ıCapitolo 1 - La pianificazione urbanistica

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ıCapitolo 1 - La pianificazione urbanistica
Estratto distribuito da Biblet
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Aldo Fiale Elisabetta Fiale
La Pianificazione
Urbanistica
SIMONE
EDIZIONI GIURIDICHE
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Gruppo Editoriale Simone
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Copyright © 2012 Simone S.p.A.
Via F. Russo, 33/D
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È vietata la riproduzione anche parziale
e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione
scritta dell’editore.
Edizione febbraio 2012
ST6/1DG - La pianificazione urbanistica
Revisione redazionale a cura della dott.ssa:
Emma Cosentino
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
Per conoscere le nostre novità editoriali consulta il sito internet: www.simone.it
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Premessa
Il testo è tratto dalla più vasta opera “Diritto urbanistico” di Aldo Fiale, magistrato di cassazione e docente presso la facoltà di architettura dell’università
di Reggio Calabria, e di Elisabetta Fiale, avvocato e dottore di ricerca in Pianificazione del territorio, e si propone di fornire al lettore un quadro organico ed approfondito della disciplina della pianificazione urbanistica.
L’analisi delle posizioni dottrinali e delle novità normative (da ultimo ad
opera del D.L. 5/2012 in materia di parcheggi pertinenziali e di edilizia
scolastica) consente un’informazione esauriente ed un orientamento sistematico in una materia di straordinario interesse per il governo e la tutela del
territorio.
L’attenzione rivolta alla disciplina regionale e agli orientamenti giurisprudenziali facilita, inoltre, la ricerca di soluzioni per situazioni che possono presentare margini d’incertezza.
Alla fine di ciascun capitolo è riportata un’accurata bibliografia per ulteriori
spunti d’approfondimento degli argomenti trattati.
Per le sue caratteristiche, il volume si indirizza sia ai giuristi sia ai professionisti del settore che ci auguriamo troveranno nello stesso documentate e autorevoli risposte ai numerosi quesiti che emergono nella pratica quotidiana.
L’Editore
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Capitolo 1
La pianificazione urbanistica
Sommario
1 Pianificazione urbanistica e governo del territorio. - 2 I piani urbanistici. - 3 La concezione gerarchica dei piani. 4 La concezione funzionale. - 5 La partecipazione alla pianificazione. - 6 La «programmazione negoziata» nell’ambito
della pianificazione urbanistica. - 7 I riflessi della pianificazione sulla proprietà privata: perequazione e compensazione. - 8 La valutazione d’impatto ambientale. - 9 La valutazione ambientale strategica. - 10 Pianificazione e controllo di sostanze pericolose. - Bibliografia.
1 Pianificazione urbanistica e governo del territorio
La pianificazione urbanistica — secondo la definizione di ASTENGO — «ha come caratteristica peculiare quella di proporre in una visione globale, rapportata a un arco di tempo definito — breve o lungo che sia — quelle soluzioni di distribuzione spaziale degli interventi sul territorio e di organizzazione dei relativi strumenti strutturali (esistenti, di nuovo impianto o trasformati) che non solo risponda e soddisfi ai bisogni degli utenti per i quali il piano è predisposto, ma che si dimostri compatibile con lo sviluppo economico, tanto esistente che potenziale. In questo senso la progettazione urbanistica è frutto dell’integrazione di varie soluzioni a
diversi strati e livelli, tanto spaziali quanto economici e sociali».
Spettano, dunque, alla pianificazione urbanistica, compiti di controllo e di indirizzo delle trasformazioni del territorio e tali compiti essa assolve attraverso un insieme combinato di disposizioni inserite in «strumenti urbanistici» o «piani», aventi natura in parte normativa ed in parte provvedimentale.
Sul territorio, però — come rileva MORBIDELLI — converge una molteplicità di interessi giuridicamente rilevanti: «la diversificazione funzionale delle aree, le comunicazioni interne ed esterne anche con riferimento all’afflusso della popolazione, la conservazione di ambiti determinati, la direzione dello sviluppo urbano, l’armonia delle linee architettoniche, la funzionalità tecnica e la sicurezza, l’igiene, le esigenze paesaggistiche e altri ancora».
Ne consegue — tenuto anche conto di quanto in precedenza si è detto circa i limiti della «materia urbanistica» — che la disciplina del territorio non è demandata esclusivamente alla pianificazione urbanistica ma a molteplici norme e provvedimenti, rivolti a perseguire finalità diverse attraverso l’azione di amministrazioni diverse.
La pianificazione urbanistica, dunque, è pianificazione territoriale in quanto si rivolge a tutto il
territorio (e non più ai soli aspetti di edilizia urbana di esso, come accadeva nelle sue prime
manifestazioni), ma costituisce solo una parte della complessiva attività di «governo del territorio», ove confluiscono altri piani che disciplinano profili diversi.
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La pianificazione urbanistica
La dottrina si pone il problema dell’affiancarsi alle prescrizioni dei piani urbanistici di altre prescrizioni emanate da autorità diverse da quelle preposte alla pianificazione territoriale e della
conseguente individuazione dei rapporti intercorrenti tra tali prescrizioni e quelle contenute nei
piani urbanistici.
Prevalenza assoluta viene riconosciuta alla pianificazione economica su quella del territorio,
poiché la prima gode della riserva di legge (ORSONI), mentre nelle altre ipotesi — secondo CERULLI IRELLI — il giudizio di prevalenza deve essere affrontato caso per caso sulla base dei dati
positivi in relazione ai singoli interessi settoriali tutelati dalle discipline speciali.
2 I piani urbanistici
La legislazione vigente prevede una gamma molto vasta e differenziata di piani urbanistici.
Questi, secondo il parere espresso in data 21-11-1991 dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, possono differenziarsi:
a) quanto all’ampiezza del territorio considerato: poiché il loro ambito può essere regionale,
provinciale, comprensoriale, intercomunale, comunale, sub-comunale, di zona, di comparto, sino ai limiti di piani di lottizzazione comprendenti un unico lotto;
b) quanto ai rapporti di gerarchia giuridica esistenti fra loro: nel senso che vi sono strumenti
dotati di valore prescrittivo nei confronti dei piani di livello inferiore. Generalmente la scala
gerarchica corrisponde a quella dell’estensione dei rispettivi ambiti territoriali, vale a dire che
i piani di minore estensione debbono rispettare le prescrizioni di quelli di maggiore estensione, ma in vari casi la legge dispone diversamente;
c) quanto agli effetti giuridici: poiché vi sono piani che regolano direttamente i comportamenti dei privati, altri che, invece, si dirigono esclusivamente all’autorità urbanistica ai fini dell’esercizio dell’ulteriore potestà pianificatoria. Vi sono, poi, piani che oltre a disciplinare l’uso del
territorio costituiscono il presupposto di espropriazioni per pubblica utilità, per tutto il territorio considerato o limitatamente alle opere pubbliche in essi previste, e la cui approvazione equivale a dichiarazione di pubblica utilità;
d) quanto ai soggetti e alla natura giuridica: poiché vi sono piani (la maggioranza) la cui iniziativa e la cui formazione sono riservate alla pubblica amministrazione, ed hanno la natura
di atti amministrativi autoritativi; ma vi sono anche piani la cui iniziativa può essere assunta
da soggetti privati, e che assumono la natura di un atto negoziale (convenzione) fra i privati e l’autorità pubblica, comprendente l’assunzione di obbligazioni reciproche, la cessione di
immobili da parte dei privati in favore dell’ente pubblico, e così via.
Nell’ambito di questa vasta e varia tipologia, facendo ricorso ad uno schema largamente esemplificativo, può dirsi che il sistema della pianificazione urbanistica si articola nei seguenti tipi
principali di piano:
a) piani territoriali di coordinamento regionali e provinciali, che indirizzano a fini di coordinamento la programmazione e la pianificazione urbanistica degli enti locali;
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b) piani regolatori generali intercomunali, che coordinano le direttive riguardanti l’assetto urbanistico di due o più Comuni limitrofi;
c) piani regolatori generali comunali, che traducono le direttive generali in prescrizioni più precise con riferimento alla totalità del territorio di un Comune;
d) programmi di fabbricazione, che possono definirsi come elementari piani regolatori dei Comuni minori;
e) programmi pluriennali di attuazione, che perseguono finalità di coordinamento dei piani attuativi di nuovi insediamenti o di rilevanti ristrutturazioni urbanistiche con il programma triennale dei lavori pubblici del Comune e con lo stato delle urbanizzazioni del territorio interessato;
f) piani particolareggiati di esecuzione (e piani di lottizzazione), che rappresentano strumenti di attuazione dei piani regolatori generali, specificandone le destinazioni fino al dettaglio
planivolumetrico;
g) piani speciali di zona (piani per l’edilizia economica e popolare — piani degli insediamenti produttivi — piani di recupero), che appartengono al genere dei piani particolareggiati,
ma se ne distinguono per essere finalizzati all’espropriazione dell’intero territorio da essi considerato.
La funzione essenziale degli strumenti di cui alle lettere a) e b) è quella di fornire direttive ampie, rivolte ad orientare e coordinare gli interventi urbanistici ed edilizi in un ambito territoriale
più vasto di quello comunale.
I piani di cui alle lettere c) e d) sono finalizzati, invece, alla regolamentazione operativa dell’assetto urbanistico del territorio comunale.
I programmi di cui alla lettera e) perseguono lo scopo di impedire il sorgere di nuclei edificati
senza infrastrutture, nonché la realizzazione di infrastrutture prive di collegamento immediato
con i nuovi insediamenti.
I piani di cui alle lettere f) e g), infine, hanno finalità prevalentemente attuative dei piani sopraordinati.
Vari altri piani sono previsti dalla legislazione speciale e di essi tratteremo nei capitoli dedicati ai rispettivi ambiti di
applicazione.
Il sistema di pianificazione urbanistica dianzi schematizzato si articola, pertanto, in una serie di
procedimenti tra loro collegati rivolti a conferire un assetto ordinato al territorio (trattasi, secondo GIANNINI, di «procedimenti di procedimenti»).
• In giurisprudenza:
— «Gli strumenti urbanistici sono retti dai principi di nominatività e tipicità secondo cui un’amministrazione locale non può adottare od approvare una figura di piano di organizzazione del territorio medesimo, che non corrisponda, per presupposti, competenze, oggetto, funzione ed effetti, ad uno schema già predeterminato, in via generale ed astratta, da una norma primaria dell’ordinamento statale o regionale; pertanto, gli unici strumenti urbanistici legittimamente applicabili sono solo quelli previsti – per nome, causa e contenuto – dalla legge; ne deriva che, al di fuori di un tale numero chiuso, l’amministrazione non può legittimamente introdurre qualsivoglia
nuova categoria di strumento di pianificazione dell’assetto del territorio (nella specie, è stato affermato che le
previsioni di «Zpu» – zone di progettazione unitaria – non rientrano in alcuno degli schemi pianificatori previsti
dalla legislazione statale o regionale)» (C. Stato, sez. II, 10 dicembre 2003, n. 454/99).
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— «In materia urbanistica (come in ogni altro settore disciplinato dal diritto pubblico) occorre tener presente il principio di nominatività e tipicità degli atti amministrativi, in base al quale la p.a. non può adottare uno strumento urbanistico che non corrisponda ad uno schema già predeterminato dalla specifica normativa non solo nel suo
iter procedurale, ma anche con riguardo all’oggetto ed al contenuto» (C. Stato, sez. V, 12 dicembre 2003, n.
8198, in Giust. amm., 2003, 1402).
— «Nell’ordinamento amministrativo ed in particolare in quello urbanistico esiste il principio della nominatività e
tipicità degli atti amministrativi, corollario del più generale principio di legalità; pertanto, gli strumenti urbanistici legittimamente applicabili sono solo quelli previsti, in numero chiuso, dalla legge, con conseguente esclusione della facoltà dell’amministrazione di introdurre nuove categorie di strumenti di pianificazione urbanistica»
(C. Stato, sez. II, 26 ottobre 1994, n. 883/93, in Cons. Stato, 1995, I, 1000).
3 La concezione gerarchica dei piani
La distinzione tra pianificazione di direttive, operativa e di attuazione ha portato a qualificare il
sistema pianificatorio urbanistico come sistema «a cannocchiale», «a cascata» o «a piramide rovesciata», caratterizzato da un rapporto di gerarchia tra i piani, che si concretizzerebbe in una «sequenza gradualistica di comandi» (DI MAJO) via via più concreti nel passaggio da previsioni ampiamente programmatiche ed indicative a prescrizioni cogenti ed immediatamente operative.
È stata altresì formulata la teoria secondo la quale, nella pianificazione urbanistica, si determinerebbe una specie di predominio necessario, sul Comune, degli enti locali aventi territori più ampi.
Una teoria siffatta non può essere condivisa, anzitutto poiché confligge con il principio costituzionale dell’autonomia degli enti locali territoriali, ma anche poiché si pone in contrasto sia
con le enunciazioni fondamentali della legge 8-6-1990, n. 142 (trasfusa nel T.U. degli enti locali di cui al D.Lgs. 18-8-2000, n. 267) sia con il riparto di competenze in materia urbanistica delineato dalla legislazione statale, che conferisce al Comune la disciplina dell’assetto del proprio
territorio.
Il governo del territorio è articolato su una pluralità di poteri, di sicura valenza politica, insediati nelle rispettive comunità di riferimento e caratterizzati dal principio di sussidiarietà (art. 4,
comma 3, lett. a, della legge 15-3-1997, n. 59), che stabilisce la sostanziale riconducibilità dell’intero complesso di scelte e di compiti relativi a una dimensione territoriale all’ente esponenziale
della relativa comunità.
Questo principio va coniugato poi con la disposizione contenuta nell’art. 13 del T.U. n. 267/2000,
ai sensi della quale «spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale».
Deve concludersi, pertanto, nel senso che la pianificazione urbanistica comunale deve essere certamente delimitata dal quadro obbligatorio adottato dagli enti titolari di poteri
di coordinamento ma non può ridurre il proprio ruolo ad una sorta di mera specificazione di scelte compiute a monte da Regione e Provincia. Ciò si rivelerebbe in assoluta antitesi con la centralità, riservata al Comune quale ente di riferimento, degli interessi della comunità di base rispetto al regolato assetto del territorio.
Viene così configurato il principio della competenza, rinvenibile in tutte quelle previsioni che
impediscono ad un piano di area più vasta di assumere i contenuti assegnati ad altro piano di
minore dimensione territoriale.
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Anche nell’ambito degli stessi piani comunali, inoltre, la configurazione di un rapporto di gerarchia — a cagione della sua rigidità — non consentirebbe una rapida correzione delle scelte urbanistiche effettuate nel piano generale per adattarle al repentino mutamento delle esigenze socio-economiche.
Tale considerazione ha portato la legislazione statale più recente e le normative regionali a conferire, con sempre maggiore frequenza, ai piani esecutivi la facoltà di apportare deroghe alle
prescrizioni degli strumenti generali, istituzionalizzando la possibilità di varianti a tali strumenti introducibili con il ricorso a piani di dettaglio (attraverso procedure semplificate).
Deve perciò ribadirsi che la prospettazione della pianificazione urbanistica in termini di rapporto di gerarchia tra i piani è del tutto inidonea ad illustrare il sistema ed anzi, secondo STELLA
RICHTER, costituirebbe un «vero e proprio idolo teorico» che ha esercitato un’influenza negativa sulla stessa evoluzione della normativa urbanistica. L’attribuire, invero, una diversa forza alle
statuizioni contenute nei piani di diverso livello ha bloccato, nel momento operativo, tutta quella attività contrastante con il livello superiore, di cui veniva affermata la prevalenza.
Viene osservato, in proposito, che è stato confuso con la gerarchia il criterio di gradualità delle scelte posto dalla legge urbanistica, laddove il gradualismo non postula necessariamente un ordinamento gerarchico degli atti, ben potendo riguardare soltanto una progressiva specificazione di contenuti.
Al di là, infatti, della particolare posizione dei piani territoriali di coordinamento (della quale ci
occuperemo nel capitolo ad essi dedicato) si evidenzia che, nell’ambito della pianificazione comunale, piani generali e piani particolareggiati possono contenere indifferentemente disposizioni a contenuto programmatorio e disposizioni puntuali, immediatamente operative. L’eventuale
genericità delle scelte del piano generale comporta necessariamente un’ulteriore fase di precisazione, che si sviluppa attraverso i piani attuativi costituenti pur sempre, però, prosecuzione
del potere di conformazione del territorio già esercitato con il piano generale.
E ciò è confermato dalle ipotesi in cui è la stessa legge (statale o regionale) a conferire ai piani
particolareggiati la possibilità di introdurre varianti ai piani generali.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato — nel citato parere reso il 21-11-1991 — rileva in proposito che «la stessa nozione di “piani attuativi” è generica e fuorviante. Essa ha un significato reale solo nel senso che i vari tipi di
piano urbanistico infracomunale presuppongono, almeno di norma, l’esistenza del piano regolatore generale e sono
subordinati ad esso. Ma in taluni casi eccezionali essi possono, o debbono, essere formati anche in assenza di un
p.r.g. vigente (spesso la legge impone la condizione che il p.r.g. sia, almeno, adottato e dunque in itinere); più di
frequente è ammesso che tali piani, pur collegandosi organicamente ad un p.r.g. vigente, gli apportino qualche variante (in tale ipotesi, in genere, il procedimento di approvazione è aggravato).
Anche volendo prescindere, tuttavia, da queste ipotesi particolari, nelle quali il piano particolareggiato prescinde dal
p.r.g. o si sovrappone ad esso, si deve osservare che neppure nell’ipotesi di totale rispetto del p.r.g. si può parlare di
strumento «meramente attuativo».
Innanzi tutto, i piani speciali di zona (piano dell’edilizia economica e popolare, piani degli insediamenti produttivi,
piani di recupero e simili) hanno funzioni ed effetti che vanno ben oltre la semplice disciplina dell’uso del territorio;
essi sono, in realtà, programmi di espropriazione di rilevanti porzioni di territorio (com’è noto, nella prima fase della loro attuazione debbono essere espropriati tutti gli immobili in essi contemplati, compresi quelli destinati ad essere in prosieguo ceduti per l’utilizzazione privata) con l’assunzione di considerevoli oneri da parte del Comune; in altre parole, piuttosto che regolamentare e disciplinare l’iniziativa privata (così come, prevalentemente, fa il p.r.g.) essi
sono programmi e strumenti dell’intervento pubblico nell’iniziativa economica.
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Ma per gli stessi piani particolareggiati appare improprio ed eccessivamente riduttivo parlare di «funzione meramente attuativa». Specialmente nelle aree metropolitane, ma dovunque la trasformazione urbanistico-edilizia si presenta
con caratteri di un certo dinamismo, i piani particolareggiati hanno assunto negli ultimi tempi una notevole rilevanza come sedi di scelte ampiamente discrezionali all’interno di una pianificazione generale che esprime solo scelte di
massima e d’indirizzo».
4 La concezione funzionale
STELLA RICHTER osserva che «costituisce il frutto di una inammissibile semplificazione l’affermare che l’attività pianificatoria abbia sempre, salva l’ipotesi del piano territoriale di coordinamento che si pone al vertice della serie, carattere esecutivo rispetto alle prescrizioni del piano
immediatamente sopraordinato». Evidenzia altresì che «i vari tipi di piano previsti dalla legge non
hanno tutti la medesima natura e funzioni, né uno stesso oggetto ed identici destinatari, e che
essi non si differenziano affatto per una genericità ed importanza, che decresce parallelamente
al restringersi del rispettivo ambito territoriale, e per una inversamente crescente specificità e
concretezza di effetti». Ricostruisce, quindi, il sistema della pianificazione sulla base della distinzione tra le varie possibili funzioni cui lo strumento urbanistico può adempiere e, nell’ambito di
un’unitaria funzione indirizzata all’utilizzazione ottimale del territorio, individua una funzione
«precettiva» ed una funzione «di gestione» quali «funzioni ordinali» (attinenti, cioè, all’ordine delle attività da svolgere per la realizzazione della funzione sostanziale).
Nell’ambito della funzione precettiva l’Autore distingue le prescrizioni (ed i piani) a seconda che
essi:
— abbiano lo scopo di disciplinare l’esercizio stesso dell’attività pianificatoria e si rivolgano pertanto agli organi stessi della pianificazione e non ai proprietari dei suoli, cioè a quei soggetti che dovranno effettivamente usare del territorio, attuando concretamente l’uso e le trasformazioni previsti in sede di disciplina urbanistica;
— ovvero siano rivolti a conformare in concreto il territorio, dettando una disciplina differenziata dell’uso di esso ma non ancora dettagliata al punto da stabilire la destinazione definitiva della singola zona ed il contenuto concreto del diritto dei proprietari;
— oppure, infine, incidano direttamente sulla conformazione delle proprietà e sulle possibilità
di utilizzazione dei beni.
Il contenuto della funzione di gestione del territorio, a sua volta (che emerge nei programmi pluriennali di attuazione e nei piani comunali funzionali, quali quelli per gli insediamenti produttivi o di edilizia residenziale pubblica), viene individuato nell’attuazione delle prescrizioni del piano regolatore intesa non come mera esecuzione ed integrazione in dettaglio di esse, bensì come
incentivazione alla loro realizzazione e regolazione dei tempi di essa, in una prospettiva di orientamento dello sviluppo e degli investimenti anche verso quegli usi del territorio che i privati proprietari non hanno normalmente interesse ad attuare perché non abbastanza remunerativi.
Nella ricostruzione del sistema dianzi delineata alcune prescrizioni urbanistiche hanno una maggiore forza giuridica delle altre, pur nel contesto della medesima funzione, in quanto sono fi-
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nalizzate alla tutela di interessi pubblici preminenti o comunque di dimensione sopralocale.
ORSONI rileva che una prospettazione siffatta finisce per creare una specie di gerarchia tra funzioni, che si riflette sulle singole prescrizioni, senza che vi sia un dato normativo di riferimento
per tale individuazione. In questi casi si tratterebbe piuttosto di una gerarchia logica, di una prevalenza logica di scelte con obiettivi più ampi su scelte con obiettivi più ristretti.
Conclude, pertanto, nel senso che gli atti di pianificazione non sono riconducibili ad un unico
schema, ma ad un insieme di possibili relazioni che rendono episodiche e di difficile coordinamento le scelte di utilizzo del territorio.
I rapporti di coordinazione sono scarsi, al punto che si può dubitare di essere in presenza di un
sistema organico o riconducibile comunque a principî comuni di organizzazione.
Appare ormai indispensabile, dunque, una rielaborazione complessiva della materia, che sia effettivamente idonea a coordinare i vari aspetti sotto cui si manifesta l’esercizio di poteri incidenti sul territorio.
5 La partecipazione alla pianificazione
Nei procedimenti di pianificazione urbanistica deve essere anzitutto garantita l’autonomia degli Enti locali il cui territorio è interessato dalle previsioni del piano.
La Corte Costituzionale ha affermato, in proposito che «la garanzia costituzionale del principio
autonomistico, prevista dagli artt. 5 e 128 della Costituzione, può dirsi rispettata ogni qual volta
il procedimento finalizzato all’approvazione degli strumenti urbanistici sia articolato in modo tale
da assicurare una sostanziale partecipazione allo stesso degli enti il cui assetto territoriale è determinato dagli strumenti in questione», rilevando altresì che l’individuazione dei modi nei quali tale coinvolgimento può avvenire è rimessa alla discrezionalità del legislatore (statale o regionale), discrezionalità che può essere sindacata dalla stessa Consulta soltanto sotto il profilo della
sua ragionevolezza (Corte Cost., 3 novembre 1988, n. 1010, in Riv. giur. edilizia, 1989, I, 3).
È necessario ricordare, inoltre, che l’esercizio dell’attività amministrativa deve essere rivolto ad
assicurare il perseguimento dell’interesse pubblico primario in contemperamento — per quanto possibile — con gli altri interessi coinvolti, pubblici e privati: a tal fine è fondamentale la partecipazione dei soggetti interessati alla formazione dei provvedimenti amministrativi che li
riguardano. Detta partecipazione può esprimersi sia in funzione di tutela della propria posizione giuridica, attraverso la proposizione di «opposizioni», sia in funzione di collaborazione all’attività della pubblica Amministrazione, attraverso la formulazione di «osservazioni».
La Corte Costituzionale, in proposito, con la sentenza n. 13 del 2-3-1962, ha rilevato che «quando il legislatore dispone che si apportino limitazioni ai diritti dei cittadini, la regola che il legislatore normalmente segue è quella di enunciare ipotesi astratte predisponendo un procedimento amministrativo, attraverso il quale gli organi competenti provvedono ad imporre concretamente tali limiti, dopo aver fatto gli opportuni accertamenti, con la collaborazione, ove
occorra, di altri organi pubblici e dopo aver messo i privati interessati in condizione di esporre le proprie ragioni, sia
a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico».
Tale principio la Consulta ha poi ribadito con le sentenze n. 23/1978 e n. 234/1985.
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La partecipazione viene spesso ricondotta al principio del «giusto procedimento» (il «due process»
di cui al V e XIV emendamento della Costituzione U.S.A.) ma la Corte Costituzionale, con le pronunzie dianzi citate, ha affermato che il «giusto procedimento» si correla soltanto a provvedimenti che apportano limitazioni ai diritti e agli interessi dei cittadini, e non a provvedimenti «ampliativi» delle posizioni giuridiche. La partecipazione, invece, può essere funzionale alla completezza istruttoria di qualsiasi procedimento amministrativo ed il legislatore deve tenerne conto unitamente all’esigenza di non ritardare l’azione amministrativa.
Ai sensi dell’art. 8, 2° comma, del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267, nei procedimenti relativi all’adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive devono essere previste forme di partecipazione degli interessati, secondo le modalità stabilite dagli statuti degli enti locali, «nell’osservanza dei principi stabiliti dalla legge 7-8-1990, n. 241».
La legge n. 241/1990, al capo III, ha disciplinato la «partecipazione al procedimento amministrativo», ma ha escluso (art. 13, 1° comma) l’applicabilità di tali disposizioni ai procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione: per tali procedimenti continuano a trovare applicazione le specifiche forme di partecipazione previste dalla legislazione speciale che ne regola la formazione.
Una normativa che escludesse qualsiasi partecipazione dei soggetti interessati alla formazione
di piani urbanistici con effetti conformativi delle proprietà presenterebbe aspetti di incostituzionalità sotto il profilo della irragionevolezza, poiché tali piani presuppongono un’attività di comparazione tra i vari interessi, che devono essere valutati proprio attraverso l’apporto collaborativo dei soggetti coinvolti.
Il principio di ragionevolezza trova fondamento nei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3, 1° comma, Cost.) e
di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione (art. 97, 1° comma, Cost.) e comporta la necessità di individuazione e di comparazione di tutti gli interessi coinvolti dall’esercizio della funzione amministrativa.
Esso ingloba anche il principio di aderenza o di adeguatezza, cioè di massima corrispondenza della disciplina concreta ai fini della legge (PERICU) attraverso il miglior proporzionamento dell’attività al fine stabilito (NIGRO).
• In giurisprudenza:
— «Il principio di cui all’art. 7 L. 241/1990 sul procedimento amministrativo è generale e cede in presenza di principi aventi la medesima finalità ma forme diverse, previsti dalle leggi speciali; la legge statale e le leggi regionali in tema di formazione degli strumenti urbanistici prevedono strumenti di partecipazione in favore del privato più garantisti dell’art. 7 L. 241/1990; la partecipazione del privato negli atti di pianificazione urbanistica è
assicurata dalla possibilità per lo stesso di presentare osservazioni e opposizioni» (C. Stato, sez. V, 16 settembre 2004, n. 6014, in Guida al dir., 2004, fasc. 40, 97).
— «In mancanza di ogni altra previsione di partecipazione procedimentale da parte della normativa in materia di
pianificazione del territorio, l’art. 7 L. 7 agosto 1990, n. 241 finisce con il disciplinare l’unica forma di partecipazione procedimentale dei privati ad un assetto pubblicistico del territorio, che purtuttavia interferisce in
modo strettissimo con i loro interessi; pertanto, in tal caso, non si realizza l’ipotesi dell’esclusione prevista dall’art.
13, 1° comma, L. n. 241 cit., volendo tale norma escludere una duplicazione delle forme di partecipazione procedimentale, ma non certo eliminarla radicalmente, con l’effetto — evidentemente distorsivo del parametro costituzionale di buon andamento dell’amministrazione — di impedire addirittura ogni acquisizione e valutazione
dei vari interessi privati coinvolti dall’esercizio del pubblico potere di pianificazione territoriale» (C. Stato, sez.
IV, 24 ottobre 2000, n. 5720, in Cons. Stato, 2000, I, 2331).
— «Mediante le disposizioni partecipative delle leggi 7 agosto 1990, n. 241 e 8 giugno 1990, n. 142, nonché degli statuti degli enti locali, si intende garantire le posizioni riconosciute al privato in base al principio del «giu-
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sto procedimento», con la conseguenza che deve ritenersi irrilevante l’assenza delle disposizioni medesime nel
caso in cui lo scopo che si vuole conseguire sia stato comunque raggiunto attraverso modalità e forme diverse;
pertanto, atteso che nei procedimenti pianificatori la detta finalità è garantita dalle norme che prevedono il deposito, previo pubblico avviso, per un determinato periodo, degli atti di adozione degli strumenti urbanistici nonché dalla possibilità di presentare osservazioni o opposizioni, cui l’organo competente è tenuto a controdedurre, non occorre in tali ipotesi un atto di comunicazione di avvio del procedimento» (T.a.r. Friuli-Venezia Giulia,
2 maggio 2000, n. 388, in Trib. amm. reg., 2000, I, 1117).
6 La «programmazione negoziata» nell’ambito della pianificazione urbanistica
L’art. 2, punto 203, della legge 23-12-1996, n. 662 ha introdotto nuove figure di accordi e di
intese tra soggetti pubblici, statali o locali, e soggetti privati, allo scopo di realizzare programmi
ed interventi coordinati, in un contesto di «programmazione negoziata», intesa come la regolamentazione concordata tra soggetti pubblici o tra il soggetto pubblico competente e la parte
o le parti pubbliche o private per l’attuazione di interventi diversi, riferiti ad un’unica finalità di
sviluppo, che richiedono una valutazione complessiva delle attività di competenza.
Tali figure sono in particolare:
a) l’intesa istituzionale di programma, che consiste nell’accordo tra Amministrazione centrale, regionale o delle Province autonome, con cui tali soggetti si impegnano a collaborare
sulla base di una ricognizione programmatica delle risorse finanziarie disponibili, dei soggetti interessati e delle procedure amministrative occorrenti, per la realizzazione di un piano
pluriennale di interventi d’interesse comune o funzionalmente collegati;
b) l’accordo di programma quadro, promosso dall’Amministrazione centrale, dalle Regioni o
dalle Province autonome con enti locali ed altri soggetti pubblici e privati, in attuazione di
un’intesa istituzionale di programma, per la definizione di un programma esecutivo di interventi di interesse comune o funzionalmente collegati.
Tale accordo — che è vincolante per tutti i soggetti che vi partecipano — deve indicare, in
particolare:
— le attività e gli interventi da realizzare, con i relativi tempi e modalità di attuazione e con
i termini ridotti per gli adempimenti procedimentali;
— i soggetti responsabili dell’attuazione delle singole attività ed interventi;
— gli eventuali accordi di programma ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267/2000;
— le eventuali conferenze di servizi o convenzioni necessarie per l’attuazione dell’accordo;
— gli impegni di ciascun soggetto, nonché del soggetto cui competono poteri sostitutivi in
caso di inerzia, ritardi o inadempienze;
— i procedimenti di conciliazione o definizione di conflitti fra i soggetti partecipanti all’accordo;
— le risorse finanziarie occorrenti per le diverse tipologie di intervento, a valere sugli stanziamenti pubblici o anche reperite tramite finanziamenti privati;
— le procedure ed i soggetti responsabili per il monitoraggio e la verifica dei risultati;
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La pianificazione urbanistica
c) il patto territoriale, che è l’accordo promosso da enti locali, parti sociali, o da altri soggetti pubblici o privati, con i contenuti dell’accordo di programma quadro, relativo all’attuazione di un programma di interventi caratterizzato da specifici obiettivi di promozione dello sviluppo locale;
d) il contratto di programma, che è il contratto stipulato tra l’Amministrazione statale competente, grandi imprese, consorzi di medie e piccole imprese e rappresentanze di distretti industriali per la realizzazione di interventi oggetto di programmazione negoziata;
e) il contratto di area, che è lo strumento operativo, concordato tra Amministrazioni, anche
locali, rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché eventuali altri soggetti interessati, per la realizzazione delle azioni finalizzate ad accelerare lo sviluppo e la creazione di una nuova occupazione in territori circoscritti, nell’ambito delle aree di crisi indicate
dal Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze e sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari.
Gli anzidetti strumenti di programmazione negoziata coinvolgono strettamente l’ambito urbanistico ed in particolare quello della pianificazione del territorio rivolta alla riqualificazione urbana. Attraverso tali strumenti, infatti, si possono introdurre varianti alla pianificazione urbanistica generale, ammettendosi altresì il privato nella stessa fase di formazione e determinazione di tali scelte.
L’intesa istituzionale di programma è l’unica tipologia di programmazione negoziata dalla quale sono esclusi i soggetti privati; questi sono ammessi, invece, a partecipare ai procedimenti di
formazione e di conclusione di ogni altra figura di concertazione.
Appare opportuno evidenziare che l’uso incongruo della programmazione negoziata ben potrebbe compromettere i princìpi regolatori della pianificazione territoriale, allorché si consideri
che, in relazione ad essi, il territorio appare essenzialmente come il contesto fisico in cui si vanno ad articolare le iniziative di rilancio produttivo, variante dipendente dalle strategie di rilancio dell’occupazione e di riqualificazione e riconversione delle attività produttive in crisi strutturale ed a tali strategie essenzialmente complementare.
Si vuole dire con ciò che la riqualificazione urbano-territoriale delle aree di intervento
non può realizzarsi secondo logiche di mera opportunità di impresa, sicché nasce il problema della instaurazione di un corretto equilibrio tra la pianificazione dello sviluppo (questioni riferite all’occupazione ed alla competitività dell’attività economica) e la pianificazione del
territorio.
Evidenti sono, infatti, i pericoli di una pianificazione per parti di territorio e specifici settori produttivi, pericoli ancora più immanenti nell’attuazione di una politica dell’emergenza.
L’utilizzazione degli strumenti di pianificazione speciale, in conclusione, deve essere necessariamente ricondotta nella logica di una pianificazione ordinaria integrata, sicché appare imprescindibile un disegno programmato strategico del territorio, individuato in strumenti di indirizzo territoriale regionale (che designino le azioni prioritarie di riqualificazione) e specificato in
piani provinciali o metropolitani, che individuino gli interventi preferenziali per un’utile produzione delle singole proposte riqualificative.
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ı Capitolo 1 - La pianificazione urbanistica
7 I riflessi della pianificazione sulla proprietà privata: perequazione e compensazione
A) La perequazione
Un problema fondamentale della pianificazione urbanistica è quello dei riflessi della stessa sulla proprietà privata ed il nodo della questione consiste nella differenziazione dei proprietari
indotta dalle scelte di piano.
I piani urbanistici inevitabilmente creano disuguaglianze, poiché pianificare il territorio significa trattare in modo diseguale le singole aree.
Il Consiglio di Stato ha espressamente rilevato, in proposito, che «la suddivisione per zone del territorio, la diversità
delle previsioni cui è assoggettata ciascuna zona, e la medesima diversa natura dei vincoli, che possono giungere fino
a privare il proprietario di talune facoltà insite nel suo diritto, quale quella di edificare, comportano necessariamente una diversità di trattamento dei terreni inseriti in zone diverse».
Ha però affermato che «la sperequazione che ne consegue è legittima ove trovi la sua giustificazione nella natura intrinseca della zona, che la rende più o meno adatta al perseguimento di finalità sociali» (C. Stato, sez. V, 14 aprile
1981, n. 367, in Cons. Stato, 1981, I, 813).
Sarebbe necessario, allora, individuare correttamente tali «nature intrinseche» di ciascuna zona, in una prospettiva di
determinazione dell’uso ottimale delle singole proprietà e della funzionalizzazione in senso sociale dei relativi diritti. Ma ampia è la discrezionalità delle scelte di localizzazione e di conformazione ed essa esercita un’influenza determinante sul valore dei suoli, che deve essere perequata con adeguati correttivi.
La stessa struttura dei piani, dunque, ha l’attitudine ad introdurre fortissime sperequazioni patrimoniali tra i diversi proprietari fondiari, fino a creare enormi fortune, e ciò induce l’esercizio di
«pressioni» nella fase di pianificazione, un inevitabile ritardo nella redazione degli strumenti urbanistici intimamente connesso alla rilevanza degli interessi in campo.
Il problema dell’adozione di adeguati meccanismi perequativi è estremamente complesso, ma
il senso di fondo della perequazione è quello di «gravare contemporaneamente la proprietà
del beneficio dell’edificabilità e del peso di contribuire all’elevamento generale della qualità urbana».
Tale contemporaneità costituisce l’essenza della perequazione: i singoli lotti vengono ricompresi in ambiti spaziali più ampi (comparti) ed assumono una duplice caratteristica: assumono, globalmente, una capacità edificatoria e, corrispondentemente, devono assolvere l’onere di fornire
gli spazi necessari per le attrezzature pubbliche e le altre infrastrutture.
Al complesso delle aree ricomprese entro il comparto viene assegnata una determinata dotazione edificatoria, sotto forma di «indice territoriale convenzionale», e ad essa si ricollega inscindibilmente la prescrizione di cessione al patrimonio comunale di talune di tali aree.
Il sistema è finalizzato a rendere «indifferente» per i proprietari la collocazione spaziale degli
standard (cui si ricollega l’effetto di inedificabilità) all’interno del comparto: attraverso atti di natura privatistica (permute e/o cessioni di volumetria) la volumetria edificatoria di tutti i lotti (compresi quelli che successivamente saranno ceduti all’amministrazione) viene aggregata entro aree
di concentrazione e tutti i proprietari (compresi quelli dei lotti che dovranno essere successivamente ceduti) beneficiano «pro quota» della potenzialità volumetrica complessivamente assegnata al comparto sotto forma di indice territoriale.
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La pianificazione urbanistica
La fase attuativa si completa con la cessione gratuita al Comune delle aree destinate a standard.
Nella prospettiva anzidetta la perequazione è rivolta a perseguire il duplice risultato:
— di rendere indifferenti, rispetto al regime di suoli aventi le medesime caratteristiche, le scelte di pianificazione, facendo gravare in eguale misura, sui diversi proprietari, la collocazione di opere finalizzate a soddisfare bisogni collettivi;
— di consentire la formazione di un cospicuo patrimonio fondiario pubblico, senza fare ricorso all’espropriazione (cioè senza oneri finanziari per il Comune).
Nel nostro Paese il dibattito attorno ai temi della perequazione assunse sostanziale consistenza
con la presentazione a Roma, nel dicembre del 1960, in occasione dell’VIII congresso nazionale dell’INU, di una articolata proposta di legge denominata Codice dell’urbanistica. In tale, proposta, illustrata al congresso da ASTENGO, la perequazione costituiva uno strumento di utilizzo ordinario, in quanto veniva previsto che, all’interno dei comparti, le particelle «cui fosse stato attribuito un volume edificatorio effettivo inferiore a quello teorico medio», dovessero ricevere — appunto a perequazione — «un compenso di diritto di volume da parte delle particelle cui
fosse stato attribuito valore maggiore di quello teorico medio».
Nel giugno del 1962, una commissione di studio — nominata dal ministro dei lavori pubblici
Fiorentino Sullo e composta da insigni urbanisti (ASTENGO, SAMONÀ e PICCINATO) e da illustri giuristi (ROEHRSSEN, GUARINO, GIANNINI e RUBINO) — redasse un organico Progetto di
legge urbanistica, ove veniva prospettata una soluzione basata sull’esproprio generalizzato e sulla demanializzazione di tutte le aree fabbricabili, al dichiarato scopo di rendere i diversi proprietari indifferenti alle scelte urbanistiche.
Tali aree sarebbero state successivamente urbanizzate dal Comune e quindi cedute — mediante asta pubblica — in diritto di superficie, ad un prezzo pari a quello di acquisizione, maggiorato della quota-parte relativa ai costi di urbanizzazione. Il progetto, però, produsse un vasto allarme sociale e venne accantonato per esigenze elettorali senza giungere neppure all’approvazione del Consiglio dei Ministri: gli stessi proponenti si defilarono e la responsabilità della proposta restò legata soltanto al ministro Sullo.
Successivamente una commissione di studio, nominata dal ministro Nicolazzi e presieduta da
SANDULLI, elaborò un sistema di asta pubblica per le aree rese edificabili dal piano: tali aree
dovevano essere vendute al miglior offerente, che avrebbe provveduto a pagare il terreno al
proprietario e a versare al Comune un corrispettivo per la edificabilità (quale valore aggiunto).
Altre soluzioni sono state individuate in proposito:
— prelievi tributari;
— indennizzi parziali correlati ai varî tipi di restrizioni imposte dal piano (secondo i modelli svizzero e nordamericano);
— prelazioni sulle aree a favore di enti pubblici;
— istituzione di diritti di sviluppo (sui modelli inglese e californiano);
— fissazione di un «plafond de densité», secondo il modello francese, con divisione della facoltà di edificare in due
parti, una delle quali, al di sopra di una volumetria minima eguale per tutti i proprietari, appartiene alla collettività, e previsione di conguagli dovuti a chi ha avuto di meno da coloro che dal piano si sono visti attribuire più
del minimo.
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ı Capitolo 1 - La pianificazione urbanistica
STELLA RICHTER rileva che la perequazione può attuarsi con due modalità giuridicamente diverse:
— in una prima forma, da tempo sperimentata, essa si realizza come «perequazione di comparto», mediante la concentrazione di tutta la cubatura afferente ad una certa zona in una specifica sua parte: il mezzo tecnico, dunque, è quello della creazione di una zona a trasformazione necessariamente unitaria, il che costringe i vari proprietari della zona medesima ad
accordarsi tra loro se vogliono evitare la paralisi di qualsiasi iniziativa.
I singoli proprietari delle aree comprese nei comparti (i quali potranno essere associati nella forma giuridica del consorzio) partecipano pro quota, cioè proporzionalmente alle proprietà possedute, all’edificabilità complessiva del comparto e lo stesso rapporto proporzionale viene applicato alle cessioni per standards urbanistici, equiparando quindi le diverse
proprietà fondiarie, sia per quanto riguarda i vantaggi sia per quanto riguarda gli oneri connessi all’intervento;
— in una seconda forma, essa consiste in una tecnica di scissione tra la conformazione della
proprietà (tradizionale funzione del piano di attribuzione a ciascuna area della propria destinazione e quindi della cubatura che vi può essere costruita) e la distribuzione di una edificabilità uniforme meramente potenziale, avente rilevanza solamente sotto il profilo economico. In tale ottica può costruire sempre e soltanto chi possiede un’area alla quale il piano
assegna una edificabilità effettiva e nei limiti di tale assegnazione, ma, se la sua edificabilità
potenziale è inferiore, egli deve acquistarne da chi non può usarla direttamente tanta quanta ne occorre per eguagliare la misura della edificabilità effettiva.
Alla stregua di tale secondo modello, la perequazione può realizzarsi con l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari che hanno vocazione edificatoria (intendendosi per tali
le aree che, per le loro caratteristiche geo-morfologiche, per la contiguità all’abitato o per il fatto di essere già servite da tutte o dalle principali opere di urbanizzazione primaria, hanno acquisito una concreta aspettativa di trasformabilità e quindi un valore di mercato completamente diverso da quello meramente agricolo) in percentuale dell’estensione o del valore di esse e
indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso. Tali diritti edificatori devono ritenersi trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali.
In una prospettiva siffatta, il piano regolatore comunale, oltre ad attribuire l’edificabilità effettiva, potrà identificare delle aree ove l’edificazione è vietata ma alle quali viene comunque riconosciuta una oggettiva vocazione edificatoria e pertanto una edificabilità meramente potenziale. La potenzialità edificatoria non direttamente utilizzabile dal proprietario può dallo stesso essere trasferita ad altro proprietario, il quale può acquistarla e concretamente utilizzarla fino alla
concorrenza della densità edilizia effettiva attribuita alla sua area dal piano regolatore.
Può procedersi pure con la cd. «cassa perequativa»: chi ha edificabilità effettiva superiore a quella potenziale versa una somma (determinata secondo criteri prestabiliti), che viene attribuita a
chi non ha edificabilità ovvero ha edificabilità effettiva inferiore a quella potenziale. Tale «cassa
perequativa» può essere sia privata (e cioè costituita e gestita dagli interessati) sia pubblica (e
cioè gestita dalla tesoreria comunale).
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La pianificazione urbanistica
Diverse legislazioni regionali hanno introdotto il principio di perequazione: alcune di esse,
però, si sono limitate ad affermazioni generiche, mentre altre hanno previsto solamente una perequazione di comparto, seppure variamente esteso.
Il metodo perequativo risulta comunque applicato nella pianificazione di numerosi Comuni.
A titolo esemplificativo appare opportuno ricordare che:
— Nel Comune di Reggio Emilia, l’obiettivo delle perequazione è stato perseguito mediante l’individuazione di un
vasto ambito territoriale suddiviso in due perimetri: nel perimetro più interno, di minore estensione, è stata concentrata l’edificazione, con funzioni miste residenziali e terziarie, mentre quello esterno è stato riservato al verde
pubblico e privato. A tutti i soggetti interessati dalla pianificazione è stata richiesta la cessione di una quota di
proprietà per servizi pubblici, o imposta una destinazione a verde privato e, allo stesso tempo, a ciascuno sono
stati offerti, nell’ambito del perimetro più interno, diritti edificatori in misura proporzionale alla quota di proprietà ceduta o vincolata.
B) La compensazione
La cd. compensazione consiste nella possibilità di stipulare convenzioni con le quali il proprietario di un’area destinata, secondo le previsioni di piano, alla utilizzazione esclusivamente per
funzioni pubbliche o collettive, attivabili e gestibili soltanto da soggetto pubblico, cede la stessa al Comune o al soggetto pubblico competente, ottenendo in cambio la disponibilità di una
cubatura su di un’altra area (trasferimento dell’edificabilità da un’area ad un’altra della stessa
o di altre zone).
Vengono diffusamente previsti, al riguardo, dalla legislazione regionale e dagli strumenti di pianificazione, in alternativa all’indennizzo monetario previsto per la procedura di espropriazione:
— la permuta degli immobili destinati a funzioni pubbliche o collettive con immobili di proprietà del Comune o del soggetto pubblico competente, che siano suscettibili, secondo le prescrizioni di piano, di trasformazioni ed utilizzazioni nell’ambito dell’ordinaria iniziativa economica privata;
— il trasferimento ad altri immobili di proprietà del privato dell’effettuabilità di trasformazioni
di entità e qualità equivalenti a quelle ammissibili nell’articolazione del territorio nella quale ricadono gli immobili destinati a funzioni pubbliche o collettive, quale compensazione della cessione gratuita di questi ultimi immobili al soggetto pubblico competente alla loro utilizzazione.
Gli strumenti urbanistici possono prevedere, allo scopo, comprensori con indici incrementabili ovvero specifiche aree di «riserva urbanistica» per le compensazioni.
L’istituto della compensazione può essere utilizzato pure a fini di perequazione, in quel
modello perequativo-compensativo di cui si è fatto cenno dianzi, in forza del quale, anche al di
fuori dei comparti, vengono attribuite alle aree vincolate per servizi pubblici diritti edificatori
utilizzabili, nei casi di cessione gratuita delle aree stesse al Comune, attraverso il loro trasferimento in ambiti edificabili.
Nella legislazione regionale e nei nuovi piani urbanistici comunali vi è una diffusa utilizzazione
di tale modello, ma l’applicazione concreta di esso spesso risulta problematica, in quanto non
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ı Capitolo 1 - La pianificazione urbanistica
viene, per lo più, garantito il c.d. “atterraggio” dei diritti edificatori su aree specificamente individuate.
La cessione compensativa, inoltre, può rivestire una fondamentale importanza anche per risolvere i problemi relativi ai diritti acquisiti e messi in discussione dall’adozione di nuovi piani o
varianti, per avviare operazioni di demolizione senza ricostruzione al fine di ridurre la densità
edilizia e liberare aree, nonché per rilocalizzare attività ormai ubicate in sede impropria.
I commi 258 e 259 dell’art. 1 della legge 24-12-2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008) hanno introdotto misure compensative, da parte dei Comuni, a favore di chi cede gratuitamente aree ed immobili da destinare ad edilizia residenziale.
Viene previsto, al riguardo, che negli strumenti urbanistici possano essere definiti ambiti la cui trasformazione è subordinata alla cessione gratuita da parte dei proprietari, singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare ad edilizia residenziale sociale, in rapporto al fabbisogno locale ed in relazione all’entità ed al valore della trasformazione, con possibilità, in tali ambiti, di eventuale fornitura di alloggi a canone calmierato, concordato e sociale.
A fronte di cessioni siffatte, il Comune può consentire un aumento di volumetria premiale nei limiti di incremento
massimi della capacità edificatoria prevista per detti ambiti.
Alcune leggi regionali già prevedono l’istituto della compensazione. Possono ricordarsi:
— l’art. 37 della legge 23-4-2004, n. 11 della Regione Veneto, che consente compensazioni che permettano ai
proprierari di aree e di edifici oggetto di vincolo preordinato all’esproprio di recuperare adeguata capacità edificatoria, anche nella forma del credito edilizio, su altre aree e/o edifici, pure di proprietà pubblica, previa cessione all’amministrazione dell’area oggetto di vincolo;
— l’art. 30 della legge 22-2-2005, n. 11 della Regione Umbria, secondo il quale gli strumenti urbanistici comunali possono prevedere l’utilizzazione dei diritti edificatori e delle aree acquisite dal Comune per compensazioni
di oneri imposti ai proprietari in materia di acquisizione pubblica degli immobili, di demolizioni senza ricostruzioni per finalità urbanistiche, di ripristino e di riqualificazione di spazi, di eliminazione di detrattori ambientali.
Le compensazioni vengono definite sulla base di perizie tecniche estimative e sono deliberate dal Comune;
— l’art. 11 della legge 11-3-2005, n. 12 della Regione Lombardia, secondo il quale alle aree destinate alla realizzazione di interventi di interesse pubblico o generale, non disciplinate da piani e da atti di programmazione, possono essere attribuiti, a compensazione della loro cessione gratuita al Comune, aree in permuta o diritti edificatori trasferibili su aree edificabili previste dagli atti di programmazione generale territoriale anche non soggette a
piano attuativo. I diritti edificatori attribuiti a titolo di compensazione sono liberamente commerciabili.
L’art. 21 della legge n. 3/2005 della Regione Puglia prevede, inoltre, l’attribuzione di diritti volumetrici quale alternativa dell’indennità di esproprio e l’art. 23 della legge n. 37/2002 della Regione Emilia-Romagna, sempre nell’ambito della normativa sugli espropri, incentiva il privato espropriando ad accordarsi con il Comune attraverso la previsione della facoltà di edificare su altre aree in luogo del prezzo dell’area ceduta.
C) La compensazione ambientale
Appare utile evidenziare, infine, che la compensazione urbanistica, dianzi schematicamente illustrata, è differente da quella introdotta dall’art. 1, commi 21-24, della legge 15-12-2004, n. 308 (contenente la delega al riordino
della legislazione ambientale) e nota come «compensazione ambientale», ove viene attribuita al privato la facoltà di chiedere al Comune il trasferimento di diritti edificatori — già assentiti ma non più esercitabili a causa della
successiva imposizione di un vincolo diverso da quelli di natura urbanistica — su un’altra area del territorio comunale di cui abbia acquisito la disponibilità a fini edificatori. A fronte del trasferimento dei diritti edificatori, il
proprietario dovrà cedere al Comune, a titolo gratuito, l’area interessata dal vincolo sopravvenuto ed il Comune,
in accoglimento dell’istanza, dovrà approvare le necessarie varianti allo strumento urbanistico (vedi il successivo
cap. VI, par. 14).
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