaginazione
diventa
sterile,
e
mi
rifiuta
tutti
i
soccorsi
che
prima
mi
prestava.
[…]
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