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DOCUMENTI
CNEL
TEMPO DI LAVORO
E FLESSIBILITÀ DELL’ORARIO
VOLUME II
ROMA 1995
INDICE
Premessa .................................................................................. pag.
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RELAZIONE (di Gianni Arrigo) ................................................. pag.
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PROPOSTA DI SCHEMA DI DISEGNO DI LEGGE DEL CNEL RECANTE NORME IN MATERIA DI “TEMPO DI LAVORO E FLESSIBILITÀ DELL’ORARIO” ................................................................ pag. 57
ALLEGATI ................................................................................ pag. 65
I. BOZZA DI DISEGNO DI LEGGE RECANTE NORME IN MATERIA DI
I. “TEMPO DI LAVORO E FLESSIBILITÀ DELL’ORARIO”................... ”
67
II. Posizioni delle parti sociali sulla bozza di d.d.l. in materia
II. di “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario ...................... ”
85
CGIL ........................................................................................ ”
87
CISL ......................................................................................... ”
93
UIL ......................................................................................... ”
95
CISNAL ................................................................................... ”
97
CONFINDUSTRIA ................................................................. ”
98
CONFCOMMERCIO .............................................................. ”
100
ASSICREDITO ........................................................................ ”
105
INTERSIND ............................................................................. ”
112
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ASAP........................................................................................ pag. 114
CASA ...................................................................................... ”
115
CONFEDIR .............................................................................. ”
116
III. Materiale di documentazione ............................................ pag. 117
Direttiva 93/104 Consiglio U.E. concernente taluni aspetti
dell’organizzazione dell’orario di lavoro ................................. ”
119
Risoluzione del Parlamento europeo sul lavoro notturno e
la denuncia della convenzione n. 89 dell’OIL ......................... ”
132
Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli
assetti contratuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno
al sistema produttivo (23 luglio 1993) ..................................... ”
134
Raccomandazione del Consiglio del 30 giugno 1993 sull’
accesso alla formazione professionale permanente” (93/404/CEE)
(G.U. CE n. 181 del 23 giugno 1993) ...................................... ” 158
Risoluzione del Consiglio del 30 giugno 1993 relativa al
pensionamento flessibile” (93/C 188/01) (G.U. n. 188
del 10 luglio 1993) ................................................................... ”
165
Dal Libro Bianco Crescita, competitività, occupazione.
Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI Secolo ...... ”
168
Dal Libro Bianco sulla politica sociale europea
(ottobre 1994) .......................................................................... ”
178
Legge 19 luglio 1994 n. 451 recante ‘“Disposizioni urgenti in
materia di occupazione e fiscalizzazione degli oneri sociali” .. ”
182
Dal d.d.l. “Misure intese a favorire nuova occupazione”
A.S. n. 781 ................................................................................ ”
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Commissione per lo studio e la formulazione di ipotesi di
modernizzazione della normativa vigente in materia di tempi
di lavoro (Proposta Caviglioli - dicembre 1993) ..................... ”
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Premessa
Nella parte finale della V Consiliatura, presso la Commissione
dell’Informazione del CNEL, rappresentanti delle parti sociali ed
esperti hanno lavorato su una ipotesi di disegno di legge in materia di
tempo di lavoro e di flessibilità dell’orario senza peraltro trovare una
soluzione di largo consenso, tale cioè da poter conseguire in Assemblea
la richiesta maggioranza dei 3/5 dei consiglieri in carica.
La Commissione dell’Informazione, al termine di un ciclo di seminari, svoltosi tra l’ottobre 1991 e il novembre 1992, e le cui tematiche
erano connesse con l’orario di lavoro e la flessibilità, avendo constatato l’inadeguatezza della vigente disciplina legislativa sull’orario di
lavoro rispetto al contesto sociale e produttivo, ha ritenuto opportuno
proporre una iniziativa legislativa recante norme in materia di tempo di
lavoro e flessibilità dell’orario.
In tale ottica ha predisposto uno schema di disegno di legge, approvato dalla Commissione dell’Informazione nella seduta del 27 ottobre 1993, con il voto contrario dei rappresentanti di Confindustria e
Confcommercio, e presentato, per la presa in considerazione, all’Assemblea nella seduta del 2 dicembre 1993. In tale seduta la Commissione stessa aveva ricevuto l’incarico di procedere alla elaborazione di un testo di disegno di legge organico in materia.
La Commissione dell’Informazione aveva quindi affidato al consigliere Gianni Arrigo il compito di procedere alla consultazione delle
parti sociali e di costituire un Comitato di esperti che collaborasse alla
stesura di un testo di disegno di legge da presentare in Assemblea.
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Il Comitato di esperti, alle cui riunioni hanno partecipato spesso
ed attivamente anche rappresentanti delle parti sociali, si è riunito più
volte. Esso ha elaborato varie ipotesi di testo, prendendo atto, di volta
in volta, delle diverse osservazioni delle parti interessate, relative al
“metodo” da adottare nella costruzione di un disegno di legge, al suo
impianto complessivo nonché al contenuto e all’ambito di applicazione.
Il consigliere Arrigo ha infine consegnato al Presidente della Commissione dell’Informazione, il 12 settembre scorso, l’ultima ipotesi di articolato prodotta, con l’opportuna avvertenza che essa non era tuttavia
condivisa da tutte le parti rappresentate nel Consiglio per motivazioni
diverse, relative sia alla struttura del disegno di legge che ad alcune
soluzioni adottate.
Sulla base delle attività svolte dal consigliere relatore e tenendo
conto delle osservazioni espresse dai membri della Commissione
dell’Informazione, il presidente Renato Brunetta ha quindi provveduto
ad informare il Presidente del CNEL, trasmettendogli la documentazione acquisita, pubblicata nel presente volume.
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RELAZIONE
del Consigliere Gianni Arrigo
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1. L’interesse del CNEL per una nuova legge sul tempo di lavoro
L’interesse del CNEL per una nuova legge sul tempo di lavoro assume il carattere istituzionale dell’iniziativa legislativa dopo la firma
dell’Accordo del 23 luglio 1993 sulla “Politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo”, definito il 3 luglio 1993, a seguito dell’Accordo del 31 luglio 1992. Nell’Accordo del 23 luglio 1993 le parti avevano assunto l’impegno di procedere, “ferme restando le misure già approntate sui contratti di solidarietà, ad una modernizzazione della normativa vigente in materia di regimi di orario, valorizzando pienamente
le acquisizioni contrattuali del nostro Paese e sostenendone l’ulteriore
sviluppo, nella tutela dei diritti fondamentali alla sicurezza, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo dell’occupazione e l’incremento della competitività delle imprese” (capitolo dedicato alle Politiche del lavoro; paragrafo intitolato alla “Riattivazione del mercato del lavoro”; lett. C).
L’interesse del CNEL per una nuova disciplina legislativa del tempo di lavoro e della flessibilità dell’orario di lavoro è tuttavia precedente a quello storico accordo. Durante la Quinta Consiliatura, il CNEL e
la Commissione dell’Informazione hanno infatti promosso studi e ricerche sul tempo di lavoro e la flessibilità, coordinati anche da esperti
esterni. È con riferimento ai risultati di tali studi e ricerche, oltre che
all’Accordo del 23 luglio 1993, che la Commissione dell’Informazione
ha predisposto uno schema di disegno di legge, “preso in considerazione” dal CNEL, con apposita procedura, nell’Assemblea del 2 dicembre
1993.
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1.1. Gli atti normativi e le politiche delle istituzioni comunitarie
L’impegno del CNEL di contribuire attivamente ad una riforma
della vecchia legislazione italiana sull’orario trovava poi una base ulteriore nell’attività delle istituzioni comunitarie su tale materia.
Anzitutto, il Consiglio dell’Unione Europea aveva adottato, nel
settembre 1993, una Direttiva “concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro” (Direttiva 93/104/CE, del 23 novembre
1993, in GUCE n. 307 del 13 dicembre 1993). Direttiva che gli Stati
membri devono recepire entro due anni negli ordinamenti nazionali, alle condizioni e nei termini consentiti dall’art. 118 A del Trattato (“le
prescrizioni minime” contenute nella direttiva sono “applicabili progressivamente tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro”) e dagli artt. 14 e 15 della Direttiva stessa, che prevedono la possibilità di disposizioni più specifiche
e più favorevoli.
Inoltre, sempre con riferimento al tempo di lavoro, le istituzioni
comunitarie avevano adottato i seguenti atti: una “Risoluzione del Consiglio del 30 giugno 1993 relativa al pensionamento flessibile” (atto
93/C 188/01; in GUCE, n. 188 del 10 luglio 1993); una “Raccomandazione del Consiglio del 30 giugno 1993 sull’accesso alla formazione
professionale permanente” (atto 93/404; in GUCE n. 181 del 23 luglio
1993), nonché una proposta di direttiva sui congedi parentali, da ultimo
modificata il 16 settembre 1993. Sono, quelli ricordati, atti che sollecitano le autorità nazionali e le parti sociali, nel rispetto del principio di
sussidiarietà, ad assumere comportamenti e provvedimenti corrispondenti alle indicazioni comunitarie.
Indicazioni che andavano lette in una prospettiva più ampia, in seguito alle raccomandazioni contenute nel Libro Bianco della Commissione, dedicato alle questioni della “crescita, competitività e occupazione”. Nel capitolo 8 del Libro Bianco (“Tradurre la crescita in posti di
lavoro”), la Commissione riconosceva “l’esigenza di politiche occupazionali più efficienti e il fatto che il mercato da solo non può risolvere i
problemi di occupazione e disoccupazione, con le relative implicazioni
sociali che gravano sulla Comunità”. Insieme ad altre politiche (fiscali,
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occupazionali, sociali, economiche), la Commissione rilevava un’ampia
convergenza tra gli Stati membri in ordine alla “esigenza di riformare
radicalmente il mercato del lavoro, introducendo una maggiore flessibilità dell’organizzazione del lavoro e della distribuzione dell’orario di
lavoro, una riduzione dei costi del lavoro, la promozione di qualifiche
migliori, nonché politiche del lavoro attive”. Secondo il parere concorde dei Dodici, “l’introduzione di maggiore flessibilità si dovrebbe operare a livello di organizzazione del lavoro, per esempio rimuovendo gli
ostacoli che rendono più difficile o costoso il lavoro a tempo parziale
ovvero mediante contratti a tempo determinato, nonché agevolando
una migliore adattabilità delle carriere alle situazioni personali o ancora facilitando un progressivo pensionamento”. Per quanto riguarda la
distribuzione dell’orario di lavoro, la Commissione prendeva atto che,
nei Paesi della UE, “sono stati avanzati suggerimenti in merito all’annualizzazione delle ore di lavoro in tempo di recessione”. “Sarebbero
inoltre da rimuovere” - conclude sul punto la Commissione - “ostacoli
alla mobilità, sia essa settoriale, geografica o interna alle imprese.
L’incremento di flessibilità dovrà riflettersi nelle regolamentazioni e
nei regimi di contrattazione collettiva, agevolando un maggiore adeguamento alle caratteristiche dei mercati locali e delle imprese”.
La Commissione dimostra insomma grande sensibilità per la questione sociale degli anni Novanta, che consiste in maggiore disoccupazione e in una crescente povertà ed emarginazione.
Per coniugare gli obiettivi della crescita, della competitività e
dell’occupazione, è senz’altro necessario rilanciare gli investimenti pubblici e privati, ma occorre anche “agire al servizio dell’occupazione”,
puntando sull’istruzione e sulla formazione lungo l’arco della vita; su
una maggiore flessibilità esterna ed interna; sul decentramento delle iniziative; sulla riduzione del costo del lavoro poco qualificato; rinnovando
a fondo le politiche in materia di occupazione; venendo incontro alle
nuove esigenze (...). Occorre creare le condizioni per condividere redditi
e impieghi (...); deve essere possibile ridurre le ore lavorate aumentando
così i posti di lavoro e riducendo il numero dei disoccupati (...).
Non basta dunque agire, anche in modo intelligente, sulla leva della riorganizzazione e flessibilità dei tempi di lavoro: i pubblici poteri e
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le parti sociali devono sostenere questa operazione eliminando gli ostacoli di natura fiscale e previdenziale e creando opportuni incentivi finanziari alle imprese che riducano in modo strutturale le ore lavorate rispetto a quelle fissate dai contratti collettivi nazionali, come propongono le organizzazioni sindacali dei lavoratori presenti nel CNEL.
Una diversa distribuzione dei tempi di lavoro conduce necessariamente a ripensare le forme e i modi in cui la società organizza e divide
il tempo. È opinione sempre più condivisa dai cittadini che la tradizionale organizzazione del tempo, apparentemente razionale perché sincronizzata entro fasce orarie coincidenti, comporta in realtà costi elevatissimi nella vita della comunità sociale, soprattutto nelle grandi aree urbane. I cittadini chiedono invece una diversa organizzazione temporale
della vita, non solo del lavoro, che può tradursi in nuove opportunità,
anche di lavoro. Dovrebbero essere previste incentivazioni apposite per
chi sperimenta nuovi regimi di orario, nelle aziende, nei servizi privati e
pubblici, negli esercizi commerciali, anche nelle pubbliche amministrazioni, mediante appositi atti legislativi ed amministrativi e un opportuno coordinamento.
1.2. Le proposte di legge presentate al Parlamento italiano nella XI legislatura
L’esigenza di modernizzare la legislazione italiana era peraltro avvertita anche in sede parlamentare. Si registrava una copiosa iniziativa
legislativa, promossa durante la XI legislatura, per una disciplina di legge del tempo di lavoro e di vita e della flessibilità [ne risultavano quattro all’Ordine del giorno della Camera dei Deputati, fino allo scioglimento anticipato delle Camere: quella di Iniziativa Popolare, recante
norme in materia di “Ciclo di vita, orario di lavoro, tempo nelle città”
(A.C. n. 12); quella di iniziativa dell’on.le Martinat ed altri: “Istituzione
di un contratto di lavoro ad orario ridotto per i lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile” (A.C. n. 171); quella dell’on.le Bassolino,
“Nuova disciplina dell’orario di lavoro” (A.C. n. 414) e, infine, la proposta di legge di iniziativa dell’on.le Bolognesi ed altri, “Norme per la
riduzione dell’orario di lavoro” (A.C. n. 3238)]. A queste iniziative si
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aggiungeva, infine, quella promossa dal Ministro del lavoro Giugni,
con l’ausilio di una “Commissione per lo studio e la formulazione di
ipotesi di modernizzazione della normativa vigente in materia di tempi
di lavoro”, ai cui risultati ha fatto utile riferimento la Commissione
dell’Informazione del CNEL nell’iniziare il suo lavoro “prelegislativo”.
1.2.1 Le proposte di legge d’iniziativa popolare (A.C. n. 12), di iniziativa dell’on.le Martinat e altri (A.C. n. 171), di iniziativa dell’on.le Bassolino (A.C. n. 414) e dell’on.le Bolognesi (A.C. n. 3238).
La riduzione dell’orario di lavoro
La proposta di legge d’iniziativa popolare e quella dell’on.le Bolognesi prevedono entrambe che l’orario legale di lavoro sia ridotto ad
un massimo di 35 ore alla settimana per tutti i lavoratori dipendenti
pubblici e privati (art. 17 e art. 1, rispettivamente, delle due proposte di
legge).
La proposta di legge d’iniziativa dell’on.le Bassolino fissa la durata massima dell’orario per i dipendenti pubblici e privati a 38 ore di lavoro effettivo, ridotto a 35 ore dal 1° gennaio 1994 (art. 1).
La flessibilità dell’orario
Le proposte di legge in esame prevedono che i criteri di distribuzione dell’orario settimanale e giornaliero siano centrati sulla caratteristica della flessibilità da raggiungersi a mezzo dello strumento della
contrattazione (art. 18 della proposta d’iniziativa popolare e art. 2 della
proposta Bolognesi) o previa informazione alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, alle OO.SS. provinciali stipulanti il contratto collettivo applicato nell’impresa od unità produttiva (art. 2, proposta Bolognesi). In ogni caso variazioni nella distribuzione dell’orario, di norma, sono consentite solo previo consenso del lavoratore interessato.
La proposta Bolognesi precisa inoltre che i lavoratori “hanno diritto a regimi di flessibilità” all’inizio ed al termine della prestazione
lavorativa.
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La retribuzione oraria e la fiscalizzazione degli oneri sociali
Tutte e tre le proposte di legge intervengono sulla fiscalizzazione
degli oneri sociali. Le proposte di iniziativa popolare e Bassolino prevedono, rispettivamente all’art. 22 (proposta d’iniziativa popolare) e
all’art. 3 (proposta Bassolino), che l’ammontare mensile di detta fiscalizzazione sia pari a lire 25.000 per ogni lavoratore e a lire 35.000 per
ogni lavoratrice. Gli importi predetti sono elevati, rispettivamente, a lire
75.000 e 100.000 per le aziende operanti nelle aree di cui all’art. 1 del
D.P.R. n. 218/78 (T.U. sul Mezzogiorno). Per quanto concerne lavoratori e lavoratrici di nuova assunzione, per esigenze organiche indotte
dall’introduzione dei nuovi limiti orari, gli importi suddetti sono triplicati per i primi sei mesi e raddoppiati per i successivi 12 mesi (art. 22,
co. 2, A.C. 12) ovvero triplicati per un periodo di 24 mesi (art. 3, co. 3,
proposta Bassolino).
La proposta Bolognesi prevede, all’art. 6, un ruolo attivo nella riduzione dell’orario di lavoro da parte della Agenzia regionale per l’impiego istituita ai sensi dell’art. 24 della legge 28 febbraio 1987, n. 56,
tramite la “modulazione della fiscalizzazione degli oneri sociali”, che
potranno venire orientati a premiare le aziende che, riducendo l’orario
di lavoro a parità di salario, ampliano il numero degli addetti, per consentire loro di ammortizzare per un triennio i costi della riduzione di
orario. Lo stesso articolo impone annualmente alle imprese di presentare un prospetto di tutti i trasferimenti pubblici ottenuti a qualsiasi titolo
corredato di un bilancio occupazionale che evidenzi l’incremento
previsto dell’occupazione determinato dall’utilizzo di tali trasferimenti,
nonché le previsioni di sviluppo per l’anno successivo.
Il lavoro straordinario
Le proposte di legge in esame si propongono di disciplinare l’utilizzazione del lavoro straordinario da parte delle imprese. Esso risulta,
oltre che basato sulla volontarietà, quantitativamente limitato a due ore
giornaliere o otto ore settimanali con obbligo di comunicazione alle
rappresentanze sindacali e all’ispettorato del lavoro territorialmente
competente (art. 20 proposta di iniziativa popolare e art. 5 proposta
Bassolino).
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Non è ammesso il lavoro straordinario nelle imprese o unità produttive che nei sei mesi precedenti siano state interessate a riduzione
del personale o da sospensioni della prestazione con erogazione della
Cassa integrazione guadagni - ma in tal caso il lavoro straordinario può
essere richiesto previo accertamento da parte dell’ispettorato del lavoro
competente della impossibilità tecnico-organizzativa di riutilizzo dei lavoratori posti in Cassa integrazione guadagni o licenziati - e (limitatamente alle proposte di iniziativa popolare e Bolognesi), che impediscano ai lavoratori interessati la possibilità di svolgere le funzioni di cura
per sé e per i familiari.
L’art. 4 della proposta Bolognesi, nell’affermare che il lavoro
straordinario è vietato a meno che non abbia carattere meramente saltuario, precisa che si considera lavoro straordinario l’aggiunta all’orario
normale giornaliero e settimanale previsto dal contratto collettivo di lavoro o dalla legge di un periodo straordinario che non superi 1 ora al
giorno, 7 ore a settimana e 20 ore al mese, salvi comunque i limiti annuali inferiori stabiliti dai contratti collettivi.
Per quanto concerne la maggiorazione retributiva per lavoro straordinario, il co. 1 dell’art. 21 della proposta d’iniziativa popolare prevede
che essa non sia inferiore del 10% rispetto alla retribuzione di fatto del
lavoro ordinario, e non inferiore al 20% nel caso di lavoro festivo o notturno, garantendo comunque le migliori condizioni eventualmente previste dai contratti collettivi. Il co. 5 dell’art. 5 della proposta Bassolino
prevede, invece, che il lavoratore abbia diritto ad una maggiorazione pari al 40% della retribuzione oraria di fatto e all’80% in caso di lavoro festivo o notturno. Il co. 1 dell’art. 5 della proposta Bolognesi statuisce
che l’esecuzione di lavoro straordinario comporta una maggiorazione retributiva non inferiore al 30% rispetto alla retribuzione di fatto del lavoro ordinario, e non inferiore al 50% nel caso di lavoro festivo o notturno,
salvo migliori condizioni previste dai contratti collettivi.
Le proposte ammettono inoltre la possibilità per il lavoratore, che
abbia sostenuto attività lavorativa straordinaria, di fruire di permessi
retribuiti in luogo delle maggiorazioni retributive. Tali riposi compensativi sono di durata pari al numero di ore di straordinario svolte (art.
21, co. 4 proposta d’iniziativa popolare, art. 5, co. 4 proposta Bologne15
si) ovvero di durata superiore, rispettivamente, del 50% o del 100% rispetto alle ore di straordinario prestate, a seconda che si sia trattato o
no di lavoro straordinario notturno o festivo (art. 5, co. 5 proposta Bassolino).
Contribuzione INPS connessa al lavoro straordinario
L’art. 21, commi 2 e 3 della proposta d’iniziativa popolare e l’art.
5, co. 3 della proposta Bolognesi, dopo aver ribadito che la retribuzione
corrispondente al lavoro straordinario costituisce base imponibile per i
contributi sociali obbligatori all’INPS, dispone che essa costituisca altresì la base imponibile per un ulteriore contributo, dovuto al fondo per
la disoccupazione, con aliquota del 18%, di cui il 5% a carico del dipendente. Tale aliquota è elevata al 30% (fermo restando il 5% a carico
del dipendente) se le ore di lavoro straordinario eccedono il numero di
quattro come media settimanale aziendale per dipendente.
La proposta Bassolino prevede l’istituzione di un Fondo nazionale
per la riduzione dell’orario presso l’Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale al quale deve essere versato, nel caso di lavoro straordinario, un
contributo pari alla maggiorazione spettante, salvo il versamento dei
contributi previdenziali dovuti (combinato disposto dei commi 7 e 9
dell’art. 5).
Gli accordi di flessibilità
Tali accordi, che sono previsti dall’art. 6 della proposta Bassolino,
ineriscono al regime degli orari e ai calendari di attività, oltreché al superamento dei limiti di orario. Essi possono essere realizzati con accordi sindacali aziendali unitariamente stipulati dalle rappresentanze sindacali costituite nell’impresa o unità produttiva ovvero dagli organismi
rappresentativi del personale costituiti nelle unità amministrative in cui
opera la contrattazione decentrata del pubblico impiego (art. 14, legge
93/83). La flessibilità comporta un vantaggio economico o normativo
per il lavoratore, “nel senso che la prestazione resa in eccedenza rispetto all’orario giornaliero o settimanale dà luogo o a una maggiorazione
salariale o ad una compensazione oraria più che proporzionale”. In
concomitanza con la introduzione concordata di regimi di flessibilità si
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prevedono possibili verifiche referendarie in caso di dissenso di aliquote notevoli di lavoratori (20% degli interessati) o di singole rappresentanze sindacali, nonché l’individuazione di giustificati motivi di esenzione personale. L’istituto della flessibilità è incompatibile con l’istituto
del lavoro straordinario.
Il lavoro notturno
Rispetto al problema del lavoro notturno, l’art. 7 della proposta
Bassolino prevede che l’istituzione di turni di lavoro notturno sia consentita solo per accordo sindacale e salva una maggiorazione salariale
non inferiore al 25% della paga oraria di fatto o una riduzione dell’orario settimanale pari ad un quarto delle ore di lavoro notturno prestate.
Per le lavoratrici è richiesto il consenso della singola lavoratrice.
L’art. 23 della proposta di legge di iniziativa popolare prevede, in
termini analoghi, che per la prestazione notturna, che può avvenire previo accordo sindacale sottoponibile a referendum, spetti al lavoratore
una riduzione dell’orario di lavoro settimanale pari a 1/20 delle ore di
lavoro notturno prestato, salvo migliori accordi contrattuali.
Si segnala che l’art. 7 della proposta Bolognesi prevede che sia il
Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale con proprio decreto,
d’intesa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro a determinare i settori e le attività nei quali consentire il lavoro
notturno. Il co. 7 dell’art. 7, in ordine alla determinazione della riduzione dell’orario di lavoro settimanale dovuta a svolgimento di lavoro notturno non si discosta dalle previsioni dell’art. 23 della proposta di iniziativa popolare precitato.
Attività usuranti
L’art. 24 della proposta di legge d’iniziativa popolare concerne la
disciplina normativa sulle cosiddette “attività usuranti”, con riferimento
sia al loro rendimento previdenziale che alle modifiche nei limiti di età
per il collocamento a riposo. A tal fine si segnala che tale materia è stata disciplinata dal decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 374 concernente “Attuazione dell’art. 3, co. 1, lett. f), della legge 23 ottobre 1992, n.
421, recante benefici per le attività usuranti”. In rapida sintesi il decreto
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prevede, sotto determinate condizioni, la riduzione dell’età pensionabile ai fini del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia nel caso, per l’appunto, di attività particolarmente usuranti, ovvero per quelle
attività per il cui svolgimento è richiesto un impegno psico-fisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee. Nei confronti di tali lavoratori
viene stabilita l’anticipazione di due mesi per ogni anno di occupazione
nelle attività particolarmente usuranti, con un massimo di 60 mesi (pari
a cinque anni) complessivamente considerati, del limite di età pensionabile previsto dai rispettivi ordinamenti.
L’art. 8 della proposta di legge Bolognesi rinvia alla tipologia delle attività usuranti elencate nel decreto legislativo n. 374/93, prevedendo peraltro che ulteriori attività usuranti possono essere definite in relazione ad eventuali riduzioni dell’orario di lavoro in sede di contrattazione collettiva.
L’istituzione del “lavoro a coppia” (job-sharing)
La proposta Bassolino prevede, all’art. 10, la possibilità di costituzione di rapporti di lavoro aventi ad oggetto la ripartizione tra due lavoratori delle stesse mansioni, mediante l’assunzione da parte di ciascuno
di una obbligazione divisibile allo svolgimento della prestazione, nonché dell’obbligo di sostituirsi reciprocamente in caso di assenza. È prevista la forma scritta di stipulazione per detti contratti, con l’indicazione delle mansioni, dell’orario di lavoro di ciascuno dei lavoratori, della
durata massima mensile e dell’ammontare della retribuzione, che deve
comunque essere proporzionale alle ore di prestazione effettiva.
Congedi e aspettative
L’art. 2 della proposta Bassolino prevede che i lavoratori abbiano
diritto ad assentarsi dal lavoro per motivi personali, per ragioni di studio, di formazione e di riqualificazione professionale, per motivi familiari e di solidarietà sociale, per periodi non superiori a 12 mesi (salvi i
migliori trattamenti contrattuali) con diritto alla conservazione del posto. Tali assenze non sono retribuite e non sono computate nell’anzianità di servizio neppure ai fini previdenziali e non sono assorbenti dei
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congedi per motivi di studio legislativamente o contrattualmente previsti.
Il successivo art. 3 della proposta prevede che il lavoratore abbia
diritto al congedo parentale per occuparsi dei propri figli fino ad un
massimo di 12 mesi utilizzabile in toto o frazionato, entro il compimento dell’undicesimo anno di età del bambino. La durata di tale congedo è
elevabile a 24 mesi nelle ipotesi di figlio handicappato o di famiglia
con un solo genitore.
L’art. 4 della proposta d’iniziativa popolare prevede, inoltre, un
congedo per motivi familiari, cioè il diritto di assentarsi dal lavoro per
periodi di non oltre 30 giorni ogni due anni di lavoro prestato. La proposta di legge in esame, all’art. 5, precisa che il diritto a prestare cure
deve essere riconosciuto anche ai soggetti non facenti parte di un rapporto di lavoro dipendente (e quindi anche ai disoccupati), oltreché a
coloro che svolgono un lavoro autonomo.
Occorre segnalare che in ordine alla fruizione di tali permessi il lavoratore ha il diritto a fruire di un reddito minimo garantito pari al 50%
della retribuzione media nazionale (art. 11), integrabile fino al 100%
della propria precedente retribuzione, prelevando una parte della propria futura indennità di fine rapporto.
La proposta d’iniziativa popolare prevede infine che (art. 12) i lavoratori, dopo aver prestato la loro opera per almeno sette anni di lavoro, abbiano diritto ad un anno di congedo.
La materia dei periodi di aspettativa per motivi di salute, di studio
e di riqualificazione professionale è disciplinata dall’art. 10 della proposta Bassolino. Tali periodi sono ulteriori rispetto a quelli già previsti
dalle leggi vigenti. Il diritto alla fruizione di detti permessi aggiuntivi
compete ai lavoratori che abbiano almeno due anni di anzianità di servizio e almeno sette anni di anzianità contributiva. Il periodo di aspettativa non può superare i 12 mesi continuativi e spetta in ragione di 12 mesi ogni 7 anni di anzianità contributiva. Il co. 3 dell’art. 10 della proposta Bassolino precisa che durante il periodo di aspettativa gli interessati
hanno facoltà di ottenere la erogazione da parte dell’ente previdenziale
di una indennità pari all’80% della retribuzione mensile. I lavoratori
con almeno cinque anni di anzianità hanno diritto di ottenere l’anticipa19
zione del trattamento di fine rapporto secondo le modalità previste
dall’art. 2120, settimo, ottavo, nono, decimo e undicesimo comma, del
codice civile.
Riflessi dei congedi sulla maturazione del diritto alla pensione
L’art. 9 della proposta d’iniziativa popolare prevede che i soggetti
che usufruiscono dei congedi per motivi personali, familiari e di solidarietà sociale hanno diritto a prolungare il rapporto di lavoro anche in
deroga alle disposizioni concernenti l’età di pensionamento obbligatorio (ora contenuta nel decreto legislativo n. 503/92). È, inoltre, previsto
che tali soggetti (a scelta ed a richiesta) abbiano diritto a percepire una
indennità mensile pari all’ammontare del rateo mensile della pensione
maturata, erogata dall’ente previdenziale cui il lavoratore è iscritto: in
questo caso l’età per la maturazione del diritto a pensione (nonché i requisiti per la pensione di anzianità) vengono prolungati di un periodo
corrispondente a quello in cui è stato percepito il trattamento anticipato
di pensione (art. 10 della proposta Bassolino). Il co. 4 dell’art. 10 riproduce sostanzialmente il contenuto dispositivo dell’art. 9 della proposta
d’iniziativa popolare. Il successivo co. 5 precisa, però, che il prolungamento della maturazione del diritto alla pensione non abbia luogo ove il
lavoratore per il periodo di aspettativa abbia provveduto all’integrazione volontaria della contribuzione. Va inoltre segnalato l’art. 13 della
proposta d’iniziativa popolare, il quale prevede che in corrispondenza
di ogni maternità verificatasi in assenza del rapporto di lavoro alla lavoratrice che non abbia ancora maturato l’età pensionabile è attribuito figurativamente un periodo di sei mesi di contribuzione utile ai fini del
diritto alla pensione e dell’anzianità contributiva.
Il tempo nelle città
Il capo III della proposta d’iniziativa popolare è relativo al “tempo
delle città”. A tale riguardo occorre segnalare che la legge 8 giugno
1990, n. 142 concernente “Ordinamento delle autonomie locali” prevede (art. 36, co. 3) che il sindaco sia competente, nell’ambito della disciplina regionale e sulla base degli indirizzi espressi dal Consiglio comunale, a coordinare gli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici, nonché gli orari di apertura al pubblico degli uffici periferici delle
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amministrazioni pubbliche al fine di armonizzare l’esplicazione dei servizi alle esigenze complessive e generali degli utenti.
Ciò premesso, si segnala che la proposta d’iniziativa popolare prevede, come aspetti qualificanti della normativa sui tempi delle città:
- il potere per il Comune di elaborare un piano regolatore dei tempi
(art. 25), mentre per le aree sovracomunali i compiti di coordinamento debbono essere presi d’intesa tra i Comuni interessati (art. 26);
- l’istituzione di una Consulta permanente sul tempo, nella quale le associazioni e le organizzazioni miste chiamate a far parte della Consulta siano rappresentate da delegazioni di entrambi i sessi (art. 25,
co. 6), che vi siano ulteriori forme di consultazione delle donne singole o associate (art. 27, co. 1) e che le donne elette nei Consigli comunali debbano esprimere un parere obbligatorio sul piano regolatore
dei tempi (art. 27, co. 2);
- gli orari dei servizi non dovranno coincidere con gli orari di lavoro e
almeno i servizi di maggior uso dovranno essere aperti per due ore alla settimana nelle ore che per la maggioranza dei cittadini non sono
lavorative (art. 25, co. 7);
- le amministrazioni e gli enti pubblici e privati, nell’ambito di organizzazione degli orari dei servizi e di apertura al pubblico dei loro uffici
o attività devono tener conto delle osservazioni e proposte che possono provenire da organizzazioni effettivamente rappresentative dei cittadini utenti dei servizi medesimi, nonché dalle associazioni di utenti
presenti nel territorio (art. 28).
Orario ridotto ed età pensionabile
Alle proposte di legge precitate è stata abbinata, in sede di esame
da parte della XI Commissione della Camera dei Deputati, la proposta
di legge d’iniziativa dell’on.le Martinat ed altri (A.C. n. 170), recante
“Istituzione di un contratto di lavoro ad orario ridotto per i lavoratori
che hanno raggiunto l’età pensionabile”.
La proposta prevede che il lavoratore che ha raggiunto l’età pensionabile ed ha maturato il massimo dei versamenti contributivi, può
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chiedere di essere mantenuto nel posto di lavoro per i tre anni successivi alla data del pensionamento, svolgendo le stesse mansioni, ma con
un orario di lavoro corrispondente alla metà di quello precedente (art.
1) e percependo dall’INPS la metà della pensione dovuta e dal datore di
lavoro la metà dell’ultima retribuzione maturata (art. 2, co. 1). Il co. 2
dell’art. 2 della proposta di legge in esame prevede che nei contratti di
lavoro ad orario ridotto il datore di lavoro corrisponde i versamenti contributivi nell’ammontare minimo dovuto nei contratti di formazione e
lavoro. Il successivo art. 3 prevede che la domanda per il lavoro ad orario ridotto vada presentata (congiuntamente alla domanda per il pensionamento) almeno sei mesi prima del raggiungimento dell’età pensionabile, al datore di lavoro, il quale è tenuto a darne comunicazione
all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. Quanto al recesso, il
successivo art. 4, al co. 1, ne conferisce facoltà al lavoratore, dandone
comunicazione al datore di lavoro secondo le modalità previste dalla disciplina del relativo contratto di lavoro.
L’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale corrisponde la pensione per l’intero ammontare maturato dal lavoratore a partire dal mese
successivo a quello di rescissione del contratto di lavoro ad orario ridotto (art. 4, co. 2).
Secondo l’art. 5, il trattamento di fine rapporto è calcolato unicamente sul contratto ad orario ridotto mentre le ferie, le indennità di malattia e quanto altro non specificatamente regolato dalla proposta di legge in esame, sono disciplinati dalla normativa in materia di lavoro a
tempo parziale.
1.2.2. La bozza della Commissione Caviglioli
Il 21 dicembre 1993 presenta la sintesi del suo lavoro la Commissione Caviglioli, nominata dal ministro Giugni nel quadro delle iniziative assunte dal Governo per attuare le clausole dell’Accordo del 23 luglio.
Gli obiettivi della Commissione Caviglioli sono i seguenti: adeguare la normativa del 1923 alla mutata realtà, agli atti dell’OIL e della
22
UE, favorendo politiche aziendali di redistribuzione e di riduzione
dell’orario; valorizzare l’autonomia contrattuale delle parti sociali; sollecitare le autonomie locali al governo del tempo, nel quadro di un’esigenza di redistribuzione delle scansioni classiche (vita, cura e formazione).
La Commissione ha proceduto ad elaborare una bozza dettagliata,
dopo aver udito i rappresentanti delle parti sociali e gli esperti in grado
di fornire stimoli e suggerimenti. Delle audizioni viene fornito un resoconto sintetico, posto in appendice alla relazione finale. Resoconto che
presenta qualche interesse perché contiene un paragrafo dedicato ai
commenti delle parti sociali sulla Direttiva n. 93/104, dal quale emerge
una posizione favorevole degli imprenditori, che indicano nel CNEL la
sede istituzionale appropriata per l’opera di recepimento, e una critica
delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, contrari in particolare al limite di 48 ore come misura media e non massima.
La bozza presentata al Ministro per il conseguente disegno di legge consta di 29 articoli suddivisi in sei titoli: durata massima settimanale e giornaliera dell’orario di lavoro (artt. 1-13); flessibilità dell’orario
nell’interesse del lavoratore (artt. 14-16); lavoro in obbligazione solidale per una sola prestazione (artt. 17-20); costituzione del fondo di incentivazione alla riorganizzazione dell’orario di lavoro (artt. 21-22);
governo territoriale dei tempi di lavoro (artt. 23-25); norme finali (artt.
26-29).
La parte che contiene novità di un certo interesse è quella costituita dal titolo 1 (che in realtà reca norme anche in materia di ferie, lavoro
notturno, lavoro a turno e lavoro frazionato).
Nel titolo 1 si prevede:
- la fissazione in 40 ore della durata massima settimanale, misura ottenibile in sede contrattuale anche come media in un arco plurisettimanale di 48 settimane, non superando comunque 48 ore settimanali;
l’orario complessivo, comprensivo dello straordinario, non potrà superare la media di 48 ore settimanali, calcolata su un arco di 18 settimane, o il limite assoluto di 10 ore giornaliere (art. 1);
23
- la definizione di “pause”, delle procedure contrattuali di regolamentazione e delle norme di salvaguardia, in caso di mancanza di regole
contrattuali (art. 2);
- la definizione di “lavoro straordinario” quale quello eccedente rispetto all’orario settimanale, in misura non superiore al limite di 10 ore
settimanali, previo rispetto delle procedure contrattuali o, in mancanza, previo accordo tra datore e prestatore; eventi eccezionali e imprevedibili consentono di disporre unilateralmente lavoro straordinario
sino a 3 giornate lavorative, anche in deroga al limite di 10 ore settimanali e nel rispetto della media di 48 ore settimanali lavorative calcolata lungo l’arco di 18 settimane, di cui all’art. 1 (art. 3);
- la definizione e regolamentazione di attività dei lavoratori cosiddetti
discontinui (art. 4);
- una procedura transitoria, entro 24 mesi dall’entrata in vigore della
legge, di armonizzazione delle clausole della contrattazione collettiva
(art. 5);
- l’obbligo di documentazione degli orari di lavoro praticati (art. 6);
- la definizione di riposo settimanale nella misura di 24 ore consecutive
da cumulare con quelle derivanti dal riposo giornaliero; esso va goduto di domenica, salve deroghe per specifiche attività individuate
con decreto dal Ministro del lavoro, come avviene già oggi in base
all’art. 5 della legge 370/1934 (art. 8);
- la fissazione delle ferie annuali retribuite in misura non inferiore a 4
settimane, non indennizzabili in caso di mancato godimento, salvo il
caso della risoluzione del rapporto di lavoro con conseguente pagamento dei ratei maturati e non goduti; sospensione del godimento
delle ferie in caso di infermità comportante ricovero ospedaliero o
prognosi superiore a 5 giorni (art. 9);
- la regolamentazione del lavoro notturno, a turni e la definizione di
forme di tutela a favore di lavoratori notturni (artt. 10-13).
Per quanto attiene alle altre disposizioni, è opportuno ricordare
quelle concernenti la costituzione del fondo di incentivazione alla rior24
ganizzazione dell’orario di lavoro alimentato: a) dal contributo exGESCAL (che scomparirebbe), pari in percentuale allo 0.7% e allo
0.35% delle retribuzioni mensili, rispettivamente a carico di datore e
prestatore di lavoro, e b) dal contributo del 15% (legge 1079/55) sulle
maggiorazioni corrisposte per le prestazioni di lavoro straordinario
(quindi dopo la 40° ora) (art. 21).
Va, infine, citato il sistema delle esclusioni (art. 26) rispetto a:
- dirigenti e quadri;
- altre categorie particolari di lavoratori (come quelle la cui prestazione
non sia contrattualmente vincolata sul piano temporale e si svolga
prevalentemente all’esterno dell’azienda).
2. La recezione “contrattata” della direttiva comunitaria sull’orario di lavoro: il ruolo del CNEL
Nell’Assemblea del 2 dicembre, e nel dibattito che ne è seguito, si
è fatto opportuno riferimento anche alle iniziative in atto sul tempo di
lavoro in altri Paesi europei e in sede comunitaria. Con particolare riferimento al dialogo fra ordinamento comunitario e nazionale, e all’essenziale ruolo delle parti sociali nella conformazione del diritto interno
agli atti normativi delle istituzioni comunitarie, è stata accolta la proposta, illustrata dal consigliere Fadda, di percorrere, per quanto possibile
(tenendo conto delle questioni connesse all’efficacia giuridica di una tale forma di recezione), le vie procedurali individuate nell’Accordo sulla
Politica sociale allegato, tramite apposito Protocollo, al Trattato di
Maastricht, che valorizzano ampiamente gli strumenti della autonomia
collettiva (art. 2, punto 4): “Uno Stato membro può affidare alle parti
sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive (...). In tal caso esso si assicura che, al più tardi alla data in cui
una direttiva deve essere recepita (...), le parti sociali abbiano stabilito
mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che lo Stato membro interessato deve prendere le misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti da detta
direttiva”. Non c’è dubbio che il CNEL sia una sede autorevole per la
25
sperimentazione della nuova forma di recepimento delle direttive comunitarie introdotta nel Trattato, seppure con efficacia limitata a undici
Paesi della Unione europea.
3. Obiettivi dell’iniziativa legislativa del CNEL
Con la decisione di attivare il potere di iniziativa legislativa, il
CNEL intendeva perseguire le seguenti finalità:
a) contribuire a modernizzare la legislazione esistente per adeguarla alle
ineludibili decisioni delle istituzioni europee, alle tendenze in atto nei
Paesi più direttamente concorrenti con il nostro e per renderla più in grado di concorrere al conseguimento dell’obiettivo di favorire lo sviluppo
dell’occupazione e l’incremento della competitività delle imprese;
b) valorizzare pienamente le acquisizioni contrattuali del nostro Paese, sostenendone l’ulteriore sviluppo, nella tutela dei diritti fondamentali alla
sicurezza, per consentire un’efficace gestione contrattuale del tempo di
lavoro e della flessibilità, in modo da produrre una distribuzione equilibrata dei vantaggi fra le parti contrattuali, individuali e collettive.
c) contribuire ad una normativa in grado di soddisfare esigenze di flessibilità individuali connesse a situazioni personali.
L’impresa non si presentava agevole, trattandosi di una materia
“sindacale” per eccellenza, che tocca più direttamente, cioè, l’equilibrio
delle parti sociali a tutti i livelli, oltre che, naturalmente, interessi e bisogni individuali di milioni di lavoratori.
4. Alcune questioni cruciali esaminate dalla Commissione III
4.1. Flessibilità degli orari e tecniche regolative
La flessibilità degli orari è stata ormai analizzata in molti dei suoi
26
aspetti cruciali, e disciplinata con attenzione crescente a partire dai primi anni Ottanta, sia dalla contrattazione collettiva che dalla legislazione
(soprattutto con l’ausilio degli ammortizzatori sociali). Il tendenziale
abbandono di criteri standardizzati nella determinazione degli aspetti
qualitativi e quantitativi della prestazione di lavoro, in favore di una più
ampia e varia previsione dei tempi, delle modalità e dei modelli di lavoro (orario “multiperiodale”, calendario annuo, flessibilità funzionale e
interna, lavoro a tempo parziale) non è stato però adeguatamente sostenuto dalla legislazione vigente, non solo quella in materia di orario.
D’altra parte è noto che la gestione della flessibilità del tempo di lavoro
non interessa solo l’azienda colpita da eventi patologici e, in ogni caso,
deve basarsi su un forte impianto partecipativo e non conflittuale, come
vuole lo stesso Accordo del 23 luglio. Una legge sul tempo di lavoro
dovrebbe dunque rafforzare la normativa contrattuale vigente e consentire una più proficua utilizzazione degli strumenti di redistribuzione del
lavoro fondati sulla solidarietà di tutti i lavoratori interessati.
Se la flessibilità degli orari non deve essere circoscritta alle situazioni di crisi, è necessaria allora una cassetta degli attrezzi più ricca, tale da soddisfare non solo gli interessi legati al classico “utilizzo degli
impianti”, nei settori industriali tradizionali, ma anche i tempi di produzione e di distribuzione dei beni e dei servizi, nell’industria e nel terziario, nel pubblico e nel privato. Si rileva infatti la tendenza ad un allungamento dei tempi di attività connesse alla produzione e alla erogazione
di beni e servizi, che si discostano sensibilmente dai tempi della prestazione e della produzione “individuale”, tanto del lavoratore che della
specifica organizzazione aziendale; e si propongono schemi organizzativi meno uniformi, più differenziati e commisurati a situazioni particolari. È necessaria pertanto una “politica” dei tempi di lavoro che sappia
coordinare e indirizzare le necessità di decentramento e di specializzazione, e non irrigidirle entro schemi che possono divenire rapidamente
obsoleti. Non va trascurata, inoltre, la domanda di flessibilità espressa
dagli stessi lavoratori: la definizione del tempo di lavoro deve tener
conto della propensione ad una gestione concordata dell’orario di lavoro, che renda possibili, e proficue per tutti, differenziazioni calcolate
con riferimento a frazioni di tempo brevi (settimana, mese, anno) e lunghe (programmazione pluriennale). La possibilità di prevedere, nell’ar27
co della vita lavorativa, tempi da utilizzare nell’interesse comune del lavoro e dell’impresa (formazione del capitale umano, ad esempio) o soltanto nell’interesse individuale o familiare dei lavoratori (cura dei figli,
ad esempio), è importante perché consente di armonizzare i tempi di vita e quelli di lavoro. La previsione e la gestione concordata di regimi di
orario flessibili e “personalizzati”, che può essere oggi favorita da un
uso appropriato delle nuove tecnologie, attenua la rigidità degli orari e,
in particolare, quella dei turni, non solo nei settori industriali tradizionali. Una regolazione concordata, veramente partecipata, degli orari di
lavoro non si traduce necessariamente in regimi e modalità di lavoro disagevoli ed invisi ai prestatori di lavoro e può consentire una migliore
distribuzione nel tempo e nell’organizzazione aziendale di attività e di
addetti, con un utilizzo più razionale ed equilibrato di tutti i fattori del
lavoro e della produzione.
La Commissione dell’Informazione ha ritenuto opportuno che le
tendenze qui segnalate fossero opportunamente sostenute dal punto di
vista legislativo, amministrativo e contrattuale, combinando gli incentivi tradizionali con altri nuovi. Bisogna offrire alle parti contrattuali gli
strumenti per operare gradualmente una redistribuzione non degli orari
ma del tempo di lavoro. Il che significa consentire, ad esempio, che si
possa lavorare di più in una settimana e di meno in un’altra; di più un
anno e di meno un altro. E ancora: poter armonizzare i tempi di lavoro
con i tempi della produzione.
Il meccanismo della legge che il CNEL voleva contribuire a riformare è rigido a questo proposito, e non consente le offerte e richieste
operazioni di flessibilità e redistribuzione dei tempi, perché è stato
scritto esattamente 70 anni fa, a misura di attività e di addetti assolutamente diversi, quantitativamente e qualitativamente, da quelli che conosciamo attualmente. Oggi, invece, si tratta di disciplinare il lavoro di un
maggior numero di lavoratori e l’organizzazione, con tecniche radicalmente diverse, di un maggior numero di aziende. Si tratta anche di utilizzare tutti quegli spazi temporali che restano vuoti a causa di una definizione rigida del tempo di lavoro. Gli estensori dello schema di disegno di legge del CNEL intendevano pertanto mettere a punto una normativa non altrettanto rigida come quella del 1923, ma un dispositivo
che consentisse effettivamente alle parti sociali di contrattare ed orga28
nizzare, soprattutto nelle aziende, i tempi e gli orari di lavoro e di produzione.
4.2. Redistribuzione del lavoro
Alla questione della redistribuzione del lavoro rivolgono da tempo
un’attenzione preoccupata governi ed organismi istituzionali, anche di
livello comunitario. La Commissione dell’Unione europea fa opportunamente rilevare che, fino a quando la crescita della produttività sarà
più elevata della crescita della produzione, la tendenza sarà quella di un
mercato che concentra le opportunità di lavoro su un numero sempre
più contenuto di addetti, magari a più alto salario. È senz’altro vero che
la rivoluzione tecnologica innalza la quota di disoccupazione difficile
da riassorbire, e che una parte della produzione viene ricollocata in
Paesi con minore livello salariale; ed è ugualmente certo che la crescita
del prodotto lordo in tutti i Paesi industrializzati è insufficiente ad assorbire la manodopera in eccesso e/o disponibile. Ma è pur vero che la
riduzione del lavoro necessario “libera” risorse e che la loro liberazione
può esprimersi in maggiore sviluppo solo se queste risorse saranno canalizzate verso la soddisfazione di nuovi bisogni. Il che, a sua volta, richiede sia la produzione di nuovi beni e servizi, sia una riduzione della
durata del lavoro individuale, sia una distribuzione del reddito regolata
in modo tale da consentire al più vasto numero di cittadini l’accesso ai
nuovi beni.
Nella prospettiva qui delineata dovrebbe darsi priorità alla ridefinizione del modello complessivo di organizzazione della vita sociale: le
scelte per la riduzione dell’orario possono essere articolate, con una necessaria varietà di strumenti, anche in termini di articolazione e flessibilizzazione dei regimi orari e di adattamento dinamico alle esigenze che
si manifestano nell’intero ciclo di vita degli individui. In ogni caso, sottolinea la Commissione nel Libro Bianco, “l’accesso alla formazione
permanente è uno dei cardini della flessibilità, la quale richiede anche
che le parti sociali, di concerto con le autorità pubbliche, prendano iniziative talvolta radicali”.
29
4.3. Tempo di lavoro e formazione; in particolare le “raccomandazioni” contenute nel Libro Bianco della Commissione europea
La centralità della formazione è uno dei temi forti del Libro Bianco della Commissione Europea. L’adeguamento dei sistemi educativi e
formativi europei viene considerato essenziale per:
- la lotta alla disoccupazione attraverso la migliore qualificazione dei
giovani e la riqualificazione del personale reso esuberante dal progresso tecnologico;
- il rilancio dello sviluppo grazie al potenziamento della competitività
delle imprese;
- l’avvio di uno sviluppo più intensivo di lavoro, con l’adeguamento
delle competenze all’evoluzione dei mercati e delle necessità sociali.
Lo spettro delle politiche della formazione è naturalmente molto
ampio e qui riassumibile solo per sommi capi (rafforzamento della formazione di base, lotta all’abbandono scolastico, collegamento con la ricerca e i settori innovativi, incentivi alla formazione effettiva presso le
imprese, collaborazione tra università e mondo economico, ecc.).
Ma in tutto il Libro Bianco vi è una chiara accentuazione della formazione continua. Si indica che “i sistemi formativi ed educativi devono essere rivisitati in funzione delle necessità sempre crescenti di ricomposizione e di ricostruzione permanenti delle conoscenze e dei
know-how, e chiamati a svilupparsi anche in futuro. Il varo di sistemi
più flessibili e aperti di formazione e lo sviluppo della capacità di adeguamento degli individui si riveleranno infatti sempre più necessari sia
alle imprese, per avvalersi al meglio delle innovazioni tecnologiche da
esse acquisite o messe a punto, sia agli individui stessi, un’aliquota importante dei quali rischia di dover cambiare attività professionale quattro o cinque volte nel corso della propria vita attiva”.
Una solida formazione di base risulta quindi essenziale, ma indubbiamente non può essere considerata un dato acquisito per sempre; essa
va continuamente aggiornata all’interno di un progetto formativo che
30
copre l’intero arco della vita. Il Libro Bianco ritiene che tale principio
possa essere attuato essenzialmente in due modi diversi, anche se complementari:
- sviluppando i momenti formativi in relazione stretta con l’attività
dell’impresa e prevedendo accordi contrattuali per l’investimento in
formazione. Questi possono assumere anche la forma di co-investimento con una maggiore partecipazione dei dipendenti;
- prevedendo la possibilità per ciascun lavoratore di accedere ad un
“assegno” (ad esempio con una somma mensile) o ad un “capitale”
(con una certa somma forfettariamente determinata) per la formazione. In questo caso è assai maggiore il “protagonismo” del lavoratore
sia nell’individuare i suoi bisogni di formazione, sia il percorso formativo che li soddisfa; è, invece, più sfumato, quasi passivo, il ruolo
della impresa.
Naturalmente le due tipologie indicate nel Libro Bianco, quella
contrattata d’impresa e quella individuale, vanno intese come ipotesi
estreme rispetto a molteplici soluzioni intermedie, che possono essere
variamente articolate rispetto al ruolo reciproco dell’impresa e del lavoratore. Si delinea comunque un sistema informativo finanziariamente
basato sulla compartecipazione, nel quale parte pubblica, impresa e lavoratore intervengono per reperire le risorse. Il Libro Bianco propende
decisamente per un sostegno pubblico che non assorba risorse aggiuntive; piuttosto dovrebbe determinarsi una diversa distribuzione tra interventi destinati al sostegno del reddito in caso di perdita di occupazione
ed interventi di politica attiva del lavoro.
Ma è evidente che per dare contenuto effettivo al diritto per il lavoratore alla formazione permanente occorre prevedere non solo una
qualche forma di sostegno finanziario, ma anche la possibilità di interrompere per qualche periodo la propria attività lavorativa senza pregiudicare il rapporto con l’impresa.
Il tema dell’accessibilità alla formazione permanente da parte del
lavoratore coinvolge quindi inevitabilmente la questione della gestibili31
tà del tempo di lavoro nell’arco di vita. Infatti la necessità della formazione continua è uno degli elementi che modificano alla radice un consolidato modello di ripartizione della vita in fasi giustapposte. La classica sequenza “studio-lavoro-riposo” viene compromessa dalla necessità
di frequenti ritorni alla formazione, che impediscano l’obsolescenza del
capitale umano. D’altronde, ridimensionare il ruolo “egemone” del lavoro in un periodo centrale, delimitato ed ininterrotto della vita significa mettere in crisi quel modello “patriarcale”, che per tante ragioni è rimesso oggi in discussione.
Rispetto al passato vi è infatti una forte richiesta di ampliamento
della gamma di opzioni sugli orari di lavoro; questa è certamente legata
alla maggiore presenza delle donne sul mercato del lavoro, ma anche
dall’incidenza di soggetti, come i giovani e le persone anziane, che pure
sono fuori dalla tradizionale sequenza studio-lavoro-riposo. La possibilità di gestire in maniera più flessibile il tempo di lavoro diventa quindi
un obiettivo importante perché consente di conciliare il lavoro, la formazione, la cura dei figli e della famiglia, le proprie esigenze ed aspirazioni.
La domanda sociale va quindi verso la compenetrazione e l’alternanza tra studio e lavoro, tra lavoro e cure familiari, tra lavori diversi,
tra lavoro e non lavoro, che lasci spazio alla riqualificazione, alla mobilità professionale, agli impegni familiari. La possibilità di accedere al
part-time reversibile oppure la flessibilità di entrata e di uscita, l’assegnazione a certi turni, lo job-sharing (lavoro condiviso) sono alcuni degli strumenti che possono aiutare a disegnare spazi temporali per lo studio, mantenendo l’attività lavorativa.
Si rileva invece una certa resistenza delle imprese ed un rilevante
ritardo sindacale su questi temi. L’argomento più utilizzato dagli imprenditori è quello della irriducibilità e dell’inconciliabilità dell’organizzazione del lavoro con questa “congerie” di micro bisogni; l’uscita
temporanea di un lavoratore per un periodo di formazione determinerebbe una inammissibile disorganizzazione della attività all’inizio ed un
difficile reinserimento alla fine; l’impresa, se costretta a conservare il
posto del lavoratore assente, sarebbe così sottoposta all’ennesimo “lacciolo”.
32
Questa argomentazione esprime problemi reali di assorbimento,
ma può essere condotta alle estreme conseguenze di presupporre un’organizzazione del lavoro rigida e immodificabile, che non riesce ad adattarsi a nuove situazioni. La formazione dei dipendenti, anche se in parte
autodeterminata da questi, è questione che interessa la stessa impresa,
che molto spesso ne beneficia in termini di maggiore capacità professionale; i costi organizzativi a breve andrebbero quindi, per lo meno,
confrontati con i vantaggi a medio-lungo termine.
Ciò non toglie che vadano minimizzati i costi a breve e questo presuppone un buon grado di flessibilità interna e la possibilità di accedere
a rapporti di lavoro, come il lavoro a termine o quello interinale, che
possano coprire le assenze temporanee.
D’altronde le imprese dipendono sempre più dalla partecipazione
attiva dei lavoratori all’organizzazione del lavoro e del tempo di lavoro;
questa non può vedersi in opposizione all’efficienza delle imprese, ma
ne è sostanzialmente una condizione.
Anche il sindacato oggi ha introiettato un modello tradizionale
del tempo di lavoro, che va mutato per come muta rapidamente l’organizzazione sociale. Bisogna procedere invece verso un allargamento dell’opportunità e dei modelli proposti senza timore di perdita di
ruolo.
Il sistema formativo italiano è ben lontano dall’essere adeguato ai
bisogni di un sistema produttivo e sociale in forte evoluzione. Le analisi
sui tassi di occupazione e di disoccupazione mostrano d’altronde un rapido spostamento dalla forza lavoro senza alcun titolo di studio ad una
forza lavoro che possiede con dinamica crescente i diplomi più elevati.
Ma al contempo emergono segmenti del mercato del lavoro, soprattutto
per i diplomati di scuola superiore, dove la differenza tra domanda e offerta di lavoro è più elevata.
Questo fa pensare ad un serio squilibrio tra preparazione scolastica
e professionalità richieste sul mercato.
Una situazione come quella descritta produce anzitutto ritardi o
rinvii nell’ingresso nel mercato del lavoro e certamente espone alcuni
soggetti al rischio della espulsione definitiva dal mercato del lavoro in
caso di perdita del posto. È compito del legislatore affrontare le questio33
ni della formazione di base e professionale e di dar seguito alle raccomandazioni del Libro Bianco sulla formazione permanente utilizzando
a tal fine tutti gli strumenti disponibili.
Non è quindi fuori luogo o “fuori tempo” inserire in una legge sul
tempo di lavoro norme che promuovano la disponibilità, tanto del lavoratore che dell’impresa, all’utilizzo di parte del tempo di lavoro a favore della formazione, prevedendo per l’appunto permessi o congedi non
retribuiti da impiegare a questo importantissimo fine.
Si tratta, insomma, come si è avuto modo di esaminare, di consentire a coloro che sono già occupati, di ampliare le proprie capacità professionali attraverso la formazione continua collegandola a diversi moduli di organizzazione e gestione del tempo di lavoro.
4.4. Tempo di lavoro e tempi di vita. La questione dei congedi parentali
La nozione della varietà e diversità dei cicli di vita e di lavoro e
della loro diversa articolazione, in relazione ad esigenze sociali ed individuali, per lo più ancora determinate in base al sesso, è da tempo acquisita nei sistemi sociali più avanzati e tradotta da vari governi in appositi provvedimenti. Anche presso le istituzioni della Unione europea
sono in discussione proposte di direttiva comunitaria che affrontano
aspetti particolari di questa tematica, come quello connesso alla possibilità dei prestatori di lavoro di fruire di “congedi parentali” nel concorso di determinati presupposti soggettivi ed oggettivi.
Sia il congedo parentale che il congedo per motivi familiari si basano sul riconoscimento che il tempo dedicato alla cura di sé e/o di congiunti non è un tempo socialmente improduttivo o marginale, ma ha un
valore per tutta la società. In un consesso che voglia dirsi effettivamente
civile, il diritto a prestare cura deve essere riconosciuto, anche agli uomini e alle donne che hanno un lavoro dipendente, mediante la previsione nella legge sul tempo di lavoro, di periodi di congedo da utilizzarsi a certe condizioni.
È infatti un’esigenza ampiamente condivisa quella di conciliare gli
impegni connessi alla vita professionale con quelli legati alla vita fami34
liare. È altrettanto diffusa l’opinione che tale forma di conciliazione tra
la vita familiare e quella professionale non debba essere più un problema esclusivamente femminile ma riguardi sia gli uomini che le donne.
La difficile conciliazione tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito
comporta infatti diseguaglianze economiche e sociali, discriminazione
nei mercati del lavoro, minore produttività del lavoro, stress per gli individui.
A livello internazionale sono state individuate azioni che dovrebbero favorire la conciliazione tra il lavoro familiare e quello professionale. In particolare sono state effettuate critiche sulle modalità di accesso ai congedi parentali che risultano inutilizzabili quando ad essi consegua un difficile reinserimento nella organizzazione aziendale o nei mercati interni del lavoro. Di fatto, in taluni Paesi si ricorre al lavoro a parttime per meglio conciliare il lavoro con la famiglia, il che molto spesso
ha comportato effetti negativi sulla vita professionale delle donne. Interessanti possibilità da sperimentare possono essere collegate ad una migliore gestione delle risorse umane nei luoghi di lavoro.
4.5. Tempo di lavoro e governo dei tempi nelle città
La dimensione e gli assetti collettivi ed individuali dei tempi di vita nelle città richiedono oggi un governo o una gestione “sociale” che
consenta una migliore organizzazione ed un utilizzo più soddisfacente
del tempo e corrisponda alla richiesta di diversificazione e di autodeterminazione degli orari che proviene dai lavoratori, in particolare dalle
donne.
Per governare i tempi è necessaria una conoscenza approfondita
delle situazioni di fatto e delle loro dinamiche. In Italia, as usual, sono
mancati sia l’impegno “politico” che i supporti statistici ed informativi
(del resto, anche sul tempo di lavoro, nel suo complesso, disponiamo
di dati approssimativi). Talvolta difettano le fonti informative; quando
ci sono, risultano - ovviamente - scollegate. Di conseguenza, il Bel
Paese continua ad ignorare elementi fondamentali della vita dei suoi
cittadini.
35
Alcuni strumenti istituzionali per la gestione dei “tempi“ sociali (o
per la gestione “sociale” dei tempi) sono già offerti dalla legge n.
142/90, nella parte in cui si attribuisce al sindaco la potestà di coordinare gli orari degli esercizi commerciali e dei servizi pubblici con gli orari
di apertura al pubblico degli uffici amministrativi: lo scopo è quello di
armonizzare l’erogazione dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti. Le opportunità offerte dalla legge 142/90 sono state
finora utilizzate in pochi casi, per la limitata capacità organizzativa e
progettuale di molti Comuni e per la insufficiente conoscenza delle
esperienze realizzate in Italia e all’estero. Dovrebbero quindi utilizzarsi
adeguatamente le opportunità esistenti, procedendo anche in una dimensione “intercomunale” (di area o di distretto), date le strette interdipendenze (ad es., di natura economica e sociale) esistenti fra Comuni
vicini. Appare evidente che un efficace coordinamento degli orari è
possibile solo in presenza di una concertazione effettiva fra le parti rappresentative di tutti gli interessi in gioco.
Le parti collettive possono attivamente contribuire, nell’esercizio dei
loro poteri contrattuali, al conseguimento degli obiettivi dianzi ricordati.
Alle amministrazioni pubbliche ed alle parti sindacali sono richiesti nuovi
comportamenti ed orientamenti in sede di contrattazione decentrata. Il
confronto con le organizzazioni sindacali non deve costituire un ostacolo,
ma un fattore di impulso per la costruzione di un nuovo sistema di orari
nella pubblica amministrazione, che non contrasti con le esigenze e le
opzioni individuali e collettive dei dipendenti pubblici e dei cittadini.
4.6. Fondo per la riorganizzazione degli orari
La riduzione del tempo di lavoro è materia che resta affidata alla
determinazione delle parti collettive, salvo la fissazione per legge di un
tetto massimo a fini di tutela del prestatore di lavoro, nonché le riduzioni disposte per ottemperare a decisioni di autorità sovranazionali. Le riduzioni di orario contrattate dovrebbero tener conto di significativi processi di riorganizzazione e/o di situazioni di eccedenza di manodopera.
Le azioni dei governi dovrebbero tendere alla costruzione di un contesto favorevole ad una politica degli orari.
36
Le organizzazioni sindacali dei lavoratori da tempo ritengono che,
nell’ambito delle politiche dei tempi di lavoro, bisognerebbe prevedere,
per un periodo determinato, a favore delle imprese che operano una riduzione strutturale dell’orario di lavoro - per tutti i lavoratori o per una
parte di essi - rispetto a quello normale fissato dai CCNL, un contributo
da parte di un apposito “Fondo per la riorganizzazione degli orari”. Il
Fondo sarebbe alimentato in parte con contributi pubblici, in parte con
maggiorazioni contributive per le ore lavorate oltre una certa soglia oppure mediante il contributo addizionale del 15 % (legge n. 1079/1955)
sulle maggiorazioni corrisposte per le prestazioni di lavoro straordinario e, in parte, utilizzando il contributo “ex GESCAL” (che scomparirebbe), pari in percentuale allo 0,7% e allo 0, 35% delle retribuzioni
mensili, rispettivamente a carico del datore e del prestatore di lavoro.
L’incentivazione sarebbe pari ad una percentuale del costo del lavoro
(ad es. l’1%) per ogni ora di riduzione dell’orario contrattuale settimanale fino ad un massimo di X ore. La suddetta riduzione potrebbe essere calcolata anche con riferimento a periodi plurisettimanali.
Come già ricordato, l’idea del Fondo per la riorganizzazione
dell’orario era stata accolta nella bozza Caviglioli, pur nel dissenso di
alcune organizzazioni datoriali. La medesima proposta era stata recepita
dal consigliere relatore ed inserita in un testo (recante la data del 27
aprile 1994; titolo V, art. 22) inviato a conoscenza di tutte le parti interessate. Nella discussione in Commissione la proposta del Fondo trovava la netta opposizione delle organizzazioni datoriali; essa veniva quindi tenuta in sospeso per consentire la prosecuzione dei lavori.
5. Struttura e contenuti della proposta presentata alla Commissione III (e non approvata)
Il mandato conferito alla Commissione sulla base dello schema di
disegno di legge preso in considerazione nella Assemblea del 2 dicembre 1993 era complesso. Dallo schema di articolato e dalla relazione illustrativa si evinceva la necessità di predisporre un testo che non si
limitasse alla mera recezione della direttiva comunitaria n. 93/104, ma
disciplinasse anche altre materie, in particolare quelle suggerite :
37
- dalle istituzioni comunitarie (il riferimento è alle materie ricordate nei
precedenti paragrafi, contenute nel Libro Bianco della Commissione;
nelle risoluzioni e raccomandazioni del Consiglio relative al pensionamento flessibile ed alla formazione professionale, in particolare
quella continua; nella proposta di direttiva sui congedi parentali; nelle direttive sulla sicurezza e la protezione nei luoghi di lavoro);
- dall’Accordo del 23 luglio 1993;
- dalla giurisprudenza comunitaria e italiana in materia di orario, di non
discriminazione e di protezione dei lavoratori;
- dalle più recenti disposizioni legislative (italiane) in materia di orari e
rapporti di lavoro flessibili;
- dalle normative contrattuali dei vari settori;
- dalle proposte di legge presentate nell’XI legislatura (nonché dalla
bozza di disegno di legge predisposta dalla Commissione Caviglioli
su incarico del Ministro del lavoro Giugni);
- dallo stesso CNEL, nelle numerose attività seminariali e di studio organizzate durante la presente Consiliatura in materia di tempo di lavoro e flessibilità, iniziative condivise, per attiva partecipazione e diretto contributo, da tutte le parti rappresentate nel Consiglio;
- da proposte di riforma della disciplina del tempo di lavoro elaborate
dalle parti sociali e discusse pubblicamente, anche in occasione di seminari e dibattiti organizzati presso la sede del CNEL.
5.1. L’impresa si presentava ardua. Soprattutto sul versante giuridico,
dato che la riforma legislativa del tempo di lavoro sollevava (e solleva)
questioni non secondarie del diritto del lavoro, sintetizzabili nei termini
seguenti:
38
a) il ruolo delle fonti e la funzione “protettiva” delle disposizioni sulla
durata massima dell’orario settimanale di lavoro. In seno alla Commissione e nei lavori del Comitato di esperti si è discusso se la protezione offerta dalla legge e/o dal contratto costituisse insieme compressione della libertà individuale e ostacolo alla gestione flessibile
del tempo di lavoro. Detto altrimenti: in che modo e in che misura
una norma imperativa come il “tetto massimo” dell’orario è compatibile con le esigenze collettive e individuali di flessibilità?
b) la funzione della normativa: la flessibilità è stata finora interpretata
come un fattore di (potenziale) incremento della produttività aziendale e di (potenziale) soddisfacimento degli interessi individuali del
lavoratore. Il quesito posto agli esperti riguardava la possibilità di
concepire la flessibilità anche in termini plurisoggettivi e collettivi,
come strumento di ripartizione delle occasioni di impiego (e di reimpiego). A questa tematica era connessa anche la controversa questione del fondo per la riorganizzazione e la riduzione degli orari di lavoro;
c) le tecniche regolative: considerato che la innovazione normativa
non può esaurirsi nell’ambito del rapporto di lavoro, ed anzi richiede un’organizzazione della società con essa compatibile, si cercava
di individuare le tecniche atte a favorire il propagarsi dei suoi effetti.
5.2. Il quadro di riferimento era dunque ampio ed articolato. Non bisognava tuttavia cedere alla tentazione di elaborare una normativa copiosa e
minuziosa; ma proporre invece, per quanto possibile, un testo essenzialmente di princìpi, che valorizzasse il ruolo delle parti sociali ai vari livelli
contrattuali, secondo le indicazioni fornite dall’Accordo del 23 luglio
1993, affidando pertanto alla competenza normativa degli attori contrattuali, al livello nazionale e a quello decentrato, in particolare la disciplina
degli aspetti organizzativi dell’orario e della flessibilità, nel rispetto beninteso dell’autonomia individuale e delle norme inderogabili poste a tutela del prestatore di lavoro.
39
L’elaborazione di un testo compiuto da sottoporre all’esame della
Commissione dell’Informazione (ed eventualmente all’Assemblea) ha
richiesto numerosi incontri con gli esperti e i rappresentanti delle parti
sociali. Il 12 settembre 1994 il consigliere relatore Arrigo ha consegnato al presidente Brunetta un testo di 28 articoli ripartito in sette titoli (Durata massima settimanale e giornaliera dell’orario di lavoro;
Disposizioni in materia di salute e sicurezza; Flessibilità delle prestazioni di lavoro e rapporti di lavoro flessibili; Lavoro in obbligazione
solidale per una sola prestazione; Disposizioni varie e generali; Disposizioni finali; Sanzioni). Nella discussione in Commissione i Consiglieri hanno espresso valutazioni divergenti ed inconciliabili tra loro
sul contenuto del testo (illustrate in apposite note indirizzate al presidente Brunetta e riportate nella documentazione allegata alla presente
relazione), tale da far ritenere opportuna una soluzione diversa dal voto in Assemblea.
5.3. La struttura del testo predisposto dal Consigliere relatore si componeva essenzialmente di due corpi normativi, ben integrati tra loro:
uno comprendeva la normativa di recezione della direttiva comunitaria n. 93/104 (nonché delle direttive ad essa funzionalmente e materialmente collegate), che comportava consistenti modificazioni della
vecchia normativa interna; l’altro comprendeva elementi di politica
del tempo di lavoro, nuovi per la legislazione italiana, ma ormai acquisiti nell’ordinamento comunitario e adottati in vari Stati
dell’Unione europea. La costruzione del primo corpo normativo si
presentava a maglie abbastanza strette, considerata la natura vincolante delle norme comunitarie, da recepire in modo diligente, pur nei
limiti di variazione consentiti dal Trattato (come interpretati dalla
Corte di Giustizia), al fine di non esporre lo Stato italiano ad un’ennesima condanna da parte delle autorità comunitarie. La costruzione
del secondo presentava invece sensibili margini di manovra, da condurre certo nel rispetto delle posizioni delle parti sociali rappresentate nel CNEL, ma cercando tuttavia di far convergere verso i nuovi
istituti la maggiore sensibilità ed apertura di alcune organizzazioni e
la radicata resistenza di altre.
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6. Norme di recezione della direttiva comunitaria sull’orario di lavoro
Per quanto riguarda il primo corpo normativo, vale a dire quello
deputato alla recezione nell’ordinamento interno della direttiva comunitaria n. 93/104, è senz’altro utile accennare rapidamente al contenuto di
quest’ultima nonché alle modifiche legislative che, a giudizio del consigliere relatore, avrebbero dovuto essere introdotte nel nostro ordinamento.
6.1. Per quanto riguarda anzitutto la durata della settimana lavorativa,
si ricorda che la Direttiva fissa in 48 ore la durata media settimanale
dell’orario di lavoro, comprese le ore di lavoro straordinario (art. 6).
Tale previsione, per la sua portata generale, risulta sostanzialmente innovativa per il nostro ordinamento. Infatti, in base all’art. 1 del Rdl 15
marzo 1923, n. 692, l’orario massimo settimanale di lavoro è in Italia
di 48 ore, cui si possono aggiungere, secondo l’art. 5 del citato Rdl, fino a 12 ore di lavoro straordinario, previo accordo “tra le parti” che,
secondo la giurisprudenza, si può realizzare anche attraverso il contratto collettivo.
Un ulteriore elemento di novità della direttiva n. 93/104, anche se
previsto nella nostra legislazione (limitatamente però ai lavori agricoli e
agli “altri lavori per i quali ricorrano necessità imposte da esigenze tecniche e stagionali”; art. 4, Rdl n. 692/1923), è rappresentato dalla previsione di un periodo di riferimento per il calcolo della durata media
dell’orario settimanale di lavoro, che la Direttiva fissa in 4 mesi (art.
16, 2°). Il successivo art. 17, 4°, stabilisce peraltro che la contrattazione
collettiva possa estendere tale periodo fino a 6 mesi, ovvero 12 mesi,
qualora lo Stato riconosca l’esistenza di “ragioni obiettive, tecniche o
inerenti all’organizzazione del lavoro”. Il predetto periodo di riferimento, per quanto attiene al lavoro notturno, resta invece affidato alla contrattazione collettiva (art. 16, 3° della Direttiva).
Non c’è dubbio che, conformemente alla direttiva comunitaria,
l’art. 1 del Rdl 15 marzo 1923, n. 692 debba essere modificato nel
41
senso che il limite massimo alla durata settimanale dell’orario di lavoro
debba essere fissato in uno diverso (il consigliere relatore proponeva 40
ore settimanali e 8 ore giornaliere), salva la facoltà della autonomia collettiva di stabilire limiti inferiori. Si proponeva inoltre che i contratti
collettivi nazionali di lavoro potessero prevedere che i suddetti limiti
fossero applicati come media di un periodo plurisettimanale non superiore a 18 settimane. In tali casi, la durata normale non poteva superare,
in nessuna settimana, le 48 ore. Il regime di flessibilità in tal modo definito poteva essere disciplinato anche in sede di contrattazione aziendale
nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali di settore [v. l’art. 1,
co. 1-4, della bozza di ddl presentato alla Commissione dell’Informazione il 12 settembre 1994].
Per quanto riguarda l’orario di lavoro complessivo, si proponeva
una soluzione che, nel rispetto della Direttiva comunitaria, stabilisse un
limite compreso tra le 48 ore settimanali e le 10 ore giornaliere [art. 1,
co. 5, bozza ddl].
6.2. Per quanto concerne il lavoro straordinario, appare necessario modificare le corrispondenti norme della citata legge del 1923 (art. 5), nel
senso di prevedere, come nella proposta del Cons. relatore, che per lavoro straordinario si intende quello che eccede il limite delle 40 ore settimanali, ovvero quello fissato con riferimento alla durata cd. multiperiodale di cui al precedente. Si proponeva, in ogni caso, che non potessero essere richieste prestazioni di lavoro straordinario eccedenti il limite di 10 ore settimanali.
Restava fermo che, qualora la contrattazione collettiva avesse fissato un
limite alla durata settimanale inferiore a quello legale, era in relazione
ad esso che si dovesse calcolare la durata del lavoro eccedente quello
normale [art. 3, bozza ddl].
Per quanto riguarda i problemi connessi al lavoro supplementare,
si proponeva una disciplina “transitoria”, che consentiva di considerare
lavoro straordinario, per un periodo di 36 mesi successivo alla data di
entrata in vigore della legge, quello eccedente di due ore settimanali
l’orario normale stabilito dal contratto collettivo [art. 24, bozza ddl].
42
6.3. Per quanto riguarda le pause di lavoro, l’art. 4 della Direttiva stabilisce [come elemento di novità rispetto ai precedenti testi della proposta
di direttiva] che, qualora l’orario di lavoro superi le 6 ore, il lavoratore
deve beneficiare di una pausa la cui determinazione viene in primo luogo demandata alla contrattazione collettiva o, in mancanza, alla legislazione nazionale. A tale proposito occorre ricordare che, secondo il nostro ordinamento, l’orario di lavoro contrattualmente stabilito deve considerarsi senza computare le pause: ad un criterio siffatto è infatti ispirato l’art. 5 del Rdl n. 1955 del 1923, che esclude dalla nozione di lavoro effettivo “i riposi intermedi” purché prestabiliti ad ore fisse, nonché
“le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni
periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all’operaio o all’impiegato”. Si segnala inoltre che la
Direttiva, muovendo in questa stessa direzione, definisce come orario di
lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue attività o delle sue
funzioni” (art. 2, 1°, della Direttiva).
Nella proposta del Consigliere relatore si prevedeva, in armonia
con le disposizioni comunitarie ed i princìpi affermati in sede giurisprudenziale, che, quando l’orario di lavoro giornaliero eccede il limite di 6
ore, il lavoratore ha diritto ad una pausa le cui modalità e la cui durata
sono stabilite dai contratti collettivi, anche al fine di attenuare il lavoro
monotono e ripetitivo. In mancanza di tali accordi al lavoratore deve essere concessa, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro,
una sosta di durata non inferiore a 10 minuti. Salvo più favorevoli disposizioni dei contratti collettivi, non dovevano essere computate come
lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata giornaliera e settimanale di lavoro: a) i riposi intermedi prestabiliti ad ore fisse e le pause di
lavoro superiori a 15 minuti utilizzati sia all’interno sia all’esterno
dell’azienda e durante i quali non è richiesta alcuna prestazione; b) il
tempo impiegato per recarsi dal luogo di residenza al luogo di lavoro o
in trasferta [art. 2, co. 1-3, bozza ddl].
Si proponeva inoltre di considerare come lavoro, ai fini del computo della durata giornaliera e settimanale di lavoro, i periodi di tempo
necessari al lavoratore per sottoporsi a visite mediche o ad accertamenti
43
sanitari legittimamente richiesti al datore di lavoro o comunque imposti
da previsioni di legge e di contratti collettivi [art. 2, co. 4, bozza Ddl].
6.4. Con riferimento ai lavori discontinui e di semplice attesa e custodia, la proposta del Cons. relatore recepiva le disposizioni della Direttiva nonché i più recenti orientamenti giurisprudenziali, circa la necessità di individuare il limite massimo alla durata della prestazione lavorativa anche discontinua e di semplice attesa e custodia [art. 4, bozza
Ddl].
6.5. Per quanto riguarda il riposo giornaliero, in conformità all’art. 3
della Direttiva, la disciplina contenuta nella legge n. 370/1934 doveva
essere modificata stabilendo che il lavoratore ha diritto ad almeno 11
ore consecutive di riposo ogni 24 ore [art. 6, bozza Ddl].
6.6. In ordine al riposo settimanale, l’art. 2 della Direttiva definisce, sul
piano generale, come “periodo di riposo” qualsiasi periodo che non
rientra nell’orario di lavoro. In conformità con quanto previsto dalla
normativa OIL, l’art. 5 stabilisce che i lavoratori dispongono, per ogni
periodo di 7 giorni, di un periodo minimo di riposo ininterrotto di 24
ore, il che sostanzialmente coincide con le previsioni di cui all’art. 1
della legge n. 370 del 22 febbraio 1934.
Da una lettura combinata della norma appena richiamata con quella di cui al citato art. 3, relativa al riposo giornaliero (11 ore), emerge
che il periodo complessivo di riposo settimanale è di 35 ore (24 + 11).
Si tratta di un intervallo che ha la funzione di far godere al lavoratore
almeno un giorno pieno di riposo (e, quindi, decorrente dalla mezzanotte di un giorno alla mezzanotte del giorno successivo). Considerato
che, in talune ipotesi, questo intervallo potrebbe risultare troppo ampio,
tale da determinare problemi di carattere organizzativo (si pensi ai turnisti, al personale di vigilanza, ecc.), la nostra legislazione (art. 6 della
legge n. 370 del 1934) prevede, per alcuni settori produttivi, che l’Ispettorato del lavoro autorizzi la possibilità, sentite le parti sindacali e per
44
ragioni obiettive, di ridurre il riposo settimanale da 24 a 12 ore settimanali.
Con riferimento alla previsione contenuta nell’art. 2 della Direttiva, la disciplina contenuta nell’art. 2 della legge n. 370/1934 dovrebbe
essere sostituita da una normativa la quale preveda che il lavoratore
fruisca di una giornata di riposo di almeno 24 ore consecutive da cumulare con le 11 ore di riposo giornaliero, dopo un periodo di lavoro non
superiore a sei giorni consecutivi. Detto riposo dovrebbe decorrere da
una mezzanotte all’altra, ovvero dall’ora stabilita dai contratti collettivi
e dovrebbe essere utilizzato di domenica, fatta eccezione per le “attività
di lavoro a turni” (cfr. art. 17, punto 2.3, lett. a, della Direttiva), per le
“attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare per il personale addetto alle attività di pulizia”
(art. 17, punto 2.3, lett. b, della Direttiva) nonché per attività individuate in sede di contrattazione collettiva nazionale [art. 7, bozza ddl].
6.7. Per quanto riguarda le ferie annuali, l’art. 7 della Direttiva fissa un
periodo minimo di 4 settimane, rinviando alle legislazioni e/o prassi nazionali la determinazione delle relative condizioni.
Il codice civile (art. 2109), com’è noto, rinvia alla legge e ai contratti collettivi la determinazione della durata del periodo feriale, mentre il Rdl 13 novembre 1924, n. 1825, stabilisce, all’art. 7, i periodi minimi di riposo annuale. Specifiche previsioni normative correlate a situazioni particolari sono inoltre sancite in riferimento ai fanciulli ed
adolescenti (art. 23, legge 17 ottobre 1967, n. 977), agli apprendisti (art.
11, legge 19 gennaio 1955, n. 25), etc.
Nella proposta del Cons. relatore si prevedeva che il prestatore di
lavoro avesse diritto a ferie annuali retribuite, di durata non inferiore a
quattro settimane di calendario; le modalità di fruizione delle ferie sarebbero state stabilite dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro
[art. 8, co. 3; cfr. anche le previsioni in materia di congedi, art. 15, co.
2, bozza ddl].
Per quanto riguarda l’effetto interruttivo della malattia sulle ferie,
il consigliere relatore proponeva una normativa che recepiva gli orien45
tamenti espressi in materia dalla Corte costituzionale e dalla Corte di
Cassazione. La Corte Cost., con la sentenza n. 616 del 30 dicembre
1987, aveva dichiarato illegittimo l’art. 2109 del c.c. nella parte in cui
non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso. Contestualmente però la Corte sottolineava la necessità di
una disciplina della materia. Successivamente la stessa Corte Cost., con
la sentenza 19 giugno 1990, n. 290, ha limitato l’effetto sospensivo alla
sola malattia che comprometta effettivamente l’essenziale funzione di
riposo delle ferie. La Corte di Cassazione, a sua volta, ha sostenuto che
per la interruzione delle ferie non è necessario che l’infermità abbia
comportato il ricovero ospedaliero (sentenza 5 marzo 1993, n. 2704),
salvo il caso in cui il giudizio di merito, insindacabile in Cassazione,
stabilisca che l’affezione morbosa non sia tale da pregiudicare la funzione delle ferie, e la malattia stessa sia per sua natura compatibile con
il suddetto scopo del periodo feriale (24 marzo 1994, n. 2833; 27 luglio
1994, n. 6982) [art. 8, co. 4-5, bozza ddl].
6.8. Con riferimento al lavoro notturno e a turni, l’art. 1, 4°, della Direttiva opera un rinvio generale alle disposizioni della Direttiva “quadro” n. 89/391. Sono fatte salve, tuttavia, le disposizioni più vincolanti
e specifiche contenute nella Direttiva n. 93/104. Difatti, con gli artt. 9,
10 e 12, quest’ultima detta specifiche norme a tutela della salute dei lavoratori che prestano attività notturna. Ai sensi della medesima direttiva (art. 2), si intende per lavoro notturno la prestazione svolta in un arco di almeno 7 ore, definito dalla legislazione nazionale, e che comporta in ogni caso l’intervallo tra le ore 24.00 e le ore 5.00 [v. art. 9, co. 1,
bozza ddl].
Sempre ai sensi dell’art. 2 della Direttiva, si intende per lavoratore
notturno colui che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del
suo tempo di lavoro giornaliero, impiegate in modo normale o che possa
svolgere durante lo stesso periodo una certa parte del suo orario di lavoro
annuale, definita a scelta dallo Stato membro interessato. La proposta del
Cons. relatore recepisce tale principio, aggiungendo in alternativa il riferimento “ad almeno 2/5 dell’orario normale di lavoro annuale, riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale” [art. 9, co. 2, bozza ddl].
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Con riferimento alla durata del lavoro notturno (art. 8), la Direttiva stabilisce il limite delle 8 ore, in media, in un periodo di 24 ore; il
periodo di riferimento può “essere definito, previa consultazione delle
parti sociali, o mediante contratti collettivi, o accordi conclusi a livello
nazionale o regionale tra le parti sociali” (art. 16, 3°). La proposta del
Consigliere relatore recepisce tale principio con ampia delega alla contrattazione collettiva, anche aziendale, per l’individuazione di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto
limite e con l’obbligo della preventiva informazione alle rappresentanze
aziendali dei lavoratori [art. 9, co. 4-6].
La Direttiva inoltre prescrive, all’art. 9, una “valutazione” dello
stato di salute del lavoratore prima della adibizione al lavoro notturno e successivamente, ad intervalli regolari, nonché il trasferimento,
quando possibile, ad un lavoro diurno, in caso di riconosciuta inidoneità per motivi di salute riconducibili alle prestazioni lavorative notturne. Sul punto, la Direttiva n. 93/104 recepisce sostanzialmente il
principio, ormai consolidato nella elaborazione comunitaria, della
cosiddetta “valutazione del rischio”. Inoltre, l’art. 11 della Direttiva
fa obbligo al datore di lavoro di informare le Autorità competenti,
dietro loro richiesta, circa la eventuale, regolare utilizzazione di lavoratori notturni.
Non esistono peraltro specifiche previsioni legislative nel nostro
ordinamento (a parte quelle contenute nel decreto legislativo di attuazione della direttiva quadro 89/391, e delle sette direttive comunitarie
“figlie”, sulla sicurezza e la protezione dei lavoratori nei luoghi di lavoro, approvato solo il 16 settembre 1994), il quale non individua sul
piano generale una nozione di lavoro notturno, al di là di talune previsioni correlate a situazioni particolari (come ad. es. il lavoro notturno
delle donne nei casi di cui all’art. 5 della l. n. 903/1977 - rispetto al
quale valgono peraltro i principi dettati dalla Corte di Giustizia con la
sentenza del 25 luglio 1991, Stoeckel - o quello dei lavoratori adolescenti).
L’art. 12 della Direttiva n. 93/104 invita gli Stati membri ad adottare misure di protezione a favore dei lavoratori notturni e dei lavoratori a turni, specificando che dette misure “siano equivalenti a quelle
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applicabili agli altri lavoratori e siano disponibili in qualsiasi momento”.
La proposta del Cons. relatore recepiva, con poche norme essenziali [v. artt. 10 e 11, bozza ddl], i princìpi posti dalla Direttiva n.
93/104 (in particolare quelli relativi alla “valutazione del rischio”, al lavoro notturno ed alla inidoneità al lavoro) nonché le indicazioni della
Corte di Giustizia sulle condizioni che legittimano l’esclusione dal lavoro notturno di alcune categorie di lavoratori (in ragione di vincoli dovuti ad impegni parentali e familiari, adeguatamente comprovati, a favore: delle lavoratrici, dall’inizio dello stato di gravidanza e fino al
compimento del 7° mese di età del bambino; dei lavoratori o delle lavoratrici con figli, anche in affidamento, di età inferiore a 12 anni, o altri
familiari a carico con necessità di assistenza notturna) [art. 9, co. 3,
bozza ddl].
L’art. 2, 5°, della Direttiva definisce anche il lavoro a turno come
“qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro a squadre in base al
quale dei lavoratori siano successivamente occupati negli stessi posti di
lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso il ritmo rotativo, che
può essere di tipo continuo o discontinuo, ed il quale comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro ad ore differenti su un periodo determinato di giorni o settimane”. A questa definizione è quindi
correlata la nozione di “lavoratore a turno” (art. 2, 6°), che si riferisce
al prestatore di lavoro il cui orario sia inserito nel quadro del lavoro a
turni.
6.9. Ai ritmi di lavoro la Direttiva dedica una previsione piuttosto generica: il legislatore comunitario si limita infatti ad auspicare che per la sicurezza e la salute dei lavoratori si tenga conto dell’esigenza di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo, con formula mutuata dalla Direttiva
“quadro” n. 89/391.
6.10. L’art. 17 della Direttiva n. 93/104 prevede delle deroghe alla disciplina dettata, elencando una serie di attività lavorative per le quali,
nel rispetto dei principi generali della protezione, della sicurezza e della
48
salute dei lavoratori, gli Stati membri possono dettare disposizioni diverse.
Tra le attività soggette al regime di deroghe è utile ricordare i riferimenti a:
- dirigenti o “altre persone aventi potere di decisione autonomo”, per i
quali la deroga è ammessa per il riposo giornaliero, le pause, il riposo
settimanale, la durata del lavoro notturno e i periodi di riferimento;
- “attività di guardia, sorveglianza e permanenza, caratterizzate dalla
necessità di assicurare la protezione dei beni e delle persone”, in relazione alle quali è possibile la deroga solo per il riposo giornaliero,
le pause, il riposo settimanale, la durata del lavoro notturno e i periodi di riferimento;
- “attività di lavoro a turni” e “attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare dal personale addetto alle attività di pulizia”, per la cui disciplina può derogarsi solo
rispetto al riposo giornaliero e settimanale.
L’anzidetto regime delle deroghe può essere introdotto per via legislativa, regolamentare, amministrativa o mediante contratti collettivi,
a condizione che vengano concessi ai lavoratori equivalenti periodi di
riposo compensativo, oppure, nei casi - eccezionali - in cui la concessione di tali periodi non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione
che venga loro concessa una appropriata protezione.
Le deroghe che il Consigliere relatore indicava, con riferimento alla disciplina nel suo complesso, si riferivano: a) ai dirigenti, ai quadri,
agli impiegati direttivi e, nel settore del credito ed assimilati, al personale direttivo; b) ai lavoratori addetti ai servizi domestici, di cui all’art.
1 della legge 2 aprile 1958, n. 339; c) al personale laico delle chiese di
culto; d) ai casi in cui l’estensione e collocazione temporale della prestazione nell’arco della giornata e della settimana non è contrattualmente vincolata e la prestazione stessa si svolge prevalentemente al di fuori
dei locali dell’azienda [art. 23, co. 1, bozza ddl].
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Per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1,
co. 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e delle imprese
esercenti servizi pubblici anche in regime di concessione, nonché per il
personale navigante, si prevedeva l’applicazione della nuova legge salvo diversa disciplina dettata con apposite norme di legge o di regolamento o contratto collettivo, come consentito dalla Direttiva n. 93/104
[art. 23, co. 2, bozza ddl].
6.11. Agli Stati membri viene concesso un periodo di tre anni per la
recezione della Direttiva, durante il quale dovranno essere emanate le
necessarie disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative,
consentendosi tuttavia che, in mancanza, siano le stesse parti sociali
ad applicare consensualmente i principi posti dal legislatore comunitario.
Il termine suddetto può essere eccezionalmente superato limitatamente al regime delle ferie, per la cui disciplina è previsto un periodo
transitorio di altri tre anni a condizione che sia garantito ai lavoratori,
durante tale arco di tempo, un periodo di ferie retribuito di almeno tre
settimane (art. 18, 1°).
Si prevede inoltre che ciascuno Stato membro possa non applicare il limite della durata media settimanale di 48 ore, a condizione
che i lavoratori possano liberamente scegliere di superare tale limite
e che il datore di lavoro “tenga registri aggiornati di tutti i lavoratori
che effettuano tale lavoro” a disposizione delle competenti Autorità
(art. 18, 1°).
6.12. Infine, l’art. 15 della direttiva n. 93/104 consente agli Stati membri di applicare o introdurre, nelle materie disciplinate dalla Direttiva,
disposizioni più favorevoli “alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori o di favorire o consentire l’applicazione di contratti
collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, più favorevoli alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori”.
50
7. Disposizioni diverse
L’“altro” corpo normativo comprendeva: a) alcune disposizioni in
materia di sicurezza e protezione dei lavoratori, che recepivano i principi essenziali delle direttive comunitarie generali e particolari; b) modifiche alla disciplina legislativa del lavoro a tempo parziale, con la previsione di agevolazioni, al fine di incentivare una maggiore diffusione
dell’istituto mediante una maggiore flessibilità (nel rispetto di alcuni
principi fondamentali di tutela, ribaditi dalla Corte costituzionale), prevedendone anche un’applicazione connessa al pensionamento anticipato; c) l’introduzione di istituti in parte nuovi per l’ordinamento italiano,
ma noti alla esperienza di vari Paesi europei e all’attività, anche legislativa, delle istituzioni comunitarie (come i congedi e le aspettative per
motivi di studio o per situazioni personali e familiari; la prestazione di
lavoro “a coppia” o job sharing); d) agevolazioni alle riduzioni e riorganizzazioni degli orari di lavoro, soprattutto negli enti pubblici nonché
indicazioni per una migliore organizzazione dei tempi di lavoro e di vita nelle città.
7.1. Il titolo II (artt. 10-13 della bozza di ddl) dettava disposizioni in
materia di salute e sicurezza, poste in forma di principi e volte a creare
il necessario coordinamento tra le norme contenute nella legge di riforma del tempo di lavoro e quelle corrispondenti da prevedersi nelle leggi
italiane di recezione di varie direttive comunitarie in materia di protezione e sicurezza dei lavoratori (valutazione del rischio, obblighi
dell’imprenditore e dei lavoratori e norme di rilevanza sindacale, il
principio della consultazione, nozione di lavoro notturno, ecc.). Com’è
noto, la direttiva quadro n. 89/391 e le sette direttive particolari sono
state recepite il 17 settembre 1994, vale a dire alcuni giorni dopo la presentazione, in III Commissione dall’ultima bozza del ddl CNEL.
7.2. Il titolo III (artt. 14-16) della bozza di ddl era dedicato alla flessibilità delle prestazioni di lavoro e ai rapporti di lavoro flessibili.
51
7.2.1. L’art. 14 introduceva modifiche alla disciplina del lavoro a tempo
parziale [alcune delle quali si rinvengono in un recente Disegno di legge del Ministro del lavoro Mastella, con “anticipazioni” di ordine generale contenute nell’art. 7 della legge n. 451/94, di conversione del dl. n.
299/94], recependo a tal fine anche indicazioni ed orientamenti espressi
in occasione di dibattiti in Assemblea. L’intento era quello di favorire
una maggiore diffusione dell’istituto, superando alcuni limiti della vigente normativa del 1984, quali, in particolare: a) il divieto del lavoro
supplementare; b) il costo contributivo proporzionalmente più elevato e
con effetti di irrazionale disparità tra part-time “verticale” ed “orizzontale” [v. co. 3 e 5 della bozza di ddl].
Si introducevano inoltre agevolazioni contributive per un triennio,
a favore delle imprese che procedevano ad assunzioni a tempo indeterminato per prestazioni di part-time (verticale ed orizzontale), da mantenere anche in caso di trasformazione, su richiesta del lavoratore, del
rapporto di lavoro a tempo pieno [co. 1 e 2 della bozza di ddl].
Si prescriveva infine l’obbligo della forma scritta, da cui risultasse
l’accordo delle parti, in caso di trasformazione del rapporto di lavoro a
tempo pieno in lavoro ad orario ridotto, da comunicare all’Uplmo [co. 6
della bozza di ddl].
7.2.2. L’art. 15 della bozza di ddl introduceva nel nostro ordinamento
del lavoro l’istituto del congedo parentale, da concedersi per motivi familiari e personali, disciplinato già in alcune legislazioni europee ed oggetto di una proposta di direttiva comunitaria, oltre che di attenzione da
parte del governo italiano. Avrebbero potuto beneficiare del suddetto
congedo, a certe condizioni e per un periodo limitato (sei mesi), solo i
prestatori con almeno 10 anni di anzianità lavorativa presso lo stesso
datore di lavoro.
7.2.3. L’art. 16 della bozza di ddl dettava norme in materia di congedi
formativi, sulla cui utilità e diffusione nel mercato del lavoro dei Paesi
membri dell’Unione europea si sofferma sia la Commissione europea,
in vari punti del suo Libro Bianco (v. ante, 5.3) nonché il Consiglio del52
la Unione (nella posizione comune n. 31/94, definita il 18 luglio 1994,
in vista dell’adozione della decisione che istituisce un programma
d’azione per l’attuazione di una politica di formazione professionale
della Comunità europea). Interessati erano i lavoratori con almeno 5 anni di anzianità lavorativa presso il medesimo datore di lavoro, senza
oneri retributivi e previdenziali per il datore di lavoro.
7.3. Il titolo IV (artt. 17-20) della bozza di ddl conteneva la disciplina del
“lavoro in obbligazione solidale per una sola prestazione” (o “lavoro condiviso” o “a coppia” o job-sharing), un nuovo istituto diretto a favorire articolazioni diverse tra periodi lavorativi e non lavorativi. Si prevedeva la
possibilità di costituire rapporti di lavoro aventi ad oggetto la ripartizione
tra due lavoratori della stessa ed unica prestazione lavorativa e delle stesse
mansioni, mediante l’assunzione in solido di una obbligazione nei confronti
dello stesso datore di lavoro, in modo da garantire una certezza di impegno
lavorativo da parte di uno dei lavoratori interessati, anche in caso di assenza
o impedimento dell’altro. Apposite disposizioni disciplinavano la forma e il
contenuto del contratto, gli aspetti previdenziali e i casi di impedimento e di
risoluzione del contratto di un lavoratore (o di entrambi).
7.4. Il titolo V della bozza di ddl (artt. 21 e 22) conteneva due diverse
previsioni normative.
7.4.1. L’art. 21 dettava una norma di indirizzo della disciplina degli
orari a livello locale, nei Comuni con più di 50 mila abitanti, da predisporsi sulla base di una stabile attività di concertazione tra le parti sociali e rappresentative dei vari interessi cittadini, al fine di coordinare
gli orari di servizio al pubblico, per favorire una migliore qualità della
vita dei cittadini.
7.4.2. L’art. 22 prevedeva incentivi alla sperimentazione di nuove
modalità di organizzazione dei servizi pubblici, a favore delle imprese
53
ed enti pubblici che apportassero rilevanti modifiche dell’organizzazione del lavoro, e quindi dell’orario, al fine di conseguire migliore efficienza e maggiore celerità dei servizi.
7.5. Il titolo VII (artt. 27 e 28 della bozza di d.d.l.) era dedicato alle
sanzioni per l’inosservanza delle disposizioni concernenti i riposi e
di quelle relative ai limiti massimi di orario (da far confluire, queste
ultime, nel Fondo per la riorganizzazione degli orari). Sanzioni amministrative, dunque, la cui entità dovrebbe determinarsi d’intesa con
il Ministero del Lavoro (e non sanzioni penali, come propone invece
Giuseppe Pera in una sua gustosa “noterella”, di insuperabile forza
espressiva: per stroncare l’abuso nel ricorso al lavoro straordinario...
“si potrebbe studiare l’introduzione di una figura criminosa, da identificare quando si accerti che lo straordinario è stato praticato per
evitare l’assunzione di nuovo personale”; in Riv. Ital. Dir. Lav.,
1994, p. 455).
8. L’istituzione del Fondo per la riorganizzazione degli orari: una
proposta “a futura memoria”
In alcune ipotesi “intermedie” di articolato, consegnate ai membri
della Commissione dell’Informazione, si prevedeva l’istituzione di un
Fondo per la riorganizzazione degli orari di lavoro (v. ad esempio, quella recante la data del 27 aprile 1994). Nel testo finale consegnato al Presidente della III Commissione non v’è traccia di tale istituto, poiché il
Cons. relatore riteneva opportuno definire prima un testo ampiamente
condiviso e, quindi, proporre di integrare la normativa proposta con una
norma specifica, in parte collegata funzionalmente anche alle sanzioni,
per gli aspetti relativi all’“alimentazione” del Fondo (v. ante, 5.6.). La
conclusione dei lavori in Commissione, senza esito positivo (per l’opposizione delle parti datoriali alla proposta del Cons. relatore, cui ha
fatto seguito la reazione simmetrica, per ragioni opposte, delle organizzazioni sindacali) non ha consentito di definire gli aspetti relativi al
Fondo.
54
Il Consigliere relatore ritiene opportuno, per completezza di informazione, riportare “in coda” alla presente relazione (che ha natura ricognitiva delle attività svolte dalla Commissione e dal Comitato di esperti) il testo della normativa relativa all’istituzione del Fondo, che ha costituito oggetto di specifica elaborazione.
Fondo per la riorganizzazione degli orari di lavoro
1. È istituito, presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale, il Fondo di incentivazione alla riorganizzazione dell’orario di lavoro con
lo scopo di sopperire agli oneri derivanti, per le gestioni interessate,
dalla applicazione della presente legge. Spetta, altresì, al Fondo erogare contributi a favore dei datori di lavoro, pubblici e privati, i quali adottino regimi che comportino globalmente una riduzione
dell’orario normale contrattuale.
2. Il Fondo, per le cui entrate ed uscite è tenuta una contabilità separata
nella gestione della assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, è alimentato:
a) dal versamento di una somma pari al 15 per cento delle maggiorazioni retributive relative alle ore di lavoro straordinario effettuate;
b) a decorrere dal (...), da un contributo pari allo 0.70% delle retribuzioni mensili corrisposte ai propri dipendenti da parte dei datori di
lavoro privati e pubblici e da un contributo pari allo 0.35% della retribuzione mensile a carico dei dipendenti; (si tratta della contribuzione ex-GESCAL per la quale occorre prevedere una generale revisione di disciplina);
c) da tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro, ai sensi dell’art.
28 della presente legge.
3. Il Fondo eroga contributi di incentivazione ai datori di lavoro con più
di (...) dipendenti che, anche di intesa con le organizzazioni sindacali
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maggiormente rappresentative, adottino, per un periodo non inferiore ad un triennio, regimi di orario di lavoro ridotto rispetto a quello
applicato prima della entrata in vigore della presente legge e, comunque, inferiore a quello di cui ai co. 1 e 2 dell’art. 1.
4. Il contributo di cui al comma precedente è commisurato all’entità
della riduzione ed è erogato in misura decrescente per ciascun anno
del triennio nella misura pari, rispettivamente, al 40%, 25% e 15%
del monte retributivo non dovuto dalle imprese in seguito alla riduzione di orario. Il contributo per ogni lavoratore interessato non può
superare il (...) % del limite massimo di integrazione salariale.
5. Per i contratti di solidarietà stipulati ai sensi dell’art. 2 del D.L. 20
ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nelle legge 19
dicembre 1984, n. 863, il beneficio di cui al precedente comma 3 è
cumulabile con quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 2, legge n.
863/84, e successive modificazioni.
56
PROPOSTA DI SCHEMA DI DISEGNO DI LEGGE
DEL CNEL
RECANTE NORME IN MATERIA DI:
“TEMPO DI LAVORO
E FLESSIBILITÁ DELL’ORARIO”
approvata dalla Commissione dell’Informazione
nella seduta del 27 ottobre 1993 e presentata,
per la presa in considerazione, all’Assemblea
nella seduta del 2 dicembre 1993
57
1. Lo schema di disegno di legge che si sottopone all’attenzione
dell’Assemblea del CNEL si basa in gran parte sulle indicazioni, le
osservazioni e le proposte emerse dalle iniziative seminariali e di
studio, nonché da approfondimenti e ricerche effettuate dal CNEL
durante la corrente consiliatura, in particolare in materia di: orario di
lavoro; flessibilità dell’orario, modelli di lavoro e prestazioni lavorative; condizione della donna, pari opportunità e azioni positive.
2. Per quanto riguarda, in particolare, i temi connessi all’orario di lavoro e alla flessibilità, sono stati effettuati numerosi studi illustrati nei
sottoindicati seminari:
a) “La domanda e l’offerta di informazione statistica in materia di tempo di lavoro e di flessibilità dell’orario” (1° ottobre 1991).
b) “Il tempo di lavoro e la flessibilità dell’orario nella legislazione e
nella contrattazione” (23 settembre 1992):
- la legislazione attuale: il dibattito e le iniziative per la riforma;
- la contrattazione nazionale e decentrata in materia di tempo di lavoro.
c) “Il tempo di lavoro e la flessibilità dell’orario in Europa” (19 novembre 1992):
- il tempo di lavoro e la flessibilità degli orari in Europa;
- strumenti normativi internazionali in materia di orario di lavoro.
59
Con riguardo, invece, ai modelli di lavoro e alle prestazioni lavorative, è stato svolto un ciclo di seminari sulle politiche del lavoro e, in
particolare, sugli istituti volti a dare flessibilità al mercato del lavoro:
a) “Il lavoro ‘intérimaire’” (16 febbraio 1993);
b) “Il part-time” (1 marzo 1993);
c) “Il lavoro a termine” (10 marzo 1993)
d) “Il contratto di formazione e lavoro e il contratto di inserimento”
(23 marzo 1993).
Infine, relativamente alla tematica su “Condizione della donna e
pari opportunità” (rispetto alla quale la ricognizione delle posizioni delle parti sociali ha messo in rilievo, da un lato, i bisogni delle donne lavoratrici e, dall’altro, l’esigenza di monitorare le principali leggi che facilitano la presenza delle donne nel mercato del lavoro, tra le quali, in
particolare, quella sull’orario di lavoro), sono stati svolti i seguenti seminari:
a) “Condizione della donna e pari opportunità” (29 ottobre 1991);
b) Presentazione del documento di “Ricognizione delle posizioni delle
parti sociali su Condizione della donna e pari opportunità” (16
aprile 1992);
c) “Tempi di vita, tempi di lavoro” (26 novembre 1992);
d) “Analisi e primi risultati dell’applicazione delle leggi nn. 125/91,
142/90 e 215/92” (1 luglio 1993).
3. Dalle analisi e ricerche segnalate si rileva l’inadeguatezza della vigente disciplina legislativa dell’orario di lavoro rispetto all’attuale
contesto sociale e produttivo: vi è una forte domanda di flessibilità
da parte delle imprese, che deriva anche dalla crisi del modello tradizionale di organizzazione del lavoro; vi è una richiesta crescente degli stessi lavoratori in favore di forme di individualizzazione degli
orari; si registra una crescita di forme “atipiche” di prestazione lavorativa (lavoro a turni, lavoro notturno, lavoro concentrato nel week60
end, job-sharing, ecc.), nonché una diffusione di modelli atipici di lavoro, che non trovano una disciplina legislativa (e talora anche contrattuale) compiuta o soddisfacente.
4. La Commissione dell’Informazione, sulla base delle suindicate considerazioni, ha pertanto approvato, con il voto contrario dei rappresentanti di Confindustria e Confcommercio, il presente schema di disegno di legge che pone norme in materia di tempo di lavoro e flessibilità dell’orario, di cui si indicano nei punti seguenti i titoli e le finalità essenziali, nella forma richiesta dal regolamento del CNEL (art.
8, lett. c, punto 7).
La nuova disciplina legislativa non dovrebbe ridurre o comprimere
l’autonomia collettiva e l’attività contrattuale di vario livello, nazionale
e decentrato, ma contribuire ad incentivarla e razionalizzarla, predisponendo una normativa che provveda essenzialmente a:
a) stabilire una base normativa minima che comprenda anche gli aspetti relativi alla distribuzione degli orari; b) incentivare le “politiche”
degli orari;
c) rafforzare forme di coordinamento del governo dei tempi di lavoro e
di vita a livello locale.
Schema del disegno di legge
1. (Orario normale massimo di lavoro). Si dovrebbe ridefinire opportunamente la nuova durata massima del lavoro settimanale riducendolo a 40 ore, da calcolare su un periodo prestabilito, mentre l’orario di
48 ore dovrebbe rappresentare il limite massimo, sia con riferimento alle prestazioni straordinarie, che alle riorganizzazioni e distribuzioni plurisettimanali dell’orario di lavoro.
2. (Distribuzione e flessibilità dell’orario di lavoro). Si dovrebbe
consentire alla contrattazione collettiva nazionale e decentrata di ampliare il riferimento temporale della prestazione di lavoro a periodi plurisettimanali, incentivando la possibilità di gestione flessibile dell’ora61
rio annuale, prevedendo modalità di superamento e di riduzione
dell’orario settimanale normale. Conseguentemente dovrebbero essere
definiti, rispetto all’orario giornaliero e settimanale, i limiti (quantità e
durata) dei periodi di superamento.
3. (Modelli di organizzazione e distribuzione dell’orario). Si dovrebbe facilitare l’accesso a regimi di orario diversificati su più fasce (32, 24,
16 ore) o in alcuni periodi dell’anno (ad esempio prevedendo un onere
contributivo inferiore fino alle 32 ore settimanali); eliminare i fattori disincentivanti il trattamento previdenziale del lavoro a tempo parziale.
4. (Flessibilità dell’orario e utilizzo degli impianti). Si dovrebbero
incentivare le modifiche organizzative e produttive contrattate dirette a
favorire regimi di orario particolari e ridotti connessi all’utilizzo degli
impianti ed un ampliamento delle fasce di disponibilità dei servizi.
5. (Lavoro straordinario). Si dovrebbe:
- qualificare lo straordinario come orario eccedente l’orario normale
fissato dal contratto, quando non effettuato all’interno della programmazione “multiperiodale”;
- prevedere, nelle forme ritenute più opportune, che il costo dello straordinario sia effettivamente superiore a quello del lavoro ordinario.
6. (Lavoro notturno, lavoro a turni, protezione della salute e della
sicurezza). Si dovrebbero prevedere, anche tenendo conto delle norme
contenute nella proposta di direttiva comunitaria, concernente taluni
aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e con attenzione ad altre legislazioni europee, riposi minimi giornalieri e forme di tutela della
salute dei lavoratori adibiti a lavoro notturno e a turni.
7. (Formazione). Si dovrebbero prevedere periodi di formazione
variamente collegati con la prestazione lavorativa, disciplinando, in
particolare, gli aspetti relativi a: durata della formazione, qualità e modalità della formazione, sostegno del reddito, partecipazione finanziaria
dell’impresa.
8. (Pensionamento anticipato e part-time). Si dovrebbero incentivare adeguatamente forme di pensionamento anticipato progressivo
collegate con prestazioni di lavoro a tempo parziale.
62
9. (Coordinamento con norme relative ai tempi di lavoro e di vita
nelle aree urbane). Si dovrebbe prevedere un coordinamento del governo dei tempi di lavoro e di vita nelle aree urbane e territorialmente
omogenee, anche attraverso incentivi agli enti locali che promuovono
forme di flessibilità o di modularizzazione degli orari.
63
ALLEGATI
65
I. BOZZA DI D.D.L. RECANTE NORME IN MATERIA DI
“TEMPO DI LAVORO E FLESSIBILITÀ DELL’ORARIO”
(esaminata e non approvata nella seduta della Commissione
dell’Informazione del 30 settembre 1994)
67
TITOLO I
Durata massima settimanale e giornaliera dell’orario di lavoro
Art. 1. Durata massima settimanale
1. La durata massima dell’orario normale di lavoro non può eccedere le
8 ore al giorno o le 40 ore settimanali di lavoro effettivo. I contratti collettivi
possono prevedere un orario normale inferiore.
2. I contratti collettivi di lavoro possono prevedere che i limiti di cui al
comma 1 siano applicati come media di un periodo plurisettimanale non superiore a 48 settimane. In tali casi l’orario normale settimanale non può di
regola superare le 48 ore.
3. La flessibilità, di cui al comma precedente, può essere disciplinata
anche dal contratto collettivo aziendale, nell’ambito delle disposizioni eventualmente stabilite dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
4. In difetto di disciplina collettiva applicabile, il datore di lavoro può
attuare una distribuzione multiperiodale dell’orario di lavoro - che comporti
il superamento dell’orario normale settimanale entro il limite delle 48 ore
per 9 settimane, compensato da una corrispondente riduzione dell’orario
nell’arco delle successive 18 settimane - nei limiti di una volta all’anno, dandone preventiva informazione alle rappresentanze sindacali aziendali, ove
costituite, aderenti alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato in azienda e, su eventuale richiesta da
parte di queste ultime, procedere ad una verifica delle modalità applicative.
L’eventuale verifica deve espletarsi nel tassativo termine di 15 giorni dalla
69
ricezione della informativa e, decorso tale termine, la azienda potrà procedere all’applicazione della distribuzione multiperiodale dell’orario.
5. In nessun caso l’orario di lavoro complessivo, compreso il lavoro
straordinario, potrà superare la media di 48 ore settimanali in un arco di 18
settimane o, in alternativa, il limite assoluto di 10 ore giornaliere, salvo
quanto previsto nell’art. 3, comma 4 della presente legge.
6. Resta confermata la disciplina prevista dall’art. 4 del R.D.L.. del 15
marzo 1923, n. 692 e dal successivo R.D. 10 settembre 1923, n. 1957 e dagli
artt. 8 e 10 del R.D. 10 settembre 1923, n. 1955.
Art. 2. Pause di lavoro
1. Ferma restando la normale prestazione di lavoro giornaliero, qualora
l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore, il lavoratore ha diritto
ad una pausa, che può essere utilizzata anche per la consumazione del pasto,
le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi, anche al
fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.
2. Nelle ipotesi di cui al comma 1, in difetto di disciplina collettiva che
preveda una pausa a qualsivoglia titolo attribuita, il lavoratore ha diritto, tra
l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, ad una pausa di durata
non inferiore a 10 minuti.
3. Salvo più favorevoli disposizioni dei contratti collettivi, anche
aziendali, non sono computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti
di durata giornaliera e settimanale di lavoro:
a) i riposi intermedi prestabiliti ad ore fisse e le pause di lavoro superiori a 15 minuti che siano utilizzati sia all’interno sia all’esterno dei luoghi
di lavoro e durante i quali non sia richiesta alcuna prestazione;
b) il tempo impiegato per raggiungere il luogo della prestazione lavorativa, e per rientrare, anche in trasferta.
4. Sono considerati come lavoro, ai fini del computo della durata giornaliera e settimanale di lavoro, i periodi di tempo necessari al lavoratore per
sottoporsi, durante l’orario di lavoro, a visite mediche professionali o ad ac-
70
certamenti sanitari richiesti dal datore di lavoro o comunque previsti da disposizioni di legge o da contratti collettivi.
5. È ammesso il recupero dei periodi di pausa dovuti ad eventi transitori non imputabili al datore di lavoro o ai lavoratori, nonché delle interruzioni
dell’orario normale concordate tra i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali aziendali, purché i conseguenti prolungamenti di orario non eccedano
il limite stabilito in tali accordi o, in mancanza, il limite massimo di un’ora
al giorno, o in un’unica soluzione nei limiti di cui all’art. 1, comma 5.
Art. 3. Lavoro straordinario
1. Il lavoro straordinario è quello prestato oltre il limite di cui all’art. 1,
comma 1, ovvero quello di cui ai commi 2 e 4 dello stesso articolo.
2. Non può essere richiesta al lavoratore prestazione di lavoro straordinario eccedente il limite di 10 ore settimanali. Tale limite può essere eccezionalmente superato in relazione a casi specifici, come mostre, fiere e manifestazioni collegate all’attività produttiva, preventivamente comunicati
agli Uffici competenti ai sensi dell’art. 2, comma 10, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, e alle rappresentanze sindacali aziendali competenti.
3. Il ricorso al lavoro straordinario potrà essere attivato secondo le articolazioni, i criteri e le procedure previste dai contratti collettivi di lavoro. In
difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è
ammesso soltanto previo accordo tra datore e prestatore di lavoro.
4. In difetto di disciplina collettiva applicabile, il lavoro straordinario
può essere disposto unilateralmente dal datore di lavoro per un periodo non
superiore a 3 giornate lavorative, quando ciò sia reso indispensabile da eventi
eccezionali ed imprevedibili oppure comportanti rischio di danno grave alle
persone e agli impianti o tali da recare pregiudizio grave e rilevante all’attività produttiva. In quest’ultimo caso potranno essere consensualmente superati
i limiti di cui al comma 2 del presente articolo e dell’art. 1, commi 3 e 4.
5. I contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono che il lavoro
straordinario sia computato a parte e compensato con una maggiorazione retributiva - tale che la remunerazione dello stesso sia effettivamente superiore
a quella del lavoro ordinario - o con una riduzione dell’orario in diversa
giornata o settimana salvi comunque i limiti di cui all’art. 1, comma 5.
71
Art. 4. Lavori discontinui e di semplice attesa e custodia
1. Per i lavoratori addetti a mansioni che richiedono prestazioni discontinue o di semplice attesa o custodia, la durata massima normale giornaliera
e settimanale dell’orario di lavoro è rispettivamente di 10 e 50 ore salvo migliori condizioni previste dai contratti collettivi.
2. È lavoro straordinario quello prestato oltre il limite di cui al precedente comma.
3. Per i lavoratori di cui al comma 1, i limiti massimi dell’orario giornaliero e settimanale di lavoro, comprensivi delle ore di lavoro straordinario,
sono rispettivamente di 12 e di 60 ore.
4. Le attività di cui al comma precedente sono quelle individuate (ai
sensi dell’art. 6, R.D. 10 settembre 1923 n. 1955) dal R.D. 6 dicembre 1923
n. 2657, e successive modificazioni ed integrazioni. A decorrere dall’entrata
in vigore della presente legge, le ulteriori modificazioni ed integrazioni saranno stabilite con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale,
sentite le Organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative, nonché le Organizzazioni nazionali dei datori di lavoro.
Art. 5. Norma transitoria
Qualora, alla data di entrata in vigore della presente legge, la disciplina
dei contratti collettivi di settore preveda limiti di orario superiori a quelli
previsti negli artt. 1, 2, 3 e 4, la predetta disciplina collettiva dovrà essere
adeguata alla presente legge alla prima scadenza contrattuale e comunque
non oltre tre anni dalla entrata in vigore della presente legge.
Art. 6. Riposo giornaliero
Il lavoratore ha diritto ad almeno 11 ore consecutive di riposo ogni 24 ore.
Art. 7. Riposo settimanale
1. Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore conse-
72
cutive, da cumulare con le 11 ore di riposo giornaliero previste dall’art. 6, dopo
un periodo di lavoro non superiore a sei giorni consecutivi. Fanno eccezione:
a) le attività di lavoro a turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra
e non possa usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di quello della squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero o settimanale;
b) le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la
giornata.
2. Il riposo, di cui al comma precedente, decorre dalle ore 24 di un
giorno alle ore 24 del giorno successivo, ovvero dall’ora che sarà stabilita
dai contratti collettivi, e deve essere utilizzato di domenica, salvo le eccezioni previste dai commi successivi.
3. Il riposo di 24 ore consecutive può essere fissato in un giorno diverso dalla domenica e può essere attuato mediante turni per il personale interessato a modelli tecnico-organizzativi di turnazione particolare, ovvero addetto alle attività aventi le seguenti caratteristiche:
a) operazioni industriali per le quali si abbia l’uso di forni a combustione o ad energia elettrica per 1’ esercizio di processi caratterizzati dalla continuità della combustione ed operazioni collegate;
b) operazioni industriali il cui processo debba in tutto o in parte svolgersi in modo continuativo;
c) industrie di stagione per le quali si abbiano ragioni di urgenza riguardo alla materia prima o al prodotto dal punto di vista del loro deterioramento e della loro utilizzazione, comprese le industrie che trattano materie
prime di facile deperimento e il cui periodo di lavorazione si svolge in non
più di tre mesi all’anno, per il loro periodo di lavorazione eventualmente eccedente i tre mesi, ovvero quando nella stessa azienda e con lo stesso personale si compiano varie delle suddette attività con un decorso complessivo di
lavorazione superiore a tre mesi;
d) altre attività per le quali il funzionamento domenicale corrisponda
ad esigenze tecniche;
e) servizi il cui funzionamento domenicale soddisfi interessi particolarmente rilevanti della collettività. Tali servizi saranno individuati con le modalità di cui al successivo comma 4;
73
f) attività che richiedono l’impiego di impianti e macchinari ad intensità di capitali o ad alta tecnologia soggetti a rapida obsolescenza;
g) attività individuate, ai sensi degli artt. 7, 16 e 17 della legge 22 febbraio 1934, n. 370.
4. Resta in vigore il D.M. 22 giugno 1935, e successive modificazioni
ed integrazioni, fino all’emanazione del decreto del Ministro del lavoro e
della previdenza sociale con il quale, sentite le Organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative e le Organizzazioni nazionali dei datori di lavoro, saranno puntualmente individuate le attività di cui
alle lettere da a) ad f) del comma precedente.
Art. 8. Ferie annuali
1. Fermo restando quanto previsto dall’art. 2109 c.c., il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a 20 o
24 giorni, rispettivamente nei casi di distribuzione settimanale dell’orario di
lavoro su 5 o 6 giorni.
2. Il periodo di ferie annuali retribuite di cui al comma precedente non
può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
3. La contrattazione collettiva può stabilire modalità di godimento o di
utilizzo delle ferie eccedenti il limite di cui al comma 1, anche con riferimento alle previsioni di cui agli artt. 15 e 16 della presente legge.
4. La malattia del lavoratore, anche di natura traumatica, insorta durante il periodo di ferie e che sia tale da pregiudicarne il godimento, ne sospende il decorso per il periodo corrispondente.
5. Nei casi di cui al precedente comma, lo stato di malattia deve essere comunicato e documentato al datore di lavoro e agli enti che corrispondono l’indennità di malattia mediante idonea certificazione medica nei termini e nei modi
previsti da disposizioni di legge ed amministrative o dai contratti collettivi.
Art. 9. Lavoro notturno
1. Per lavoro notturno si intende quello effettuato nel corso di un perio-
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do di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e
le cinque del mattino, anche prestato secondo turni periodici.
2. Per lavoratore notturno si intende qualsiasi lavoratore che durante il
periodo notturno svolga almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero
ovvero almeno 2/5 dell’orario normale di lavoro annuale, riproporzionato in
caso di lavoro a tempo parziale.
3. Sono escluse dall’obbligo di effettuare lavoro notturno le seguenti
categorie di lavoratori, in ragione di vincoli dovuti ad impegni parentali e familiari:
- le lavoratrici dall’inizio dello stato di gravidanza e fino al compimento del
7° mese di età del bambino;
- i lavoratori o le lavoratrici che abbiano figli, anche in affidamento, di età
inferiore a 12 anni, o altri familiari a carico con necessità di assistenza
notturna; l’impossibilità di accudire altrimenti gli stessi deve essere adeguatamente comprovata dalle autorità competenti.
4. Fermo restando il limite assoluto di cui all’art. 1, comma 5, l’orario
di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore nelle 24 ore, salvo
l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite. Per i lavori che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, si applicano le disposizioni dell’art. 11, comma 1 della presente legge.
5. Il periodo di riposo settimanale, di cui all’art. 7, comma 1, non viene
preso in considerazione per il computo della media quando coincida con il
periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi di cui al comma precedente.
6. L’introduzione di lavoro notturno deve essere preceduta dall’informativa alle rappresentanze sindacali aziendali competenti, se costituite, secondo i criteri e con le modalità previsti dai contratti collettivi. Detta informativa deve svolgersi regolarmente nelle imprese che ricorrono stabilmente
al lavoro notturno. All’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio deve essere inviata adeguata documentazione.
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TITOLO II
Disposizioni in materia di salute e sicurezza
Art. 10. Valutazione del rischio
1. Il datore di lavoro deve effettuare una valutazione del rischio per la
salute e la sicurezza sul posto di lavoro secondo quanto stabilito dalla normativa nazionale di recepimento della direttiva del Consiglio n. 89/391.
2. Il datore di lavoro avvalendosi, se del caso, di esperti competenti per
materia, consulta, se costituite, le rappresentanze sindacali aziendali sugli interventi che possano avere effetti rilevanti sulla sicurezza e sulla salute.
3. La valutazione dello stato di salute dei lavoratori addetti al lavoro
notturno deve avvenire attraverso controlli preventivi e periodici adeguati al
rischio cui il lavoratore è esposto, secondo disposizioni previste dalla legge e
dai contratti collettivi.
4. Il datore di lavoro, previa consultazione con le rappresentanze sindacali aziendali competenti, se costituite, dispone, per i lavoratori che effettuino lavorazioni che comportano rischi particolari, di cui all’elenco definito
all’art. 11, appropriate misure di protezione personale e collettiva e modalità
di lavoro tali da eliminare o ridurre i rischi, anche per i casi di emergenza.
Art. 11. Lavoro notturno
1. Il lavoro notturno per le lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali non deve superare le 8 ore per un periodo di 24 ore.
2. Con decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, previa consultazione delle Organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative e le Organizzazioni nazionali dei datori di lavoro
e sulla base delle proposte del CNR e dell’ISPESL, viene stabilito un elenco
delle lavorazioni di cui al comma precedente.
3. Le aziende che organizzano non occasionalmente la propria attività
con lavoro notturno devono informare le rappresentanze sindacali aziendali
competenti, se costituite, in merito alle misure idonee di prevenzione. Ana-
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loga informativa dovrà essere effettuata dalle aziende che intendono introdurre il lavoro notturno.
4. Il datore di lavoro che fa regolarmente ricorso a lavoratori notturni
provvede ad effettuare l’informativa di cui all’art. 9 della presente legge.
5. Durante il lavoro notturno il datore di lavoro garantirà un livello di
servizi di prevenzione e di protezione di emergenza equivalente in prestazione a quello previsto per il turno diurno.
Art. 12. Inidoneità al lavoro
1. Il lavoratore temporaneamente inidoneo per ragioni di salute allo svolgimento del lavoro notturno, viene trasferito a turno diurno, centrale o avvicendato, compatibilmente con le esigenze e le possibilità organizzative dell’azienda.
2. In caso di inidoneità permanente al lavoro notturno, il datore di lavoro può recedere dal rapporto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 3, legge
15 luglio 1966, n. 604; in tal caso il lavoratore sarà iscritto nelle liste di cui
all’art. 6 della legge 23 luglio 1991, n. 223.
3. L’inidoneità di cui al presente articolo può essere accertata soltanto
attraverso le competenti strutture sanitarie pubbliche.
Art. 13. Disposizioni per categorie particolari
1. I contratti collettivi di lavoro possono prevedere modalità e specifiche misure di prevenzione relativamente alla prestazione di lavoro di particolari categorie di lavoratori, quali quelle individuate con riferimento alle
leggi 5 giugno 1990, n. 135 e 26 giugno 1990, n. 162.
TITOLO III
Flessibilità delle prestazioni di lavoro e rapporti di lavoro flessibili
Art. 14. Lavoro a tempo parziale
1. Alle imprese che procedono, entro 3 anni dalla entrata in vigore della presente legge, a nuove assunzioni, con contratto di lavoro a tempo inde-
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terminato, di lavoratori non iscritti nella lista di cui all’art. 6 della legge 23
luglio 1991, n. 223, per lo svolgimento di attività ad orario inferiore rispetto
a quello ordinario previsto dai contratti collettivi o per periodi predeterminati, si applica per un periodo di 3 anni, per ciascuna delle predette assunzioni,
una riduzione delle aliquote contributive previdenziali e assistenziali e dei
premi in misura pari al 25%, cumulabile con le misure di fiscalizzazione e
sgravio degli oneri sociali spettanti.
2. I benefici di cui al comma precedente vengono corrisposti anche nei
casi in cui, su richiesta del lavoratore, si proceda alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno.
3. All’art. 5 del D.L. 30 ottobre 1984 n. 726, convertito, con modificazioni,
dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, il comma 4 è sostituito dal seguente:
“ 4. La prestazione da parte dei lavoratori a tempo parziale di lavoro
supplementare rispetto a quello concordato ai sensi del comma 2 è permessa
nel limite del 15%. I contratti collettivi di cui al comma 3 possono stabilire
una percentuale maggiore”.
4. I lavoratori in mobilità che vengono assunti con contratto di lavoro a
tempo parziale percepiscono una indennità di mobilità ridotta in misura proporzionale all’orario prestato.
5. All’art. 5 del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863 sono aggiunti, dopo il comma
9, i seguenti commi:
“9 bis. La retribuzione tabellare di cui al precedente comma 9 è determinata su base oraria, in relazione alla durata della prestazione lavorativa.
9 ter. La retribuzione minima oraria da assumere quale base di calcolo
dei premi per l’assicurazione di cui al precedente comma 9 è stabilita con le
modalità di cui al comma 5 del presente articolo”.
6. All’art. 5 del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, il comma 10 è sostituito dal seguente:
“10. Fermo restando quanto previsto dai commi 2, 3, e 3 bis, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale è
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comunicata all’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione
allegando l’atto scritto da cui risulti l’accordo delle parti”.
Art. 15. Periodo di congedo
1. I lavoratori che abbiano prestato almeno 10 anni di servizio alle dipendenze del medesimo datore di lavoro possono chiedere, compatibilmente
con le esigenze tecnico-organizzative dell’azienda, un periodo di congedo
non retribuito della durata massima di 6 mesi, motivato da interessi di famiglia o da gravi motivi di natura privata. Detto periodo di congedo non viene
computato ai fini previdenziali.
2. Su richiesta del lavoratore potrà trovare applicazione l’art. 8, comma
3, della presente legge.
3. L’impresa, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. b), della legge 18 aprile 1962, n. 230 e successive modificazioni, potrà sostituire, per la stessa durata, il lavoratore in congedo con altri lavoratori assunti con contratto a termine.
Art. 16. Congedi formativi
1. I lavoratori che abbiano prestato almeno 10 anni di servizio alle dipendenze del medesimo datore di lavoro possono chiedere, compatibilmente
con le esigenze tecnico-organizzative dell’azienda, un periodo di congedo
non retribuito della durata massima di 6 mesi, motivato da interessi di famiglia o da gravi motivi di natura privata. Detto periodo di congedo non viene
computato ai fini previdenziali.
2. I congedi formativi di cui al precedente comma possono essere utilizzati per il completamento della scuola dell’obbligo, o per il conseguimento del titolo di studio di 2° grado, o per la partecipazione ad attività formative dirette ad acquisire elevate qualifiche professionali, presso istituti abilitati
al rilascio di titoli di studio legalmente riconosciuti.
3. Per tutta la durata del congedo formativo l’impresa è esentata dal
versamento degli oneri contributivi: ai lavoratori saranno riconosciuti corrispondenti periodi di contribuzione figurativa.
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4. L’impresa, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. b), della legge 18 aprile
1962, n. 230 e successive modificazioni, potrà sostituire, per la stessa durata,
il lavoratore in congedo formativo con altri dipendenti assunti con contratto
a termine.
5. I contratti collettivi potranno regolamentare i criteri e le modalità di
richiesta e concessione dei congedi formativi, anche con riferimento all’art.
8, comma 3, della presente legge ed in questo caso non si applica il comma 3
del presente articolo.
TITOLO IV
Lavoro in obbligazione solidale per una sola prestazione
Art. 17. Disciplina del lavoro a coppia
1. Il contratto di lavoro subordinato con il quale lavoratori si obbligano in solido nei confronti di un datore di lavoro per la stessa ed unica prestazione lavorativa, detto lavoro a coppia, è soggetto alla disciplina del contratto di lavoro subordinato ordinario, salvo quanto previsto nel presente titolo. La regolamentazione di tale contratto di lavoro è demandata alla contrattazione collettiva, nazionale ed aziendale, nel rispetto delle disposizioni
seguenti.
Art 18. Distribuzione convenzionale del tempo di lavoro, retribuzione e posizione previdenziale
1. Il contratto di cui all’art. 17 deve indicare la misura percentuale e la
collocazione temporale del lavoro giornaliero, settimanale, mensile od annuale che si prevede, secondo le intese tra i due lavoratori contitolari, destinato ad essere svolto da ciascuno di essi. Il datore di lavoro e i due titolari
del lavoro condiviso potranno annualmente convenire di modificare la precedente organizzazione del lavoro.
2. La retribuzione di ciascuno dei due lavoratori è determinata in relazione alla previsione contrattuale di cui al comma precedente anche ai fini
previdenziali e fiscali, senza subire variazioni per effetto di modifiche della
distribuzione della prestazione tra i due lavoratori. Resta salvo l’obbligo di
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sostituzione compensativa o indennizzo in denaro a carico del lavoratore che
si è fatto sostituire.
3. Ai fini delle prestazioni dell’assicurazione generale obbligatoria,
dell’indennità economica di malattia e di ogni altra prestazione previdenziale ed assistenziale e delle relative contribuzioni connesse alla durata giornaliera, settimanale o annuale della prestazione lavorativa, i due lavoratori contitolari del contratto di cui all’art. 17 sono considerati come lavoratori a tempo parziale.
4. Il contratto di lavoro a coppia deve essere stipulato per iscritto e copia di esso deve essere inviata entro 30 giorni all’Ispettorato provinciale del
lavoro.
Art. 19. Orario di lavoro, riposi ed impedimenti di lavoro
1. All’estensione e collocazione temporale della prestazione lavorativa
dedotta nel contratto di cui all’art. 18 si applicano le disposizioni contenute
nella presente legge
2. L’impedimento contemporaneo di entrambi i lavoratori ha l’effetto
di sospendere la prestazione lavorativa.
3. Qualora per uno dei due lavoratori coobbligati si verifichi l’impedimento di cui all’art. 2111 del codice civile, oppure uno di essi ottenga
l’aspettativa a norma dell’art. 31 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il contratto si converte automaticamente, per tutta la durata dell’impedimento o
dell’aspettativa, in contratto di lavoro ordinario, di cui resta unico titolare
l’altro lavoratore.
Art. 20. Risoluzione del contratto
1. Le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori contitolari del
contratto di cui all’art. 18 costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento dell’altro, salvo che quest’ultimo e il datore di lavoro decidano di
comune accordo di trasformare il contratto di lavoro in coppia in altro contratto di lavoro subordinato.
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TITOLO V
Disposizioni varie e generali
Art. 21. Disciplina degli orari a livello locale
I Comuni con più di 50 mila abitanti residenti, di concerto con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano locale, le associazioni di categoria private e pubbliche
e le associazioni dei consumatori, predispongono le iniziative finalizzate al
coordinamento degli orari di servizio al pubblico, dirette a favorire una migliore qualità della vita dei cittadini.
Nell’ambito delle suddette consultazioni i Comuni potranno predisporre misure di regolazione degli orari di lavoro e di attività dei pubblici
servizi e individuare nuove forme di organizzazione degli orari nei servizi
medesimi.
Art. 22. Incentivi alla sperimentazione di nuove modalità di organizzazioni
dei servizi pubblici
Agli enti pubblici che apportano rilevanti modifiche dell’organizzazione del lavoro al fine di conseguire migliore efficienza e maggiore celerità dei
servizi, verranno riconosciute le agevolazioni di cui (...)
TITOLO VI
Disposizioni finali
Art. 23. Ambito di applicazione
1. Ferma restando l’esigenza di tutelare le condizioni di salute e di sicurezza di tutti i lavoratori, la presente legge non si applica:
a) ai dirigenti, ai quadri, agli impiegati direttivi e, nel settore del credito ed assimilati, al personale direttivo;
b) ai lavoratori addetti ai servizi domestici di cui all’art. 1 della legge 2
aprile 1958, n. 339;
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c) al personale laico delle chiese di culto;
d) nei casi in cui l’estensione e collocazione temporale della prestazione
nell’arco della giornata e della settimana non è contrattualmente vincolata e la
prestazione stessa si svolge prevalentemente al di fuori dei locali dell’azienda.
2. Per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co.
2, del Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e delle imprese esercenti
servizi pubblici anche in regime di concessione, nonché per il personale navigante, le disposizioni della presente legge si applicano, salvo che la materia sia diversamente disciplinata, da apposite norme di legge o di regolamento o di contratto collettivo.
Art. 24. Regimi transitori di orario
Per un periodo di 36 mesi successivo alla data di entrata in vigore della
presente legge, viene considerato lavoro straordinario, in deroga agli artt. 1 e
3, quello eccedente di due ore settimanali l’orario normale di lavoro stabilito
dal contratto collettivo.
Art. 25. Nullità di patti contrari
È nullo ogni patto contrario alle disposizioni della presente legge.
Art. 26. Abrogazioni
Sono abrogate tutte le disposizioni legislative, amministrative, regolamentari in contrasto con le norme della presente legge.
TITOLO VII
Sanzioni
Art. 27. Violazione dei limiti massimi di orario
L’inosservanza dei limiti massimi di orario di cui agli artt. 1 e 4 o della
disciplina del lavoro straordinario di cui all’art. 3, è punita con una sanzione
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amministrativa a carico del datore di lavoro pari a lire (...) per ogni lavoratore interessato e per ogni ora di lavoro prestato oltre il limite massimo.
Art. 28. Violazione della disciplina concernente i riposi
1. La violazione della disposizione contenuta negli artt. 2 e 6 è punita
con sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro pari a lire (...) per
ogni lavoratore e per ogni ora di lavoro sottratta al suo riposo oltre il limite
minimo.
2. La violazione della disposizione contenuta nell’art. 7 è punita con
una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro pari a lire (...) per
ogni lavoratore e per ogni giornata consecutiva di lavoro oltre la sesta, fino
ad un massimo di lire (...) per ciascuna serie consecutiva di 12 giornate di lavoro.
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II. POSIZIONI DELLE PARTI SOCIALI
SULLA BOZZA DI D.D.L. IN MATERIA DI
“TEMPO DI LAVORO
E FLESSIBILITÀ DELL’ORARIO”
85
CGIL
Nota in materia di “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario”
In materia di riduzione dell’orario di lavoro e più in generale di una
politica dei tempi che dovrà rideterminare il rapporto tra tempo di lavoro e
tempo di vita, in tutti i suoi aspetti, compreso quello di cura, la CGIL intende rilanciare con grande determinazione il suo impegno.
Il Sindacato deve infatti condurre una riflessione radicalmente innovativa sui tempi di lavoro e sul loro rapporto con i tempi di vita di donne e uomini.
C’è, da una parte, l’enorme crescita della produttività del lavoro dovuta alla innovazioni tecnologiche e organizzative che, avviate nella produzione industriale e in progressiva estensione nei servizi e nella Pubblica Amministrazione, sopprimono assai più occasioni di lavoro di quante ne introducano.
Nello stesso tempo la crescita quantitativa di prodotti, merci, consumi
individuali incontra un limite naturale su scala planetaria, dopo che ha già
manifestato la sua insostenibilità sociale anche in Paesi economicamente solidi.
Inoltre è ormai diffusa la convinzione che solo una più elevata qualità
delle relazioni sociali, sostenute dall’accesso a diritti irrinunciabili, possa valorizzare quelle facoltà che sono lasciate inespresse in un assetto del lavoro
sempre più eterodiretto.
Sono contemporaneamente in discussione i margini di compromesso
che erano presenti nelle crisi sociali precedenti, e i diritti di cittadinanza che
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solo il possesso di un lavoro può far valere: la salvaguardia dell’ambiente e
il diritto alla salute connessa alla qualità del vivere individuale e collettivo;
un sistema sociale che riconosca l’attività di riproduzione e promuova nuovi
tipi di consumo sociale.
La risorsa strategica da cui dipendono diverse soluzioni e sul cui governo è aperto uno scontro duro è il tempo, sia quello di lavoro, da cui sono
espropriati lavoratrici e lavoratori in una organizzazione fortemente competitiva, sia quello legato alla riproduzione sociale e alla propria vita, cui non è
riconsegnata sufficiente autonomia e che è invaso dalla logica mercantile. La
requisizione del tempo dei lavoratori riguarda un passaggio di pertinenza
squisitamente sindacale e come tale deve essere oggetto di iniziativa adeguata da parte del sindacato.
Lo sviluppo del trattamento delle informazioni in tempo reale e a distanza ha consentito di rendere produttivi anche gli intervalli di tempo tra diverse operazioni.
Chi sta lavorando fornisce la propria attenzione e, quindi, il proprio
tempo a procedure codificate che, elaborate da calcolatore, consentono di ottenere una qualità più elevata, una produzione od un servizio in minor tempo
e con minor numero di occupati. Queste innovazioni comportano un grande
aumento di produttività ed occorre che attraverso la contrattazione i benefici
siano redistribuiti a favore dell’occupazione e del miglioramento della condizione di lavoro.
È la contrattazione di quel tempo reso disponibile dalla crescita di produttività che rende possibile una riduzione generalizzata dei tempi di lavoro.
Anche perché accade che chi già è occupato tende a lavorare più a lungo,
mentre crescono la precarizzazione e il lavoro destrutturato e, di conseguenza, si riducono complessivamente i posti di lavoro.
Occorre quindi riprogettare il tempo di lavoro per superare i tempi
vuoti della disoccupazione e quelli dello straordinario e del supersfruttamento attraverso turni, per fare emergere i lavori precari e informali, e per giungere a riconoscere il lavoro di riproduzione sociale.
Il Sindacato non può certo limitarsi a tutelare quote sempre più ristrette
di garantiti e quindi deve ricercare un collegamento tra riduzione del tempo
di lavoro e la redistribuzione tra i sessi del tempo della cura e la fruizione
del tempo di vita e del tempo libero, che imponga, assieme ad una svolta
sulla questione della disoccupazione e un rinnovo della strategia del welfare.
Un progetto quindi non solo per il settore industriale, ma una estensione rivendicativa ai servizi, al territorio, ai pensionati, che saldi gli interessi del la-
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voro produttivo con settori del volontariato e con il consolidamento dell’economia sociale.
Per tutto ciò la CGIL ha deciso di assumere la riduzione dell’orario di
lavoro e la contrattazione della rimodulazione degli orari come opzione di
lungo periodo e come fulcro per costruire una nuova organizzazione della
vita lavorativa e sociale a cui orientare organicamente l’iniziativa interconfederale, la contrattazione nazionale di categoria, di territorio e soprattutto nei
luoghi di lavoro. È in questo quadro che il sindacato deve anzitutto porre in
campo una precisa strategia rivendicativa con al centro la riduzione dell’orario di lavoro.
Di qui la scelta della CGIL di porre la rivendicazione della riduzione
generale dell’orario di lavoro a 35 ore senza riduzione di salario come uno
degli strumenti attuativi fondamentali di questa strategia. Strategia che va
collegata alla contrattazione della organizzazione del lavoro, della sua qualità e sicurezza, ad un nuovo controllo delle lavoratrici e dei lavoratori sul
tempo della loro vita, alla redistribuzione tra i sessi del tempo della cura. La
CGIL ritiene quindi con decisione una strategia rivendicativa che, partendo
dal controllo degli orari di fatto abbia al centro la riduzione dell’orario di lavoro e soprattutto si predisponga a praticarla.
La riduzione deve essere generalizzata perché deve coinvolgere tutti,
ma contemporaneamente deve essere capace di realizzarsi attraverso una
forte articolazione che si misuri coi tassi di produttività differenziati per settori, per area, per azienda, individuando per ciascuna realtà le modalità ed i
tempi di attuazione della distribuzione e della riduzione dell’orario di lavoro.
Questo obiettivo può essere conseguito entro quantità e tempi massimi definiti.
Viene così superata una falsa contrapposizione tra generalizzazione e
articolazione, perché una strategia generale può essere realizzata attraverso
una attuazione articolata e attenta agli spazi reali in cui praticarla.
Si può già oggi immaginare di andare oltre e l’obiettivo verso cui puntare è la realizzazione di ulteriori riduzioni d’orario, attraverso più modelli di
riduzione. In questo ambito può essere utile anche considerare la possibilità
di arrivare anche alle 30 ore anche realizzando questa riduzione di orario
non a parità di salario.
L’orizzonte strategico della riduzione dell’orario di lavoro va coordinato dal sindacato a livello europeo nel quadro di una grande iniziativa che
abbia una sede di discussione e di promozione efficace nella CES e va raccordato alla promozione di strumenti legislativi di sostegno a livello comunitario.
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La riduzione settimanale nell’ambito della riduzione dell’orario annuo
individuale per tutti i lavoratori può essere perseguita, quindi, tenendo conto
delle specifiche condizioni di lavoro e ricorrendo a tutti gli strumenti contrattuali e di legge che normano la durata della prestazione, distribuendo in
questo modo il lavoro tra il numero più elevato di occupati che possono scegliere il loro impiego a pieno tempo o a regimi orari ridotti in un sistema di
tutele e diritti per tutti.
La riduzione degli orari deve riguardare anche una riorganizzazione
complessiva degli orari dei servizi, dei trasporti ed una modulazione dei
tempi sul territorio ed, in particolare, nelle città. È per cogliere questa opportunità che occorre impostare vertenze cittadine, che facciano riferimento alla
legislazione che affida ai sindaci poteri di proposta e di coordinamento. Nei
settori pubblici, inoltre, la riorganizzazione degli orari riguarda sia la riorganizzazione del servizio con la valorizzazione del lavoro pubblico, che un
rapporto con i cittadini-utenti finalizzato al miglioramento della qualità offerta dai servizi pubblici.
Nella pratica la riduzione degli orari e la politica dei tempi sarà declinata in tutti gli ambiti della contrattazione sindacale, dall’azienda al territorio, sviluppando anzitutto un’azione coerente di direzione ed iniziativa confederale. Inoltre è necessario un quadro legislativo di sostegno che ne possa
favorire il decollo.
Per quanto riguarda il secondo livello contrattuale questa linea deve essere in grado di ottenere il pieno rispetto degli orari contrattuali anche attraverso la riduzione degli straordinari e l’avvio contestuale di nuove assunzioni. Inoltre va contrattato ai fini di riduzione dell’orario l’aumento di produttività conseguente ad un utilizzo più esteso degli impianti ai fini di una riduzione netta delle prestazioni individuali.
Nei servizi il controllo degli orari di fatto va coniugato con una loro
equa redistribuzione, anche attraverso una modalità di riduzione delle giornate lavorative come effettiva riduzione della quantità di tempo personale
necessario per il proprio lavoro, date le particolarità di questi settori. Nel caso di ristrutturazioni, gli strumenti di redistribuzione del lavoro (contratti di
solidarietà) vanno utilizzati con modalità coerenti con le caratteristiche dei
singoli comparti, evitando il ricorso agli strumenti finalizzati all’espulsione
dal lavoro (CIGS, mobilità, prepensionamenti).
Le categorie nazionali debbono svolgere un ruolo essenziale nella linea della riduzione degli orari di lavoro. Una quota rilevante di risorse dei
prossimi rinnovi contrattuali nazionali va destinata, a partire già dal pros-
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simo rinnovo, al risultato di distribuzione al massimo dell’arco di due rinnovi contrattuali l’onere di raggiungere le 35 ore senza riduzione di salario.
Le Confederazioni dovrebbero impegnarsi anzitutto in un’iniziativa per
ottenere l’istituzione di un Fondo nazionale finalizzato alla redistribuzione e
riduzione dell’orario, finanziato anzitutto con un investimento apposito dello
Stato e con contributi derivanti da un maggior costo che occorre far gravare
sull’effettuazione del lavoro straordinario e attraverso la graduale riconversione di strumenti e risorse pubbliche che oggi servono a finanziare essenzialmente l’uscita dal lavoro.
È indispensabile infatti una scelta politica precisa della collettività per
sostenere socialmente, anche con l’uso di risorse, la riduzione dell’orario di
lavoro.
L’intervento della collettività a sostegno della riduzione dell’orario di
lavoro potrebbe avere un corrispettivo almeno parziale nella partecipazione
ad iniziative di aggiornamento e formazione permanente, costituendo così
un’occasione di accrescimento del patrimonio culturale e formativo di tutta
la collettività.
Così occorre sviluppare un’iniziativa affinché si arrivi ad una nuova
legislazione che riprenda e aggiorni i fondamenti della proposta di legge di
CGIL CISL UIL per la modifica dell’attuale legislazione sugli orari di lavoro.
Questa iniziativa deve avere come obiettivo quello di modificare la
legge n. 473/1925 che definisce a 48 ore l’orario di legge settimanale nel nostro Paese per ricondurlo a 39 ore, disincentivando anche così il ricorso al lavoro straordinario che verrà effettuato oltre questo nuovo limite da definire
per legge.
In questa direzione contribuiscono a creare il terreno necessario di riforma legislativa iniziative come quella del CNEL e proposte di legge presentate o in corso di presentazione su questa materia. Infatti una legislazione
di indirizzo e di sostegno è necessaria ed utile e occorre che il sindacato ne
comprenda tutte le potenzialità positive superando un orizzonte a volte troppo ripiegato sulle sue più dirette condizioni di iniziativa. In questo senso può
essere utile anche l’occasione del recepimento delle direttive comunitarie in
materia di orari.
Occorre infatti non limitarsi ad una registrazione burocratica delle
norme, ma al contrario si può prendere lo spunto per una riforma più complessiva della legislazione degli orari di lavoro. Va infatti rigettato l’atteg-
91
giamento di chi pensa che le normative comunitarie siano una sorta di tetto, al contrario, sono una base su cui i singoli Paesi possono costruire, tenendo conto delle proprie specificità, altre e più favorevoli normative.
Questo è tanto più necessario tenendo conto che nei processi di unione europea sono, purtroppo, fino ad ora troppo deboli, quando non ignorati, gli
aspetti sociali.
A. Grandi
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CISL
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
La CISL ha considerato e continua a considerare con grande favore
l’iniziativa del CNEL per una proposta di nuova normativa sulla materia del
tempo di lavoro. La nostra organizzazione ritiene infatti importante arrivare
ad un testo condiviso tra le parti sociali su un tema così rilevante per l’occupazione, per le condivisioni di vita, per la competitività delle imprese. La sede del CNEL appare la più indicata per delineare una proposta di nuova normativa, che recepisca anche la direttiva dell’Unione Europea sul tema specifico.
La bozza oggi in discussione è frutto del lungo lavoro di affinamento
condotto dagli esperti, che ha prodotto soluzioni sicuramente interessanti ed
in buona parte condivisibili.
La CISL apprezza in particolare:
- la riduzione della durata massima settimanale e la ridefinizione su orari
plurisettimanali negoziati;
- la gestione della flessibilità degli orari affidata ad una pluralità di strumenti
e la disincentivazione dello straordinario attraverso la contrattazione;
- la definizione della materia delle pause, dei riposi e del lavoro notturno con
riferimento ai vincoli di tutela della salute e delle condizioni sociali, oltre
che di funzionalità economica;
- l’incentivazione del lavoro a tempo parziale attraverso la riduzione degli
oneri contributivi;
93
- la possibilità di fruire di congedi per la formazione permanente del lavoratore e di periodi di astensione dal lavoro per ragioni di natura familiare e
personale;
- il governo territoriale degli orari come processo di razionalizzazione degli
stessi a livello locale ed in particolare di quelli della pubblica amministrazione.
La CISL, peraltro, rileva nella bozza in discussione la mancata attribuzione ai pubblici poteri di un ruolo di stimolo ai processi di riorganizzazione-riduzione degli orari di lavoro.
Non sono infatti previste:
- la revisione della struttura degli oneri sociali che, a parità di imposizione
complessiva sul costo del lavoro, favorisca l’accesso a regimi di orari ridotti, disincentivi lo straordinario e faciliti la contrattazione delle riduzioni di orario;
- la costituzione di un Fondo per la riorganizzazione e la riduzione degli orari di lavoro.
La CISL, inoltre, rileva che le organizzazioni imprenditoriali, ed in
particolare la Confindustria, hanno oscillato tra timide aperture e fragorose
retromarcia in fase con le alterne vicende politiche dell’ultimo anno di storia
del Paese. È prevalsa alla fine una netta chiusura delle posizioni con l’arroccamento alla difesa di una flessibilità sregolata e priva di respiro strategico.
Sulla base di tali considerazioni si prende atto che non sembrano sussistere al momento le condizioni per l’adozione del d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario”. Il CNEL, comunque, dovrà essere impegnato nella nuova consiliatura a proseguire il lavoro già svolto e pervenire
ad una proposta che abbia il consenso delle parti sociali. Questo è l’impegno
che la CISL assume e che intende perseguire con la propria delegazione.
94
UIL
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
La UIL considera sostanzialmente condivisibile l’impianto del testo del
d.d.l. recante norme in materia del tempo di lavoro e flessibilità dell’orario,
con gli aggiustamenti che si riserva di proporre in forma più dettagliata e
che, di seguito, richiamiamo sinteticamente. Il carattere degli aggiustamenti
non modifica i contenuti fondamentali dell’impianto del d.d.l. stesso, diversamente dalle posizioni espresse da alcune parti sociali presenti nel CNEL.
In considerazione di tale fatto, che ha fino ad ora impedito la delibera
formale dell’iniziativa di legge CNEL, la UIL - quale contributo alla prosecuzione del dibattito in materia - ripropone l’opportunità che la legge affronti anche il tema della redistribuzione del lavoro, con ciò favorendo e sostenendo una strategia per l’occupazione collegata alla riduzione mirata e supportata della durata settimanale del lavoro.
Questa strategia deve essere certamente affidata alla contrattazione fra
le parti sociali, ma - secondo noi - lo Stato dovrebbe contribuire a creare un
contesto favorevole e incentivante le riduzioni di orario contrattate tra sindacato e imprese, strettamente finalizzate all’assunzione di occupazione aggiuntiva o al contenimento della contrazione di posti di lavoro.
La proposta di legge dovrebbe allora prevedere la costituzione di un
Fondo Nazionale di sostegno per finanziare i costi sostenuti dalle imprese
derivanti dall’introduzione di orari di lavoro inferiori a quanto previsto negli
accordi nazionali di categoria, nelle aziende del Mezzogiorno e di altri bacini a rilevante emergenza occupazionale.
Tale Fondo potrebbe essere alimentato degli introiti derivanti dalle
maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, da un contributo aggiunti-
95
vo a carico dei datori di lavoro pari al .. % della retribuzione delle ore prestate oltre le 35 ore settimanali e fino a 40 ore, nonché da un ammontare di
risorse pubbliche più o meno corrispondente all’ammontare dei prelievi
preindicati.
Se il dibattito in seno al CNEL dovesse prendere in considerazione tale
proposta, per altro già apparsa nelle prime stesure del d.d.l., la UIL presenterà un testo di merito che definirà più compiutamente e normativamente detto
punto.
Per quanto riguarda gli aggiustamenti che riteniamo utile apportare
all’attuale impianto del d.d.l., così come è venuto a determinarsi, riteniamo
che essi debbano riguardare:
1) Una più puntuale specificazione del concetto di “lavoro effettivo”
per evitare conflitti interpretativi in sede contrattuale; in particolare riteniamo che le pause per mensa e per bisogni fisiologici dovrebbero essere considerate parte della durata normale dell’orario giornaliero.
2) L’indicazione che, in assenza di costituzione delle RSU, la consultazione per la distribuzione dell’orario dovrebbe essere estesa alle organizzazioni sindacali territoriali firmatarie dei contratti nazionali.
3) Un più puntuale raccordo tra il concetto di lavoro notturno - indicato
dalla presente ipotesi di legge - con quanto invece stabilito normalmente dalla contrattazione tra le parti.
4) L’armonizzazione dell’articolato della ipotesi di legge CNEL con le
nuove disposizioni comunitarie in materia di sicurezza sui posti di lavoro.
5) L’utilizzo solo a seguito di contrattazione tra le parti delle possibili
diverse forme di “part-time” in modo tale che siano salvaguardate oltre che
le convenienze dell’azienda anche le necessità del prestatore d’opera interessato.
96
CISNAL
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario”.
Si ritiene preliminarmente di sottolineare l’opportunità dell’iniziativa
legislativa del CNEL sulla materia oggetto del disegno di legge. Considerata
la palese inadeguatezza della normativa vigente in relazione sia all’attuale
realtà economica e sociale italiana sia agli orientamenti delle istituzioni comunitarie, la sede CNEL sembra quanto mai idonea a proporre soluzioni
normative autorevoli anche perché concordate tra le parti sociali. Visto che
nella fase presente il mancato accordo tra le parti stesse impedisce la formalizzazione dell’iniziativa legislativa del CNEL, la CISNAL auspica che nella
rinnovata consiliatura si pervenga in tempi brevi alla conclusione dell’iter da
tempo iniziato.
Nel merito del documento in esame la CISNAL conferma il proprio
parere di massima positivo condividendo sia l’impostazione generale, sia la
disciplina proposta per i singoli istituti.
Ovviamente ciò non esclude che nel riesame della materia in sede
CNEL potranno apportarsi modifiche o integrazioni che siano peraltro tali da
non alterare le linee fondamentali della proposta. Allo stato si rappresenta
l’opportunità che laddove è previsto il rinvio alla contrattazione aziendale
tramite le rappresentanze sindacali, sia anche stabilito che, in mancanza delle stesse, la trattativa avvenga con le organizzazioni territoriali di livello territoriale.
97
CONFINDUSTRIA
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
Con riferimento a quanto richiesto con telex del 13 c.m., esponiamo
qui di seguito le osservazioni della Confindustria relative alla bozza di d.d.l.
su “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario” consegnata nella riunione della Commissione dell’Informazione il 5 ottobre u.s.
La valutazione di Confindustria sul testo in questione è fortemente critica.
Anche nella sua attuale versione, infatti, il testo conserva intatti gli
aspetti che ci avevano indotto, nella comunicazione indirizzata il 20 giugno
scorso al Presidente della Commissione dell’Informazione ed alla Segreteria
della Commissione stessa, a stigmatizzare gli effetti negativi che l’introduzione di una disciplina come quella ipotizzata avrebbe sulla gestione aziendale, sia in termini di maggiori costi, sia in termini di maggiore rigidità.
A tale proposito, basti qui sottolineare la improponibilità di una disciplina che, invece di cogliere gli elementi di modernizzazione contenuti nella
direttiva n. 93/104, come ad esempio il concetto di orario medio per la definizione del limite legale della prestazione lavorativa, sostituisce gli attuali limiti legali con nuovi limiti (funzionali ad un disegno di riduzione dell’orario
di lavoro che non gode del necessario, generale consenso), ed azzera di fatto
un istituto di creazione contrattuale, come il lavoro supplementare.
L’assetto che traspare dalle norme relative ad orari e straordinario, in particolare, comporta un significativo incremento, rispetto ad oggi, dei costi (retributivi e contributivi) a parità di ore lavorate tra le 40 e le 48 ore settimanali.
Inoltre, vengono compressi i margini di flessibilità esistenti per fronteggiare la variabilità dell’attività produttiva, annullando uno dei termini
dello scambio (e quindi alterandone l’equilibrio) realizzato dall’autonomia
98
collettiva nell’arco degli anni, tra limitazione dell’orario di lavoro rispetto a
quello “legale”, ed agibilità delle ore comprese tra il limite convenzionale e
quello legale.
Né può obiettarsi che queste indesiderabili “opzioni” trovino un bilanciamento - che peraltro difficilmente potrebbe essere adeguato - nell’ampliamento delle possibilità per le imprese di ricorrere a formule organizzative o
di gestione degli orari più flessibili di quanto non sia oggi consentito, anzi,
non solo non si offre alle imprese maggiore articolazione di strumenti, ma si
costruiscono percorsi “obbligati” che o sono difficilmente adattabili alla
estrema varietà delle singole, concrete situazioni, come nel caso dell’orario
multiperiodale utilizzabile in difetto di disciplina collettiva applicabile, o,
quando rimessi alla contrattazione, sono per ciò stesso materia di scambio e,
quindi, di costi.
Ciò che poi appare davvero singolare è la distanza tra un testo con le
caratteristiche sin qui evidenziate e le prescrizioni della direttiva, soprattutto
ove si consideri che sperimentazione della “via” CNEL per il recepimento
della direttiva n. 93/104, era di far prevalere le ragioni e l’esperienza della
prassi - in una materia tradizionalmente di pertinenza delle parti sociali -,
sulla tendenza alle fughe in avanti che ha troppo spesso caratterizzato, sino
ad oggi, il recepimento delle direttive per le vie “ordinarie”.
L’insieme di questi elementi amplifica la percezione, da parte nostra, di
buona parte della bozza di d.d.l. come ridondante rispetto ai contenuti della
direttiva predetta, al recepimento dei quali avrebbe dovuto mirare, secondo
l’opinione da noi formalmente e tempestivamente espressa, l’iniziativa del
CNEL.
Infatti, materie come il part-time, i periodi di congedo, i congedi formativi, il lavoro cd. a coppia, la regolamentazione degli orari a livello locale,
a prescindere dal merito delle soluzioni prospettate, sono estranee alla direttiva - e quindi al provvedimento che dovrebbe recepirne i contenuti - e solo
una forzatura concettuale che noi non condividiamo può attrarle nell’orbita
di una disciplina “totalizzante” del “tempo di lavoro”, che troverebbe, se necessario, in altra sede, migliore e più appropriata collocazione.
Alla luce di tutto quanto precede, Confindustria non può che esprimere
il proprio netto dissenso sulla bozza di articolato in discussione.
99
CONFCOMMERCIO*
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
1. Si fa riferimento allo schema di disegno di legge su “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario” per confermare la posizione contraria della Confcommercio già espressa in numerose occasioni.
Si richiamano in tal senso le nostre note allegate del 17.1.94 e del
5.10.94 attraverso le quali, sia pure prendendo atto del lavoro svolto in sede
CNEL, si era già avuta occasione di ribadire la nostra posizione contraria.
Non può non essere posto in rilievo, infatti, come il disegno di legge,
orientato fra l’altro alla flessibilità dell’orario, concretizzi di fatto un sistema ampiamente più rigido di quello in vigore, prestando poca attenzione
agli aspetti della direttiva n.93/104 che avrebbero potuto creare maggiori
elasticità.
La riduzione secca a 40 ore dell’orario settimanale, sia pure già raggiunto praticamente da tutte le contrattazioni collettive, toglie ogni spazio
per gestire in maniera pattizia ogni forma di flessibilità che si ponga tra le 40
e le 48 ore settimanali.
L’obiettivo di rideterminare, attraverso il disegno di legge stesso, l’elasticità così sottratta alla gestione delle parti sociali, precostituendo alcuni
prototipi di distribuzione “multiperiodale” dell’orario di lavoro settimanale,
non è certamente in grado di soddisfare le diverse situazioni che possono
presentarsi nei differenti settori interessati, a fronte delle molteplici esigenze
che si possono presentare, anche in relazione a situazioni economiche generali di carattere variabile.
––––––––––
* Per questa Confederazione vengono riportate le note inviate rispettivamente in
data19.10.94 (1); 5.10.94 (2) e 17.1.94 (3).
100
Totalmente al di fuori delle finalità cui il provvedimento avrebbe dovuto dare risposta si pongono, infine, le disposizioni in materia di “salute e sicurezza”, di “periodi di congedo”, di “disciplina degli orari dei negozi”, in
quanto per ciascuno di questi temi sembra opportuna una più approfondita
analisi specifica attraverso appositi strumenti normativi.
Sulla base di tutte le considerazioni svolte e delle ulteriori indicazioni
fornite con i documenti allegati, la Confcommercio è pertanto costretta a
confermare la posizione negativa precedentemente espressa.
2. Con riferimento all’ultima bozza di disegno di legge in materia di
“Tempo di lavoro e flessibilità” (12 ottobre 94), andrebbero ancora fatte numerose osservazioni di carattere tecnico al fine di migliorarne o chiarirne il
contenuto. Tuttavia, limitandoci agli aspetti di carattere generale, le osservazioni che ci costringono ad assumere una posizione ancora una volta contraria al definito varo della bozza sono le seguenti.
In tema di riposo settimanale, non esiste alcun motivo di ricomprendere in questa disciplina l’indicazione delle attività per le quali tale riposo può
cadere in giornata diversa dalla domenica.
Queste sono infatti oggetto della Legge 22 febbraio 1934, n.370 e meritano pertanto una analoga separata forma di approfondimento. (In particolare, sarebbe comunque necessario riprendere integralmente, fra le altre,
l’espressione che individua le c.d. “altre attività per le quali il funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche o a ragioni di pubblica utilità”).
Va interamente stralciato il Titolo II: Disposizione in materia di salute
e sicurezza e per il momento rinviata ogni discussione.
Ciò considerata la recente approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del Decreto Legislativo che recepisce le otto Direttive Comunitarie
sulla sicurezza e la prevenzione dei lavoratori nei luoghi di lavoro che risponde già per molti aspetti ai problemi esaminati nel Titolo II citato.
* Fuoriesce completamente dall’obiettivo della normativa in esame quella
riguardante i “periodi di congedo”.
Il primo, a richiesta dei lavoratori (art. 15), andrà affrontato semmai
nell’ambito delle contrattazioni collettive, a fronte di specifiche rivendicazioni in tal senso.
Il secondo, a fini formativi (art. 16), potrà essere valutato nelle apposite
sedi, nell’ambito della materia della formazione professionale.
101
Perché non parlare allora, in questa normativa, del lavoro a termine, di
quello interinale e delle altre forme di lavoro atipico che riguardano, pur
sempre, modalità applicative della gestione dei tempi di lavoro?
* La medesima osservazione vale per la “disciplina degli orari a livello locale” che rappresenta una tematica così vasta e complessa da meritare ben
altra meditazione e attenzione, nelle sedi opportune, di quanto non possa
essere esaurito qui con un solo articolo.
* Infine, allo scopo di non alterare profondamente gli equilibri attualmente
in vigore in tema di esclusioni, deve essere assolutamente riportata la dizione del Reggio Decreto del 1923 e cioè: la presente legge “non si applica al personale direttivo delle aziende”, senza la pretesa di voler individuare, per tutti i settori, le figure professionali che rientrano in questa formulazione (art. 23, lett. a).
Ciò sembra, fra l’altro, assorbente dell’esigenza particolare fatta presente,
evidentemente, dal settore del credito e recepita nella dizione utilizzata
(“..ai dirigenti, ai quadri, agli impiegati direttivi e, nel settore del credito
ed assimilati, al personale direttivo”).
3. Dall’analisi della proposta di legge in oggetto si evince la volontà
del CNEL di lasciare spazio alla contrattazione collettiva per la determinazione e la flessibilizzazione dell’orario di lavoro. Ciononostante, sarebbe opportuno non dare seguito, per il momento, alla proposta di legge, per i motivi che di seguito si espongono:
- la proposta di legge introduce un elemento di minore flessibilità, in tema
di orario di lavoro, rispetto alla situazione attuale. La legislazione vigente,
infatti, nonostante risalga al 1923, si dimostra, nel contesto della situazione economico-occupazionale italiana, di grande attualità e modernità. Essa prevede infatti un tetto massimo di 48 ore settimanali di lavoro ordinario. Al di sotto di questo tetto, la contrattazione collettiva ha ampi margini
di autonomia per articolare in vario modo l’orario lavorativo settimanale e
plurisettimanale. Prevedere un tetto massimo di 40 ore settimanali, con la
possibilità di intervenire sulla flessibilità dell’orario su scala plurisettimanale, significa ottenere risultati analoghi a quelli che l’attuale legislazione
consente, con l’introduzione, però, di un tetto massimo più rigido di quello in vigore.
Inoltre, anche imboccando la strada della gestione flessibile dei tempi di
lavoro, la conseguente necessità di definire per legge limiti predeterminati
di quantità e durata dei periodi di superamento dell’orario, rispetto a quello giornaliero e settimanale, oltre che modelli anch’essi predeterminati “di
102
organizzazione e distribuzione dell’orario” per fasce, si tradurrebbe comunque in un irrigidimento della normativa vigente. Altro infatti è rivedere, eventualmente, in un contratto nazionale successivo quanto previsto in
una precedente tornata, ove non si fosse dimostrata capace di andare realmente incontro alle esigenze di lavoratori ed aziende di un determinato
settore, altro è modificare una legge dello Stato che ha valore generale e
richiede procedure certamente più complesse e non sempre attuabili.
Interventi diretti ad incentivare forme di riduzione di orario contrattuale devono continuare ad avere carattere di eccezionalità e costituire soluzioni
congiunturali cui fare ricorso nei momenti di grave crisi occupazionale (contratti di solidarietà e simili).
In questo senso va pure intesa l’esigenza di eliminare i fattori disincentivanti il trattamento previdenziale del lavoro a tempo parziale per il quale
deve essenzialmente essere realizzato un criterio di proporzionalità pura senza vantaggi né svantaggi.
Un parere favorevole deve, invece, esprimersi per altre forme di incentivazione delle flessibilità dotate di maggiore strutturalità che si muovano
con l’obiettivo della flessibilizzazione dell’intero sistema della gestione degli orari (ad esempio la maggiore diffusione del part-time e, con esso, delle
clausole elastiche).
In questa direzione va tenuto conto della grande rilevanza dell’aspetto
qualitativo della prestazione cui si deve tendere a livello generale, per il miglioramento della situazione economica tutta, ed in particolare caratteristico
di alcuni settori quale quello del Commercio, Turismo e Servizi, da noi rappresentato, in cui il contatto diretto con il consumatore e l’utente finale costituisce forse l’aspetto più rilevante ai fini di una maggiore produttività e di
una crescita più rapida.
Un discorso particolare va fatto per quanto riguarda le “clausole elastiche” nel part-time ove l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere esplicitamente legittimo il ricorso ad esse, da parte delle aziende, nel rispetto di
quanto disposto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 4-11
maggio 1992.
Si tratta di consentire la predeterminazione dell’orario di lavoro part-time solo nella quantità, mentre la sua articolazione (cioè la dislocazione settimanale o mensile o annuale) viene comunicata o concordata con i dipendenti
con congruo anticipo.
La recente sentenza della Corte Costituzionale ha ritenuto che la corretta interpretazione della legge n. 863/84 non consenta l’adozione di clausole elastiche sulla base del presupposto che una decisione unilaterale sull’uti-
103
lizzo della forza lavoro è illegittima; inoltre la clausola elastica sembrerebbe
ledere il diritto del lavoratore dipendente di salvaguardare spazi certi per altre attività lavorative o familiari.
Riteniamo viceversa che la possibilità di stipulare clausole elastiche
non contravvenga a principi giuridici generali dell’ordinamento - ove utilizzata consensualmente ed entro i limiti concordati fra le parti sia pure di volta
in volta - ma svolga una funzione coerente rispetto ad una reale volontà di rilancio dell’occupazione anche attraverso la flessibilità della gestione degli
orari.
Una ipotesi di modifica della legge n. 863/84 in tal senso viene riportata come allegato n. 1.
Infine, gli interventi che occorrerebbe porre in essere sulla materia
dell’orario di lavoro sono essenzialmente incentrati sulla necessità di razionalizzare la disciplina legislativa vigente con riferimento a determinati
aspetti che risultano ormai solo di ostacolo all’occupazione, quali ad esempio:
- il limite giornaliero massimo di 8 ore, dopo il quale scatterebbe lo straordinario; è sempre più frequente, infatti, l’ipotesi in cui l’articolazione settimanale dell’orario, anche inferiore alle 40 ore, preveda giornate con più
di 8 ore a fronte di turni di riposo di giorni interi o di mezze giornate;
- la forma del consenso da raggiungere al fine delle prestazioni di lavoro
straordinario, secondo i dettami della legge del 1923, che potrebbe essere
in vario modo demandata alla contrattazione collettiva;
- la revisione del “lavoro notturno dei fornai” disciplinato ancora dalla Legge 22 marzo 1908, n. 105, e successivamente sottoposto a modifiche solo
marginali che non consentono, per la categoria dei panificatori, di far
fronte alle necessità imposte dalla società in cui oggi viviamo.
104
,
ASSICREDITO
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
Con riferimento allo schema di disegno di legge predisposto in sede
CNEL in tema di “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario”, si possono prospettare le seguenti principali osservazioni.
Art. 1 Durata massima settimanale
Si ritiene opportuno riformulare la norma, riferendo la relativa disciplina alla nozione di “lavoro effettivo”, di cui all’art. 1 del r.d.l. n. 692 del
1923; pertanto, al 1º comma va precisato che “la durata massima settimanale
di lavoro non potrà eccedere le 40 ore di lavoro effettivo”. Per completezza
si rammenta che la legge del 1923 prevede anche un limite alla durata giornaliera (8 ore), che potrebbe essere riproposto.
Non sembra necessario che la norma, dopo aver fissato il predetto limite massimo, rimetta alla contrattazione collettiva (nazionale e/o aziendale) la
possibilità di determinare limiti inferiori.
Detta facoltà - una volta prestabilito il c.d. “tetto” da parte del legislatore - è da considerare in re ipsa.
Per queste ragioni si suggerisce di depennare, al 2º comma, l’espressione “I contratti collettivi nazionali di lavoro possono prevedere che...”. Di
conseguenza anche il 3º comma potrebbe essere depennato.
È necessario coordinare la disposizione contenuta nel 5º comma affinché risulti coerente con il resto della norma, premettendo l’espressione “Con
105
riferimento alla durata multiperiodale ...”, e ciò in quanto le limitazioni dalla
stessa apprestate assumono un congruo significato solo in tale visuale.
Art. 2 Pause di lavoro
Una prima considerazione di ordine generale concerne le diverse
espressioni usate per indicare i momenti di interruzione della prestazione lavorativa (si parla di “pausa”, “sosta”, “riposo intermedio”).
Al fine di evitare dubbi sul piano squisitamente lessicale, parrebbe opportuno ricorrere ad un unico termine al fine di favorire una più completa
uniformità: in linea con la Direttiva si suggerisce di adottare “pausa”.
Al 1º comma, dovrebbe poi essere eliminato il riferimento alla contrattazione aziendale e precisato “ferma restando la normale prestazione di lavoro giornaliero”.
In ordine allo scopo per il quale deve essere garantita la pausa successiva a sei ore di lavoro, sembra riduttivo ritenere che questo debba esclusivamente essere individuato nella esigenza di “attenuare il lavoro monotono e
ripetitivo”: pertanto se ne propone il depennamento.
L’ipotesi di cui alla lett. b) del comma 3º deve essere riformulata eliminando la previsione “dal luogo di residenza”, ciò in quanto l’esclusione dal
computo ai fini del superamento dei limiti di durata del tempo impiegato per
recarsi al luogo di lavoro deve, ragionevolmente, valere a prescindere dalla
località di partenza.
Al 4º comma il computo nell’orario di lavoro del tempo necessario a
sottoporsi a visite mediche dovrebbe essere riferito esclusivamente alle visite mediche “professionali” e circoscritto a quelle svolte “durante l’orario di
lavoro” stesso.
Art. 3 Lavoro straordinario
Per ragioni sistematiche, il 1º comma dovrebbe essere integrato nel
senso di riferire il lavoro straordinario, oltre che all’ipotesi di cui all’art. 1
(commi 1º, 2º e 4º) anche all’art. 4, 2º comma, relativo al lavoro discontinuo.
La previsione, nel suo complesso, non è sufficientemente coordinata ed
armonica. In special modo le previsioni di cui ai commi 3º e 4º appaiono eccessivamente restrittive, rispetto alle esigenze di una più flessibile gestione
nell’organizzazione dell’impresa.
106
Per snellire quindi la norma, mantenendo comunque la ratio ad essa
sottesa, si potrebbe eliminare il secondo periodo del 3º comma: “in difetto di
disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso
soltanto previo accordo tra datore e prestatore di lavoro”.
Per maggior chiarezza, la prima parte del 4º comma può essere formulata nel modo seguente: “I limiti di cui al 2º e 3º comma possono essere comunque unilateralmente derogati dal datore...”.
Il 5º comma potrà infine prevedere che: “Con le modalità fissate dai
contratti collettivi nazionali di lavoro, il lavoro straordinario è computato a
parte e compensato con una maggiorazione retributiva - tale che la remunerazione dello stesso sia effettivamente superiore a quella del lavoro ordinario
- o con una riduzione dell’orario in diversa giornata o settimana, salvi comunque i limiti di cui all’art. 1, comma 4º”.
Deroghe ai limiti di legge in tema di prestazione di lavoro straordinario
potrebbero comunque essere preidentificate per “eventi specifici” e per “circostanze eccezionali e imprevedibili”, da comunicare preventivamente
all’Ispettorato provinciale del lavoro.
Art. 4 Lavoro discontinuo o di semplice attesa e custodia
Per una più conferente dizione, al primo comma si potrebbe parlare di
“mansioni che richiedono una prestazione discontinua” e, per le ragioni già
illustrate all’art. 1, dovrebbe essere eliminata la locuzione “salvo migliori
condizioni previste dai contratti collettivi”.
Art. 7 Riposo settimanale
Al 2º comma, si suggerisce di eliminare il riferimento alla contrattazione “anche aziendale”.
Art. 8 Ferie annuali
Al 1º comma si ritiene opportuno chiarire il riferimento alle “quattro
settimane lavorative” attraverso l’ulteriore indicazione (all’uopo fatta precedere da un “ovvero”) del numero delle “giornate lavorative”; si propone
quindi di fare riferimento a “20 o 24 giorni, rispettivamente, nei casi di distribuzione settimanale dell’orario su 5 o 6 giorni”.
107
Circa il divieto di cui al 2º comma - relativo alla c.d. “monetizzazione”
delle ferie eventualmente non godute - dovrebbe risultare chiaro che esso
concerne esclusivamente il quantitativo stabilito dal legislatore al 1º comma,
con esclusione di ogni integrazione contrattuale o altro genere di permessi,
ex festività, etc.
In ordine alla previsione concernente il rapporto ferie-malattia, è bene
innanzitutto sostituire l’espressione “infermità” con quella giuridicamente
più conferente di “malattia”, unitamente alla quale si potrebbe far riferimento a “qualunque patologia anche di natura traumatica”.
Sarebbe poi opportuno riformulare il 3º comma nel senso che l’effetto
sospensivo sia riferito alle sole patologie comportanti ricovero ospedaliero.
In ordine all’obbligo di comunicazione - di cui al 4º comma - è utile
stabilire che il lavoratore debba provvedervi “entro e non oltre il giorno successivo all’insorgere della malattia” e che la stessa venga “documentata mediante idonea certificazione medica” proveniente da strutture sanitarie pubbliche competenti per il territorio.
Art. 9 Lavoro notturno
Ai fini della individuazione del “lavoratore notturno”, la disposizione di
cui al 2º comma dovrebbe essere modificata nel senso di considerare, relativamente alla seconda ipotesi, “qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo
notturno almeno la metà (e non un terzo) del suo orario di lavoro annuale”.
La previsione contenuta nel 3º comma è troppo ampia e vincolante:
con essa infatti verrebbero introdotti limiti attualmente assenti nell’ordinamento italiano e che non sembrano neppure in linea con la direttiva comunitaria, di per sé, peraltro, già piuttosto restrittiva.
Tali commi andrebbero riformulati nel senso di prevedere tra i soggetti
esclusi dall’obbligo di effettuare lavoro notturno, innanzitutto, “le donne
dall’inizio dello stato di gravidanza e fino al compimento del 7º mese di età
del bambino”.
Le ipotesi di cui ai commi 2º, 3º e 4º potrebbero essere accorpate in
un’unica previsione nella quale circoscrivere l’esclusione anzidetta “ai lavoratori, o lavoratrici, che abbiano figli di età inferiore a 12 anni o familiari a carico
con comprovata necessità di assistenza notturna, quando sia dimostrata da parte dell’Unità sanitaria locale l’impossibilità di accudire altrimenti agli stessi”.
Al 6º comma l’obbligo di consultazione dei sindacati (r.s.a. o r.s.u., ove
costituite) - al fine di introdurre il lavoro notturno - determinerebbe momenti
108
di eccessiva rigidità nella gestione da parte dell’imprenditore e dovrebbe,
pertanto, essere sostituito con l’“informativa da fornire con i criteri e le modalità previste dai contratti collettivi”.
***
Art. 22 Fondo per la riorganizzazione degli oneri di lavoro
La norma in questione merita un ulteriore e meditato approfondimento.
Nel suo complesso la nuova disciplina in tema di orario di lavoro non
dovrebbe, infatti, comportare oneri aggiuntivi a carico delle imprese, lasciando comunque impregiudicata ogni valutazione di opportunità circa
eventuali forme di riduzione dell’orario.
In ragione di quanto premesso, pertanto, si può convenire sul testo
dell’art. 22 solo dopo aver apportato allo stesso le seguenti, necessarie modifiche.
In primo luogo, il testo del 1º comma va formulato come segue, al fine
di mettere maggiormente in risalto le finalità che tramite detto Fondo si intendono perseguire:
1. “È istituito, presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale, il
Fondo di incentivazione alla riorganizzazione dell’orario di lavoro, con lo
scopo di sopperire agli oneri derivanti, per le gestioni interessate, dalla applicazione della presente legge.
Spetta, altresì, al Fondo erogare contributi a favore dei datori di lavoro,
pubblici e privati, i quali adottino regimi che comportino globalmente una
riduzione dell’orario normale contrattuale”.
A proposito, poi, della prevista alimentazione del Fondo ai sensi del
comma 2º, occorre eliminare ogni ipotesi di contribuzione aggiuntiva [lettere
a) e c)] e prevedere non una revisione della disciplina concernente il contributo ex-Gescal, bensì un’espressa abrogazione di detto contributo e la contestuale destinazione del gettito contributivo derivante dall’applicazione delle
medesime aliquote (0,70 e 0,35 rispettivamente a carico del datore di lavoro
e del lavoratore) al Fondo di cui trattasi.
Pertanto, al citato comma 2º, eliminare i testi di cui alle lettere a) e c);
cassata, poi, la lettera b), aggiungere dopo l’espressione “.... è alimentato” la
seguente frase “a decorrere dal 1º...... 1994, da un contributo pari allo 0,70%
delle retribuzioni mensili corrisposte ai propri dipendenti da parte dei datori
di lavoro privati e pubblici e da un contributo pari allo 0.35% della retribuzione mensile a carico dei dipendenti. A far tempo dalla stessa data è sop-
109
pressa la contribuzione di cui all’art. 10, 1º comma, lett. b) e c) della l. 14
febbraio 1963, n. 60, da ultimo prorogata al 31 dicembre 1995 dall’art. 1,
comma 10º, della l. 23 dicembre 1992, n. 498”. Inoltre va depennata l’intera
parentesi successiva da “(si tratta ....” a “... di disciplina)”.
Il comma 3º, al fine di precisare meglio i destinatari ed i presupposti oggettivi per l’attribuzione dei benefici economici, va così formulato: “Il Fondo
eroga contributi di incentivazione ai datori di lavoro con più di (...) dipendenti
che, anche d’intesa con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, adottino per un periodo non inferiore ad un triennio, regimi di orario di lavoro ridotto rispetto a quello applicato prima dell’entrata in vigore della presente legge, e comunque inferiore a quello di cui ai commi 1º e 2º dell’art. 1”.
Al comma 4º, in principio, dopo la parola “Il contributo...”, aggiungere
“... di cui al comma precedente...”.
Art. 25 Ambito di applicazione
La premessa della norma potrebbe essere riformulata (depennando il
corrispondente inciso di cui alla lett. a) del 1º comma) nel modo seguente:
“Ferma restando, in ogni caso, la tutela delle condizioni di salute e di sicurezza di tutti i lavoratori, la presente legge non si applica”:
Art. 27 Nullità dei patti contrari
La norma non sembra coerente con l’impianto sul quale poggia l’intero
testo normativo.
Ferma questa considerazione di carattere sistematico, si ritiene, inoltre,
che una tale previsione rischia, in concreto, di inficiare l’autonomia delle
parti nel determinare una disciplina - seppure nel rispetto dei limiti stabiliti
dal legislatore - più confacente agli interessi dei relativi settori produttivi.
Se ne propone pertanto l’eliminazione.
Art. 28 Sanzioni
Al di là di eventuali profili di dubbia legittimità che la disposizione
presenta sul piano della conformità al dettato costituzionale (art. 36, 3º comma), le finalità dalla stessa perseguite - anche per le ragioni già espresse a
110
proposito della costituzione del Fondo di cui all’art. 22 - non possono essere
condivise: la norma in questione si pone, infatti, in contrasto con la ratio ispiratrice della legge nel suo insieme, che è quella di limitare, almeno tendenzialmente, oneri economici particolarmente gravosi a carico delle aziende.
***
Si precisa, infine, che si è ritenuto di soprassedere, per il momento, da
ulteriori approfondimenti in merito alle diverse articolazioni del testo sottoposto, e fra esse e le norme in vigore, con riserva di riaffrontare la questione
in presenza di un testo coordinato nelle sue diverse componenti.
111
INTERSIND
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario”
Le modifiche introdotte nell’ultima bozza di disegno di legge sono assolutamente marginali e pertanto non in linea con le reiterate richieste di parte datoriale, intese a revisioni del testo assai incisive. Nella sostanza, infatti,
o riprendono norme del c.d. “pacchetto Mastella” - v. part-time, per il quale
è venuta meno anche la clausola di flessibilità per l’utilizzo richiesta dall’Intersind come correttivo alla recente sentenza n. 210/1992 della Corte Costituzionale - o assumono, senza la necessaria specificazione normativa, recenti
pronunce di legittimità - v. malattia insorta durante le ferie.
Di questa insistenza deve prendersi atto, ma ciò non esime dall’esprimere il più vivo rammarico per l’occasione che così si perde.
Non resta quindi che confermare, allo stato dell’elaborazione, il dissenso, già più volte dettagliatamente motivato nelle diverse sedi formali e/o tecniche nella quale si è sviluppato il confronto tra le parti presenti nel CNEL.
In via di estrema sintesi e trascurando aspetti che potrebbero apparire
di dettaglio, la formalizzazione in questa sede della dissenting opinion - secondo il metodo assunto a regola dei lavori fin dall’inizio - riguarda i seguenti punti:
A - Sul piano della struttura del provvedimento, pur ritenendo che l’obiettivo
da conseguire non debba necessariamente limitarsi al mero recepimento
della Direttiva 93/104 della Comunità Europea, non si condivide l’impianto dello schema di disegno di legge, sembrando eccessivo il numero
dei temi trattati. Inoltre, si ritiene opportuno riservare all’esclusiva o
concorrente competenza della sede contrattuale profili della prestazione
la cui definizione è affidata nello schema proposto all’intervento del legislatore (es.: riposo, effetti della malattia sulle ferie, job-sharing, ecc.);
in tale ottica appaiono superflui quanto meno gli articoli da 15 a 20.
112
B - Nel merito della bozza di articolato, che pure tiene conto dell’esigenza
di utilizzare la contrattazione collettiva in termini di flessibilizzazione
della disciplina di legge, è però tralasciata proprio una rilevante acquisizione contrattuale: il lavoro supplementare. Questo, fascia intermedia
tra lavoro ordinario e straordinario, è istituto voluto dall’autonomia collettiva nella considerazione che le aziende non possono non disporre,
sia pure in misura limitata, di uno strumento che consenta di gestire in
maniera flessibile - e senza gli oneri ed i vincoli che comporta il ricorso
al lavoro straordinario - esigenze urgenti e non prevedibili, che sono fisiologiche nell’organizzazione aziendale.
Su questo punto in particolare il dissenso è radicale, anche perché non
si comprendono le ragioni della pervicacia con la quale viene disattesa una
richiesta reiteramente rappresentata ed ampiamente motivata nelle sue origini contrattuali.
Relativamente al part-time, che indubbiamente può e deve contribuire
allo sviluppo dell’occupazione, favorendo l’incontro tra specifiche domande
ed offerte di lavoro, si ribadisce ancora una volta l’imprescindibile esigenza
di rendere l’istituto quanto più possibile strutturale nell’organizzazione lavorativa. Semplici misure di incentivazione economica dello stesso - come ipotizzato nello schema proposto - non possono modificare quell’approccio per
cui l’utilizzo dell’istituto è stato limitato solo a fronte di contingenti convenienze del lavoratore o del datore di lavoro.
Al richiamato obiettivo strutturale tendeva, invece, la proposta formulata dall’Intersind, che stabiliva due specifiche condizioni per ottenere le
previste agevolazioni: l’esclusività del rapporto e la non superabilità delle 24
ore settimanali.
Conclusivamente, va dichiarato il più ampio dissenso con riguardo agli
aspetti di costo. Va in proposito ricordato che tra i punti fermi ai quali ancorare la nuova disciplina era stato posto come prioritario quello della invarianza dei costi: invarianza che viene contraddetta in varie disposizioni che
determinano aggravi sia sul versante economico che sul piano organizzativo
(ad esempio: lavoro straordinario, congedi, lavoro a turni, ferie, ecc.).
C - Rispetto alla definizione di un articolato sistema sanzionatorio del tipo
di quello proposto, era stata rappresentata l’opportunità di disegnare un
sistema “premiale” di promozione dell’incremento dei livelli occupazionali e più funzionale all’obiettivo di fondi che si intende perseguire.
In altri termini, si ritiene debba essere abbandonato l’approccio repressivo di tipo tradizionale (sanzioni penali o amministrative), la cui inefficacia
è di tutta evidenza, per un sistema di incentivi finalizzati.
113
A.S.A.P.
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
Gentile Presidente, le comunico piena convergenza con la posizione
assunta in argomento da Confindustria (Cons. R. Fadda).
Con la circostanza, la informo che l’ASAP è stata sciolta e che la rappresentanza degli interessi sindacali del Gruppo Eni è stata trasferita a Confindustria.
114
C.A.S.A.
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
In merito alla richiesta di parere sul testo del d.d.l. sul tempo di lavoro
e la flessibilità dell’orario, esprimiamo consenso per il lavoro svolto ed
avendo partecipato alle riunioni propedeutiche alla stesura del documento in
discussione, riteniamo che le osservazioni fatte in quella sede, soprattutto sul
tema della flessibilità, siano state integralmente recepite nella stesura finale
dell’articolo.
Allo stato, quindi, in assenza di modifiche o ulteriori aggiunte, manifestiamo la nostra approvazione sul testo d.d.l. in oggetto.
115
CONFEDIR
Nota relativa alla bozza di d.d.l. in materia di “Tempo di lavoro e
flessibilità dell’orario”
In merito al d.d.l. tempo di lavoro e flessibilità dell’orario la Confedir
ritiene che, con riguardo ai contenuti, sarebbe necessario modificare la titolazione, sostituendola con la seguente.
“Tempo di lavoro e flessibilità dell’orario nell’impiego privato riguardante le mansioni non dirigenziali”.
In tal senso dovrebbe, perciò, essere abolito il comma 2 dell’art. 23.
116
MATERIALE DI DOCUMENTAZIONE
117
DIRETTIVA 93/104 CONSIGLIO U.E. CONCERNENTE
NIZZAZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO
TALUNI ASPETTI DELL’ORGA-
Il Consiglio dell’Unione Europea, visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare l’articolo 118A, vista la proposta della Commissione (1), in cooperazione con il Parlamento europeo (2), visto il parere
del Comitato economico e sociale (3);
considerato che l’articolo 118 A del trattato prevede che il Consiglio
adotti, mediante direttiva prescrizioni minime per promuovere in particolare
il miglioramento dell’ambiente di lavoro, per garantire un più elevato livello
di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori; considerando che,
a norma dell’articolo precitato, le direttive in questione evitano di imporre
vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la
creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese;
considerando che le disposizioni della direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il
lavoro (4) sono pienamente applicabili ai settori contemplati dalla presente
direttiva, fatte salve le disposizioni più vincolanti e/o specifiche contenute
nella medesima;
considerando che la “Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali
dei lavoratori”, adottata nel Consiglio europeo di Strasburgo del 9 dicembre
1989 dai Capi di Stato o di governo di undici Stati membri, in particolare al
punto 7, primo comma, al punto 8 ed al punto 19, primo comma statuisce:
––––––––––
(1) GU n. C254 del 9.10.1990, p. 4.
(2) GU n. C72 del 18.3.1991, p. 95 e decisione del 27 ottobre 1993 (non ancora
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale).
(3) GU n. C60 dell’8.3.1991, p. 26.
(4) GU n. L 183 del 29.6.1989, p. 1.
119
“7. La realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea. Tale processo avverrà mediante il ravvicinamento di tali condizioni, che
costituisca un progresso soprattutto per quanto riguarda la durata e l’organizzazione dell’orario e le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro temporaneo e il lavoro stagionale.
8. Ogni lavoratore della Comunità europea ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite i cui periodi devono essere via via riavvicinati, in modo da ottenere un progresso, conformemente alle prassi nazionali.
19. Ogni lavoratore deve beneficiare nell’ambiente di lavoro di condizioni di protezione sanitaria e di sicurezza soddisfacenti. Devono essere
adottati provvedimenti adeguati al fine di progredire nell’armonizzazione
delle condizioni esistenti in tale campo”;
considerando che il miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della
salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può
dipendere da considerazioni di carattere puramente economico;
considerando che la presente direttiva costituisce un elemento concreto
nell’ambito della realizzazione della dimensione sociale del mercato interno;
considerando che l’adozione di prescrizioni minime relative all’organizzazione dell’orario di lavoro può migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori nella Comunità;
considerando che, al fine di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori della Comunità, questi ultimi devono beneficiare di periodi minimi di riposo - giornaliero, settimanale e annuale - e di adeguati periodi di pausa; che
è quindi opportuno prevedere anche un limite massimo per la durata settimanale del lavoro;
considerando che conviene tener conto dei principi dell’Organizzazione internazionale del lavoro in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, compresi quelli relativi al lavoro notturno;
considerando che, per quanto concerne il periodo di riposo settimanale,
è opportuno tenere debitamente conto della diversità dei fattori culturali,
etnici, religiosi ed altri negli Stati membri; che, in particolare, spetta ad ogni
Stato membro decidere se ed in quale misura la domenica deve essere compresa nel riposo settimanale;
considerando che alcuni studi hanno dimostrato che l’organismo umano è più sensibile nei periodi notturni ai fattori molesti dell’ambiente nonché
a determinate forme di organizzazione del lavoro particolarmente gravose e
120
che lunghi periodi di lavoro notturno sono nocivi per la salute dei lavoratori
e possono pregiudicare la sicurezza dei medesimi sul luogo di lavoro;
considerando che occorre limitare la durata del lavoro notturno, comprese le ore straordinarie, e prevedere che il datore di lavoro che fa regolarmente ricorso a lavoratori notturni ne informi le autorità competenti, su loro
richiesta;
considerando che è importante che i lavoratori notturni beneficino di
una valutazione gratuita del loro stato di salute, prima della loro assegnazione, e in seguito a intervalli regolari, e che i lavoratori notturni che hanno
problemi di salute siano trasferiti, quando possibile, ad un lavoro diurno per
cui siano idonei;
considerando che la situazione dei lavoratori notturni e dei lavoratori a
turni esige che essi beneficino di un livello di protezione in materia di sicurezza e di salute adattato alla natura del lavoro e che i servizi e mezzi di protezione e prevenzione siano organizzati e funzionino efficacemente;
considerando che le modalità di lavoro possono avere ripercussioni negative sulla sicurezza e la salute dei lavoratori; che l’organizzazione del lavoro secondo un certo ritmo deve tener conto del principio generale
dell’adeguamento del lavoro all’essere umano;
considerando che a motivo della specificità del lavoro può essere necessario prendere misure specifiche per quanto riguarda l’organizzazione
dell’orario di lavoro in taluni settori od attività esclusi dal campo di applicazione della presente direttiva;
considerando che, in funzione dei problemi che possono essere sollevati dall’organizzazione dell’orario di lavoro nell’impresa, pare opportuno prevedere una certa flessibilità nell’applicazione di determinate disposizioni
della presente direttiva, garantendo nel contempo il rispetto dei principi della
protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori;
considerando che occorre prevedere che talune disposizioni della presente direttiva possano formare oggetto di deroghe operate, a seconda dei
casi, dagli Stati membri o dalle parti sociali; che, di norma, in caso di deroga
devono essere concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo
compensativo;
considerando che la presente direttiva non dovrebbe avere per effetto
un regresso del livello generale di protezione dei lavoratori rispetto alla situazione esistente in ciascuno Stato membro alla data della sua adozione,
Ha adottato la presente direttiva:
121
Sezione I
Campo d’applicazione e definizioni
Art. 1 Oggetto e campo di applicazione
1. La presente direttiva stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di
salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro.
2. La presente direttiva si applica:
a) ai periodi minimi di riposo giornaliero, riposo settimanale e ferie
annuali nonché alla pausa ed alla durata massima settimanale del lavoro; e
b) a taluni aspetti del lavoro notturno, del lavoro a turni e del ritmo di
lavoro.
3. La presente direttiva si applica a tutti i settori di attività, privati o
pubblici, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva 89/391/CEE, fatto salvo l’articolo 17 della presente direttiva, ad eccezione dei trasporti aerei, ferroviari,
stradali e marittimi, della navigazione interna, della pesca in mare, delle altre attività in mare, nonché delle attività dei medici in formazione.
4. Le disposizioni della direttiva 89/391/CEE si applicano pienamente
alle materie contemplate al paragrafo 2, fatte salve le disposizioni più vincolanti e/o specifiche nella presente direttiva.
Art. 2 Definizioni
Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) “orario di lavoro”: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali;
2) “periodo di riposo”: qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di
lavoro;
3) “periodo notturno”: qualsiasi periodi di almeno 7 ore, definito dalla
legislazione nazionale e che comprenda in ogni caso l’intervallo fra le ore 24 e
le ore 5;
4) “lavoratore notturno”;
a) qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno 3
ore del suo tempo di lavoro giornaliero, impiegate in modo normale; e
122
b) qualsiasi lavoratore che possa svolgere durante il periodo notturno una
certa parte del suo orario di lavoro annuale, definita, a scelta dello Stato
membro interessato:
i) dalla legislazione nazionale, previa consultazione delle parti sociali, o
ii) da contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali a livello nazionale o regionale;
5) “lavoro a turni”: qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro a
squadre in base al quale dei lavoratori siano successivamente occupati negli
stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso il ritmo rotativo, che può essere di tipo continuo o discontinuo, ed il quale comporti la
necessità per i lavoratori di compiere un lavoro ad ore differenti su un periodo determinato di giorni o settimane;
6) “lavoratore a turni”: qualsiasi lavoratore il cui orario di lavoro sia
inserito nel quadro del lavoro a turni.
Sezione II
Periodi minimi di riposo - Altri aspetti dell’organizzazione dell’orario di
lavoro
Art. 3 Riposo giornaliero
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, nel corso di ogni periodo di 24 ore, di un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive.
Art. 4 Pausa
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, qualora l’orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore, di una pausa le cui modalità e, in particolare, la cui durata e condizioni di concessione
sono fissate da contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali o, in
loro assenza, dalla legislazione nazionale.
Art. 5 Riposo settimanale
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavorato-
123
re benefici, per ogni periodo di 7 giorni, di un periodo minimo di riposo
ininterrotto di 24 ore a cui si sommano le 11 ore di riposo giornaliero previste dall’articolo 3.
Il periodo minimo di riposo di cui al primo comma comprende in linea
di principio la domenica.
Se condizioni oggettive, tecniche o di organizzazione del lavoro lo giustificano, potrà essere fissato un periodo minimo di riposo di 24 ore.
Art. 6 Durata massima settimanale del lavoro
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché, in funzione
degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori:
1) la durata settimanale del lavoro sia limitata mediante disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative oppure contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali;
2) la durata media dell’orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni
non superi 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario.
Art. 7 Ferie annuali
1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le
condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o
prassi nazionali.
2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.
Sezione III
Lavoro notturno - Lavoro a turni - Ritmo di lavoro
Art. 8 Durata del lavoro notturno
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché:
124
1) l’orario di lavoro normale dei lavoratori non superi le 8 ore in media per periodo di 24 ore;
2) i lavoratori notturni il cui lavoro comporta rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali non lavorino più di 8 ore nel corso di un periodo di 24 ore durante il quale effettuano un lavoro notturno.
Ai fini del presente punto, il lavoro comportante rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali è definito dalla legislazione e/o prassi nazionale o da contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, tenuto
conto degli effetti e dei rischi inerenti al lavoro notturno.
Art. 9 Valutazione della salute e trasferimento al lavoro diurno dei lavoratori notturni
1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché:
a) i lavoratori notturni beneficino di una valutazione gratuita del loro stato di
salute, prima della loro assegnazione e, in seguito, ad intervalli regolari;
b) i lavoratori notturni che hanno problemi di salute aventi un nesso riconosciuto con la loro prestazione di lavoro notturno vengano trasferiti, quando possibile, ad un lavoro diurno per cui essi siano idonei.
2. Nella valutazione gratuita dello stato di salute di cui al paragrafo 1,
lettera a) deve essere rispettato il segreto medico.
3. La valutazione gratuita dello stato di salute di cui al paragrafo 1, lettera a) può rientrare in un sistema sanitario nazionale.
Art. 10 Garanzie per lavoro in periodo notturno
Gli Stati membri possono subordinare il lavoro di talune categorie di
lavoratori notturni a determinate garanzie, a condizioni fissate dalle legislazioni e/o prassi nazionali, per lavoratori esposti a un rischio di sicurezza o di
salute connesso al lavoro durante il periodo notturno.
Art. 11 Informazione in caso di ricorso regolare ai lavoratori notturni
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché il datore di lavoro che fa regolarmente ricorso a lavoratori notturni ne informi le autorità
competenti, su loro richiesta.
125
Art. 12 Protezione in materia di sicurezza e di salute
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché:
1) i lavoratori notturni e i lavoratori a turni beneficino di un livello di
protezione in materia di sicurezza e di salute adattato alla natura del loro lavoro;
2) i servizi o mezzi appropriati di protezione e prevenzione in materia
di sicurezza e di salute dei lavoratori notturni e dei lavoratori a turni siano
equivalenti a quelli applicabili agli altri lavoratori e siano disponibili in qualsiasi momento.
Art. 13 Ritmo di lavoro
Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché il datore di lavoro che prevede di organizzare il lavoro secondo un certo ritmo tenga conto
del principio generale dell’adeguamento del lavoro all’essere umano, segnatamente per attenuare il lavoro monotono e il lavoro ripetitivo, a secondo del
tipo di attività e delle esigenze in materia di sicurezza e di salute, in particolare per quanto riguarda le pause durante l’orario di lavoro.
Sezione IV
Disposizioni varie
Art. 14 Disposizioni comunitarie più specifiche
Le disposizioni della presente direttiva non sono applicabili laddove altri strumenti comunitari contengano prescrizioni più specifiche in materia
per determinate occupazioni o attività professionali.
Art. 15 Disposizioni più favorevoli
La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di
applicare od introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli alla protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori
o di favorire o consentire l’applicazione di contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, più favorevoli alla protezione della sicurezza e della
salute dei lavoratori.
126
Art. 16 Periodi di riferimento
Gli Stati membri possono prevedere:
1) per l’applicazione dell’articolo 5 (riposo settimanale), un periodo di
riferimento non superiore a 14 giorni;
2) per l’applicazione dell’articolo 6 (durata massima settimanale del
lavoro), un periodo di riferimento non superiore a quattro mesi.
I periodi di ferie annue, concesse a norma dell’articolo 7, ed i periodi
di assenza per malattia non vengono presi in considerazione o sono neutri ai
fini del computo della media;
3) per l’applicazione dell’articolo 8 (durata del lavoro notturno), un
periodo di riferimento definito previa consultazione delle parti sociali o mediante contratti collettivi o accordi conclusi a livello nazionale o regionale
fra le parti sociali.
Il periodo minimo di riposo settimanale di 24 ore prescritto a norma
dell’articolo 5 non viene preso in considerazione per il computo della media
se cade nel periodo di riferimento in questione.
Art. 17 Deroghe
1. Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e
della salute dei lavoratori, gli Stati membri possono derogare agli articoli 3,
4, 5, 6, 8 e 16 quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere
determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
a) di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo;
b) di manodopera familiare; o
c) di lavoratore nel settore liturgico delle chiese o delle comunità religiose.
2. Si può derogare per via legislativa, regolamentare o amministrativa o mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, a
condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione
di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata:
127
2.1. agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16:
a) per le attività caratterizzate da una distanza fra il luogo di lavoro e il luogo di residenza del lavoratore oppure da una distanza fra diversi luoghi di
lavoro dello stesso;
b) per le attività di guardia, sorveglianza e permanenza caratterizzate dalla
necessità di assicurare la protezione dei beni e delle persone, in particolare, quando si tratta di guardiani o portinai o di imprese di sorveglianza;
c) per le attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità
del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta:
I)
di servizi relativi all’accettazione, al trattamento e/o alle cure prestati
da ospedali o stabilimenti analoghi, da case di riposo e da carceri;
II)
del personale operante nei porti o negli aeroporti;
III) di servizi stampa, radiofonici, televisivi, di produzione cinematografica, postali o delle telecomunicazioni, di servizi di ambulanza, di vigili
del fuoco o di protezione civile;
IV) di servizi di produzione, di trasmissione e distribuzione del gas,
dell’acqua e dell’elettricità, di servizi di raccolta dei rifiuti domestici o
degli impianti di incenerimento;
V) di industria in cui il processo lavorativo non può essere interrotto per
ragioni tecniche;
VI) di attività di ricerca e sviluppo;
VII) dell’agricoltura;
d)
in caso di sovraccarico prevedibile di attività e, in particolare;
i)
nell’agricoltura;
ii)
nel turismo;
iii)
nei servizi postali;
2.2. agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16:
a) nei casi previsti dall’articolo 5, paragrafo 4 della direttiva 89/391/CEE;
b) in caso di incidente o di rischio di incidente imminente;
128
2.3. agli articoli 3 e 5:
a) per le attività di lavoro a turni, ogni volta che il lavoratore cambia squadra
e non può usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di
quello della squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero e/o settimanale;
b) per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare del personale addetto alle attività di pulizia.
3. Si può derogare agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali a livello nazionale o regionale o,
conformemente alle regole fissate da dette parti sociali, mediante contratti
collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello inferiore.
Gli Stati membri in cui, giuridicamente, non esiste un sistema che garantisca la conclusione di contratti collettivi o di accordi tra le parti sociali a
livello nazionale o regionale, per i settori contemplati dalla presente direttiva, o gli Stati membri in cui esiste un quadro legislativo specifico a tal fine,
e nei limiti di tale quadro, possono, conformemente alle legislazioni e/o
prassi nazionali, consentire deroghe agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello collettivo
adeguato.
Gli Stati membri possono prevedere norme:
- affinché il presente paragrafo sia applicato dalle parti sociali, e
- affinché le disposizioni dei contratti collettivi o accordi conclusi in conformità del presente paragrafo siano estese ad altri lavoratori, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.
4. La facoltà di derogare all’articolo 16, punto 2), prevista al paragrafo
2, punti 2.1. e 2.2. e al paragrafo 3 del presente articolo non può avere come
conseguenza la fissazione di un periodo di riferimento superiore a sei mesi.
Tuttavia gli Stati membri hanno la facoltà, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di consentire che, per ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, i contratti collettivi o gli accordi conclusi tra le parti sociali fissino periodi di riferimento che non superino in alcun caso i dodici mesi.
Prima della scadenza di un periodo di 7 anni a decorrere dalla data di
cui all’articolo 18, paragrafo 1, lettera a), il Consiglio, in base ad una proposta della Commissione corredata di una relazione di valutazione, riesamina le disposizioni del presente paragrafo e decide in merito ai loro sviluppi.
129
Art. 18 Disposizioni finali
1. a) Gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi il ......(*) o provvedono affinché, al più tardi entro tale data, le
parti sociali applichino consensualmente le disposizioni necessarie, fermo restando che gli Stati membri devono prendere tutte le misure necessarie per poter garantire in qualsiasi momento i risultati imposti dalla presente direttiva.
b) I) Tuttavia, ogni Stato membro ha la facoltà di non applicare l’articolo 6,
nel rispetto dei principi generali della protezione, della sicurezza e della salute dei lavoratori, a condizione che assicuri, mediante le misure
necessarie prese a tale scopo, che:
- nessun datore di lavoro chieda a un lavoratore di lavorare più di 48 ore nel
corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all’articolo 16, punto 2, a meno che non abbia ottenuto il
consenso del lavoratore all’esecuzione di tale lavoro;
- nessun lavoratore possa subire un danno per il fatto che non è disposto ad
accettare di effettuare tale lavoro;
- il datore di lavoro tenga registri aggiornati di tutti i lavoratori che effettuano tale lavoro;
- i registri siano messi a disposizione delle autorità competenti che possono
vietare o limitare, per ragioni di sicurezza e/o di salute dei lavoratori, la
possibilità di superare la durata massima settimanale del lavoro;
- il datore di lavoro, su richiesta delle autorità competenti, dia loro informazioni sui consensi dati dai lavoratori all’esecuzione di un lavoro che superi
le 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all’articolo 16, punto 2.
Prima della scadenza di un periodo di 7 anni a decorrere dalla data di
cui alla lettera a), il Consiglio, sulla base di una proposta della Commissione
corredata di una relazione di valutazione, riesamina le disposizioni del presente punto I) e decide del seguito da darvi.
II) Parimenti, per quanto concerne l’applicazione dell’articolo 7, gli Stati
membri hanno la facoltà di ricorrere ad un periodo transitorio massimo
di 3 anni a decorrere dalla data di cui alla lettera a), a condizione che
durante tale periodo transitorio:
––––––––––
(*) 3 anni dall’adozione della presente direttiva.
130
- ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di 3 settimane, secondo
le condizioni di ottenimento e concessione previste dalle legislazioni e/o
prassi nazionali, e
- il periodo di ferie annuali retribuite di 3 settimane non possa essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.
c) Gli Stati membri ne informano immediatamente la Commissione.
2. Quando gli Stati membri adottano le disposizioni di cui al paragrafo
1, esse contengono un riferimento alla presente direttiva o sono corredate di
un siffatto riferimento all’atto della pubblicazione ufficiale. Le modalità di
tale riferimento sono decise dagli Stati membri.
3. Fatto salvo il diritto degli Stati membri di fissare, alla luce dell’evoluzione della situazione, disposizioni legislative, regolamentari, amministrative e convenzionali diverse nel campo dell’orario del lavoro, a condizione
che i requisiti minimi previsti dalla presente direttiva siano rispettati, l’attuazione di quest’ultima non costituisce una giustificazione per il regresso del
livello generale di protezione dei lavoratori.
4. Gli Stati membri comunicano alla Commissione il testo delle disposizioni di diritto interno che hanno già adottato o che adottano nel settore disciplinato dalla presente direttiva.
5. Ogni 5 anni gli Stati membri presentano alla Commissione una relazione sull’attuazione pratica delle disposizioni della presente direttiva, indicando i punti di vista delle parti sociali.
La Commissione ne informa il Parlamento europeo, il Consiglio, il Comitato economico e sociale ed il Comitato consultivo per la sicurezza, l’igiene e la protezione della salute sul luogo di lavoro.
6. La Commissione presenta con periodicità quinquennale al Parlamento
europeo, al Consiglio ed al Comitato economico e sociale una relazione sull’attuazione della presente direttiva, tenendo conto dei paragrafi 1, 2, 3, 4, e 5.
Art. 19 Gli Stati membri sono destinatari della presente direttiva.
131
RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO SUL LAVORO NOTTURNO E LA DENUNCIA DELLA CONVENZIONE N. 89 DELL’OIL
Il Parlamento europeo,
- vista la sentenza della Corte di giustizia del 25 luglio 1991 (sentenza
Stoeckel);
- viste le convenzioni n. 89 e 171 dell’organizzazione internazionale del lavoro (OIL);
- vista la proposta di direttiva del Consiglio concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, il proprio parere del 20 febbraio 1991 al
riguardo e la proposta modificata presentata dalla Commissione in materia;
- vista la direttiva 76/207/CEE sulla parità di trattamento tra uomo e donna;
A. considerando che la sentenza emessa dalla Corte di giustizia
nell’ambito del caso Stoeckel sul lavoro notturno condanna la disparità di
trattamento tra uomo e donna in relazione a tale tipo di lavoro ma non il divieto di prestare lavoro notturno qualora sia rispettato il principio di parità di
trattamento tra uomo e donna;
B. tenendo conto del parere del Comitato consultivo sulla parità di opportunità e della risoluzione della confederazione europea dei sindacati sulle
conseguenze della sentenza della Corte di giustizia;
C. considerando che la Commissione ha fatto riferimento a tale sentenza per invitare gli Stati membri a denunciare la convenzione n. 89
dell’OIL e ad adeguare la legislazione nazionale alla sentenza stessa;
D. considerando che queste denuncie hanno luogo in un momento in
cui la convenzione n. 171 dell’OIL del 6 giugno 1990 sul lavoro notturno
non è ancora in vigore e che non esiste alcuna altra regolamentazione comunitaria in materia;
132
1. ritiene che il lavoro notturno possa risultare nocivo per la salute
nonché per la vita familiare e sociale tanto delle donne quanto degli uomini
e debba essere vietato per principio, fatta salva tuttavia la possibilità di deroghe, limitatamente a taluni casi, giustificati da motivi tecnici o legati alla
singola persona e purché le parti sociali raggiungano previamente un accordo settoriale, nazionale o internazionale, tenendo presenti gli interessi generali della società e del mondo del lavoro;
2. giudica indispensabile che la Commissione proponga un programma d’azione concernente la possibilità di conciliare le attività professionali,
sociali e familiari;
3. deplora la leggerezza del modo di procedere della Commissione, che
ha portato a una mancanza di regolamentazione a livello comunitario in materia
di lavoro notturno, il che genera un rischio di deregolamentazione per quanto
riguarda questo tipo di lavoro, dal momento che gli Stati membri d’ora in avanti non sono più tenuti a rispettare norme minime sul piano internazionale;
4. deplora che la proposta modificata di direttiva sull’organizzazione
del tempo di lavoro che dovrebbe disciplinare il lavoro notturno abbia tenuto
conto in modo irrilevante degli emendamenti approvati da questo Parlamento;
5. chiede al Consiglio affari sociali di adottare la direttiva sull’organizzazione dell’orario di lavoro rispettando la posizione del Parlamento europeo, che auspica che, “in linea di principio, il lavoro notturno sia proibito”, e
garantendo che essa non pregiudichi il diritto degli Stati membri di conservare, applicare o introdurre normative più favorevoli ai lavoratori;
6. ritiene che i problemi specifici legati al lavoro notturno, al lavoro a
turni, ecc., debbano essere affrontati globalmente all’interno di una legislazione sulla gestione del tempo di lavoro che tenga conto tra l’altro delle indicazioni contenute nella raccomandazione n. 178 dell’OIL;
7. incarica la propria commissione per gli affari sociali, l’occupazione
e le condizioni di lavoro di fare direttamente dei passi presso il Consiglio allo scopo di sbloccare i negoziati sulla direttiva;
8. chiede agli Stati membri di ratificare quanto prima la convenzione
n. 171 dell’OIL, nonostante le sue imperfezioni;
9. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione alla
Commissione, al Consiglio, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri,
all’OIL, alla Confederazione europea dei sindacati e all’UNICE.
133
PROTOCOLLO SULLA POLITICA DEI REDDITI E DELL’OCCUPAZIONE, SUGLI ASSETTI
CONTRATTUALI, SULLE POLITICHE DEL LAVORO E SUL SOSTEGNO AL SISTEMA
PRODUTTIVO (23 LUGLIO 1993)
Verbale di intesa
Il 23 luglio 1993, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il
Presidente del Consiglio dei Ministri dott. Azeglio Ciampi, con il Ministro
del Lavoro e della Previdenza sociale sen. Gino Giugni, con il Ministro della
Funzione Pubblica, prof. Sabino Cassese, hanno incontrato i rappresentanti
delle seguenti organizzazioni sindacali dei lavoratori:
CIDA - Pres. G. Carrozza
UNIONQUADRI - Pres. C. Rossitto
CONFEDERQUADRI - Pres. A. Macchiavelli
CONFEDIR - Pres. R. Confalonieri
CONFAIL - Segr. Gen. S.L. Zaccaria
ITALQUADRI - Pres. U. Grassi
Al termine della riunione le parti hanno sottoscritto il Protocollo del 3
luglio 1993 sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, definito
a seguito dell’accordo del 31 luglio 1992.
Politica dei redditi e dell’occupazione
La politica dei redditi è uno strumento indispensabile della politica
economica, finalizzato a conseguire una crescente equità nella distribuzione
del reddito attraverso il contenimento dell’inflazione e dei redditi nominali,
134
per favorire lo sviluppo economico e la crescita occupazionale mediante l’allargamento della base produttiva e una maggiore competitività del sistema
delle imprese.
In particolare il Governo, d’intesa con le parti sociali, opererà con politiche di bilancio tese:
a) all’ottenimento di un tasso di inflazione allineato alla media dei Paesi comunitari economicamente più virtuosi;
b) alla riduzione del debito e del deficit dello Stato ed alla stabilità valutaria.
L’attuale fase d’inserimento nell’Unione Europea sottolinea la centralità degli obiettivi indicati e la necessità di pervenire all’ampliamento
delle opportunità di lavoro attraverso il rafforzamento dell’efficienza e
della competitività delle imprese, con particolare riferimento ai settori
non esposti alla concorrenza internazionale, e della Pubblica Amministrazione.
Una politica dei redditi così definita, unitamente all’azione di riduzione
dell’inflazione, consente di mantenere l’obiettivo della difesa del potere
d’acquisto delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici.
Le parti ritengono che azioni coerenti di politica di bilancio e di politica dei redditi, quali quelle sopraindicate, concorreranno ad allineare il costo
del denaro in Italia con quello del resto d’Europa.
Il Governo dichiara di voler collocare le sessioni di confronto con le
parti sociali sulla politica dei redditi in tempi coerenti con i processi decisionali in materia di politica economica, in modo da tener conto dell’esito del
confronto nell’esercizio dei propri poteri e delle proprie responsabilità.
Sessione di maggio-giugno
Saranno indicati, prima della presentazione del Documento di programmazione economico-finanziaria, gli obiettivi della politica di bilancio
per il successivo triennio.
La sessione punterà a definire, previa una fase istruttoria che selezioni
e qualifichi gli elementi di informazione necessari comunicandoli preventivamente alle parti, con riferimento anche alla dinamica della spesa pubblica,
obiettivi comuni sui tassi d’inflazione programmati, sulla crescita del PIL e
sull’occupazione.
135
Sessione di settembre
Nell’ambito degli aspetti attuativi della politica di bilancio, da trasporre nella legge finanziaria, saranno definite le misure applicative degli strumenti di attuazione della politica dei redditi, individuando le coerenze dei
comportamenti delle parti nell’ambito dell’autonomo esercizio delle rispettive responsabilità.
Impegni delle parti
A partire dagli obiettivi comuni sui tassi di inflazione programmati, il
Governo e le parti sociali individueranno i comportamenti da assumere per
conseguire i risultati previsti.
I titolari d’impresa, tra cui lo Stato e i soggetti pubblici gestori di imprese, perseguiranno indirizzi di efficienza, innovazione e sviluppo delle
proprie attività che, nelle compatibilità di mercato, siano tali da poter contenere i prezzi entro livelli necessari alla politica dei redditi.
Il Governo come datore di lavoro terrà un coerente comportamento anche nella contrattazione delle retribuzioni dei pubblici dipendenti e nelle dinamiche salariali non soggette alla contrattazione.
Le parti perseguiranno comportamenti, politiche contrattuali e politiche
salariali coerenti con gli obiettivi di inflazione programmata.
Nell’ambito delle suddette sessioni il Governo definirà i modi ed i
tempi di attivazione di interventi tempestivi di correzione di comportamenti difformi dalla politica dei redditi.
Il Governo opererà in primo luogo nell’ambito della politica della
concorrenza attivando tutte le misure necessarie ad una maggiore apertura
al mercato.
Il Governo dovrà altresì disporre di strumenti fiscali e parafiscali,
con particolare riferimento agli oneri componenti il costo del lavoro, atti a
dissuadere comportamenti difformi.
Si ribadisce l’opportunità di creare idonei strumenti per l’accertamento
delle reali dinamiche dell’intero processo di formazione dei prezzi.
È perciò necessaria la costituzione di uno specifico Osservatorio dei
prezzi, che verifichi le dinamiche sulla base di appositi studi economici di
settore.
136
Rapporto annuale sull’occupazione
Nella sessione di maggio il Governo predisporrà un rapporto annuale
sull’occupazione, corredato di dati aggiornati per settori ed aree geografiche,
nel quale saranno identificati gli effetti sull’occupazione del complesso delle
politiche di bilancio, dei redditi e monetarie, nonché dei comportamenti dei
soggetti privati.
Sulla base di tali dati, il Governo sottoporrà alle parti le misure, rientranti nelle sue responsabilità, capaci di consolidare o allargare la base occupazionale. Tra esse, con particolare riguardo alle aree di crisi occupazionale
e con specifica attenzione alla necessità di accrescere l’occupazione femminile così come previsto dalla legge 125/91:
a) la programmazione e, quando necessaria, l’accelerazione degli investimenti pubblici, anche di concerto con le amministrazioni regionali;
b) la programmazione coordinata del Fondo per l’occupazione e degli altri
Fondi aventi rilievo per l’occupazione, compresa la definizione e finalizzazione delle risorse destinate all’attivazione di nuove iniziative produttive economicamente valide;
c) la definizione di programmi di interesse collettivo, predisposti dallo Stato
d’intesa con le Regioni, nei quali avvalersi di giovani disoccupati di lunga durata e di lavoratori in Cigs o in mobilità, affidando la realizzazione
di tali programmi a soggetti qualificati e verificandone costantemente
l’efficacia e gli effetti occupazionali attraverso gli organi preposti.
d) la programmazione del Fondo per la formazione professionale e dell’utilizzo dei fondi comunitari, d’intesa con le Regioni.
Assetti contrattuali
1. Gli assetti contrattuali prevedono:
- un contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria;
- un secondo livello di contrattazione, aziendale o alternativamente territoriale, laddove previsto, secondo l’attuale prassi, nell’ambito di specifici
settori.
2. Il CCNL ha durata quadriennale per la materia normativa e biennale
per la materia retributiva.
137
La dinamica degli effetti economici del contratto sarà coerente con i
tassi di inflazione programmata assunti come obiettivo comune.
Per la definizione di detta dinamica sarà tenuto conto delle politiche
concordate nelle sessioni di politica dei redditi e dell’occupazione, dell’obiettivo mirato alla salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni,
delle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro, del raffronto
competitivo e degli andamenti specifici del settore. In sede di rinnovo biennale dei minimi contrattuali, ulteriori punti di riferimento del negoziato saranno costituiti dalla comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva intervenuta nel precedente biennio, da valutare anche alla luce delle
eventuali variazioni delle ragioni di scambio del Paese, nonché dall’andamento delle retribuzioni.
3. La contrattazione aziendale riguarda materie e istituti diversi e non
ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL. Le erogazioni del livello di contrattazione aziendale sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come
obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività, che potrà essere impegnata per accordo tra le parti, eccedente quella eventualmente
già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di CCNL, nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa.
Le parti prendono atto che, in ragione della funzione specifica ed innovativa degli istituti della contrattazione aziendale e dei vantaggi che da essi possono derivare all’intero sistema produttivo attraverso il miglioramento dell’efficienza aziendale e dei risultati di gestione, ne saranno definiti le caratteristiche ed il regime contributivo-previdenziale mediante un apposito provvedimento legislativo promosso dal Governo, tenuto conto dei vincoli di finanza
pubblica e della salvaguardia della prestazione previdenziale dei lavoratori.
La contrattazione aziendale o territoriale è prevista secondo le modalità
e negli ambiti di applicazione che saranno definiti dal contratto nazionale di
categoria nello spirito dell’attuale prassi negoziale con particolare riguardo
alle piccole imprese. Il contratto nazionale di categoria stabilisce anche la
tempistica, secondo il principio dell’autonomia dei cicli negoziali, le materie
e le voci nelle quali essa si articola.
Al fine dell’acquisizione di elementi di conoscenza comune per la definizione degli obiettivi della contrattazione aziendale, le parti valutano le
condizioni dell’impresa e del lavoro, le sue prospettive di sviluppo anche occupazionale, tenendo conto dell’andamento e delle prospettive della competitività e delle condizioni essenziali di redditività.
138
L’accordo di secondo livello ha durata quadriennale. Nel corso della
sua vigenza le parti, nei tempi che saranno ritenuti necessari, svolgeranno
procedure di informazione, consultazione, verifica o contrattazione previste
dalle leggi, dai CCNL, dagli accordi collettivi e dalla prassi negoziale vigente, per la gestione degli effetti sociali connessi alle trasformazioni aziendali
quali le innovazioni tecnologiche, organizzative ed i processi di ristrutturazione che influiscono sulle condizioni di sicurezza, di lavoro e di occupazione, anche in relazione alla legge sulle pari opportunità.
4. Il CCNL di categoria definisce le procedure per la presentazione
delle piattaforme contrattuali nazionali, aziendali o territoriali, nonché i tempi di apertura dei negoziati al fine di minimizzare i costi connessi ai rinnovi
contrattuali ed evitare periodi di vacanze contrattuali.
Le piattaforme contrattuali per il rinnovo dei CCNL saranno presentate
in tempo utile per consentire l’apertura delle trattative tre mesi prima della
scadenza dei contratti. Durante tale periodo, e per il mese successivo alla
scadenza, le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno ad
azioni dirette. La violazione di tale periodo di raffreddamento comporterà
come conseguenza a carico della parte che vi avrà dato causa, l’anticipazione o lo slittamento di tre mesi del termine a partire dal quale decorre l’indennità di vacanza contrattuale.
5. Il Governo si impegna a promuovere, entro la fine del 1997, un incontro di verifica tra le parti finalizzato alla valutazione del sistema contrattuale previsto dal presente protocollo al fine di apportare, ove necessario, gli
eventuali correttivi.
Indennità di vacanza contrattuale
Dopo un periodo di vacanza contrattuale pari a 3 mesi dalla data di
scadenza del CCNL, ai lavoratori dipendenti ai quali si applica il contratto
medesimo non ancora rinnovato sarà corrisposto, a partire dal mese successivo ovvero dalla data di presentazione delle piattaforme ove successiva, un
elemento provvisorio della retribuzione.
L’importo di tale elemento sarà pari al 30% del tasso di inflazione programmato, applicato ai minimi retributivi contrattuali vigenti, inclusa la ex
indennità di contingenza.
Dopo 6 mesi di vacanza contrattuale, detto importo sarà pari al 50%
dell’inflazione programmata. Dalla decorrenza dell’accordo di rinnovo del
contratto l’indennità di vacanza contrattuale cessa di essere erogata.
Tale meccanismo sarà unico per tutti i lavoratori.
139
Rappresentanze sindacali
Le parti, al fine di una migliore regolamentazione del sistema di relazioni industriali e contrattuali, concordano quanto segue:
a) le organizzazioni sindacali dei lavoratori stipulanti il presente protocollo
riconoscono come rappresentanza sindacale aziendale unitaria nelle singole unità produttive quella disciplinata dall’intesa quadro tra CGIL-CISL-UIL sulle Rappresentanze sindacali unitarie, sottoscritti in data 1
marzo 1991.
Al fine di assicurare il necessario raccordo tra le organizzazioni stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle deleghe
assegnate dai contratti medesimi, la composizione delle rappresentanze deriva per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione
o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti;
b) il passaggio dalla disciplina delle RSA a quello delle RSU deve avvenire
a parità di trattamento legislativo e contrattuale, nonché a parità di costi
per l’azienda in riferimento a tutti gli istituti;
c) la comunicazione all’azienda e all’organizzazione imprenditoriale di appartenenza dei rappresentanti sindacali componenti le RSU ai sensi del
punto a) sarà effettuata per iscritto a cura delle organizzazioni sindacali;
d) le imprese, secondo modalità previste nei CCNL, metteranno a disposizione delle organizzazioni sindacali quanto è necessario per lo svolgimento delle attività strumentali all’elezione delle predette rappresentanze
sindacali unitarie, come, in particolare, l’elenco dei dipendenti e gli spazi
per l’effettuazione delle operazioni di voto e di scrutinio;
e) la legittimazione a negoziare al secondo livello le materie oggetto di rinvio da parte del CCNL è riconosciuta alle rappresentanze sindacali unitarie ed alle organizzazioni sindacali territoriali dei lavoratori aderenti alle
organizzazioni stipulanti il medesimo CCNL, secondo le modalità determinate dal CCNL;
f) le parti auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, ad una
generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali
che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali principi. Il Governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a
140
garantire l’efficacia “erga omnes” nei settori produttivi dove essa appaia
necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle
aziende.
Nota. Il presente capitolo sugli assetti contrattuali contiene principi
validi per ogni tipo di lavoro. Per il rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione resta fermo il D.L. 29/1993.
Nota. CGIL-CISL-UIL e CNA CONFARTIGIANATO CASA e CLAAI
dichiarano che per quanto riguarda la struttura contrattuale e retributiva
l’Accordo interconfederale 3 agosto/3 dicembre 1992 tra le Organizzazioni
dei lavoratori e le Organizzazioni artigiane per il comparto dell’artigianato è compatibile con il presente protocollo, fatta salva la clausola di armonizzazione prevista dall’Accordo interconfederale stesso nella norma transitoria.
Politiche del lavoro
Il Governo predisporrà un organico disegno di legge per modificare il
quadro normativo in materia di gestione del mercato del lavoro e delle crisi
occupazionali, al fine di renderlo più adeguato alle esigenze di un governo
attivo e consensuale e di valorizzare le opportunità occupazionali che il mercato del lavoro può offrire se dotato di una più ricca strumentazione che lo
avvicini agli assetti in atto negli atri paesi europei.
Il disegno di legge verrà redatto, attraverso un costruttivo confronto
con le parti sociali, sulla base delle linee guida di seguito indicate.
Il Governo si impegna, inoltre, a completare la disciplina del mercato
del lavoro operata con la legge n. 223/91, integrandola con la nuova normativa sul collocamento obbligatorio per gli invalidi già in discussione in Parlamento.
Gestione delle crisi occupazionali
a) Revisione della normativa della Cassa Integrazione per crisi aziendali onde renderla più funzionale al governo delle eccedenze di personale e del-
141
le connesse vertenze. Si dovrà mirare, in particolare, alla semplificazione
ed accelerazione delle procedure di concessione dell’intervento, prevedendo un termine massimo di 40 giorni. Nell’ambito dei limiti finanziari
annuali stabiliti dal CIPI, il Ministro del Lavoro gestisce l’intervento con
l’ausilio degli organi collegiali, periferici e centrali, di governo del mercato del lavoro.
L’intervento della Cigs per crisi può essere richiesto dall’impresa anche durante le procedure iniziate ai sensi dell’art. 24 della legge 223/91
quando sia intervenuto accordo sindacale in vista dell’obiettivo di ricercare
soluzioni funzionali al reimpiego dei lavoratori eccedenti con la collaborazione degli organismi periferici del Ministero del Lavoro, ed in particolare
delle Agenzie per l’Impiego, della Regione, delle associazioni imprenditoriali e dei lavoratori o degli enti bilaterali da esse costituiti;
b) previsione delle modalità per la valorizzazione del contributo che le Regioni e gli enti locali possono offrire alla composizione delle controversie in materia di eccedenze del personale attraverso l’utilizzazione delle
competenze in materia di formazione professionale e di tutte le altre risorse di cui essi dispongono;
c) con la gradualità richiesta dalle condizioni della finanza pubblica, elevazione del trattamento ordinario di disoccupazione, sino al 40%, per consentire un suo più efficiente impiego sia da un punto di vista generale,
per soddisfare in maniera adeguata le esigenze di protezione del reddito e
le esigenze di razionale governo del mercato del lavoro, sia, in particolare, con riferimento ai settori che non ricadono nel campo di applicazione
della Cigs nonché alle forme di lavoro discontinuo e stagionale;
d) adozione di misure legislative che fino al 31 dicembre 1995 consentano
alle imprese che occupano fino a 50 dipendenti e rientrano nel campo di
applicazione della Cigo, di usufruire di quest’ultimo trattamento in termini più ampi degli attuali.
Modificazione della disciplina della Cigo, prevedendo che nel computo
della durata del predetto trattamento il periodo settimanale venga determinato con riferimento ad un monte ore correlato al numero di dipendenti occupati nell’impresa;
e) al fine di conseguire il mantenimento e la crescita occupazionale nel settore dei servizi, si ritiene ormai matura una riconsiderazione del sistema
degli sgravi contributivi concessi in alcune aree del Paese, del sistema di
fiscalizzazione degli oneri sociali, nonché degli ammortizzatori sociali, al
142
fine dell’approntamento di una disciplina di agevolazione e di gestione
delle crisi che tenga conto delle peculiarità operative del settore terziario.
Si prevede pertanto la istituzione di un tavolo specifico, coordinato dal
Ministero del Lavoro, con le parti sociali del settore, e delle diverse categorie in esso incluse, per la predisposizione dei necessari provvedimenti
di legge, in armonia con la politica della concorrenza a livello comunitario, e nel quadro della compatibilità del bilancio dello Stato.
Occupazione giovanile e formazione
a) Il contratto di apprendistato va mantenuto nella funzione tradizionale di
accesso teorico-pratico a qualifiche specifiche di tipo tecnico. Ne va comunque valorizzata la funzione di sviluppo della professionalità, anche
mediante l’intervento degli enti bilateriali e delle Regioni, e la certificazione dei risultati. I programmi di insegnamento complementare potranno essere presentati alle Regioni per il successivo inoltro al Fondo sociale europeo. In relazione all’ampliamento dell’obbligo scolastico sarà
consentito, attraverso la contrattazione collettiva, uno spostamento della
soglia d’età;
b) la disciplina del contratto di formazione-lavoro va ridefinita prevedendo
una generalizzazione del limite di età a 32 anni, ed individuando due diverse tipologie contrattuali, che consentano di modularne l’intervento
formativo e la durata in funzione delle diverse esigenze.
Ferme rimanendo le attuali disposizioni in materia di durata massima
del contratto, per le professionalità medio-alte sarà previsto un potenziamento ed una migliore programmazione degli impegni formativi.
Per le professionalità medio-basse ovvero per quelle più elevate che richiedano solamente un’integrazione formativa, il contratto di formazione-lavoro per il primo anno di durata sarà caratterizzato da formazione minima di
base (informazione sul rapporto di lavoro, sulla specifica organizzazione del
lavoro e sulla prevenzione ambientale ed anti-infortunistica) e da un’acquisizione formativa derivante dalla esperienza lavorativa e dall’affiancamento. I
contratti collettivi potranno inquadrare i giovani assunti con questa tipologia
di contratti a livello inferiore rispetto a quelli cui esso è finalizzato.
Non potranno aver luogo assunzioni con il contratto di formazione-lavoro presso imprese nelle quali non siano stati convertiti a tempo indeterminato
almeno il 60% dei contratti di formazione-lavoro stipulati precedentemente.
143
Va inoltre prevista una verifica dei risultati formativi raggiunti, da
compiere, con la partecipazione degli enti bilaterali, secondo la classificazione Cee delle qualifiche, e che potrà consistere, per le qualifiche medio-alte,
in un’apposita certificazione. Le Regioni dovranno disciplinare, secondo criteri uniformi, le modalità di accesso dei progetti formativi ai finanziamenti
del Fondo sociale europeo. L’armonizzazione con il sistema formativo avverrà nella riforma della legge 845/1978.
Riattivazione del mercato del lavoro
a) Nell’ambito delle iniziative previste nella sezione “politica dei redditi e
dell’occupazione”, oltre ai programmi di interesse collettivo a favore dei
giovani disoccupati del Mezzogiorno ivi previsti, per agevolare l’insediamento di nuove iniziative produttive nelle aree deboli, di cui alla legge
488/92, le parti sociali potranno contrattare appositi pacchetti di misure
di politica attiva, di flessibilità e di formazione professionale, con la collaborazione delle Agenzie per l’impiego e delle Regioni. Tali pacchetti
potranno prevedere una qualifica di base e la corresponsione di un salario
corrispondente alle ore di lavoro prestato, escluse le ore devolute alla formazione;
b) saranno definite le azioni positive per le pari opportunità uomo-donna
che considerino l’occupazione femminile come una priorità nei progetti e
negli interventi, attraverso la piena applicazione delle leggi n. 125 e n.
215, un ampliamento del loro finanziamento, una loro integrazione con
gli altri strumenti legislativi e contrattuali, con particolare riferimento alla politica attiva del lavoro;
c) ferme restando le misure già approntate sui contratti di solidarietà, si
procederà ad una modernizzazione della normativa vigente in materia
di regimi di orario, valorizzando pienamente le acquisizioni contrattuali del nostro Paese e sostenendone l’ulteriore sviluppo, nella tutela
dei diritti fondamentali alla sicurezza, con l’obiettivo di favorire lo
sviluppo dell’occupazione e l’incremento della competitività delle imprese;
d) per rendere più efficiente il mercato del lavoro va disciplinato anche nel
nostro Paese il lavoro interinale. La disciplina deve offrire garanzie idonee ad evitare che il predetto istituto possa rappresentare il mezzo per la
destrutturazione di lavori stabili.
144
In particolare, il ricorso al lavoro interinale sarà consentito alle aziende
del settore industriale e terziario, con esclusione delle qualifiche di esiguo
contenuto professionale. Il ricorso al lavoro interinale sarà ammesso nei casi
di temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti
produttivi dell’azienda, nei casi di sostituzione dei lavoratori assenti nonché
nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali applicati dall’azienda utilizzatrice.
La disciplina deve prevedere: che l’impresa fornitrice sia munita di apposita autorizzazione pubblica; che i trattamenti economici e normativi del
rapporto di lavoro alle dipendenze delle dette imprese siano disciplinati da
contratti collettivi; che si agevoli la continuità del rapporto con l’impresa
fornitrice; che quest’ultima si impegni a garantire un trattamento minimo
mensile; che il lavoratore abbia diritto, per i periodi lavorati presso l’impresa
utilizzatrice, ad un trattamento non inferiore a quello previsto per i lavoratori
dipendenti da quest’ultima.
Trascorsi sei mesi senza che sia intervenuta la stipula del contratto collettivo, la disciplina che sarebbe stata di competenza dello stesso, sarà emanata con regolamento del Ministro del Lavoro, sentite le parti sociali.
Dopo due anni di applicazione, va prevista una verifica tra le parti, promossa dal Governo, mirante a valutare la possibilità di un ampliamento
dell’ambito di applicazione dell’istituto;
e) forme particolari di lavoro a tempo determinato, gestite da organismi promossi o autorizzati dalle Agenzie per l’impiego, possono essere previste
in funzione della promozione della ricollocazione e riqualificazione dei
lavoratori in mobilità o titolari di trattamenti speciali di disoccupazione.
Il Ministro del Lavoro si impegna ad approfondire la possibilità di una
riforma delle Agenzie per l’impiego mirata a consentire ad esse di operare
nel predetto campo, escludendo comunque l’ipotesi dell’instaurazione di un
rapporto di lavoro con le stesse;
f) il Ministro del Lavoro si impegna a predisporre attraverso il confronto
con le parti sociali, una riforma degli strumenti di governo del mercato
del lavoro agricolo, mirata a favorire l’occupazione ed un uso più efficiente e razionale delle risorse pubbliche;
g) il Ministro del Lavoro si impegna a ridefinire l’assetto organizzativo degli Uffici periferici del Ministero del Lavoro perché questi possano
adempiere ai necessari compiti di politica attiva del lavoro e di esprimere
il massimo di sinergie con la Regione e le parti sociali. Si impegna inoltre perché ne risulti un rafforzamento della funzione ispettiva.
145
Sostegno al sistema produttivo
Ricerca ed innovazione tecnologica
Nella nuova divisione internazionale del lavoro e delle produzioni tra
le economie dei paesi più evoluti e le nuove vaste economie caratterizzate da
bassi costi del lavoro, un più intenso e diffuso progresso tecnologico è condizione essenziale per la competitività dei sistemi economico-industriali
dell’Italia e dell’Europa. Negli anni ’90 scienza e tecnologia dovranno assumere, più che nel passato, un ruolo primario.
Una più intensa ricerca scientifica, una più estesa innovazione tecnologica ed una più efficace sperimentazione dei nuovi processi e prodotti saranno in grado di assicurare il mantenimento nel tempo della capacità competitiva dinamica dell’industria italiana. Alle strutture produttive di ricerca
scientifica e tecnologica, il Paese deve guardare come ad uno dei principali
destinatari di investimenti per il proprio futuro.
Ma non basta incrementare le risorse, occorre avviare quell’effettivo
progresso scientifico/tecnologico per l’industria che nasce prevalentemente
dal lavoro organizzato di strutture adeguatamente dotate di uomini e mezzi,
impegnati permanentemente in singoli campi o settori. È in particolare
nell’organizzazione strutturata dell’attività di ricerca che si alimentano le reciproche sollecitazioni a lavorare nei diversi campi di indagine, che si favorisce lo scambio di conoscenze, che si moltiplicano e si accelerano gli effetti
indotti dell’indagine e della sperimentazione.
Pari urgenza e importanza riveste per il Paese l’obiettivo dell’innovazione tecnologica nelle attività di servizio, commerciali ed agricole.
L’efficienza e l’evoluzione tecnologica dei servizi (da quello bancario
a quello del trasporto a quello dei servizi di telecomunicazione e di informatica) sono condizione essenziale per la concorrenzialità delle imprese in ogni
settore di attività.
E d’altra parte, la modernizzazione dell’agricoltura, oltre a preservare
importanti quote del reddito nazionale e contenere il deficit della bilancia
commerciale, costituisce, se raccordata alla ricerca scientifica, il mezzo privilegiato di una effettiva politica di difesa del territorio e di tutela dell’equilibrio ambientale fondata sulla continuità della presenza e dell’attività delle
comunità rurali.
L’attuale sistema della ricerca e dell’innovazione è inadeguato a questi
fini. Occorre una nuova politica per dotare il Paese di risorse, strumenti e
“capitale umano” di entità e qualità appropriata ad un sistema innovativo,
146
moderno finalizzato e orientato dal mercato. Interventi mirati a dare al Paese una adeguata infrastruttura di ricerca scientifica e tecnologica industriale,
si dovranno ispirare al consolidamento, adeguamento ed armonizzazione
delle strutture esistenti, alla realizzazione di nuove strutture di adeguata dimensione nonché ad una sempre maggiore interconnessione tra pubblico e
privato.
Tutto ciò nelle tre direzioni:
a) del riordino, valorizzazione e rafforzamento delle strutture di ricerca pubbliche quali l’Università, il CNR, l’ENEA, anche in direzione di una migliore finalizzazione delle loro attività.
b) Della valorizzazione delle strutture organizzate interne alle imprese;
c) della creazione di strutture di ricerca esterne sia ai complessi aziendali
che alle strutture pubbliche, alla cui promozione, sostegno ed amministrazione siano chiamati soggetti privati e pubblici in forme costitutive
diverse;
Tra gli obiettivi della politica dei redditi va annoverato quello della
creazione di adeguati margini nei conti economici delle imprese per le risorse finalizzate a sostenere i costi della ricerca.
Per supportare un’infrastruttura scientifica e tecnologica che sostenga
un sistema di ricerca ed innovazione si richiede:
a) la presentazione al Parlamento entro tre mesi del piano triennale della ricerca ai sensi dell’art. 2 della legge 168 del 1989, al fine di definire le
scelte programmatiche, le modalità per il coordinamento delle risorse,
dei programmi e dei soggetti, nonché le forme attuative di raccordo tra
politica nazionale e comunitaria. La presentazione di tale piano sarà preceduta da una consultazione con le parti sociali.
b) un aumento ed una razionalizzazione delle risorse destinate all’attività di
ricerca e all’innovazione, concentrando gli interventi nelle aree e nei settori prioritari del sistema produttivo italiano privilegiando le intese e le
sinergie realizzate in sede europea, anche rafforzando l’azione del sistema delle piccole e medie imprese e sui loro consorzi.
A tali fini saranno adottate misure di rifinanziamento, riorientamento e,
ove necessario, di riforma della legislazione esistente. In particolare, il rifinanziamento è necessario per le leggi 46/82 e 346/88 per la ricerca applicata,
per le nuove finalità dell’intervento ordinario nelle aree depresse del Paese,
per la legge 317/91;
147
c) l’introduzione, attraverso la presentazione di un apposito provvedimento
legislativo, di nuove misure automatiche di carattere fiscale e contributivo, in particolare mediante la defiscalizzazione delle spese finalizzate
all’attività di ricerca delle imprese nonché la deducibilità delle erogazioni liberali a favore di specifici soggetti operanti nel campo della ricerca;
d) la revisione e semplificazione del regime esistente di sostegno alle imprese, con l’obiettivo di accelerare i meccanismi di valutazione dei progetti
e di erogazione dei fondi;
e) l’attivazione ed il potenziamento di “luoghi” di insediamento organico di
iniziative di ricerca, quali i parchi scientifici e tecnologici, con la finalità,
tra l’altro, di promuovere la nascita di istituti dedicati alla ricerca settoriale interessante le problematiche specifiche dell’economia del territorio
funzionali alla crescita ed alla nascita di iniziative imprenditoriali private.
Si potranno collocare in tale ambito e nelle forme di collaborazione
che esso comporta tra università, enti pubblici e imprese, i progetti rivolti alla innovazione tecnologica nei settori di interesse prioritario delle amministrazioni locali quali, in primo luogo, la tutela dell’ambiente le reti locali ed i
sistemi di mobilità. Per il reperimento delle risorse necessarie potrà essere
utilizzato lo strumento degli accordi di programma previsto dall’art. 3 comma 3 della legge 168/89 con specifici finanziamenti. Al finanziamento di tali
iniziative dovranno concorrere capitali privati;
f) il ricorso al mercato finanziario e creditizio, ad oggi praticamente inoperante, attraverso la creazione di appositi canali e l’utilizzo di specifici
strumenti capaci di attrarre capitale di rischio su iniziative e progetti nel
settore della ricerca e dell’innovazione.
Interessanti prospettive possono discendere dalla recente introduzione
di nuovi intermediari finanziari rivolti al capitale di rischio (fondi chiusi,
fondi d’investimenti, venture capital, previdenza complementare);
g) lo sviluppo di progetti di ricerca promossi dalle imprese sui quali far convergere la collaborazione delle università. Un più stretto rapporto tra
mondo dell’impresa e mondo dell’università potrà inoltre rilanciare, anche attraverso maggiori disponibilità finanziarie, una politica di qualificazione e formazione delle “risorse umane”, in grado di creare nuclei di
ricercatori che, strettamente connessi con le esigenze delle attività produttive, possano generare una fertilizzazione tra innovazione e prodotti,
ponendo una particolare attenzione anche ai processi di sviluppo delle
piccole e medie imprese;
148
h) l’attivazione di programmi di diffusione e trasferimento delle tecnologie
a beneficio delle piccole e medie imprese e dei loro consorzi, che costituiscono obiettivo rilevante dei parchi tecnologici e scientifici, per i quali
sono già previsti appositi stanziamenti di risorse, anche attraverso la rivitalizzazione delle stazioni sperimentali;
i) la valorizzazione, nel processo di privatizzazione e riordino dell’apparato
industriale pubblico, del patrimonio di ricerca ed innovazione presente al
suo interno;
l) l’attivazione di una politica della domanda pubblica maggiormente standardizzata e qualificata, attenta ai requisiti tecnologici dei prodotti nonché volta alla realizzazione di un sistema di reti tecnologicamente avanzate.
A tali fini acquisisce particolare importanza il collegamento sistematico
con l’attività delle strutture di coordinamento settoriale, immediatamente
attivabile con l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, ed estendibile ai settori della sanità e del trasporto locale.
Per consentire la realizzazione degli obiettivi fin qui indicati è necessario che la spesa complessiva per il sistema della ricerca e dello sviluppo nazionale, pari a 1,4% del Pil, cresca verso i livelli su cui si attestano i paesi
più industrializzati, 2,5-2,9% del Pil.
Il tendenziale recupero di tale differenza è condizione essenziale perché la ricerca e l’innovazione tecnologica svolgano un ruolo primario per
rafforzare la competitività del sistema produttivo nazionale. In tale quadro
appare necessario perseguire nel prossimo triennio l’obiettivo di una spesa
complessiva pari al 2% del Pil.
Tale obiettivo non può essere realizzato con le sole risorse pubbliche. Queste dovranno essere accompagnate da un’accresciuta capacità di
autofinanziamento delle imprese, da una maggiore raccolta di risparmio
dedicato, da una maggiore propensione di investimento nel capitale di rischio delle strutture di ricerca e delle imprese ad alto contenuto innovativo.
Dovrà necessariamente registrarsi l’avvio di un crescente impegno delle autonomie regionali e locali nell’ambito delle risorse proprie.
Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri sarà periodicamente
svolto un confronto tra i soggetti istituzionali competenti e le parti sociali
per una verifica dell’evoluzione delle politiche e delle azioni sopra descritte
nonché dell’efficacia degli strumenti a tali fini predisposti.
149
Istruzione e formazione professionale
Le parti condividono l’obiettivo di una modernizzazione e riqualificazione dell’istruzione e dei sistemi formativi, finalizzati all’arricchimento
delle competenze di base e professionali e al miglioramento della competitività del sistema produttivo e della qualità dei servizi.
Tale processo comporta, da un lato decisi interventi di miglioramento e
sviluppo delle diverse tipologie di offerte formative, dall’altro una evoluzione delle relazioni industriali e delle politiche aziendali per la realizzazione
della formazione per l’inserimento, della riqualificazione professionale, della formazione continua. Risorse pubbliche e private dovranno contribuire a
questo scopo.
Su queste premesse, il Governo e le parti sociali ritengono che occorra:
a) un raccordo sistematico tra il mondo dell’istruzione ed il mondo del lavoro, anche tramite la partecipazione delle parti sociali negli organismi istituzionali dello Stato e delle Regioni dove vengono definiti gli orientamenti ed i programmi e le modalità di valutazione e controllo del sistema
formativo;
b) realizzare un sistematico coordinamento interistituzionale tra i soggetti
protagonisti del processo formativo (Ministero del Lavoro, Ministero
della Pubblica Istruzione, Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica, Regioni) al fine di garantire una effettiva gestione integrata
del sistema;
c) istituire il Consiglio Nazionale della Formazione Professionale, presso il
Ministero del Lavoro con i rappresentanti dei Ministeri suindicati, del
Ministero dell’Industria, delle Regioni e delle parti sociali;
d) prontamente realizzare l’adeguamento del sistema di formazione professionale con la revisione della Legge quadro 845/78, secondo le linee già
prefigurate, tenuto conto dell’apporto che può essere fornito dal sistema
scolastico:
- rilievo dell’orientamento professionale come fattore essenziale;
- definizione di standards formativi unici nazionali coerenti con l’armonizzazione in atto in sede comunitaria;
- ridefinizione delle responsabilità istituzionali tra il Ministero del Lavoro
(potere di indirizzo e ruolo di garanzia sulla qualità della formazione e
sulla validazione dei suoi risultati) e Regioni (ruolo di progettazione della
150
offerta formativa coerentemente con le priorità individuate nel territorio).
In questo ambito, alla Conferenza Stato-Regioni dovrà essere affidato il
compito di ricondurre ad un processo unitario di programmazione e valutazione le politiche formative;
- ruolo decisivo degli osservatori della domanda di professionalità istituiti
bilateralmente dalle parti sociali;
- specifica considerazione degli interventi per i soggetti deboli del mercato;
- sistema gestionale pluralistico e flessibile;
- avvio della formazione continua.
e) Elevare l’età dell’obbligo scolastico a 16 anni, mediante iniziativa legislativa che, fra l’altro, valorizzi gli apporti che al sistema scolastico possono essere offerti da interventi di formazione professionale; per assicurare la maggiore efficacia sociale a tale obiettivo, esso dovrà essere accompagnato dalla messa a punto di strumenti idonei alla prevenzione ed
al recupero della dispersione scolastica, individuando tra l’altro in tale attività uno dei possibili campi di applicazione dei programmi di interesse
collettivo;
f) portare a termine la riforma della scuola secondaria superiore, nell’ottica
della costruzione di un sistema per il 2000, integrato e flessibile tra sistema scolastico nazionale e formazione professionale ed esperienze formative sul lavoro sino a 18 anni di età;
g) valorizzare l’autonomia degli istituti scolastici ed universitari e delle sedi qualificate di formazione professionale, per allargare e migliorare
l’offerta formativa post-qualifica, post-diploma e post-laurea, con particolare riferimento alla preparazione di quadri specializzati nelle nuove
tecnologie, garantendo il necessario sostegno legislativo a tali percorsi
formativi;
h) finalizzare le risorse finanziarie derivanti dal prelievo dello 0,30% a carico delle imprese (1.845/78) alla formazione continua, al di là di quanto
previsto nel D.L. n. 57/93, privilegiando tale asse di intervento nella futura riforma a livello comunitario del Fondo Sociale Europeo;
i) prevedere un piano straordinario triennale di riqualificazione ed aggiornamento del personale, ivi compresi i docenti della scuola e della formazione professionale, per accompagnare il decollo delle linee di riforma suindicate.
151
Finanza per le imprese ed internazionalizzazione
Per il pieno inserimento del sistema produttivo italiano e quello europeo e per l’effettiva integrazione dei mercati finanziari italiani in quelli comunitari, occorre affrontare in tutta la sua portata il problema del trattamento
fiscale delle attività economiche e delle attività finanziarie. Si tratta di un vasto campo di riforme da svolgere in armonia con gli obiettivi di controllo e
di risanamento del bilancio pubblico per superare le numerose distorsioni del
sistema attuale e rendere più equilibrate le condizioni operate dai mercati nel
finanziamento delle imprese.
L’esigenza di reperire le risorse utili alla crescita richiede un mercato
finanziario più moderno ed efficace, in grado di assicurare un maggior raccordo diretto e diffuso tra risparmio privato ed imprese, anche ampliando la
capacità delle imprese di ricorrere a nuovi strumenti di provvista.
Va affrontato il problema del ritardo dei pagamenti del settore statale al
sistema produttivo al fine di eliminare un ulteriore vincolo alla finanza d’impresa, attraverso la predisposizione di procedure, anche con eventuali possibili forme di compensazione, che impediscono il ripetersi dei ritardi.
A tal fine vanno introdotti nel nostro ordinamento con rapidità i fondi
chiusi ed i fondi immobiliari, va sviluppata la previdenza complementare, va
dato impulso alla costituzione dei mercati mobiliari locali, vanno favorite
forme di azionariato diffuso anche se in gestione fiduciaria, va infine sviluppata una politica delle garanzie, che tenga conto anche delle iniziative comunitarie.
Si favorirà altresì la costituzione e lo sviluppo di consorzi di garanzia
rischi, di consorzi produttivi tra imprese e di imprese di “venture capital” anche attraverso l’uso della 317/91.
Quanto al sistema degli intermediari finanziari e alle possibilità concesse agli stessi dal recepimento della II direttiva sulle banche, va facilitata
l’operatività nel campo dei finanziamenti a medio termine e di quelli miranti
a rafforzare il capitale di rischio delle imprese, in primo luogo accelerando i
processi di concentrazione e privatizzazione del sistema bancario e di una
sua apertura alla concorrenza internazionale, in secondo luogo rimuovendo
contestualmente gli ostacoli che ritardano l’attuazione concreta della suddetta direttiva.
Per aumentare la penetrazione delle imprese italiane nei mercati internazionali occorre definire strumenti più efficaci e moderni per la politica di
promozione e per il sistema di assicurazione dei crediti all’export. Dovrà essere sviluppata la capacità di promozione e gestione di strumenti operativi
152
che riducano il rischio finanziario quali il “project financing” ed il “counter
trade”, anche promuovendo una più incisiva capacità di trading gestito da
operatori nazionali.
È necessario razionalizzare e rendere più trasparente l’intervento pubblico a sostegno della presenza delle imprese italiane sui mercati internazionali, considerando anche le esigenze delle piccole e medie imprese, facilitando l’accesso di tutti gli operatori alle informazioni ed aumentando le capacità istruttorie al fine di rendere più produttivo l’uso delle risorse pubbliche e
di orientare queste su obiettivi economici strategici e di politica estera definiti a livello di governo e in confronto con le imprese. Appare inoltre importante garantire un coerente coordinamento dei soggetti preposti al rafforzamento della penetrazione all’estero del sistema produttivo per offrire una più
vasta e coordinata gamma di strumenti operativi
In questo quadro va riformata la SACE, aumentandone la capacità di
valutazione dei progetti e del rischio paese. L’attività di copertura dei rischi di
natura commerciale va nettamente separata da quella connessa ai rischi politici e svolta in più stretta collaborazione con le società assicurative private.
Riequilibrio territoriale, infrastrutture e domanda pubblica
La situazione di crisi e le tensioni sociali che si registrano in Italia si
presentano differenziate a livello territoriale. In queste condizioni, un processo di ripresa economica, in assenza di una politica di riequilibrio territoriale, rischia di produrre un aumento del divario tra aree in ritardo di sviluppo, aree di declino industriale, aree di squilibrio tra domanda e offerta di lavoro.
La tradizionale politica sulle aree deboli, incentrata soltanto sull’intervento straordinario nel mezzogiorno, appare superata dai recenti provvedimenti governativi. Questi disegnano una nuova strategia di intervento,
orientata su di una politica regionale “ordinaria” più ampia, mirata a sostenere e creare le premesse per lo sviluppo economico di tutte le aree deboli
del Paese.
Tale politica deve essere, inoltre, coordinata con i nuovi strumenti comunitari che divengono parte integrante dell’azione per il sostegno allo sviluppo e, allo stesso tempo, criterio guida per la definizione delle modalità e
dell’intensità degli interventi. Occorre, pertanto, giungere ad un’ottimizzazione delle risorse finanziarie provenienti dai Fondi strutturali della Cee, assicurandone il pieno utilizzo, soprattutto in vista del programma 1994-1999.
153
Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica diviene
la sede centrale di indirizzo, coordinamento, programmazione e vigilanza
per ottimizzare l’azione di governo e per massimizzare l’efficacia delle risorse pubbliche ordinarie a vario titolo disponibili. In questo modo sarà possibile dare maggiore trasparenza alle risorse destinate agli investimenti ed
assicurarne una più rapida erogazione alle imprese. La creazione di un organo indipendente presso lo stesso Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, quale l’Osservatorio delle politiche regionali, per verificare l’andamento e l’efficacia degli interventi nelle aree deboli rappresenta
un’ulteriore iniziativa per garantire l’effettivo dispiegarsi della politica regionale.
La politica regionale, oltre a flussi finanziari diretti allo sviluppo, dovrà prevedere una forte e mirata azione di sostegno alla riduzione delle diseconomie esterne, individuate nei diversi livelli di infrastrutturazione, nello
sviluppo dei servizi a rete, nel funzionamento della Pubblica Amministrazione. Per conseguire tale obiettivo va rilanciata l’azione di programmazione
degli investimenti infrastrutturali, riqualificando la domanda pubblica come
strumento di sostegno alle attività produttive. In particolare, devono essere
sostenuti gli investimenti nelle infrastrutture metropolitane, viarie ed idriche,
nei settori dei trasporti, energia e telecomunicazioni, nell’ambiente e nella
riorganizzazione del settore della difesa. A tal fine, la Presidenza del Consiglio dovrà assumere compiti e responsabilità di coordinamento della domanda e della spesa pubblica di investimenti, istituendo specifiche strutture di
coordinamento, quale quella introdotta per la spesa di informatica nella pubblica amministrazione, a partire dai settori di maggiore interesse per lo sviluppo produttivo e sociale.
Questa politica regionale dovrà, infine, consentire l’avvio di azioni di
politica industriale volte alla reindustrializzazione delle aree in declino industriale ed alla promozione di nuove attività produttive. Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica ed il Comitato per il coordinamento delle iniziative per l’occupazione, istituito presso la Presidenza del
Consiglio, svolgeranno un ruolo di indirizzo e di coordinamento delle iniziative in tali aree, che dovranno essere gestite con maggiore efficacia e finalizzazione e che saranno affidate alle agenzie ed ai comitati oggi esistenti, anche mediante accordi di programma.
La politica regionale dovrà, altresì, promuovere la realizzazione delle
condizioni ambientali che consentano un recupero di competitività delle imprese agricole e turistiche, considerata la loro importanza sia sotto l’aspetto
produttivo, sia sotto quello della generazione di attività agro-industriali e di
servizio ad esse collegate.
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Gli investimenti pubblici, anche in presenza di forti ristrettezze di bilancio, devono essere rilanciati attraverso una più efficace e piena utilizzazione delle risorse disponibili, riducendo la generazione di residui passivi
per l’insorgere di problemi procedurali e di natura allocativa. In questa direzione si muovono i provvedimenti recentemente varati dal Governo e soprattutto la riforma degli appalti che appare idonea a rilanciare la realizzazione
di opere di utilità pubblica oggi completamente ferme.
Inoltre, l’azione di rilancio degli investimenti pubblici dovrà essere distribuita in modo tale da poter favorire l’impiego aggiuntivo di risorse private, insistendo in modo particolare nelle aree dove più grave è la crisi produttiva ed occupazionale.
Pertanto, appare importante favorire il coinvolgimento del capitale privato, nazionale ed internazionale, nel finanziamento della dotazione infrastrutturale, garantendo la remunerazione dei capitali investiti, attraverso
l’utilizzo di apposite strutture di “project financing”. Tali strutture potrebbero interessare, in via sperimentale, le infrastrutture metropolitane, viarie ed
idriche.
In questo quadro è necessario perseguire un dialogo costruttivo tra le
amministrazioni pubbliche centrali e regionali e le parti sociali per definire
le linee di intervento più appropriate atte a promuovere le condizioni di sviluppo delle aree individuate, anche attraverso una valida politica di infrastrutturazione con particolare riferimento a quelle mirate allo sviluppo di attività produttive.
I criteri di tale politica devono, pertanto, essere:
a) la definizione di un nuovo ambito territoriale di intervento individuato in
armonia con le scelte che verranno operate dalla Comunità Europea;
b) l’individuazione di interventi infrastrutturali a livello regionale, interregionale e nazionale sulle grandi reti con l’obiettivo della riduzione dei
costi del servizio e la sua qualificazione tecnologica;
c) il mantenimento di un flusso di risorse finanziarie anche nella fase transitoria di definizione del nuovo intervento regionale;
d) il rafforzamento del decentramento delle decisioni a livello regionale,
con la realizzazione di accordi di programma Stato-Regioni ed attribuendo maggiore spazio al ruolo dei soggetti privati (partenariato);
e) la revisione delle competenze delle amministrazioni interessate agli interventi pubblici e all’erogazione dei pubblici servizi, ai fini di una loro
maggiore efficienza, efficacia e tempestività;
155
f) la concentrazione nelle aree individuate dell’azione di qualificazione professionale del personale impiegato nelle realtà produttive a maggior specificazione tecnologica.
g) La piena e completa attivazione della legge 317/91 al fine di promuovere
lo sviluppo di servizi reali alle piccole e medie imprese.
Gli strumenti guida attraverso cui sarà possibile sviluppare la nuova
politica regionale possono essere così individuati:
a) strutture di coordinamento settoriale (Authority), sulla base delle analoghe iniziative intraprese a livello nazionale, inizialmente limitate al settore sanitario ed in quello del trasporto locale;
b) accordi di programma tra Governo centrale e amministrazioni regionali,
al fine di concertare le scelte prioritarie per l’infrastrutturazione del territorio ed accelerare le procedure relative ad atti di concessione ed autorizzazione;
c) norme specifiche tendenti a rimuovere ostacoli di natura procedurale (anche in conseguenza del decreto legislativo n. 29/93), che permettano una
rapida approvazione ed attuazione degli interventi. In tale quadro è necessario prevedere appropriati strumenti normativi finalizzati al riorientamento su obiettivi prioritari delle risorse disponibili, al fine di consentire
una rapida cantierizzazione delle opere già approvate.
Politica delle tariffe
Il protocollo del 31 luglio 1992 conteneva l’impegno del Governo a
perseguire una politica tariffaria per i pubblici servizi coerente con l’obiettivo di riduzione dell’inflazione. Tale obiettivo è stato perseguito, consentendo di ottenere risultati molto positivi. Al fine di mantenere l’obiettivo della
riduzione dell’inflazione e, nel contempo, di consentire il mantenimento dei
programmi di investimento, sarà svolto un confronto con le parti per verificare la politica tariffaria, già definita e da definire, per il periodo 1993-94.
Una politica tariffaria di carattere europeo non può soltanto limitarsi al
perseguimento di obiettivi di carattere macroeconomico, quali il contenimento dell’inflazione, bensì deve anche essere utilizzata per lo sviluppo di
un efficiente sistema di servizi pubblici.
La necessità di rilanciare la domanda pubblica e quella di investimenti
del sistema delle imprese, unitamente all’avvio del processo di riordino delle
156
società di gestione dei servizi pubblici, impone l’esigenza di superare la logica del contenimento delle tariffe e di avviarsi verso un sistema che dia certezza alla redditività del capitale investito in dette imprese e che non limiti lo
sviluppo degli investimenti.
A tal fine, è necessario stimolare ampi recuperi di produttività, raccordare più direttamente il livello delle tariffe ai costi effettivi del servizio, garantendo altresì adeguati margini di autofinanziamento in grado di favorire
la realizzazione degli investimenti necessari. In questo quadro, appare altrettanto importante prevedere una graduale correzione della struttura delle tariffe vigenti, per avvicinarla a quelle in vigore nei maggiori Paesi europei.
Dovranno essere liberalizzati i settori che non operano in regime di monopolio.
Nella definizione dei criteri di determinazione tariffaria si dovranno
inoltre tutelare le esigenze dell’utenza, anche con riferimento alle piccole e
medie imprese e ai conseguenti effetti indotti sul livello dei prezzi, definendo standard qualitativi determinati, in linea con quelli vigenti nei maggiori
paesi industrializzati, su cui si eserciterà l’attività di regolazione.
A tal fine, infatti, si dovranno istituire appropriate autorità autonome
che, in sostituzione dell’attività attualmente svolta dalle amministrazioni
centrali e delle corrispondenti strutture, garantiscano, con una continua, indipendente e qualificata azione di controllo e regolamentazione, gli obiettivi
sopra indicati.
Dette autorità dovranno essere strutturate in modo tale da favorire
l’espressione delle esigenze dell’utenza.
Dovranno altresì adottare una metodologia di definizione dei prezzi dei
pubblici servizi attraverso lo strumento del price cap e dei contratti di programma, che rispetti le differenti esigenze emergenti. Saranno previste conferenze di coordinamento tra dette autorità autonome al fine di assicurarne
comportamenti coerenti.
157
RACCOMANDAZIONE
DEL
CONSIGLIO
DEL
30 GIUGNO 1993 SULL’ACCESSO ALLA
(93/404/CEE) (G.U. CE N. 181
FORMAZIONE PROFESSIONALE PERMANENTE
DEL
23 GIUGNO 1993)
IL CONSIGLIO DELLE COMUNITÀ EUROPEE,
visto il trattato che istituisce la Comunità economica europea, in particolare
l’art. 128;
vista la proposta della Commissione;
visto il parere del Parlamento europeo;
visto il parere del Comitato economico e sociale;
considerando che il primo principio enunciato nella decisione
63/266/CEE del Consiglio, del 2 aprile 1963, che stabilisce dei principi generali per l’attuazione di una politica comune di formazione professionale,
prevede che ciascuno debba ricevere una formazione adeguata, riferendosi
in modo speciale alla necessità di promuovere la formazione di base e la formazione professionale avanzata e, se del caso, la riqualificazione adattata alle varie tappe della vita professionale e alla necessità di offrire a ciascuno,
tramite mezzi atti a permettere un miglioramento sul piano professionale, sia
l’accesso a un livello professionale superiore, sia la preparazione per una
nuova attività di livello più elevato;
considerando che, ai sensi della decisione 63/266/CEE, l’applicazione
dei principi generali incombe agli Stati membri e alle istituzioni competenti
della Comunità nell’ambito del trattato;
considerando che lo sviluppo delle risorse umane attraverso la formazione professionale costituisce uno degli elementi essenziali per accrescere
la competitività dell’economia europea; che, come ha dichiarato il Consiglio
europeo di Hannover, del 27 e 28 giugno 1988, la realizzazione del mercato
unico deve procedere di pari passo con uno sviluppo dell’accesso alla formazione permanente;
158
considerando che l’evoluzione tecnologica, le sue conseguenze sulle
qualifiche dei lavoratori e l’aumento della disoccupazione rendono necessario potenziare l’accesso alla formazione professionale permanente;
considerando che la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali
dei lavoratori, adottata al Consiglio europeo di Strasburgo il 9 dicembre
1989 dai Capi di Stato e di Governo di undici Stati membri, dichiara, tra
l’altro, al punto 15 che:
“Ogni lavoratore della Comunità europea deve poter accedere alla formazione professionale e beneficiarne nell’arco della vita attiva. Per quanto
riguarda le condizioni d’accesso alla formazione professionale non vi possono essere discriminazioni basate sulla nazionalità.
Le autorità pubbliche competenti, le imprese o le parti sociali, nelle loro rispettive sfere di competenza, dovrebbero predisporre i sistemi di formazione continua e permanente che consentano a ciascuno di riqualificarsi, in
particolare fruendo di congedi-formazione, di perfezionarsi ed acquisire
nuove conoscenze, tenuto conto in particolare dell’evoluzione tecnica”;
considerando che la formazione professionale permanente ha formato
oggetto di preoccupazione costante delle parti sociali nel quadro del dialogo
sociale;
considerando che il 22 ottobre 1992 il Comitato economico e sociale
ha adottato una relazione d’informazione sulla “Formazione professionale:
la promozione delle qualifiche professionali, strumento strategico dello sviluppo economico e sociale della Comunità europea”;
considerando che, il 21 aprile 1993, il Parlamento europeo ha adottato
una relazione d’iniziativa sulla formazione professionale nella Comunità europea per gli anni Novanta, in cui è affrontata la questione dell’accesso permanente;
considerando che, a livello comunitario, sono state iniziate azioni di
collaborazione internazionale;
considerando che le tendenze demografiche ridurranno drasticamente il
numero di giovani che si affacciano sul mercato del lavoro nella Comunità,
cosa che, collegata ai mutamenti dell’ambiente di lavoro, deve avere per
conseguenza un’attuazione e un migliore adattamento delle competenze della popolazione attiva;
considerando che sul piano comunitario si constata che le difficoltà che
le donne incontrano per quanto concerne l’accesso all’occupazione sono dovute in gran parte a un minore accesso alla formazione professionale; che
occorre dedicare particolare attenzione affinché esse abbiano un accesso ef-
159
fettivo alla formazione professionale permanente; che occorre tener conto
anche dell’incremento del numero di donne attive;
considerando che la collaborazione nel campo della formazione professionale permanente deve basarsi sulle disposizioni già attuate negli Stati
membri, nel rispetto delle diversità dei sistemi giuridici nazionali e delle pratiche nazionali, delle competenze di diritto interno delle parti interessate e
dell’autonomia contrattuale; che essendo le iniziative prese sul piano nazionale dagli Stati membri e dalle parti sociali numerose e varie, appare evidente, nella prospettiva della Carta comunitaria dei diritti sociali e fondamentali
dei lavoratori e tenuto conto della dimensione internazionale dell’azione,
che esse debbano essere sostenute sul piano comunitario; che è essenziale
favorire la sinergia dei mezzi e i partenariati tra i settori pubblico e privato;
considerando che il comitato consultivo per la formazione professionale è stato consultato, e che esso ha riconosciuto l’importanza strategica della
questione della formazione professionale permanente nelle imprese, sia per
gli Stati membri, sia per la Comunità, nonché la necessità che la Comunità
abbia un ruolo attivo in questo campo,
I. Raccomanda che gli Stati membri, tenendo conto delle risorse disponibili e delle responsabilità proprie delle competenti autorità pubbliche,
delle imprese e delle parti sociali, nel rispetto della diversità delle legislazioni e/o delle prassi nazionali, orientino le loro politiche di formazione professionale in modo che ogni lavoratore della Comunità possa accedere alla formazione professionale permanente senza alcuna forma di discriminazione e
beneficiarne nell’arco della vita attiva;
II. Raccomanda, per agevolare questo accesso e renderlo il più ampio
possibile, che gli Stati membri:
1) favoriscano, all’interno delle imprese, la presa di coscienza della
coerenza tra competenze dei lavoratori e capacità concorrenziale delle imprese per incentivare queste ultime ad accordare priorità allo sviluppo
della qualità e delle competenze dei lavoratori loro dipendenti e ad istituire piani e programmi di formazione appropriati alle loro dimensioni e ai
loro obiettivi, sensibilizzando ed informando conseguentemente i loro dirigenti.
Tali piani e programmi possono essere fissati tenendo conto soprattutto
delle risorse umane e finanziarie disponibili, dell’organizzazione del lavoro,
dei bisogni futuri di competenze, della necessità di anticipare l’evoluzione
industriale e tecnologica e della dimensione transnazionale della formazione
professionale permanente;
160
2) prevedano misure di incentivazione e di assistenza tecnica specifiche a beneficio delle piccole e medie imprese.
Dette misure potrebbero comprendere, ad esempio, ausili alla consulenza in materia di formazione ed aiuti per l’analisi delle esigenze di formazione;
3) incentivino le imprese a promuovere la formazione professionale
permanente necessaria al loro sviluppo, tenendo conto della situazione particolare dei dipendenti di tali imprese segnatamente per promuovere, per
quanto necessario, le misure definite nei paragrafi che seguono;
4) prevedano incentivi e misure di assistenza tecnica specifici che siano appropriati, necessari e adeguati, a beneficio delle imprese che si trovano
di fronte a processi di mutamento industriale, al fine di favorire la formazione e la riconversione professionale dei loro dipendenti;
5) sviluppino la formazione professionale permanente per farne un
fattore essenziale di sviluppo regionale e locale, prendendo in considerazione le esigenze specifiche dei lavoratori e delle imprese, appoggino la realizzazione delle compartecipazioni, segnatamente a livello regionale o locale,
volte ad analizzare i bisogni dell’impresa e dei dipendenti nonché a fornire
l’informazione aggiornata sulle possibilità di formazione per garantire il migliore adeguamento possibile tra l’offerta e la domanda;
6) facciano presente ai datori di lavoro che essi dovrebbero informare i
loro dipendenti al più presto, ed eventualmente all’atto dell’assunzione, sulla
politica e sulle attività svolte dall’impresa nel settore della formazione professionale permanente e della crescita personale, nonché sulle condizioni di
accesso alla formazione professionale permanente, compresa la possibilità di
beneficiare di un collocamento in disponibilità per poter seguire una formazione professionale permanente;
7) incoraggino le iniziative che consentano ai lavoratori che lo desiderano di valutare i loro bisogni in materia di formazione professionale permanente.
Tale valutazione dovrebbe essere realizzata nell’impresa o al di fuori di
essa e/o in compartecipazione con gli enti specializzati.
L’utilizzazione dei risultati è di carattere riservato;
8) favoriscano l’informazione e la consultazione dei rappresentanti dei
lavoratori o, in mancanza di essi, dei lavoratori stessi, sull’elaborazione dei
piani e programmi di formazione dell’impresa interessata;
161
9) suscitino nei lavoratori e nelle imprese la consapevolezza del valore
della formazione professionale permanente che conduca a qualifiche adeguate al mercato del lavoro.
Occorrerebbe al riguardo garantire che la formazione non si limiti
all’adeguamento specifico al posto di lavoro, ma che offra i mezzi per anticipare e controllare l’evoluzione dei sistemi di produzione e di organizzazione
del lavoro per rafforzare la competitività delle imprese e migliorare le prospettive professionali dei lavoratori;
10) sostengano, nell’ambito della formazione professionale permanente, lo sviluppo dei metodi di insegnamento e di apprendimento più appropriati che facilitino l’accesso dei lavoratori a tale formazione, ad esempio
metodi di autoformazione sul posto di lavoro, apprendimento a distanza, apprendimento con l’ausilio dei media, ecc.
11) contribuiscano affinché i lavoratori meno qualificati, qualunque
sia la loro posizione, beneficino delle azioni di formazione professionale
permanente che consentano loro di raggiungere il primo livello di qualifica e
forniscano loro le basi per dominare le nuove tecnologie.
Si dovrebbe prestare particolare attenzione all’accesso alla formazione
permanente dei lavoratori e delle categorie di lavoratori che non hanno potuto beneficiare di azioni di formazione per un certo periodo, o le cui possibilità occupazionali e professionali sono ridotte;
12) incoraggino l’accesso delle donne e la loro partecipazione effettiva alla formazione professionale permanente.
Ciò può contribuire soprattutto ad aprire alle donne nuovi ambiti professionali e a facilitare loro la ripresa di un’attività professionale dopo un’interruzione;
13) incoraggino l’accesso e la partecipazione dei giovani con qualificazione o esperienza professionale, con qualunque livello di competenza, alla formazione permanente per consentire loro di realizzare a pieno le loro
potenzialità e di acquisire competenze per il presente e per il futuro;
14) incoraggino l’accesso dei disoccupati e la loro partecipazione alla
formazione professionale permanente.
Occorrerebbe prestare particolare attenzione ai disoccupati di lunga durata, la cui qualificazione è insufficiente e/o inadeguata, al fine di migliorare
il loro inserimento e il loro reinserimento professionale.
La formazione professionale permanente dei disoccupati con la partecipazione delle imprese è particolarmente adatta a promuovere il reinserimento nel mercato del lavoro;
162
15) favoriscano, nelle politiche relative all’accesso alla formazione
professionale permanente, la dimensione transnazionale, in particolare per
facilitare la libera circolazione dei lavoratori;
III. 1. Invita la Commissione a rafforzare la collaborazione con gli
Stati membri e le parti sociali, in particolare nell’ambito del Comitato consultivo per la formazione professionale, per sostenere l’attuazione di quanto
disposto al punto II.
2. Invita a tal fine la Commissione a procedere di concerto con gli Stati membri, utilizzando i programmi d’azione e le iniziative comunitarie esistenti nel campo della formazione, compreso eventualmente il Fondo sociale
europeo, e ricorrendo agli organismi specializzati della Comunità, quale il
CEDEFOP, a:
a) diffondere ed arricchire le informazioni comparative pertinenti sui sistemi di formazione professionale permanente, ivi incluse le disposizioni e i
metodi in vigore per l’integrazione dei giovani alla ricerca di lavoro e dei
disoccupati di lunga durata;
b) promuovere gli scambi di conoscenze adeguate e di metodi riguardanti le
esperienze più significative di formazione permanente;
c) sostenere i trasferimenti di appropriate conoscenze tra gli Stati membri,
importanti per l’attuazione del punto II, tramite partenariati internazionali
e reti, in specie a beneficio delle regioni, dei settori e dei tipi d’impresa e
delle categorie di lavoratori per i quali l’accesso alla formazione permanente è meno ampio.
3. Invita parimenti la Commissione a sostenere gli interventi delle parti sociali a livello comunitario, nell’ambito del dialogo sociale, al fine di approfondire la riflessione sull’accesso alla formazione professionale permanente; questo dialogo può condurre a relazioni convenzionali, se le parti sociali lo ritengono auspicabile;
IV. 1. Invita gli Stati membri a fornire alla Commissione, tre anni dopo l’adozione della presente raccomandazione, una relazione che descriva le
misure prese in applicazione dei punti I e II;
2. Invita la Commissione a:
a) stendere sulla base delle relazioni degli Stati membri e dei risultati del
dialogo sociale, una relazione di valutazione sui progressi compiuti in
materia di accesso alla formazione professionale permanente nella Comunità, sulla scorta delle raccomandazioni di cui ai punti I e II;
163
b) presentare detta relazione di valutazione al comitato consultivo per la formazione professionale entro un anno dalla data di cui al punto IV. 1;
3. Invita la Commissione a presentare detta relazione al Parlamento
europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale e a trasmetterla alle
parti sociali a livello comunitario.
Fatto a Lussemburgo, addì 30 giugno 1993.
164
RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO DEL 30 GIUGNO 1993 RELATIVA AL PENSIONAMENTO FLESSIBILE (93/C 188/01) (G.U. CE N. 188 DEL 10 LUGLIO 1993)
Il Consiglio delle Comunità Europee,
1. Ricorda la raccomandazione del Consiglio del 10 dicembre 1982,
relativa ai principi di una politica comunitaria concernente l’età pensionabile, che sollecita tra l’altro la progressiva introduzione di un regime di pensionamento flessibile e indica gli obiettivi generali in questo campo;
2. Ricorda le relazioni sull’applicazione di tale raccomandazione, presentate al Consiglio dalla Commissione nel 1986 e nel 1992;
3. Ricorda la raccomandazione del Consiglio, del 27 luglio 1993, relativa alla convergenza degli obiettivi e delle politiche della protezione sociale;
4. Prende atto della situazione del mercato del lavoro mutata negli ultimi anni e dei cambiamenti registratisi per quanto riguarda l’età e la composizione della popolazione attiva;
5. Prende atto che vari Stati membri hanno concepito le rispettive politiche prefiggendosi vari obiettivi che tengono conto sia della situazione esistente in materia di regimi pensionistici dei lavoratori che di quella dei lavoratori anziani sul mercato del lavoro;
6. Prende atto dei vincoli finanziari e delle relative implicazioni per i
regimi pensionistici e per gli altri regimi degli Stati membri che si prefiggono gli stessi obiettivi, tenuto conto degli sviluppi demografici e della situazione del mercato del lavoro;
7. Prende atto della crescente domanda, da parte di uomini e donne, di
maggiori possibilità di scelta e di una maggiore flessibilità per quanto riguarda la loro partecipazione attiva al mercato del lavoro nel corso della loro
vita lavorativa;
165
8. Prende atto che alcuni aspetti del regime di pensionamento flessibile per i lavoratori anziani possono avere considerevoli ripercussioni sulla loro possibilità di riaccedere al mercato del lavoro;
9. Prende atto dei recenti sviluppi dei regimi pensionistici e di quiescenza e del dibattito in corso negli Stati membri riguardo alla mutata situazione nel settore del mercato del lavoro, demografica ed economica;
10. Sottolinea il contributo positivo in termini socioeconomici dato dai
lavoratori anziani e auspica incoraggiare un passaggio flessibile dalla vita attiva alla pensione, ad esempio mediante un opportuno adattamento delle
condizioni di lavoro;
11. Sottolinea che un passaggio flessibile alla pensione e una politica
di pensionamento flessibile come indicato al punto 13 possono rappresentare
una risposta razionale al mutato contesto demografico e ai cambiamenti registratisi sul mercato del lavoro;
12. Segnala a questo proposito le iniziative prese in vari Stati membri,
conformemente alle loro caratteristiche specifiche, per introdurre la possibilità di un ritiro parziale dal mercato del lavoro, cumulando i redditi da pensione con i redditi da attività professionale;
13. Sottolinea che ciascuno Stato membro è responsabile della concezione e dell’attuazione di una politica di pensionamento flessibile, nel rispetto delle disposizioni dei trattati e nello spirito del principio della sussidiarietà al quale fa riferimento l’art. 3B del trattato che istituisce la Comunità europea come previsto nel trattamento sull’Unione europea;
14. Prende atto dell’importante ruolo svolto in questo campo dalle parti sociali negli Stati membri;
15. auspica che le persone anziane possano continuare a svolgere un
ruolo attivo nella società e che possano mantenere un legame con il mercato
del lavoro, tenendo conto della situazione economica e dell’occupazione in
ogni Stato membro;
16. Invita gli Stati membri ed eventualmente le parti sociali a sviluppare e adattare, se necessario, le rispettive politiche dell’occupazione in modo da rendere possibile un adeguamento flessibile all’evoluzione demografica e alla mutata ripartizione della popolazione attiva in varie fasce d’età;
17. Invita gli Stati membri a continuare a raccogliere le informazioni e
a valutare gli effetti delle modifiche delle rispettive politiche dell’occupazione e dei regimi pensionistici e di quiescenza;
18. Invita quindi la Commissione:
166
a) a favorire lo scambio di informazioni in materia di regimi pensionistici e
di quiescenza riguardanti i lavoratori anziani nella Comunità;
b) a informare successivamente il Parlamento europeo, il Consiglio e il Comitato economico e sociale delle misure adottate dagli Stati membri in
applicazione della presente risoluzione;
c) a esaminare, a seguito della comunicazione di tali dati alle istituzioni interessate e di concerto con gli Stati membri, la necessità di ulteriori misure.
167
Dal LIBRO BIANCO CRESCITA, COMPETITIVITÀ, OCCUPAZIONE. LE SFIDE E LE VIE
XXI SECOLO
DA PERCORRERE PER ENTRARE NEL
Cap. 7 - Adeguamento dei sistemi d’istruzione e formazione professionale
7.4 Elementi di riforma nei sistemi d’istruzione e di formazione professionale
a) Obiettivi generali e orientami di massima
Il principio fondamentale delle varie categorie di azioni da avviare dovrebbe essere quello della valorizzazione del capitale per tutta la durata della
vita attiva, partendo dall’istruzione di base e avvalendosi della formazione
iniziale per inserirvi poi la formazione continua. Grazie alla diffusione della
prassi più soddisfacente negli Stati membri a vari stadi si giungerà allo sviluppo di un sistema educativo e formativo che presenti il livello di qualità richiesto.
Per lottare contro la disoccupazione dei giovani senza qualifiche,
l’obiettivo dovrebbe consistere nel varo di sistemi e di formule che consentano di garantire contemporaneamente una solida formazione di base, di livello sufficiente, e il collegamento fra la formazione scolastica e la vita attiva. Le competenze fondamentali indispensabili all’inserimento sociale e professionale comprendono sia un’acquisizione completa delle conoscenze di
base (linguistiche, scientifiche, etc.), sia delle competenze a carattere tecnologico o sociale: capacità di muoversi e di agire in un ambiente complesso e
ad alta densità tecnologica, caratterizzato, più in particolare, dall’entità delle
tecnologie informative; capacità di comunicazione, di contatto e di organizzazione. Esse comprendono anzitutto la capacità fondamentale di acquisire
nuove conoscenze e nuove competenze, “di imparare a imparare per tutto il
corso della vita”. L’iter professionale verrà seguito in una logica di progresso continuo delle competenze.
168
Onde ottenere una transizione più agevole e più efficace verso la vita
attiva, le formule di apprendista e di tirocinio presso le imprese, che consentano l’acquisizione di competenze nell’ambiente professionale, dovrebbero
essere sviluppate e sistematizzate. Ad integrazione dell’apprendista, dovrebbe essere notevolmente sviluppata la formazione professionale iniziale in
centri di formazione specializzati, eventualmente in alternativa all’università. Corsi di formazione più brevi e a carattere più pratico dovrebbero essere
incoraggiati, pur garantendo un livello di conoscenze a carattere generale
che consenta una sufficiente adattabilità ed eviti l’eccesso di specializzazione.
Nei loro sforzi volti a ideare e ad avviare azioni d’istruzione e di formazione adeguati al rilancio dello sviluppo e dell’occupazione, la Commissione e gli Stati membri debbono peraltro partire dalla seguente constatazione: l’80% della manodopera europea del 2000 si trova già adesso sul mercato del lavoro. Al centro di tutte le iniziative deve quindi per forza di cose
collocarsi il principio dello sviluppo, della diffusione e della sistematizzazione dell’istruzione permanente e della formazione continua. I sistemi formativi ed educativi debbono essere rivisitati in funzione delle necessità sempre
crescenti di ricomposizione e di ricostruzione permanenti delle conoscenze e
dei Know-how, e chiamati a svilupparsi ancora in futuro. Il varo di sistemi
più flessibili e aperti di formazione e lo sviluppo delle capacità di adeguamento degli individui si riveleranno infatti sempre più necessari sia alle imprese, per avvalersi al meglio delle innovazioni tecnologiche da esse acquisite o messe a punto, sia agli individui stessi, un’aliquota importante dei quali
rischia di dover cambiare attività professionale quattro o cinque volte nel
corso della propria vita attiva.
In funzione di questo adeguamento i sistemi educativo e formativo sono chiamati a svolgere una parte importante. Nella Comunità si registra una
carenza notevole di talune categorie di tecnici superiori, come quelli capaci
di occuparsi dei sistemi di fabbricazione flessibili o dei sistemi di controllo
delle emissioni inquinanti nelle imprese. In varie discipline di punta l’Europa non dispone ancora delle risorse umane necessarie all’esecuzione di ricerche ad alto livello. Tali carenze potranno essere colmate con gli sforzi congiunti degli istituti di formazione specializzata e di quelli di insegnamento
superiore. La cooperazione fra università e mondo economico rappresenta
inoltre una strada principale di trasmissione delle conoscenze, un vettore di
innovazione e un fattore di aumento della produttività in settori in fase di
sviluppo, potenzialmente creatori di posti di lavoro.
Occorre inoltre fornire alle università i mezzi necessari per svolgere la
funzione che spetta loro nel quadro dello sviluppo dell’istruzione continua e
169
della formazione permanente. In associazione con partner pubblici e privati
a livello nazionale o regionale, esse possono svolgere una funzione di promotrici della formazione permanente mediante azioni nei settori, ad esempio, di formazione dei formatori, di riqualificazione del personale insegnante
del ciclo primario e secondario, di riciclaggio del personale d’inquadramento
intermedio superiore, ecc.
Per conferire a tali azioni la piena capacità operativa, le iniziative prese
in questo settore debbono basarsi su un anticipo corretto e abbastanza tempestivo delle necessità in materia di qualifiche, grazie all’identificazione dei
settori in fase di sviluppo e delle nuove funzioni economiche e sociali da
svolgere, nonché del tipo di competenze necessarie ai fini del loro svolgimento. Senza permettere un adeguamento in tempo reale (è infatti necessario
un certo periodo transitorio) l’organizzazione su scala, vasta quanto è necessario, di studi in questo settore, come pure il ricorso a strumenti di osservazione e a meccanismi di trasferimento delle informazioni raccolte verso il sistema educativo, dovrebbero permettere di ridurre al minimo la discrepanza
fra le competenze richieste a quelle disponibili.
Cap. 8 - Tradurre la crescita in posti di lavoro
8.1 Introduzione
Per perseguire gli obiettivi di occupazione e di contenimento della disoccupazione che si è prefissa, la Comunità dovrà poter contare su di una
crescita economica sostenuta e su modelli di sviluppo a maggiore intensità
di manodopera.
A tal fine si impongono cambiamenti nelle politiche economiche e sociali e un diverso modo di concepire la questione del lavoro, ovvero l’organizzazione del mercato del lavoro, del sistema fiscale e degli incentivi previdenziali. Ciò richiede nuove relazioni e nuovi metodi di partecipazione per
tutti coloro che promuovono e sono interessati dai cambiamenti necessari.
Al fine di creare più posti di lavoro, indipendentemente dal tasso di
crescita economica che la Comunità saprà raggiungere, occorre una nuova
solidarietà tra occupati e non, come pure tra coloro che derivano il proprio
reddito dal lavoro e coloro che lo traggono dagli investimenti.
Al tempo stesso la Comunità ha bisogno di migliorare la propria competitività nel lungo periodo e di evitare reazioni eccessive a variazioni temporanee nella competitività di prezzo dovute alle forti oscillazioni dei tassi di
170
cambio. Ciò significa investire nelle persone sviluppando al contempo una
politica attiva, volta ad incoraggiare nuove attività economiche e la crescita
dell’occupazione in settori competitivi a livello nazionale ed internazionale.
Il presente capitolo riconosce l’esigenza di politiche occupazionali più
efficienti e il fatto che il mercato da solo non può risolvere i problemi di occupazione e disoccupazione, con le relative implicazioni sociali, che gravano
sulla Comunità. Le politiche fiscali, come pure quelle occupazionali e sociali, devono tener pienamente conto dei costi reali della disoccupazione, sia in
termini sociali che economici.
Ciò implica notevoli cambiamenti, che non devono limitarsi alla semplice liberalizzazione dei mercati del lavoro europeo. È necessario piuttosto
un sistema rinnovato, razionale e semplificato di norme ed incentivi che promuova la creazione di posti di lavoro, senza gravare ulteriormente sulle fasce deboli del mercato.
Tutti gli Stati membri presentano attualmente seri problemi di disoccupazione. La portata di tali problemi non deve però distogliere la Comunità dal
perseguire i propri obiettivi a lungo termine. La fine della recessione non risolverà automaticamente le difficoltà occupazionali. Le preoccupazioni contingenti vanno perciò bilanciate con gli imperativi a lungo termine di espansione delle opportunità di lavoro e progresso sia economico che sociale.
L’approccio e le proposte illustrati nel presente capitolo si riferiscono
alla strategia a medio termine di “progressione verso il XXI secolo”. Al fine
di perseguire tali obiettivi e conseguire la giusta miscela tra teoria e pratica,
sarà indispensabile promuovere la partecipazione attiva, a tutti i livelli, del
più ampio numero di operatori economici e sociali, come pure incoraggiare
al massimo le iniziative basate su esperienza concreta. Una notevole responsabilità viene attribuita in particolare alle parti sociali che avranno l’opportunità di lavorare insieme in modo nuovo per ricercare nuove soluzioni, anche a livello europeo, attraverso il meccanismo istituito dal Protocollo sociale.
8.2 Opinioni degli Stati membri
Nei contributi di tutti gli Stati membri si ravvisa consenso, sia pure con
diverse sfumature, in merito alla diagnosi relativa all’elevato livello di disoccupazione nella Comunità: la disoccupazione e l’insufficiente creazione
di posti di lavoro sono dovute in prevalenza a cause strutturali, alle quali si
aggiungono gli effetti dell’attuale recessione.
171
Sul cattivo funzionamento del mercato del lavoro le opinioni sono unanimi: la scarsa flessibilità del mercato del lavoro, segnatamente in termini di organizzazione dell’orario di lavoro, di retribuzioni e di mobilità, e lo scarso adeguamento dell’offerta di lavoro ai bisogni del mercato - in particolare per quanto riguarda le qualifiche della forza lavoro - sono causa di rigidità, che a loro
volta sono all’origine di costi del lavoro relativamente elevati, cresciuti nella
Comunità ad un ritmo ben più rapido che presso i nostri principali partner. Gli
alti costi così generati incitano le imprese ad operare il proprio adeguamento alle condizioni dell’economia giocando sul fattore lavoro, favorendo in tal modo
una sostituzione del lavoro con una maggiore intensità di capitale.
Regimi e regolamentazioni destinati alla protezione sociale hanno pertanto avuto, almeno in parte, effetti negativi sull’occupazione, perché hanno
protetto soprattutto chi già disponeva di un posto di lavoro, rafforzandone la
posizione e consolidando certi vantaggi. Siffatti regimi hanno di fatto agito
da ostacoli all’assunzione dei nuovi arrivati sul mercato dell’occupazione o
dei disoccupati. Diversi Stati membri parlano al proposito di un duplice livello di trattamento che lascia sfavorito chi non ha un lavoro.
Altri fattori che sfavoriscono l’occupazione sono parimenti riportati:
tra loro si trovano il rilevante livello dei costi non salariali, segnatamente
sotto forma di prelievi obbligatori, e un’insufficiente incentivazione al lavoro a causa dell’inadeguatezza dei regimi di protezione sociale e degli organismi responsabili dell’occupazione. Alcuni Stati membri citano altresì la concorrenza dei Paesi con basso costo della manodopera come una delle cause
che hanno contribuito al calo dell’occupazione, soprattutto in settori a forte
intensità di manodopera o comunque con manodopera non qualificata.
Alla convergenza tra gli Stati membri che si riscontra in merito alla diagnosi corrisponde un ampio consenso di fondo in merito alle terapie. Non ci
sono cure miracolose, ma l’esigenza di riformare radicalmente il mercato del
lavoro, introducendo una maggiore flessibilità dell’organizzazione del lavoro e
della distribuzione dell’orario di lavoro, una riduzione dei costi del lavoro, la
promozione di qualifiche migliori, nonché politiche del lavoro attive. Viene infine fatta menzione della priorità della lotta contro la disoccupazione dei giovani e la disoccupazione di lunga durata, nonché contro l’esclusione sociale.
L’introduzione di maggiore flessibilità si dovrebbe operare a livello di
organizzazione del lavoro, per esempio rimuovendo gli ostacoli che rendono
più difficile o costoso il lavoro a tempo parziale ovvero mediante contratti a
tempo determinato, nonché agevolando una migliore adattabilità delle carriere alle situazioni personali o ancora facilitando un progressivo pensionamento. Per quanto riguarda la distribuzione dell’orario di lavoro, sono stati
172
avanzati suggerimenti in merito all’annualizzazione delle ore di lavoro o in
materia di riduzione delle ore di lavoro in tempo di recessione. Sarebbero
inoltre da rimuovere ostacoli alla mobilità, sia essa settoriale, geografica o
interna alle imprese. L’incremento di flessibilità dovrà riflettersi nelle regolamentazioni e nei regimi di contrattazione collettiva, agevolando un maggiore adeguamento alle caratteristiche dei mercati locali e delle imprese.
Per quanto riguarda la riduzione dei costi del lavoro, sono stati avanzati suggerimenti in merito per esempio all’istituzione di un legame tra il livello delle retribuzioni e le prestazioni delle imprese e la produttività, al fine di
promuovere l’assunzione dei giovani e in alternativa ai licenziamenti in tempo di recessione. Numerosi Stati membri fanno appello alla moderazione salariale per tenere conto delle circostanze economiche locali, settoriali o generali, per migliorare la competitività e contenere l’inflazione, nonché per
favorire l’occupazione. Alcuni Stati membri osservano tuttavia che una moderazione salariale dovrebbe tenere conto della necessità di evitare un’eccessiva contrazione della domanda.
Nella maggioranza dei contributi degli Stati membri si trova menzione
di tale problema, per il quale viene suggerita una diminuzione degli oneri sociali, con modalità diverse, segnatamente concentrando le riduzioni dei contributi sui posti di lavoro non qualificati. Tra i suggerimenti avanzati per
compensare il calo dei redditi, si rileva la possibilità di imporre tasse sulle
attività o prodotti più inquinanti, sull’energia o le risorse naturali rare, o ancora la promozione di regimi di assicurazione privati. L’introduzione di
eventuali “tasse verdi” è peraltro percepita in maniera diseguale: alcuni Stati
membri avanzano riserve sugli effetti che esse potrebbero esercitare sulla
competitività a livello internazionale.
Per agevolare l’occupazione dei giovani, viene suggerito d’introdurre
una maggiore flessibilità in materia di salario minimo, oneri sociali ridotti o
altri termini contrattuali, per esempio prevedendo modalità elastiche di apprendistato, di formazione o di tirocinio.
Le idee avanzate in relazione alle politiche del lavoro attive si concentrano intorno a tre aspetti. Alcune idee si rifanno ai servizi all’occupazione, quali
il rafforzamento del ruolo delle agenzie di collocamento che dovrebbero svolgere meglio la propria funzione, cioè riavvicinare offerta e domanda di lavoro
mediante un migliore raccordo con le imprese e i mercati locali, oppure l’istituzione di agenzie di collocamento private. Lo sviluppo di attività di servizio a
manodopera intensiva a seguito, tra l’altro, di una maggiore liberalizzazione,
nonché lo sviluppo di nuove attività per esempio nei campi sociale, culturale,
sanitario, ambientale e della qualità della vita in generale, offrono, secondo la
maggioranza degli Stati membri, considerevoli prospettive occupazionali. Infi-
173
ne numerosi Stati membri invocano un riesame dei regimi di protezione, per
assicurarsi che offrano incentivi all’occupazione, prestazioni meglio adeguate
alla situazione del mercato e spese più mirate, concentrate in particolare su coloro che hanno effettivo bisogno di assistenza.
Numerosi Stati membri suggeriscono di prevedere un’analisi costi/benefici per le iniziative legislative comunitarie in materia sociale.
Per quanto riguarda infine gli strumenti per articolare tali rilevanti riforme, gli Stati membri sottolineano la necessità di un consenso sociale e di
un’atteggiamento cooperativo da parte di tutte le parti interessate; alcuni di
loro propongono di cercare il consenso a livello comunitario.
8.3 Portata e natura del problema
a) Elevati livelli di disoccupazione manifesta e occulta
Negli ultimi 3 anni la disoccupazione nella Comunità ha registrato un forte
incremento. Attualmente interessa quasi 16 milioni di persone, vale a dire 10,5%
degli attivi censiti. Tutti gli Stati membri sono colpiti da tale fenomeno, anche se
i livelli di disoccupazione variano notevolmente da un paese all’altro.
Negli anni passati la disoccupazione era calata grazie ad un periodo
di progressiva e costante crescita economica. Tuttavia, persino dopo 4-5
anni di persistente crescita economica, alla fine degli anni 80, quando la
disoccupazione aveva raggiunto il livello più basso del decennio, ne risultavano comunque colpiti ben 12 milioni di persone, ovvero più dell’8%
della forza lavoro, con soltanto il 60% delle persone in età lavorativa occupate. In realtà l’entità della disoccupazione occulta era tale che dei 10 milioni di posti di lavoro aggiuntivi creati in questo periodo soltanto 3 milioni sono andati ai disoccupati iscritti nelle liste di collocamento, mentre gli
altri sono stati occupati da persone entrate per la prima volta nel mercato
del lavoro.
b) Bassi tassi di occupazione
Il tasso di occupazione europeo, ovvero la proporzione della popolazione in età lavorativa che risulta attiva, è il più basso delle regioni industrializzate del mondo. Inoltre negli ultimi due decenni è sceso da poco più a poco meno del 60%. Al contrario, in Giappone e nei Paesi scandinavi il tasso
di occupazione è rimasto costantemente sopra il 70%, mentre negli Stati
Uniti, dove nel 1970 si attestava ad un livello analogo a quello comunitario,
è cresciuto a raggiungere l’attuale quota del 70%.
174
Le divergenze nella capacità di creare posti di lavoro tra la Comunità e
le altre economie sviluppate come pure tra gli stessi Stati membri, sono molto maggiori di quanto non indicherebbero le diverse situazioni economiche.
Tra il 1970 e il 1992 l’economia statunitense è cresciuta in termini reali del
70%, un po’ meno dell’81% raggiunto dalla Comunità. Eppure l’occupazione negli Stati Uniti è aumentata del 49%, mentre in Europa soltanto del 9%.
In Giappone, dove l’economia ha registrato un balzo del 173% rispetto ai livelli del 1970, l’occupazione è cresciuta del 25%.
Nella maggior parte dei Paesi europei i frutti della crescita economica
sono stati assorbiti soprattutto da coloro che erano già occupati, per cui un
elevato numero di senza lavoro ne sono stati esclusi.
L’economia spagnola ne costituisce l’esempio più lampante. Sebbene
tra il 1970 e il 1992 questa fosse cresciuta del 100%, nel 1992 l’occupazione
era in realtà calata dello 0,3% rispetto al 1970. Anche altre economie europee mostrano una crescita piuttosto lenta dell’occupazione rispetto all’incremento della produzione. Nel periodo 1970-1992 la crescita totale in termini
di produzione e occupazione era rispettivamente: in Germania del 70% e
11%; in Francia del 77% e 6%; in Italia dell’85% e 18%; nel Regno Unito
del 51% e 3%.
Mentre i tassi di occupazione nella Comunità sono generalmente connessi ai livelli di sviluppo economico - con i Paesi meridionali che registrano tassi di occupazione intorno al 50-55% - permangono tuttavia notevoli
divergenze tra economie con livelli di sviluppo economico analoghi. Così i
Paesi Bassi detengono un tasso di occupazione ben più elevato del Belgio,
come pure il Portogallo, rispetto ad altre economie comparabili dell’Europa
meridionale.
c) Cambiamenti nell’orario di lavoro
Per esaminare i cambiamenti avvenuti nell’orario di lavoro e per valutare le potenzialità esistenti a livello comunitario in termini di creazione di
posti di lavoro occorre operare una distinzione tra volume del lavoro e numero di persone occupate. Alcuni Stati membri sono finora riusciti meglio di
altri a trasformare un determinato volume di lavoro in nuovi posti, riducendo
con strumenti diversi il normale orario di lavoro oppure incrementando il
numero dei lavoratori a tempo parziale.
I Paesi Bassi hanno compiuto i più rilevanti progressi in tale direzione.
Nel 1991 le persone occupate lavoravano una media di soltanto 33 ore settimanali, rispetto alle 39 ore riscontrate a livello comunitario. Il valore della
Danimarca si avvicinava a quello olandese: meno di 35 ore a settimana. In
entrambi i casi le cifre riflettono la presenza di una proporzione piuttosto
175
elevata di persone occupate a tempo parziale: il 33% nei Paesi Bassi e il
23% in Danimarca, maggiore che negli altri Paesi della Comunità.
Tra il 1983 e il 1991, il periodo più lungo per il quale sono disponibili
dati comparabili, il numero medio delle ore lavorate settimanalmente per addetto è sceso soltanto del 3% a livello comunitario, pari a poco più di un’ora.
Nei Paesi Bassi, invece, la riduzione è stata del 13%: ogni persona ha cioè
lavorato in media cinque ore settimanali in meno nel 1991 rispetto a soltanto
8 anni prima.
Se la riduzione dell’orario di lavoro registrata nella Comunità nel corso
degli anni ’80 non è rilevante nella maggior parte dei Paesi, ad eccezione dei
Paesi Bassi, negli Stati membri settentrionali, salvo il Regno Unito, pare comunque riscontrabile, in tale periodo, un effetto sul mercato del lavoro. Il
volume del lavoro svolto, in termini di numero complessivo di ore lavorate,
è cresciuto soltanto del 2% circa in Danimarca e Belgio, ma a causa della riduzione del numero medio di ore lavorate, il totale delle persone occupate è
aumentato dell’8%. In Germania il volume del lavoro è salito del 7%, il numero degli occupati del 12%. Nei Paesi Bassi più della metà dell’incremento
del 30% registrato dall’occupazione sembrerebbe ascrivibile alla riduzione
dell’orario di lavoro medio.
L’esperienza di questi ultimi anni è ricca di insegnamenti per il dibattito sulla distribuzione del lavoro e del reddito. In realtà una tale ridistribuzione si è verificata nel corso degli anni ’80 in numerosi Stati membri, sebbene
soltanto nei Paesi Bassi e forse in Danimarca si sia trattato di un esplicito
obiettivo della politica occupazionale.
Si tratta, tuttavia, di una questione complessa dato che il potenziale di
creazione di posti di lavoro dipende da una serie di fattori sociali, fiscali e
legislativi. Inoltre, non tutti i Paesi sono in grado di procedere in questa direzione; soprattutto quando livelli di reddito pro capite sono più bassi e quindi
anche il reddito disponibile con il fattore lavoro risulta più basso.
d) Difficoltà incontrate da categorie specifiche
I tassi di disoccupazione tra i giovani (di età inferiore ai 25 anni) sono
il doppio di quelli dei lavoratori adulti. Variano, tuttavia, da meno del 10%
in Germania e Lussemburgo al 20-30% nella maggior parte dei Paesi meridionali come pure in Francia e in Irlanda.
Nella Comunità l’incidenza della disoccupazione è decisamente superiore tra la manodopera femminile che non tra quella maschile. Nel maggio
1993 il tasso di disoccupazione era di oltre il 12% per le donne e del 9% circa per gli uomini.
176
La disoccupazione di lunga durata è diventata un fenomeno endemico
della Comunità, tanto che più della metà dei disoccupati hanno perso il lavoro da più di un anno. Si tratta di un problema prevalentemente giovanile nel
Sud, dove i giovani rappresentano il 50% dei disoccupati di lunga durata.
Nel Nord invece, in particolare tra i lavoratori di sesso maschile, il fenomeno colpisce soprattutto i soggetti non qualificati di mezza età che hanno perso il posto a seguito della chiusura degli stabilimenti in cui lavoravano. In
queste zone la disoccupazione giovanile rappresenta soltanto il 15-25% di
quella totale.
177
Dal LIBRO BIANCO SULLA POLITICA SOCIALE EUROPEA (OTTOBRE 1994)
Completare l’attuale programma di azione sociale
Informazione e consultazione dei lavoratori
6. Nell’aprile del 1994 la Commissione ha presentato, in virtù dell’articolo 2, paragrafo 2 dell’accordo sulla politica sociale (1), la propria proposta
volta a migliorare l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese di dimensione comunitaria. Il 22 giugno il Consiglio «Affari sociali» è
pervenuto ad una posizione comune sul testo della proposta e la Commissione si attende che essa sarà adottata verso la fine del 1994. La Commissione
riserverà un attenzione particolare all’attuazione della direttiva e si adopererà per assicurare che vi sia una cooperazione tra gli attori interessati. Inoltre,
una volta che questa direttiva sarà adottata, la Commissione ne esaminerà
l’impatto sulle sette proposte di direttive del Consiglio contenenti disposizioni in merito all’informazione e alla consultazione dei lavoratori (2) che si
trovano attualmente all’esame del Consiglio dei ministri.
––––––––
(1) COM(94) 134 def. del 13.4.1994.
(2) Progetto di direttiva sullo statuto della società europea (GU C263 del
16.10.1989), progetto di direttiva sulle procedure di informazione e consultazione dei lavoratori (GU C297 del 15.11.1980 e GU C217 del 12.8.1983), progetto di direttiva sulla creazione di comitati aziendali europei nelle imprese di
dimensioni comunitarie (GU C39 del 15.2.1991 e GU C336 del 31.12.1991),
progetto di quinta direttiva concernente la struttura della società per azioni
nonché i poteri e gli obblighi dei suoi organi sociali (GU C240 del 19.8.1983),
progetto di direttiva che completa lo statuto dell’associazione europea relativamente al ruolo dei lavoratori (GU C99 del 21.4.1992), progetto di direttiva che
completa lo statuto della società cooperativa europea relativamente al ruolo dei
lavoratori (GU C99 del 21.4.1992) e progetto di direttiva che completa lo statuto della mutua europea relativamente al ruolo dei lavoratori (GU C99 del
21.4.1992).
178
Distacco dei lavoratori
7. Si avverte l’urgenza di compiere dei progressi per quanto concerne
questo importante problema. La proposta della Commissione (3) intende definire un insieme di standard di minima a tutela dei lavoratori che operano
temporaneamente in un altro Stato membro. Il completamento del mercato
unico fa avvertire ancor più viva l’esigenza di questa normativa.
Se non si registrerà alcun esito positivo in sede di Consiglio per quanto
concerne tale testo entro la fine del 1994, la Commissione, senza pregiudizio
per il quadro giuridico, avvierà ulteriori discussioni con le parti sociali e,
sulla base dei loro pareri, considererà se tale problema possa essere risolto
mediante nuove proposte di azione in tale campo.
Lavori atipici
8. Negli ultimi quattro anni si sono registrati grandi cambiamenti sul
mercato del lavoro dovuti in particolare a mutamenti intervenuti sia nel modello di produzione che nel settore dei servizi, il che ha portato a forme più
flessibili di contratto di lavoro (a tempo determinato, interinale e part-time).
Ciò non è dovuto soltanto al fatto che le direzioni aziendali vogliono aumentare la flessibilità, ma anche perché i lavoratori interessati spesso preferiscono schemi alternativi di lavoro. Se si vuole che queste forme flessibili di lavoro siano accettate diffusamente, è importante assicurare che coloro che le
praticano possano fruire di condizioni di lavoro grosso modo equivalenti a
quelle dei lavoratori con contratto standard.
Si avverte perciò una diffusa sollecitudine a compiere un passo decisivo in avanti per quanto concerne questi aspetti del lavoro a livello dell’Unione. La Commissione riconosce che, a seguito degli sviluppi summenzionati,
le sue proposte originarie in materia (4) andrebbero riformulate. Le misure
adottate dovranno tenere inoltre conto dei principi della convenzione OIL
sul lavoro a tempo parziale adottata nel giugno del 1994.
–––––––––
(3) COM(91) 230 def. del 19.6.1991.
(4) COM(90) 228 def. del 13.8.1990.
179
Se non sarà possibile compiere progressi in seno al Consiglio sulla base delle attuali proposte entro la fine del 1994, la Commissione avvierà, in
virtù dell’accordo sulla politica sociale, consultazioni con le parti sociali. In
tale sede si esaminerà quali possibili azioni potrebbero essere intraprese, tra
cui si studierà l’eventualità di compiere un primo passo mediante una direttiva sul lavoro a tempo parziale.
Nello stesso contesto la Commissione esaminerà inoltre la possibilità
di una direttiva quadro relativa alla conciliazione della vita professionale e
di quella familiare, compresi i casi di interruzione della carriera quali i congedi parentali. Tale proposta intenderebbe incoraggiare gradualmente lo sviluppo di nuovi modelli meglio adatti ai bisogni mutevoli della società europea e sarebbe concepita specificamente per agevolare la piena interazione
delle donne nel mercato del lavoro (vedi anche capitolo V). Essa fisserebbe
standard di minima nell’ambito di un quadro volto a incoraggiare soluzioni
competitive in un mondo che cambia. In tal caso verrà ritirata la proposta attuale sui congedi parentali (5).
Orario di lavoro
9. La direttiva sull’orario di lavoro, che contiene disposizioni sui periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale, su una settimana lavorativa
massima di 48 ore, sul congedo annuale retribuito e sul lavoro notturno è
stata adottata nel novembre 1993 (6). Inoltre, la Commissione si è impegnata
innanzi al Parlamento a formulare proposte onde integrare la direttiva esistente al fine di estenderla a tutti i lavoratori dipendenti. A patto che si rispettino alcuni standard di minima, si dovrebbe incoraggiare la flessibilità
nell’organizzazione dell’orario di lavoro, soprattutto a livello di impresa al
fine di sviluppare nuovi schemi di lavoro e di migliorare la competitività e
aumentare le opportunità occupazionali.
Le consultazioni con le parti sociali e/o gli studi ad opera della Commissione interessano i settori (cinque dei settori dei trasporti + la pesca marittima) e le attività (altre attività marittime e i medici in formazione) escluse
dalla direttiva sull’orario di lavoro. La Commissione ritiene che la soluzione
migliore sarebbe di pervenire ad accordi tra le parti sociali, ma qualora non
vi si riuscisse nel corso del l995 si esaminerà la possibilità di presentare proposte di direttive sulla base dell’articolo 118 A.
–––––––––
(5) COM(83) 686 del 24.11.1983.
(6) Diretteva 93/104/CEE (GU L307 del 13.12.1993).
180
B - Consolidare una valida base di standard in materia di protezione
dei lavoratori
Con il completamento del programma di azione sociale in corso nel diritto europeo si è consolidata una sostanziale piattaforma di standard in materia di protezione del lavoro. La questione su come procedere in futuro a
partire da tale base è complessa e controversa poiché la tematica degli standard a tutela dei lavoratori è al centro del dibattito.
181
LEGGE 19 LUGLIO 1994 N. 451 RECANTE “DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI
OCCUPAZIONE E FISCALIZZAZIONE DEGLI ONERI SOCIALI”
Art. 7
Misure sperimentali di flessibilità della durata del lavoro
1. In attesa di un intervento di ridefinizione organica delle misure di
incentivazione di un diverso assetto degli orari di lavoro in funzione di difesa o di promozione dei livelli occupazionali, il Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, al fine di promuovere, in via sperimentale, il ricorso al
lavoro a tempo parziale nonché a forme di utilizzo flessibile dell’orario di
lavoro, può concedere, fino al 31 dicembre 1995, nei limiti delle risorse
preordinate allo scopo nell’ambito del Fondo di cui all’articolo 11, comma
31, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, e in applicazione delle disposizioni del decreto di cui al comma 3, i seguenti benefici:
a) una riduzione, a beneficio delle imprese, dell’aliquota contributiva per
l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, relativamente ai contratti degli organici esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto ovvero sulla base di accordi collettivi
di gestione di eccedenze di personale che contemplino la trasformazione
di contratti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale;
b) una riduzione, a beneficio delle imprese, non inferiore allo 0,20 dell’aliquota contributiva prevista per il trattamento di integrazione salariale
dall’articolo 12, primo comma, n. 1), della legge 20 maggio 1975, n. 164,
e successive modificazioni, nonché una integrazione al trattamento retributivo dei lavoratori nelle imprese in cui vengano stipulati i contratti collettivi di cui all’articolo 2 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, che altresì determina la durata dell’orario settimanale come media di un periodo plurisettimanale non inferiore a quattro mesi.
182
2. Il beneficio di cui al comma 1, lettera a), può essere determinato in
misura differenziata con riferimento a differenti fasce di orario.
3. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di
concerto con il Ministro del tesoro, vengono stabiliti misure, termini, modalità e condizioni dei benefici di cui al comma 1.
183
Dal DDL “MISURE INTESE A FAVORIRE NUOVA OCCUPAZIONE” A.S. N. 781
Art. 5
Contratto di lavoro a tempo parziale
1. All’articolo 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito,
con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, il comma 4 è sostituito dal seguente:
«4. La prestazione da parte dei lavoratori a tempo parziale di lavoro
supplementare rispetto a quello concordato ai sensi del comma 2 è permessa
nel limite del 15 per cento. I contratti collettivi di cui al comma 3 possono
stabilire una percentuale maggiore».
2. All’articolo 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito,
con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dopo il comma 9
sono inseriti i seguenti:
«9-bis. La retribuzione tabellare è determinata su base oraria in relazione alla durata normale annua della prestazione di lavoro espressa in ore.
9-ter. La retribuzione minima oraria da assumere quale base di calcolo
dei premi per l’assicurazione di cui al comma 9 è stabilita con le modalità di
cui al comma 5».
3. All’articolo 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito,
con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, il comma 10 è sostituito dal seguente:
«10. Fermo restando quanto previsto dai commi 2, 3 e 3-bis, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale è
comunicata all’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione
allegando l’atto scritto da cui risulti l’accordo delle parti».
184
4. Alle minori entrate per l’Istituto nazionale di assicurazione contro
gli infortuni sul lavoro (INAIL) derivanti dall’articolo 5, commi 9-bis e 9ter, del decreto-legge 30 ottobre 1994, n. 726, convertito, con modificazioni,
dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, come modificato dal presente articolo,
valutate in lire 40 miliardi per l’anno 1994 ed in lire 70 miliardi annui a decorrere dal 1995, si provvede:
a) quanto a lire 40 miliardi annui a decorrere dal 1994 mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale
1994-1996, al capitolo 6856 dello stato di previsione del Ministero del tesoro per l’anno 1994, all’uopo parzialmente utilizzando per lire 28 miliardi l’accantonamento relativo alla Presidenza del Consiglio dei ministri e
per lire 12 miliardi l’accantonamento relativo al Ministero del tesoro;
b) quanto a lire 30 miliardi annui a decorrere dal 1995 mediante utilizzo delle maggiori entrate fiscali derivanti dai predetti commi 9-bis e 9-ter.
5. Il Ministro del tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti,
le occorrenti variazioni di bilancio.
Art. 6
Contratto di tirocinio
1. Al fine di favorire l’acquisizione di esperienze formative e di sperimentazione sul posto di lavoro, fino al 31 dicembre 1996 le società ed enti
privati, le imprese, le associazioni e gli esercenti arti e professioni possono,
fatta esclusione per i casi di cui all’articolo 1, comma 3, lettera a), stipulare,
sulla base di programmi da comunicare alle competenti sezioni circoscrizionali per l’impiego, contratti di tirocinio con titolari di diploma di scuola media superiore di età non superiore ai 32 anni per un complessivo numero di
due o quattro unità a seconda che occupino, rispettivamente, fino a 15 unità
ovvero fino a 80 unità. Nel caso in cui il numero dei dipendenti risulti superiore a 80 unità si applica l’aliquota del 5 per cento.
2. Il contratto di tirocinio, la cui stipulazione va comunicata agli organismi di rappresentanza sindacale, ove esistenti, previsti dalla contrattazione
nazionale di categoria o, in mancanza, dalla legge, non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro.
185
COMMISSIONE
PER LO STUDIO E LA FORMULAZIONE DI IPOTESI DI MODERNIZZA-
ZIONE DELLA NORMATIVA VIGENTE IN MATERIA DI TEMPI DI LAVORO
(PROPOSTA CAVIGLIOLI - DICEMBRE 1993)
ORGANIZZAZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO
TITOLO I
Durata massima settimanale e giornaliera dell’orario di lavoro
Art. 1 Orario massimo settimanale e giornaliero di lavoro
1. La durata massima settimanale dell’orario normale di lavoro è stabilita
in 40 ore. I contratti collettivi possono prevedere un orario normale inferiore.
2. I contratti collettivi nazionali di lavoro possono prevedere che i limiti di cui al comma 1 siano applicati come media di un periodo plurisettimanale non superiore a 48 settimane. In tali casi l’orario normale settimanale non può in nessuna settimana superare le 48 ore.
3. La flessibilità di cui al comma precedente può essere disciplinata
anche dal contratto collettivo aziendale, nei limiti stabiliti dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
4. In nessun caso l’orario di lavoro complessivo, compreso il lavoro
straordinario, potrà superare la media di 48 ore settimanali in un arco di 18
settimane o il limite assoluto di 10 ore giornaliere.
Art. 2 Pause di lavoro
1. Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore, il lavoratore deve beneficiare di una pausa le cui modalità e la cui durata sono
186
stabilite dai contratti collettivi, anche aziendali, anche al fine di attenuare il
lavoro monotono e ripetitivo.
2. In mancanza di tali accordi, al lavoratore deve essere concessa, tra
l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, una sosta di durata
non inferiore a 10 minuti.
3. Salvo più favorevoli disposizioni dei contratti collettivi, anche
aziendali, non sono computate come lavoro ai fini del superamento dei limiti
di durata giornaliera e settimanale di lavoro:
a) i riposi intermedi prestabiliti ad ore fisse e le pause di lavoro superiori a
15 minuti che siano goduti sia all’interno sia all’esterno dell’azienda e
durante i quali non sia richiesta alcuna prestazione;
b) il tempo impiegato per recarsi dal luogo di residenza al luogo di lavoro o
in trasferta. (*)
4. Sono considerati come lavoro, ai fini del computo della durata giornaliera e settimanale di lavoro, i periodi di tempo necessari al lavoratore per
sottoporsi a visite mediche o ad accertamenti sanitari legittimamente richiesti dal datore di lavoro o comunque imposti da previsioni della legge e dei
contratti collettivi.
5. È ammesso il recupero dei periodi di sosta dovuti ad eventi transitori
non imputabili al datore di lavoro o ai lavoratori nonché delle interruzioni
dell’orario normale concordate tra i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali unitarie, purché i conseguenti prolungamenti di orario non eccedano il
limite stabilito in tali accordi o, in mancanza, il limite massimo di un’ora al
giorno.
Art. 3 Lavoro straordinario
1. Il lavoro straordinario è quello prestato in eccedenza al limite di cui
all’art. 1, comma 1, ovvero a quello di cui al comma 2 dello stesso articolo.
2. Non può essere richiesto al lavoratore lavoro straordinario eccedente
il limite di 10 ore settimanali.
––––––––
(*) Verificare se inserire 2a parte art. 5 comma 3 Regio Decreto 1955 del 1923.
187
3. Il ricorso al lavoro straordinario potrà essere attivato secondo le articolazioni, i criteri di retribuzione e le procedure previste dai contratti collettivi, nazionali e aziendali, di lavoro. In difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo
tra datore e prestatore di lavoro.
4. L’effettuazione di lavoro straordinario può comunque essere disposta unilateralmente dal datore di lavoro, per un periodo non superiore a 3
giornate lavorative, quando ciò sia reso indispensabile da eventi eccezionali
ed imprevedibili oppure comportanti rischio di danno grave alle persone ed
agli impianti. In quest’ultimo caso potranno essere consensualmente superati
i limiti di cui al comma 2 del presente articolo e dell’art. 1, comma 3.
5. Il lavoro straordinario va computato a parte e compensato con una
maggiorazione retributiva e/o con una riduzione dell’orario in diversa giornata o settimana salvi comunque i limiti di cui all’art. 1, comma 4.
Art. 4 Lavori discontinui e di semplice attesa o custodia
1. Per i lavoratori addetti a mansioni discontinue o di semplice attesa o
custodia, la durata massima normale giornaliera e settimanale dell’orario di
lavoro è rispettivamente di 10 e 50 ore salvo migliori condizioni previste dai
contratti collettivi.
2. È lavoro straordinario quello prestato oltre il limite legale o contrattuale di cui al precedente comma.
3. Per i lavoratori di cui al comma 1, i limiti massimi globali dell’orario giornaliero e settimanale di lavoro, comprensivi delle ore di lavoro
straordinario, sono rispettivamente di 12 e di 60 ore.
4. Le attività di cui al comma precedente sono quelle individuate (ai sensi
dell’art. 6 R.D. 10 settembre 1923 n. 1955) dal R.D. 6 dicembre 1923 n. 2657,
e successive modificazioni ed integrazioni. A decorrere dall’entrata in vigore
della presente legge le ulteriori modificazioni ed integrazioni saranno stabilite
con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative.
Art. 5 Norma transitoria
1. Qualora alla data di entrata in vigore della presente legge la discipli-
188
na disposta dai contratti collettivi di un settore preveda limiti di orario superiori rispetto a quelli previsti negli articoli 1, 2 , 3 e 4 la predetta disciplina collettiva dovrà essere adeguata alla presente legge alla prima scadenza contrattuale
e, comunque, non oltre 24 mesi dall’entrata in vigore della presente legge.
Art. 6 Obblighi di documentazione
1. In ogni impresa che occupi più di cinque operai ed impiegati deve
essere tenuto un registro contenente l’indicazione degli orari di lavoro praticati in ciascun ufficio o reparto, nonché gli eventuali orari individuali, limitatamente agli operai ed agli impiegati.
2. Le modalità di tenuta del registro di cui al comma precedente sono
stabilite con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale.
Art. 7 Riposo giornaliero
1. Il lavoratore deve beneficiare di almeno 11 ore consecutive di riposo
ogni 24 ore.
Art. 8 Riposo settimanale
1. Il lavoratore deve fruire di un riposo di almeno 24 ore consecutive,
da cumulare con le 11 ore di riposo giornaliero previste dall’art. 5, dopo un
periodo di lavoro non superiore a sei giorni consecutivi.
2. Il riposo di cui al comma precedente deve decorrere da una mezzanotte all’altra, ovvero dall’ora che sarà stabilita dai contratti collettivi, e deve essere goduto di domenica, salvo le eccezioni previste dai commi successivi.
3. Il riposo di 24 ore consecutive può cadere in giorno diverso dalla
domenica e può essere attuato mediante turni per il personale addetto alle attività aventi le seguenti caratteristiche:
1) operazioni industriali per le quali si abbia l’uso di forni a combustione o
ad energia elettrica per l’esercizio di processi caratterizzati dalla continuità della combustione ed operazioni collegate;
189
2) operazioni industriali il cui processo debba in tutto o in parte svolgersi in
modo continuativo;
3) industrie di stagione per le quali si abbiano ragioni di urgenza riguardo
alla materia prima od al prodotto dal punto di vista del loro deterioramento e della loro utilizzazione, comprese le industrie determinate a norma dell’art. 1, n. 14, per il loro periodo di lavorazione eventualmente eccedente i tre mesi, ovvero quando nella stessa azienda e con lo stesso
personale si compiano varie delle suddette industrie con un decorso complessivo di lavorazione superiore ai tre mesi;
4) altre attività per le quali il funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche od a ragioni di pubblica utilità;
5) attività che richiedono l’impiego di impianti e macchinari ad alta tecnologia soggetti a rapida obsolescenza.
4. Le attività di cui al comma precedente sono quelle individuate, ai sensi dell’art. 5 della legge 22 febbraio 1934, n. 370, dal D.M. 22 giugno 1935 e
successive modificazioni ed integrazioni. A decorrere dall’entrata in vigore
della presente legge le ulteriori modificazioni ed integrazioni saranno stabilite
con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative. (*)
Art. 9 Ferie annuali
1. Il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito nella misura e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi nazionali di lavoro e, comunque, non inferiore a 4 settimane lavorative.
2. Il periodo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito dalle
relative indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
3. Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi nazionali, l’infermità del lavoratore, anche di natura traumatica, comportante ricovero ospedaliero o la cui prognosi sia comunque complessivamente superiore a 5 giorni, insorte durante il godimento delle ferie, ne sospendono il decorso.
–––––––––
(*) N.B. Segnalare all’Ufficio legislativo l’esigenza di verificare ulteriormente la
sussistenza di altre esclusioni da effettuare in base all’art. 7 ss. della legge
n. 370/1934, al fine di rendere possibile l’abrogazione della stessa.
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4. Nei casi di cui al precedente comma lo stato di infermità deve essere
comunicato e idoneamente documentato al datore di lavoro ed agli enti che
corrispondono l’indennità di malattia nei termini e nei modi previsti dalle
leggi speciali e dai contratti collettivi.
Art. 10 Lavoro notturno
1. Per lavoro notturno si intende quello effettuato nel corso di un periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino anche prestato secondo turni periodici.
2. Per lavoratore notturno si intende qualsiasi lavoratore che durante il
periodo notturno svolga almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero e
qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno un terzo
del suo orario di lavoro annuale.
3. Fermo restando il limite assoluto di cui all’art. 1, comma 4, l’orario
di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore nelle ventiquattro
ore, salvo l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali,
di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il
suddetto limite. Per i lavori che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite è di 8 ore nel corso di ogni periodo di 24 ore.
4. Il periodo minimo di riposo settimanale di cui all’art. 6, comma 1, non
viene preso in considerazione per il computo della media se cade nel periodo
di riferimento stabilito dai contratti collettivi di cui al comma precedente.
5. L’introduzione di lavoro notturno deve essere preceduta dalla consultazione dei rappresentanti dei lavoratori interessati. Tale consultazione deve svolgersi regolarmente nelle imprese che ricorrono stabilmente al lavoro notturno.
6. Dell’esecuzione di lavoro notturno continuativo o compreso in regolari turni periodici deve essere informato per iscritto l’Ispettorato provinciale
del lavoro competente per territorio, salvo che esso sia disposto da contratto
collettivo aziendale.
Art. 11 Salute e sicurezza dei lavoratori notturni
1. Ai lavoratori notturni si applicano le norme vigenti in materia di tutela della salute e di sicurezza durante il lavoro.
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2. In particolare il lavoratore ha diritto di essere informato, anche tramite suoi rappresentanti, circa i rischi per la salute e sicurezza derivanti dallo svolgimento del lavoro notturno prima di esservi adibito e circa le misure
necessarie per la prevenzione di eventuali danni alla sua salute.
3. I lavoratori adibiti al lavoro notturno devono essere sottoposti a cura
ed a spese del datore di lavoro, per il tramite del medico competente:
a) ad accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro a cui sono adibiti;
b) ad accertamenti periodici almeno ogni 2 anni per controllare il loro stato
di salute.
4. Il datore di lavoro è tenuto a garantire adeguate misure di pronto
soccorso, incluse quelle che consentano il trasporto rapido in luoghi in cui
possano ricevere cure appropriate.
Art. 12 Deroghe in materia di lavoro notturno
1. Ferma restando la tutela della salute e della sicurezza, l’art. 8 non si
applica nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività o nei servizi seguenti:
a) attività o servizi di cui all’art. 4 (lavori discontinui);
b) attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, individuate dai contratti collettivi nazionali di categoria, con specifico riferimento:
1) ai servizi relativi all’accettazione, al trattamento e/o alle cure prestate da
ospedali o da case di cura nonché dalle case di riposo;
2) al personale operante nei porti e negli aeroporti;
3) ai servizi stampa, radiofonici, televisivi, postali o delle telecomunicazioni,
di trasporto di infermi (ambulanza) o di protezione civile;
4) ai servizi di produzione, di trasmissione e distribuzione di gas, acqua ed
energia elettrica, nonché ai servizi di raccolta dei rifiuti domestici o di
trasformazione dei rifiuti solidi urbani;
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5) alle industrie a ciclo continuo e per quelle in cui il processo lavorativo
non può essere interrotto per ragioni tecnico-produttive individuate dai
contratti collettivi nazionali di categoria, nonché, sulla base di apposite
clausole di rinvio, dalla contrattazione aziendale;
6) all’attività di ricerca;
c) dei settori dell’agricoltura, del turismo e dei servizi postali, in caso di sovraccarico prevedibile di attività.
N.B. per l’Uff. leg.vo: è opportuno un rinvio ai contratti collettivi dopo
aver verificato la congruenza delle norme vigenti sul lavoro notturno; rispettare art. 17 par. 2 Direttiva.
Art. 13 Lavoro a turno e lavoro frazionato
1. Le limitazioni di cui agli articoli 7 e 8 non trovano applicazione:
a) per le attività di lavoro a turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra e
non possa usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di quello della squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero e/o settimanale;
b) per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare per il personale addetto ai servizi di pulizia dei locali.
Nei casi previsti dal comma precedente ai lavoratori interessati deve
essere concesso un equivalente periodo di riposo compensativo.
3. Per lavoro a turni si intende qualsiasi metodo di organizzazione del
lavoro a squadre in base al quale dei lavoratori siano successivamente occupati negli stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso il
ritmo rotativo, che può essere di tipo continuo o discontinuo, ed il quale
comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro ad ore differenti
su un periodo determinato di giorni o settimane.
TITOLO II
Flessibilità dell’orario nell’interesse del lavoratore
Art. 14 Variabilità dell’orario
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1. Il datore ed il prestatore di lavoro possono pattuire la variabilità, in
aumento o in diminuzione, dell’orario giornaliero o settimanale, a discrezione del prestatore, con compensazione in giornata o settimana diversa. La
pattuizione deve essere stipulata in forma scritta a pena di nullità salvo che
essa corrisponda a previsione contenuta in un contratto collettivo, anche
aziendale, e questo esenti le parti dalla forma scritta. Nella pattuizione devono essere precisati i limiti della variabilità dell’orario ed il termine, non superiore a 30 giorni, entro il quale la compensazione degli aumenti o diminuzioni deve avvenire.
2. L’aumento di orario giornaliero o settimanale deciso dal lavoratore
secondo la pattuizione di cui al comma 1 non costituisce lavoro straordinario.
3. In nessun caso la variazione dell’orario di cui al comma precedente
può portare al superamento del limite di 10 ore giornaliere e di 58 ore settimanali, salvi comunque, quando venga pattuito lavoro straordinario, i limiti
generali previsti per esso dalla presente legge.
4. Salva l’eventuale diversa disciplina della materia ad opera di contratto collettivo, in caso di sospensione del lavoro con diritto alla retribuzione in periodi di variazione dell’orario, in virtù della pattuizione di cui al
comma 1, la retribuzione dovuta al lavoratore per il periodo di sospensione è
commisurata all’orario settimanale medio.
5. L’accordo scritto di cui al comma 1, dove esso è necessario, deve essere trasmesso in copia all’Ispettorato provinciale del lavoro ed alle rappresentanze sindacali aziendali ove costituite.
Art. 15 Bonus formativi
1. Le imprese hanno l’obbligo di elaborare annualmente programmi
che consentano a tutti i dipendenti di partecipare ad una formazione teorica
annua tra le 4 ore di aula per le figure professionali più semplici e le 3 giornate lavorative, per le figure professionali più complesse. Le modalità per
l’accesso e la partecipazione a tali attività saranno definite dai contratti collettivi aziendali.
2. Per queste ore o giornate di formazione ai lavoratori sarà corrisposta
una retribuzione comprensiva di paga base, scatti di anzianità e indennità di
contingenza.
3. Per queste ore o giornate di formazione l’impresa è esentata dal versamento degli oneri contributivi. Ai lavoratori saranno riconosciuti corrispondenti periodi di contribuzione figurativa.
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Art. 16 Congedi formativi
1. I lavoratori che abbiano prestato la loro opera nella stessa azienda
per almeno 5 anni possono ottenere congedi formativi da 4 a 11 mesi con la
conservazione del posto di lavoro.
2. Tali congedi formativi possono essere utilizzati per il completamento della scuola dell’obbligo per il conseguimento del titolo di studio di secondo grado, per la partecipazione ad attività formative professionalizzanti.
3. Per tutta la durata del congedo formativo l’impresa è esentata dal
versamento degli oneri contributivi. Ai lavoratori saranno riconosciuti corrispondenti periodi di contribuzione figurativa
N.B. - Per l’Ufficio legislativo: definire la base di calcolo.
4. Nel corso di questi congedi l’impresa erogherà mensilmente al lavoratore un’anticipazione del t.f.r. pari al 50% di un trattamento retributivo
comprensivo di paga base, scatti di anzianità ed indennità di contingenza, fino a eventuale concorrenza con il t.f.r. maturato.
5. L’impresa, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. b) della legge 18 aprile
1962, n. 230, potrà sostituire, per la stessa durata, il lavoratore in congedo
formativo con altri dipendenti assunti con contratto a termine.
6. I contratti collettivi nazionali e aziendali regolamenteranno i criteri
per l’utilizzo di tale istituto.
7. I contratti collettivi nazionali ed aziendali possono prevedere e disciplinare la fruizione di tali congedi per altre finalità. In tali casi non si applica
il precedente comma 3.
TITOLO III
Lavoro in obbligazione solidale per una sola prestazione
Art. 17 Nozione di «lavoro a coppia» e suo assoggettamento alla disciplina
generale
1. Il contratto di lavoro subordinato con il quale due lavoratori si obblighino in solido nei confronti di un datore di lavoro per la stessa ed unica pre-
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stazione lavorativa, detto «lavoro a coppia», è soggetto alla disciplina del contratto di lavoro subordinato ordinario, salvo quanto previsto nel presente titolo.
La regolamentazione di tale contratto di lavoro è demandata alla contrattazione collettiva, nazionale e aziendale nel rispetto delle disposizioni seguenti.
Art. 18 Distribuzione convenzionale del tempo di lavoro, retribuzione e posizione previdenziale
1. Il contratto di cui all’art. 17 deve indicare la misura percentuale e la
collocazione temporale del lavoro giornaliero, settimanale, mensile od annuale che si prevede, secondo le intese tra i due lavoratori contitolari, destinato ad essere svolto da ciascuno di essi. Il datore di lavoro ed i due titolari
del lavoro condiviso potranno annualmente convenire di modificare la precedente organizzazione del lavoro.
2. La retribuzione di ciascuno dei due lavoratori è determinata in relazione alla previsione contrattuale di cui al comma precedente anche ai fini
previdenziali e fiscali, senza subire variazioni per effetto di modifiche della
distribuzione della prestazione tra i due lavoratori. Resta salvo l’obbligo di
sostituzione compensativa o indennizzo in denaro a carico del lavoratore che
si è fatto sostituire.
3. Ai fini delle prestazioni dell’assicurazione generale obbligatoria,
dell’indennità economica di malattia e di ogni altra prestazione previdenziale ed assistenziale e delle relative contribuzioni connesse alla durata giornaliera, settimanale, o annuale della prestazione lavorativa, i due lavoratori
contitolari del contratto di cui all’art. 17 sono considerati come lavoratori a
tempo parziale.
4. Il contratto di lavoro a coppia deve essere stipulato per iscritto e copia
di esso deve essere inviata entro 30 giorni all’Ispettorato provinciale del lavoro.
Art. 19 Orario di lavoro, riposi ed impedimenti al lavoro
1. All’estensione e collocazione temporale della prestazione lavorativa
dedotta nel contratto di cui all’art. 17 si applicano le disposizioni contenute
nella presente legge.
2. L’impedimento contemporaneo di entrambi i lavoratori ha l’effetto
di sospendere la prestazione lavorativa.
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3. Qualora per uno dei due lavoratori coobbligati si verifichi l’impedimento di cui all’art. 2111 del codice civile, oppure uno di essi ottenga
l’aspettativa a norma dell’art. 31 della legge 20 maggio 1970 n. 300, il contratto si converte automaticamente, per tutta la durata dell’impedimento o
dell’aspettativa, in contratto di lavoro ordinario, di cui resta titolare l’altro
lavoratore.
Art. 20 Risoluzione del contratto
1. Le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori contitolari del
contratto di cui all’art. 17 costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento dell’altro, salvo che quest’ultimo e il datore di lavoro si accordino
per la trasformazione del contratto in altro contratto di lavoro.
TITOLO IV
Costituzione del fondo incentivazione alla riorganizzazione dell’orario
di lavoro
Art. 21 Costituzione del Fondo
1. È istituito, presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale, il
Fondo di incentivazione alla riorganizzazione dell’orario di lavoro con lo
scopo di erogare contributi a favore delle imprese che, nell’organizzazione
del tempo di lavoro, adottino regimi che comportino globalmente una riduzione dell’orario normale contrattuale.
2. Il Fondo, per le cui entrate ed uscite è tenuta una contabilità separata
nella gestione dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, è alimentato:
a) dal versamento di una somma pari al quindici per cento delle maggiorazioni retributive relative alle ore di lavoro straordinario effettuate, da ripartire, per due terzi a carico del datore di lavoro e, per un terzo, a carico
del lavoratore;
b) a decorrere dal 1° gennaio 1994, da un contributo pari allo 0,70% delle
retribuzioni mensili corrisposte ai propri dipendenti da parte delle impre-
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se e da un contributo pari allo 0,35% della retribuzione mensile a carico
dei dipendenti; si tratta delle contribuzioni Ex-Gescal per la quale occorre
prevedere una generale revisione della disciplina.
c) da tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 28 della presente legge.
3. I contributi del Fondo di cui al comma 2 sono concessi alle imprese
che adottano programmi o schemi di orario di lavoro di durata non inferiore
a tre anni e che prevedono un orario normale inferiore a quello di cui ai
commi 1 e 2 dell’art. 1.
4. Il contributo è commisurato all’entità della riduzione ed è erogato in
misura decrescente per ciascun anno del triennio nella misura pari, rispettivamente, al 30%, 20% e 10% del monte retributivo non dovuto dalle imprese in seguito alla riduzione di orario. Tale contributo sarà ripartito in parti
uguali tra l’impresa ed i lavoratori.
5. Per i contratti di solidarietà stipulati ai sensi dell’art. 2 del decreto
legge 20 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella legge 19
dicembre 1984, n. 863, il beneficio di cui al precedente comma 3 è cumulabile con quelli previsti dai commi 1 e 2 della predetta disposizione.
Art. 22 Fiscalizzazione degli oneri sociali
1. Entro 60 giorni dalla entrata in vigore della presente legge, il governo è delegato ad emanare norme per la trasformazione delle riduzioni contributive di cui all’art. 2 del D.L. 22 marzo 1993, n. 71, convertito dalla legge
20 maggio 1993, n. 151 in quota capitaria fissa per ogni dipendente occupato a tempo indeterminato.
2. Tale trasformazione non dovrà comportare oneri finanziari aggiuntivi per l’erario.
3. Lo sgravio contributivo pro capite di cui al comma 1 è riconosciuto
nella sua interezza per ciascun lavoratore occupato con contratto di lavoro a
tempo parziale e con il contratto di lavoro di cui al precedente art. 17.
TITOLO V
Governo territoriale dei tempi di lavoro
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Art. 23 Piano regolatore degli orari
1. I Comuni con più di 50.000 abitanti residenti sono tenuti, esercitando i poteri loro attribuiti dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, a predisporre entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, sentite le associazioni
sindacali, imprenditoriali e dei consumatori interessate, un piano territoriale
degli orari di lavoro e di quelli degli uffici pubblici e degli esercizi commerciali, al fine di promuovere un migliore e più razionale contemperamento tra
esigenze dei lavoratori ed esigenze dei consumatori e utenti.
2. Il piano di cui al comma precedente è approvato dal Consiglio comunale su proposta della Giunta. Esso è vincolante per l’Amministrazione
comunale, la quale deve subordinare il rilascio di autorizzazioni commerciali
al rispetto delle disposizioni del piano da parte degli operatori interessati.
Art. 24 Governo dei tempi di vita
1. Le Regioni promuovono attraverso l’emanazione di leggi regionali il
coordinamento degli orari di cui al precedente articolo, al fine di garantire il
diritto dei cittadini all’effettivo governo dei tempi di vita, di cura, di formazione, di tempo libero. A tal fine le Regioni si attiveranno per promuovere
l’informazione dei cittadini e la ricerca sul governo dei tempi, attraverso la
creazione di apposite strutture organizzative.
Art. 25 Piano regionale di scaglionamento delle ferie annuali
1. Ciascuna Regione determina, con apposita legge, entro un anno
dall’entrata in vigore della presente, il proprio piano sperimentale di scaglionamento delle ferie annuali, finalizzato alla razionalizzazione dello sfruttamento delle ricorse turistiche e al decongestionamento del traffico stradale e
ferroviario nel mese di agosto. Detto piano deve:
a) assegnare a ciascuna provincia o comprensorio in un periodo di almeno 30
giorni consecutivi e non più di 45, tra il 15 giugno ed il 15 settembre, nel
quale dovranno essere prioritariamente collocate le ferie dei dipendenti
pubblici ed incentivata la collocazione delle ferie dei dipendenti privati;
b) stabilire, per ogni settore dei servizi e per il commercio al minuto, in relazione a ciascuna provincia o comprensorio, le percentuali minime di
apertura al pubblico nel periodo estivo;
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c) contenere eventuali ulteriori disposizioni, anche differenziate in riferimento ai diversi settori, volte a favorire la razionale distribuzione dei periodi di sospensione produttiva e dei flussi turistici.
2. Le assegnazioni di cui alla lettera a) del comma precedente possono
essere disposte secondo una turnazione pluriennale.
3. Il piano sperimentale deve riferirsi ad un periodo non inferiore a 2 anni
e non superiore a 3 anni. Entro tre mesi dal termine di tale periodo la Giunta regionale redige una relazione sull’esperimento e la comunica al ministro per gli
affari interni ed ai presidenti del Senato e della Camera dei Deputati.
4. Gli incentivi statali ai datori di lavoro privati ed ai lavoratori autonomi per la collocazione delle ferie in coerenza con il piano sperimentale sono
previsti e regolati con apposita legge.
5. Le leggi regionali stabiliranno i contributi da erogare ai Comuni con
più di 50.000 abitanti per promuovere le attività di ricerca di cui all’articolo
precedente.
TITOLO VI
Norme Finali
Art. 26 Esclusioni
1. La presente legge non si applica:
a) ai dirigenti ed ai quadri;
b) ai lavoratori addetti ai servizi domestici di cui all’art. 1 della legge 2 aprile 1958 n. 339;
c) al personale laico delle chiese di culto;
d) nei casi in cui l’estensione e collocazione temporale della prestazione
nell’arco della giornata e della settimana non è contrattualmente vincolata e la prestazione stessa si svolge prevalentemente al di fuori dei locali
dell’azienda.
2. Per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1,
comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e delle imprese esercenti servizi pubblici anche in regime di concessione, nonché per il persona-
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le navigante, le disposizioni della presente legge si applicano salvo che la
materia sia diversamente disciplinata da apposite norme di legge o di regolamento o di contratto collettivo.
Art. 27 Nullità dei patti contrari
1. È nulla ogni pattuizione contraria alle disposizioni della presente
legge.
Art. 28 Sanzioni
Nel caso di mancato godimento del riposo settimanale e delle ferie annuali da parte del lavoratore, il datore di lavoro tenuto al pagamento in favore del Fondo di cui all’art. 21 di una somma pari al doppio del trattamento
corrisposto al lavoratore a titolo di indennità sostitutiva. Per l’Ufficio legislativo: individuare le sanzioni amministrative per le altre violazioni.
Art. 29 Abrogazioni
1. Sono abrogate tutte le disposizioni legislative, amministrative, regolamentari e contrattuali in contrasto con le norme della presente legge.
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