1 UN FUTURO MOLTO INCERTO. IL CASO DELLA LIBIA

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1 UN FUTURO MOLTO INCERTO. IL CASO DELLA LIBIA
 UN FUTURO MOLTO INCERTO. IL CASO DELLA LIBIA In occasione dell’incontro delle Caritas del Mediterraneo nell’ambito del MigraMed meeting di giugno 2011 tenutosi a Roma, è stato possibile fare il punto circa la situazione nord africana che ha visto coinvolti migliaia di profughi e migranti che hanno lasciato la Libia per fuggire verso i paesi confinanti (Egitto, Tunisia, Ciad, Niger, Algeria) o per imbarcarsi fortunosamente verso l’Italia. Durante i lavori si è avuta l’opportunità di un confronto con il Capo missione dell’IOM in Italia che ha aggiornato i presenti circa le operazioni di rimpatrio, fornendo anche i dati aggiornati sui movimenti di persone da e verso il confine libico. Il contesto di riferimento Con la rivoluzione del 17 febbraio, la giornata della collera, si apre anche in Libia una nuova fase storica con l’inizio di rivolte popolari contro il regime del colonnello Mu ammar Gheddafi, salito al potere il 1º settembre 1969, dopo un colpo di stato che condusse alla caduta della monarchia filo‐occidentale del re Idris. In poche settimane diverse città libiche sono attraversate da imponenti proteste che ben presto si trasformano in una vera e propria guerra civile che vede fronteggiarsi da un lato il Consiglio nazionale ad interim di transizione e dall’altro le forze lealiste del colonnello Gheddafi. In ordine di tempo le rivolte libiche seguono di alcune settimane quelle esplose in Tunisia, ma da una prima analisi risulta evidente che le cause scatenanti non sono completamente assimilabili. Non si tratta, infatti, della protesta di chi rivendica migliori condizioni economiche o di chi contesta l’inarrestabile aumento dei prezzi dei generi alimentari, oltre che di coloro che vogliono affrancarsi da malcelati dittatori come Ben Alì o Hosni Mubarak. Si tratta, invece, di motivazioni che vedono nella storica frammentazione del paese in tribù, le più refrattarie delle quali sono state nel tempo tacitate, la causa principale, anche se non unica, dell’attuale conflitto in corso. In Libia si contano circa 140 tribù (di cui almeno 30 sono le principali) che sono divise tra quelle che occupano la parte della Tripolitania e del Fezzan (vicine al colonnello) e quelle che occupano la Cirenaica (storicamente ostili all’unità nazionale). Nel 1951, 1
anno dell’indipendenza della Libia dalla monarchia, si assistette ad un cambiamento radicale dell’amministrazione del potere che fu trasferito dalle varie tribù ad un apparato centralizzato in mano al colonnello Gheddafi. Si passò repentinamente da una impostazione del potere tradizionalista, tipica dei clan, ad una fortemente ideologizzata ispirata al socialismo reale e fondata sulla dittatura delle masse (Jamāhīriyya). Prima dell’attuale conflitto Gheddafi ha attuato una strategia caratterizzata da un lato da una politica di sussidi statali e di taciti accordi con le tribù più ostili e dall’altro da una dura repressione del dissenso. Questo gli ha garantito per anni il potere nel suo paese ma non ha retto alla crescente disoccupazione e alla mancata politica di liberalizzazioni che hanno costituito elemento di malcontento anche fra la popolazione delle grandi città che, pur non identificandosi in alcuna tribù, ha sostenuto la protesta prima e il conflitto armato poi.
Le rivolte Dopo l’invito partito dal web alla cosiddetta “giornata della collera” del 17 febbraio 2011, sono iniziate le manifestazioni contro il potere del colonnello Mu ammar Gheddafi. E’ il primo embrione di una contestazione che da Bengasi, roccaforte dell’opposizione al regime, si è diffusa velocemente al resto del Paese. Alcuni giorni dopo, inaspettatamente, i ribelli prendono il controllo del palazzo presidenziale di Bengasi annunciando la rottura con il regime del Colonnello. Nel frattempo alcuni ambienti militari e alcune famiglie fedeli a Gheddafi si sono schierati con i rivoltosi, in particolare, dopo i raid aerei ordinati dal Colonnello sui civili di Tripoli il 21 febbraio. Mentre i ribelli avanzano verso la città di Misurata, a circa 200 chilometri dalla Capitale, Gheddafi si barrica nel bunker a Tripoli, e da lì ha continua ad organizzare la controffensiva anche attraverso il reclutamento di mercenari (perlopiù provenienti dall’Africa Subsahariana e dalla Serbia). Il 26 febbraio, di fronte al rifiuto del Colonnello di lasciare il potere, le Nazioni Unite adottano la Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza che prevede un embargo sulla vendita di armi, restrizioni sugli spostamenti del Colonnello e di altre persone a lui vicine, la richiesta ai Paesi ONU di attivarsi per fornire assistenza umanitaria al popolo libico, la possibilità di sottoporre il Colonnello al giudizio della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, il congelamento dei beni della famiglia Gheddafi. Il giorno successivo i ribelli costituiscono un Consiglio Nazionale di Transizione, composto da 31 persone tra cui giudici, avvocati e uomini di legge, con il compito di coordinare le attività di rivolta e governare le aree conquistate. Il 17 marzo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU asseconda la proposta francese e con la Risoluzione 1973, approvata con l’astensione al voto di Germania, Russia, India, Cina e Brasile, impone “l’immediato cessate il fuoco con autorizzazione alla comunità internazionale ad istituire la no fly zone (interdizione dei voli libici sulla Libia), ad utilizzare i mezzi necessari per proteggere i civili e ad imporre il cessate il fuoco forzato, ad esclusione di azioni che comportino la presenza di una forza occupante”. I rappresentanti dell’Unità Africana condannano qualsiasi tipo di ingerenza in Libia. In breve iniziano le operazioni militari in Libia per mano della Nato attraverso raid aerei. Tra il 14 e il 15 aprile, si diffonde la voce per cui il Colonnello avrebbe liberato oltre 15 mila detenuti dalle carceri libiche (perlopiù africani sub sahariani) per favorire la loro partenza verso l’Italia già provata dall’ingente 2
numero di profughi tunisini arrivati tra marzo e aprile. Ad inizio maggio i ribelli annunciano di aver ripreso il controllo dell’aeroporto di Misurata e di aver liberato la città. Misurata rappresenta il primo centro della Tripolitania a cadere nelle mani dei rivoltosi di Bengasi. Il futuro in Libia è incerto e il rischio di trovarsi davanti ad una nuova Somalia o a un nuovo Afghanistan è sempre meno remoto. La ricerca di una adeguata uscita pacifica di scena da parte del Rais diventa un obiettivo irrinunciabile e necessario anche per evitare l’aggravarsi della crisi umanitaria. La fuga Uno dei primi effetti della crisi libica è stato il crescente flusso di profughi e migranti verso i paesi confinanti. Peraltro la Libia è uno storico paese di immigrazione dove fino a poco tempo prima del conflitto risiedevano più o meno legalmente quasi un milione di cittadini stranieri. Molti, a seguito del conflitto, hanno deciso di lasciare il paese e cogliere l’occasione per completare il loro progetto migratorio verso l’Europa imbarcandosi per Lampedusa e Malta. Altri, invece, si sono spostati massicciamente verso la vicina Tunisia e l’Egitto. Come dichiarato il 20 giugno dall’Alto Commissario per i rifugiati Guterres «Dall’esplosione della crisi in Libia, circa un milione di persone ha attraversato le frontiere terresti con Egitto e Tunisia. (…) In Italia è arrivato meno del 2 per cento dei rifugiati ospitati in Tunisia e in Egitto». Fino ad oggi l’OIM, in collaborazione con i suoi partner, ha assistito 150.073 persone nel rientrare al loro paese di origine. Al momento ci sono 2.365 persone bloccate ai confini. Migliaia di migranti in fuga dalla Libia sono sottoposti ad uno stress psicologico notevole e una volta tornati a casa o reinsediati in un altro paese, necessitano di cure intensive e continue. Tuttavia, i fondi necessari per fronteggiare questi problemi psicosociali sono ancora estremamente scarsi. Oltre 550 mila persone sono entrate in Tunisia dall’inizio della crisi. L’OIM e i suoi partner hanno fornito assistenza al trasporto aereo e via mare a 108.303 persone. Ad oggi la stima delle persone in attesa di essere evacuate è di 1.293 unità. Il totale degli arrivi in Egitto si aggira intorno alle 348 mila persone. dal 26 Febbraio, l’OIM ha evacuato 36.623 migranti bloccati in Egitto. In Ciad gli arrivi si aggirano intorno alle 30 mila unità, tra i quali il 99% ciadiani. Ad oggi 28.151 ciadiani sono stati rimpatriati per via aerea da Egitto e Tunisia. L’OIM ha organizzato inoltre l’assistenza al trasporto di 16.123 migranti da Faya e Kalait a N’Djamena e Abeche (1.822 per via aerea e 14.301 su camion). In Italia, invece, dall’inizio della crisi sono sbarcati a Lampedusa circa 19 mila migranti provenienti dalla Libia. I principali paesi di provenienza sono: Bangladesh, Ghana, Costa d’Avorio, Mali, Nigeria, Pakistan, Somalia ed altri paesi Sub‐Sahariani. 3
La risposta di Caritas Internationalis Successivamente ai primi scontri tra le forze lealiste e gli oppositori al regime, a cui hanno fatto seguito le partenze di profughi verso le zone di confine libiche, la Caritas Internationalis ha attivato un team per monitorare l’accoglienza in Tunisia e in Egitto. Hanno preso parte a questo team i colleghi di Caritas Francia, Caritas Libano e CRS (Caritas USA). Durante il Migramed meeting di Roma, il 24‐24 giugno, si è avuta l’opportunità di ascoltare il loro resoconto di missione. La maggior parte della popolazione libica è concentrata sulla costa mediterranea, con due poli ad est ed ovest del Paese. Negli otto distretti del nord‐
ovest della Libia risiedono più di tre milioni di persone pari al 50% dell’intera popolazione. Se si considera che via terra Tripoli è distante 175 km dal confine tunisino, mentre la città di Al Zawya appena 125, è facile comprendere come la maggior parte delle persone sia fuggita attraverso il confine tunisino. Già alla data del 10 marzo, più o meno un mese dall’inizio della rivolta, oltre 120.000 persone avevano attraversato il confine. L’OIM stima che al 1 luglio 260 mila cittadini di paesi terzi (TCN) hanno attraversato il confine dalla Libia alla Tunisia. Decine di migliaia di coloro che sono passati dalla Libia alla Tunisia sono già stati rimpatriati attraverso l'aeroporto di Djerba, e i porti di Sfax e Zarzis I rimpatri sono avvenuti grazie allo sforzo dei propri governi, delle organizzazioni internazionali e in diversi casi attraverso l’autofinanziamento. Anche migliaia di cittadini libici hanno attraversato il confine ma in molti casi hanno fatto rientro in Libia per poi ritornare in Tunisia, attuando una sorta di pendolarismo, che varia in relazione all’andamento del conflitto. Il principale punto di passaggio è il valico di frontiera di Ras Ajdir dove, a 7 km, è stato allestito il campo di "Shusha" . In termini di infrastrutture, trasporti e comunicazioni, logistica, approvvigionamento, le operazioni sono molto facilitate dalla vicinanza di alcune città come Ben Gardane a 20 km o la più grande Gabes a 200 km. Un nuovo campo è stato aperto a sud, dove infuriavano i combattimenti sul lato libico. Nel campo di "Shusha" sono state migliaia le persone accolte. Caritas Internationalis ha allestito una tenda presso il campo di Shusha dove ha garantito per alcune settimane l’orientamento agli ospiti della tendopoli, in particolare cittadini asiatici. Si è registrata una straordinaria solidarietà della popolazione locale e della società civile tunisina. Nonostante ci sia voluto del tempo per organizzare il campo, alla fine è stato garantito il necessario come cibo e acqua potabile. Due nuovi campi sono in fase di realizzazione (dal CICR e dalla Mezzaluna Rossa degli Emirati Arabi), portando così la capacità totale a circa 40.000 posti. Oltre 60.000 persone sono già state rimpatriate: molti egiziani, soprattutto nei primi giorni del conflitto, cinesi (rimpatriati attraverso le aziende private dove lavoravano), filippini, sudanesi, migliaia di bengalesi e cittadini dell'Africa occidentale. Si è trattato di un lavoro molto faticoso ma "di massa", senza la possibilità di stabilire una relazione minima con i migranti e senza poter avere alcuna attenzione ai più vulnerabili. In via generale la preoccupazione è stata di ridurre rapidamente il numero dei residenti nel campo, in previsione di possibili nuovi afflussi. Le situazioni più difficili si sono riscontrate per i cittadini provenienti dalla Somalia, Eritrea, 4
Afghanistan, Iraq e Palestina, ovvero da paesi dove la possibilità di un ritorno è sostanzialmente impossibile. L’accoglienza in Egitto, invece, ha mostrato sin dall’inizio alcune criticità. La maggior parte di coloro che si sono affollati al confine libico egiziano sono lavoratori egiziani di ritorno e cittadini libici provenienti soprattutto dalla città di Bengasi, teatro di violenti scontri dopo l'arrivo delle brigate di Muammar Gheddafi che hanno bombardato la città, roccaforte degli insorti. Il governo egiziano ha chiesto che i migranti in fuga dalla Libia entrassero in Egitto solo se minuti di visto. Una condizione molto difficile per chi cercava di entrare in Egitto, perché i documenti vanno richiesti alle ambasciate egiziane, molto distanti dalla frontiera. Inizialmente il valico di Salloum, principale porta d’accesso verso l’Egitto, è stato aperto solo per poche ore al giorno. Presso il valico l’esercito egiziano ha allestito un campo con due ospedali Un'équipe della Caritas che è stata presente presso Salloum ha riferito di migranti asiatici e africani che attendevano tra i due e i sei giorni per completare l'iter necessario all’attraversamento della frontiera. Le difficoltà riguardavano la mancanza di documenti o di aiuto da parte delle ambasciate per favorire il rimpatrio. All'équipe Caritas hanno partecipato operatori di Caritas Egitto e di Catholic Relief Services. Parlando dalla zona interessata, il rappresentante di CRS ha affermato che alcuni dei migranti non hanno ricevuto cibo sufficiente né acqua. La maggior parte è costituita da uomini che hanno dormito all'addiaccio. La risposta della Caritas si è indirizzata nella fornitura di cibo, acqua imbottigliata, disinfettante per le mani e coperte per la notte. Tra i migranti una buona parte è costituita da sudanesi, soprattutto del Darfur. I migranti provengono però anche da molti altri Paesi: Bangladesh, Thailandia, Vietnam, Nigeria, Mali, Ciad, Camerun, Etiopia, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Burkina Faso e Costa d'Avorio. 5