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147 Finale
A Davide e Giulia, naturalmente
Ringraziamenti
Desidero ringraziare Fabrizio Ferri, per il suo straordinario talento e per la nostra
inossidabile complicità; il professor Marcello Sirotti, insostituibile violoncellista e
Francesco Rossetti per le sue preziose lezioni di «ortopedia».
Preludio
Amica mia,
adagiata nella calma irreale di una Provenza insolitamente innevata, siedo al piccolo
scrittoio che Thierry ha trasferito in un angolo della nostra stanza da letto. Proprio di
fronte alla finestra. Un trasloco affettuoso, il suo, per tacitare le mie insistenti richieste di
riparo e segretezza. Questa mattina, dopo colazione, ha improvvisato un appuntamento a
l'Isle-sur-la-Sorgue dal nostro antiquario di fiducia: «Ho sentito Pocquelin», ha detto
stringendomi a sé con impeto, «di-ce di aver recuperato un tavolo che si adatterebbe alle
due sedie dell'ingresso. Vado a vedere di che si tratta».
Dal mio angolo di pace osservo il suo incedere lento, le spalle larghe e ospitali, la sua
eleganza tranquilla e benedico il momento in cui l'ho accolto in questa casa con migliaia di
libri e ricordi leggeri. Scorto da qui, il giardino ha sembianze solitarie, dolci misure
contenute e alberi accessibili alla vista. I grandi vasi di terracotta sono spruzzati di polvere
bianca, candido nevischio che riveste i loro contorni di ambigua perfezione e allontana
ogni memoria. Tutto è in miniatura.
Persino i fiocchi di neve, che hanno ricomposto la loro verginità sul prato dove il cane dei
vicini ha lasciato soffici or-me, mi confortano, minuscoli. Il monitor del computer è spento,
la tastiera inerte, forse gelosa di questa vecchia penna stilografica che ho scovato nel
cassetto e che ora mi aiuta ad arrivare fino a te. Impossibile, almeno oggi, rinunciare a
scriverti.
Riesci a immaginarmi, nel senno crudele dei tuoi settantaquattro anni, dominata da una
tenerezza frenetica e ingenua? In cuor mio spero di sì, perché così mi sentivo l'altro giorno
dopo avere ricevuto questa lettera. E mentre componevo le nove cifre del suo numero di
telefono, guidata da un impulso che non offriva spazio a riflessioni supplementari. Il mio
cuore era slogato. Come quello di una ragazzina.
Gentile signora,
mio padre espresse il desiderio, mesi fa, di essere sepolto nel cimitero di un piccolo paese
nei pressi di Firenze. Non ci aveva mai parlato della morte prima di quel giorno. ha
considerava un'eventualità remota. Non era un uomo dal fisico forte, eppure noi lo
credevamo immortale.
In questi giorni sto facendo ordine tra i suoi libri: aveva disposto che li dividessimo tra noi
sorelle seguendo un rigoroso ordine alfabetico. Ci aveva insegnato a non badare alla
quantità, ma alla civiltà delle cose.
Nascosta sul ripiano dedicato ai romanzi, ho trovato una scatola di lettere, senza busta,
firmate con una C. Non erano di mia madre.
Vorrei incontrarLa, Signora, potrei venire in Provenza se lo crede opportuno.
Con la speranza di ricevere presto Sue notizie, Le porgo i miei saluti
Lucrezia
Primo movimento
venerdì
La mattina per precauzione ho ascoltato il Concerto per violino e orchestra di
Mendelssohn, che spero possa perdonarmi se talvolta adotto la sua musica come
personale terapia contro l'ansia. Era riposto sullo scaffale che avevo dedicato a suo padre:
Brahms, Schubert, Schumann, Mendelssohn abbandonati l'uno accanto all'altro, complici
innocenti di estemporanei travestimenti romantici. Musica da suggerire per un film
d'amore. Intenso, bello. Un po' distratto.
Quel disco me lo aveva regalato in un giorno di quiete.
Virtuosamente pizzicato da non so più quale archetto, il prezioso violino voluto da Felix
emanava uno strazio brillante che intimamente associavo all'esordio di quella singolare
giornata. Mi disponevo mentalmente a quell'incontro, la prova generale di un importante
debutto. Le domande si rincorrevano nel cervello, rimbalzavano l'una contro l'altra,
ritmiche e monotone palline da ping-pong: come avrei dovuto salutarla? Che dirle?
Avrebbe avuto senso andarle incontro al cancello o sarebbe stato meglio riceverla
composta, le ma-ni intrecciate in grembo, sulla porta di casa? Accoglierla con un
generoso abbraccio o porgerle educatamente la mano?
Cosa voleva, quella, da me?
Descrivere alla figlia la bellezza del corpo di suo padre sarebbe stato avventato, ma
mentre indugiavo davanti alle finestre del salone in attesa di vederla sbucare dal viale,
riuscivo a ricordare solo quello. Sarebbe stata così smaliziata da sopportare con dolcezza
un'anziana signora che non aveva ancora provveduto a prendere confidenza col pudore?
Noi vecchi, forse, possiamo insegnare ai giovani come stringersi tra le braccia: «Devono
essere lunghe», le avrei spiegato.
«Avere terminali mobili. E polsi sottili. Eleganti. Piatti. Accondiscendenti».
Ho informato Annette della visita di un'ospite di riguardo. Italiana.
«Cucinerò spaghetti al pomodoro e cotolette impanate», ha risposto la sua vocina stridula,
nel vano tentativo di ricuci-re un'intesa ormai lisa dal tempo. Non ci ha mai legate
un'amicizia né si è mai instaurato fra noi un rapporto serva-padrona. Litigavamo spesso
per via della sua congenita invadenza, ma ormai era parte di quella casa dal giorno in cui
era arrivata qui con la fioraia di Saint-Rémy, le mani grassocce dalle unghie poco curate,
poggiate con aria di comando su fianchi larghi e tondi; gli occhi buoni circondati da un
alone di infinita tristezza. L'unico parente che le era rimasto, un vecchio e - a sentir lei scorbutico marito, se l'era svignata con una ragazzotta del paese tempo addietro. Dopo
anni di convivenza, quella vocetta sgraziata dallo spiccato accento alsaziano era un'eco
fastidiosa che riuscivo a sopportare solo quando mi svegliavo di buon umore. Come quel
giorno. La partenza di Thierry mi aveva sollevata. Anche se conosceva ogni risvolto della
mia esistenza non avrei saputo come presentargliela. È
partito stamattina per Parigi annunciando una sospetta nostalgia per suo figlio Maurice e
per le sogliole «Isidore» dell'Artois. Al mio risveglio, un biglietto sul cuscino: «N'oublie pas.
Je reviens». E il solito, ben accetto, «Ti amo».
E arrivata nel pomeriggio e inspiegabilmente faceva già buio. Il cielo non è mai del tutto
scuro nemmeno durante gli inverni più rigidi, quaggiù. A cercare con cura si trova sempre
qualche stella timida e prudente che ne illumina gli angoli. Quel giorno no. Sarei stata a tu
per tu con una perfetta sconosciuta senza poter contare su alcuna consolazione. So-no
scesa ad attenderla sulla porta quando ho sentito il rumore dell'auto. Sul sedile accanto a
lei si intravedeva la custodia nera di un violoncello, a ricordarmi che i musicisti non si separano mai dallo strumento, che lentamente diventa quasi il naturale prolungamento fisico
delle loro braccia. Un figlio, un innamorato. La sicurezza di appartenere a qualcosa.
Abbiamo sciolto le formalità di rito con una stretta di mano che mi è parsa priva di
riguardo, utile a dissimulare un reciproco, impalpabile disagio. Non ero preparata ai
ricordi, Gabriella, tuttavia quella ragazza mi ha attratta dal primo istante con
insospettabile violenza. Il suo sguardo era febbrile. Rincorreva certezze. Attendeva
risposte. Una sintesi. Senza sapere che il tempo, a nostra insaputa, mette strati di gar-ze
rincuoranti a ciò che chiamiamo verità. Era arrivata da pochi minuti e io non ho trovato
nulla di meglio da fare che in-dirizzarle un sorriso caloroso. Di quelli che ho imparato a
dosare. Dovevo solo smetterla di fissare quel neo posizionato con malizia a pochi millimetri
dal suo labbro superiore. Una piccola macchia scura, l'avresti detta un difetto, che mi
aveva precipitata indietro di almeno trent'anni. Quel trascu-rabile dettaglio emanava un
fascino innaturale e insensato. E
aveva la potenza di una folata di vento.
Non appena ha infilato il naso nel mio studio stipato di sciocchezze, le è bastata
un'occhiata alle pareti affollate di manifesti e vecchie fotografie di opere liriche per
visualizza-re l'ideale schedario visivo dei miei anni in teatro. Quei graffiti della memoria,
apparentemente uguali l'uno all'altro, erano un buon punto di partenza per darle
informazioni senza ricorrere a una vanitosa cronologia di fatti personali. Si è ac-comodata
nella poltrona accanto alla finestra, ha accavallato le lunghe gambe fasciate di nero,
esordendo con tenera esitazione:
«È strana la neve in Provenza. Di questo angolo della terra si hanno abitualmente immagini
solari, abbaglianti. È qui che scrive le sue lettere, signora? In questa stanza dei ricordi?»
Per un attimo sono scivolata nei miei pensieri: dovrò portare al più presto quella
poltroncina dal tappezziere, i gigli del tessuto hanno perso il giallo ocra originario e i
braccioli sono irrimediabilmente rovinati dai graffi di Minou, che ha lasciato la sua
impronta prima di scomparire. In cerca d'amore.
«Le locandine sono rimaste identiche ad allora, sa?»
Il teatro sarebbe stato un argomento privo di trappole, un terreno comune che ci avrebbe
salvate dall'ignoto verso il quale avrebbe potuto trascinarci quell'imprudente
conversazione. Come se mi avesse letto nel pensiero nel momento stesso in cui si
componeva nella mia testa, ha simulato interesse per il muro imbrattato di storici manifesti
e si è diretta con languida indifferenza verso quello della Ricostruzione, sciupando la
perfetta immobilità della scena. E riportandomi alla realtà.
«Oh, sì. Anche i colori sono sempre gli stessi, Lucrezia: il fondo camoscio, i titoli in
marrone e quella macchia di rosso sullo stemma del Comune. Persino il carattere
tipografico è immutato. Nell'aspetto quel teatro ha replicato se stesso, non crede? Si è
lasciato ritoccare qui e là, pur mantenendo intatti per orgoglio, forse per timore, i tratti più
fascinosi del suo viso. L'ho tanto amato, Lucrezia. Come si può adorare da lontano e con
fiacca speranza una madre irraggiungibile.»
Avrei voluto che fosse elegante e discreta. E unica. Da non confondere con nessun'altra.
Non glielo avevo mai confessato. Si parlava poco, una volta tra genitori e figli. Isole di
misteri. Di rabbie umide e incontrollate. Eppure quel teatro era stato la vita. Fino a quando
non si era inaspettatamente trasformato in una sinistra matrigna.
Il silenzio inondava l'aria, si dilatava, denso e remissivo in quella piccola stanza, rendendo
incolori le parole con le quali in modo goffo tentavo di avvicinarmi a lei. Lo sguardo
lievemente scostante, le inseguiva. Distratta. Come se non ne respirasse la nostalgia.
Forse perché quella, a trent'anni, ferisce solo chi l'ha già incontrata. Sai bene che era il
mio caso, ma che ne sapeva quella di me? La spiavo mentre si muoveva, disinvolta e
leggera, in quello spazio arredato di scampoli del mio passato. Giocava con gli oggetti per
impadronirsi di quel mondo, scivolando con il dito scorreva la doppia colonna con i nomi
dei personaggi, sorrideva ricordando scenografi, registi, cantanti ormai defunti
accorgendosi di come non avessero subito l'erosione del tempo.
L'incedere paterno era aggraziato. Malgrado l'altezza, che, contrariamente a quanto avevo
immaginato, in quel frangente non mi rendeva apprensiva. Le mani affusolate, bellissime,
dalle dita lunghe, si muovevano misurando gli oggetti con delicatezza e sfiorando pudiche
libri e riviste ammassati in ogni angolo. Gesti lenti, meditati, da ragazza educata. Di buone
maniere. Le ho mostrato i programmi delle opere dirette dal Maestro. Avevo conservato
solo quelli. E un biglietto incorniciato.
L'unico che mi aveva scritto in tanti anni di filiale dedizione.
«È una reliquia che non ho ancora destinato. Nessuno dei miei nipoti, sa, mostra per la
musica l'adorazione che io vi ho dissipato.»
Ho provato ad asciugarla in una frase.
«Ogni opera, Lucrezia, è legata a un'emozione. Ogni concerto è stato un'avventura
dell'anima. Quel teatro è come un male, ha contagiato chiunque l'abbia abitato per qualche
tempo. Certamente suo padre gliene ha parlato. Io vivevo la mia passione nell'ombra.»
«Cioè?»
«Le prove d'orchestra. Era quella la musica, per me. La sala deserta, avvolta di luci
giallastre e abitata unicamente dai rumori degli operai di palcoscenico, martelli che
picchiava-no chiodi, una porta che sbatteva senza cautela, il sibilo sottile di un microfono
che registrava note da archivio. I palchi bui tenuti all'oscuro dalla paura. Protetti. Monadi
ovattate, empori d'ombre, nei quali la storia aveva immagazzinato incontri e passioni.
Fantasmi. Sceglievo sempre lo stesso, un'alcova protettiva per i miei armistizi emotivi. Un
rito di purificazione dalla mia decadenza. In quel piccolo palco dai drappi rossi, lisi dalle
migliaia di gomiti che vi si erano pigramente appoggiati per decenni, ascoltavo, la mente
allevia-ta dalla stanchezza. Nascosta dal mondo. Come in un'appartata chiesa di
campagna. Di sobria bellezza. Resistente, consumata dall'esperienza.
«Quando ero bambina mio padre mi portava con sé alle prove. Era il premio delle grandi
occasioni, un buon voto a scuola, un anniversario. Mia sorella mi invidiava senza darlo a
vedere e mostrando di non curarsi della musica. Non lo ha mai perdonato per quella
preferenza. Me lo rivelò quando era ormai adulta e lui non avrebbe più potuto difendersi.
Papà mi accompagnava fino all'ultima fila di platea, dove mi rannicchiavo in una poltrona,
impaurita dal minaccioso e imponente lampadario che mi pendeva sulla testa. Temevo mi
cadesse addosso, bum, tutt'a un tratto. Un giorno me lo fecero visitare dall'interno: è mai
salita fin lassù, signora? "No, non mi pare. Lo ricorderei..."
«Me ne stavo buona e zitta. Di tanto in tanto sbirciavo papà, sentendomi l'unica complice di
quel mondo che il resto della famiglia, a cominciare da mia madre, si beava di ignorare.
Per tutta la durata del concerto chiudevo gli occhi e la musica diveniva la colonna sonora
di storie popolate di personaggi che nascevano da quelle note, ogni volta nuovi.
In quel mondo immaginario mi sentivo forte e sicura. La sera, prima di addormentarmi,
ascoltavo la melodia di quelle note inanimate rivivere in me: credo che il pensiero di
studiare violoncello sia nato allora. Da quando sono entrata in orchestra non ho più
ascoltato musica se non sul palcoscenico o in buca. Venti metri di distanza hanno
definitivamente cambiato il mio punto di vista.»
Parlava tenendo la schiena flessuosa appoggiata alla libreria, i suoi occhi scuri e profondi
si muovevano tutt'intorno, inseguendo un filo visibile solo a lei. Era come se quella stanza
accogliente e piena di paccottiglia l'avesse riportata ai giorni dell'infanzia.
Evocare quegli anni, ormai, non mi pesava più. Come se la glassa biancastra di un abile
pasticciere si fosse sdraiata pigramente sui ricordi smussandone i profili.
«Amavo il suono degli strumenti mentre venivano accordati. È un rumore speciale, non
trova? Unico al mondo. Co-me il rombo dei motori che si scaldano impazienti prima di una
gara automobilistica: l'ha mai sentito altrove, Lucrezia?
Lo credevo un vezzo. Un giorno mi spiegarono che per disincantare un violino dalla sua
purezza sonora sarebbe bastato un fioco movimento. Le confesso che ancora oggi
nell'ascoltare quei suoni sgrammaticati e senza alcuna oggettiva avvenenza, provo lo
stesso piacere.»
Avrebbe dovuto avere quell'espressione, da bambina. E
le labbra aggrottate in un broncio preoccupato. Lo ha ricomposto non appena si è accorta
che la fissavo.
«In quel rifugio ogni musica era benedetta, Lucrezia.
Certo, la perfezione era Brahms. Mi nascondevo per non mostrare agli altri ciò che
avrebbero potuto scorgere nei miei occhi. Saccheggiavo la ricchezza di quel reame. Per
questa ragione il teatro era l'unico luogo al mondo dove potevo con-vivere con la bellezza
e agire indisturbata. Nessuno sarebbe arrivato a interrompere quell'intima melodia.
Ancora oggi il rimpianto ha l'odore di quella tana.»
«È colma di dischi, questa stanza. Anche lei suona, signora?»
«No, Lucrezia, non so decifrare la musica. Solo lasciarmi investire dall'onda della sua
grazia. Lì, dal mio palco del privilegio, secondo ordine a sinistra, di tanto in tanto puntavo il
palcoscenico, rimiravo gli archetti dei musicisti che si muovevano all'unisono come arti
danzanti, disegnando nell'aria geometrie senza senso apparente. Stavano diritti come
alberi di barche dalle vele afflosciate, approdate in porto nella pace del tramonto. Quel
dolce e impetuoso movimento di mani, braccia, spalle vestite di scuro accompagnava il
mio spirito in viaggi solitari. In quella gabbia arredata di rosso facevo scorta di emozioni.
Per poi scappare di nuovo.»
Pareva mi osservasse con leggero sospetto. Come darle torto, Gabriella? Sai che quando
parlo di quel teatro perdo ogni decoro. È che quella malattia la capisci solo dopo esserne
stato irrimediabilmente contagiato. E quando ne sei guarito per sempre. Non le ho badato.
Un austero allenamento mi ha insegnato a non curarmi degli sguardi educati e severi.
«Sarà stanca, Lucrezia, le mostro la sua stanza. Annette le ha preparato quella di mia figlia
Carolina.»
Fortunatamente l'avevo ispezionata la mattina. Se non fossi salita lassù, la mia giovane
ospite avrebbe avuto a disposizione asciugamani spaiati di colori diversi l'uno dall'altro e
nemmeno un accappatoio. Avevo steso sul letto i morbidi teli bianchi della collezione
alberghiera, scegliendone alcuni delle città più amate, Madrid, Parigi, Londra, Siviglia.
Davanti a quel mucchio di candore impilato con ordine ha sorriso. Costringendomi a una
frettolosa spiegazione:
«Ne ho rubati ovunque, Lucrezia. Con disciplina e rigore.
I miei armadi traboccano di souvenir in spugna. Basterebbero questi per riassumerle la
mia carriera in pochi cenni».
Lui, invece, rubava matite dalla punta sottile: la condizione era che riportassero, incisi sul
gambo, i piccoli stemmi degli alberghi. Una volta a casa le imprigionava in una scatola di
legno, come quelle della scuola. Senza mai usarle.
Dopo una cena frugale e arricchita di sciocchezze musicali, Annette ha servito il caffè in
salotto con aria infastidita, ma abbandonando - chissà per quale strana intuizione - la
riottosa diffidenza che solitamente riserva a quelli che inter-rompono la nostra
abitudinaria esistenza di campagna. L'hai provato tu stessa, Gabriella, Annette tollera solo
Thierry.
Perché mi ha sposata. Si lamenta ogni volta che ricevo sconosciuti, figli o nipoti di scrittori,
giovani musicisti, per i quali sono una vecchia saggia che dispensa consigli e segreti.
«Nonostante la mia veneranda età, genero ancora curiosità: inspiegabile, vero? In un
volume sulla storia del teatro, un attempato e noioso cronista mi descrive come "un raro e
pregevole modello di efficienza". Quasi che nella mia vita il fare abbia camuffato, con
delicatezza, l'essere. Sono riuscita per anni a imbrogliare tutti, persino quando
l'effervescenza travestiva con abilità la malinconia del mio esistere. Pochi hanno svelato
quell'inganno. Quel teatro è stato un crogiolo di passioni viscerali e di antagonismi da
prima pagina.»
Non avevi scampo. Una volta entrato lì dentro scoprivi le cadenze della vanità. Non colpiva
direttamente, ti accerchia-va, lusingandoti accattivante. Irretiva e seduceva con il suo
ghigno maligno, stringendoti fra i suoi artigli, fino a gonfiarti le gote come un animale
ingordo. Era lei a togliere a chiunque, gradatamente, quelle poche briciole di verità che ti
avevano insegnato a perseguire i genitori, la scuola, il primo innamorato. Poco alla volta
trovavi il tuo respiro solo tra quelle pareti imbottite di velluto rosso. Il mondo reale non
esisteva più. Tutto ciò che lo riguardava veniva ispessito e deviato dalla filigrana di pagine
di giornale e dagli schermi televisivi, l'idea di non essere costretti a farne parte era
confortata da file di ammiratori che si assiepavano nell'androne della portineria o sotto i
portici, le mani tese e il tono ostinato.
Imploravano un graffito che con aria distratta veniva vergato su spartiti ingialliti, biglietti
della serata, copertine di cd, riviste illustrate dalla foto del mito o su miseri angoli di carta
strappata. Andavano a casa felici, stringendo tra le dita il loro trofeo. Uno scorcio della
vanità altrui finiva nelle tasche di gente venuta in quel luogo per emozionarsi. Fingendo
che fuori non facesse più freddo.
«I più testardi erano i giapponesi, sa? Fedelissimi che riuscivano a spargere musica
persino nelle esuberanti città formicaio del Giappone. Li avrà visti anche lei durante
qualche tournée! Disciplinati, si allineavano in code spaventosamente lunghe; resistendo
per ore in accademico ordine, se ne andavano solo una volta ottenuto il loro souvenir. Si
deliziava-no soprattutto della firma di cantanti d'opera e direttori d'orchestra.
«In quel teatro ho incontrato suo padre, Lucrezia. Lo amavo. Credo di non avere mai
smesso.»
Quell'esordio privato che non ammetteva repliche era riuscito a erodere leggermente la
sua iniziale sicurezza. Così, almeno, suggeriva il suo corpo. La camicia di seta color panna
sembrava avere perso la sua impeccabile morbidezza. Sul suo viso ho intravisto una ruga,
proprio lì, al centro della fronte. Forse era un'impressione, ma allora perché rigirare
nervosamente tra le mani la tazza bianca piena di caffè senza appoggiarla alle labbra?
Credo cercasse un pretesto per al-lontanarsi da me. Rivelare proprio a lei quello scorcio
inedito della vita di suo padre mi inebriava. Come se il passato si prendesse una rivincita
sul presente. Che apparteneva solo alla sua giovinezza.
«Era un amore da conversazione, il nostro. Un amore extraconiugale, extraparentale.
Extra tutto. Molti lo avrebbero definito un grave errore. Io ne andavo orgogliosa, anche se
con lui non l'ho mai ammesso.»
In quel momento chiunque avrebbe potuto scambiarci per un'insegnante di liceo a
colloquio con l'allieva preferita.
Quella era la visita cortese e rispettosa di una giovane donna a un'anziana signora con la
quale aveva condiviso turbolenti avventure scolastiche. O non eravamo, piuttosto, due
donne che si contendevano la proprietà di uno stesso uomo? Che nel frattempo era morto.
Lasciando macerie.
«L'amore è sempre sinonimo di catastrofe, mia cara. Si ama per tutta la vita soprattutto chi
non ci corrisponde con analoga intensità. Si usa il tempo per attenuare il desiderio.
Che invece si moltiplica. Come le cellule di un tumore. Fino a ucciderti.»
Mi esprimevo con noiosa saggezza senile ma in realtà mi sentivo indifesa come una
bambina. Consapevole di avere poca credibilità agli occhi di quella aristocratica signorina.
Ero ridicola, perché nonostante le rughe, era ancora difficile mettere a fuoco i profili di
quella storia. La visita di Lucrezia rivangava in un passato che credevo di avere sepolto
con abile maestria.
«Ho trovato questa scatola per caso, signora. Ne ho letta qualcuna. Ho smesso quando ho
capito che non potevo tenerle. Appartengono a lei. Certo le farà piacere riaverle.»
Un risarcimento postumo - ho pensato - mentre Lucrezia mi porgeva una scatola di metallo
leggero, dipinta di rosso, ammaccata sui lati. Una scatola che un tempo aveva
sicuramente ospitato gustosi biscotti da tè. Sai quei tè con le amiche che tu e io ci siamo
concesse solo in tarda età? Mi fissava negli occhi senza alcuna mitezza. Piuttosto
provocatoria, non credi?
«Gli scrivevo di continuo», ho detto, abbassando il tono di voce, visibilmente impacciata
davanti a tutta quella carta. La prova evidente della mia esagerazione emotiva. «In alcuni
periodi persino una lettera al giorno. Mi dilungavo in racconti senza importanza, episodi
marginali adatti a riempire i vuoti e le assenze che lentamente componevano la trama del
nostro apprendistato amoroso. Scorie di intere giornate freneticamente trascorse senza di
lui e con il petto sovraeccitato. Credo fosse per non passare inosservata. Raramente
rispondeva alle mie lettere, ma nei primi mesi fui ben disposta verso i suoi silenzi.»
«Si infiammava davanti alla musica o ai libri. La sua cadenza era lenta. Lei è torrenziale,
signora.»
Perché mi facevo importunare da quella trentenne seduta davanti a me e piovuta dal cielo
senza che nessuno si fosse premurato di invitarla?
La solita impulsiva, penserai. Non ho bisogno di averti qui per immaginare la corrucciata
espressione del tuo viso quando leggerai queste parole. Lo so, tu avresti preso tempo.
O magari risposto alla sua lettera con un formale biglietto di scuse. Mi pare di sentirti:
«Perché invitare nel tuo eremo quella sconosciuta, quando te la saresti cavata benissimo
con un educato diniego?»
È stato l'istinto, Gabriella, la voce interiore. Che non ha mai tradito.
«Detestavo gli uomini che non parlavano. Eppure ne ho sposati tre, Lucrezia. Non sono
ancora riuscita a farmene una ragione. Suo padre toccava vertici di mutismo assoluto.
Diceva che "preferiva ascoltare". Che raccontavo storie bellissime. Una sera cenavamo in
una vecchia trattoria del centro, mancava qualche giorno a Natale. Rubava fette di polenta
dal mio piatto e cucchiaiate di zabaione da una ciotola di porcellana.»
È caldo.
È sempre caldo, lo zabaione, cretino.
«Non parlava veramente. Sbocconcellava le parole. Frantumandole in piccole molliche di
pane che io raccattavo con pazienza dalla tovaglia. Chi non parla, non rischia. Non si
espone al giudizio altrui e coltiva l'abilità di far decidere gli altri. Le persone di poche
parole sono molto intelligenti o so-no semplicemente avare di se stesse? Credo che morirò
con questo dubbio.»
Non ho nulla da dire. Tu sai tutto di me.
Io parlo di continuo, se smetto non so dove nascondere la timidezza.
Trattenevo i miei sguardi con lui, Gabriella. Riservandoli ad altri. Le inconsapevoli vittime
dei miei occhi erano spesso i giovani camerieri che giravano intorno al nostro tavolo
servendoci con generosa discrezione. Mi distraevo da lui con la giovinezza degli altri.
«Riuscivo a farlo sorridere. No, non ridere a voce alta.
Giusto un sorriso appena accennato che smascherava la sua capacità di dolcezza. Suo
padre era incerto persino quando ordinava il dessert. Non chiamava mai sua madre per
nome, Lucrezia. Diceva "mia moglie". Con la "o" aperta. Piano piano mi ero abituata a
ricevere schegge volubili della sua vita.
Le elencava come frammentarie sequenze di trailer d'autore.
Mi prendeva in contropiede con le citazioni, ne aveva immagazzinate a dozzine. Non sono
mai riuscita a eguagliarlo.
Non saprei citarle nemmeno le frasi di libri letti decine di volte, è che le dimentico subito.»
«Accade anche a me: ho poca memoria. Tranne che per la musica.»
«La lettura dava conforto ai suoi viaggi mentali. Pensava con sollievo che avrebbe trovato
uno spazio in cui vivere. Per liberarsi dalle trappole del desiderio. Di essere altrove. Non
ho mai pensato di vendicarmi dell'apparente indifferenza intellettuale di suo padre.
Probabilmente la mia psicoanalista l'avrebbe giudicata una mossa risolutiva.»
«Anche con noi bambine parlava poco. Per raccontarci delle favole ricorreva ai libri
illustrati, sa quelli dove le figure sostituiscono le parole? Era bello farsi cullare dalla
musicalità della sua voce, dolce e cantilenante.»
E vero, Gabriella, quando faceva l'amore sussurrava parole tenere. Mai banali. Non lo
avrei sopportato da nessun altro, quella voce era nettare per me. Sarà stato l'accento, la
profondità, c'era in quel suono qualcosa di misterioso che mi placava. Quanti anni sono
passati, amica mia?
Meglio tornare a lei. Dopo quelle prime confidenze borbottate a fior di labbra, gettate sul
tavolo come dadi in un gioco d'azzardo di cui non si conoscono ancora le regole, la
sottintesa tensione di quell'incontro si allentava gradatamente alla luce delicata delle
lampade di cui avevo riempito la stanza, frutto delle mie ricerche nei mercatini e nelle
botteghe antiquarie.
Con quella giovane donna, non so se fragile o inconsapevole, si creava un'aura di
suadente familiarità, interrotta, a tratti, da timide pause che riuscivo a sopportare senza
troppo sforzo. In alcuni momenti avevo l'impressione che ci osservassimo come due
animali intenti a scoprire la strategia di comportamento ideale per difendersi da un
possibile nemico. Mi sfuggi-va, affilava le armi dell'insicurezza per trovare accesso a me.
Voleva imparare a fidarsi. Io, al contrario, ero attratta dalla sua freddezza altera. Eppure
quella strategia difensiva era per me una sfida: sarei riuscita a infrangerla?
L'aria era ispessita dall'attesa. Gonfiata, quasi, dalle aspettative che quella ragazza
appoggiava con indolenza sui braccioli del mio divano. Il suo corpo parlava senza che lei
ne fosse consapevole. Le gambe, leggermente muscolose, erano fasciate da pantaloni neri
di lana leggera. «Troppo lunghe», ho pensato, «come quelle di suo padre.» Che non
sapeva mai dove metterle in treno, in aereo, al cinema, ovunque lo spazio fosse stato
concepito per persone dalle ginocchia meno sporgenti. Il cardigan, nero anch'esso, le
cadeva addosso morbidamente, mitigando le probabili imperfezioni di un fisico magro e
nervoso. Era elegante. Con semplicità.
Una virtù ereditata, anch'essa. Ha sfilato i mocassini di camoscio leggero per
raggomitolarsi comoda sul divano, a suo agio come una gatta impigrita dal calore delle
parole e del fuoco che avevo pregato Annette di accendere prima di ce-na. Il grande
camino in pietra è un sicuro punto d'attrazione del salotto, impudicamente ricoperto di
fotografie dei nipoti nelle fasi memorabili della loro esistenza: lo sguardo dell'obiettivo ne
aveva fissato i primi giochi in riva al mare, gli strilli sul seggiolone con il viso
impiastricciato di minestrine insapori, sospesi come boccioli tra le braccia della madre o a
cavalcioni sulle muscolose spalle di Mattia. Una macchia d'amore. Ci sei anche tu, sul
camino. Con me, naturalmente.
Giovani e carine, gli occhi che traboccano di speranza. I tuoi folgoranti occhi blu mi hanno
sempre fatto invidia, sai? Ho invano tentato di trovare il momento per dirtelo senza
sentirmi una sciocca o, peggio ancora, un'amica invidiosa. La categoria peggiore. Avevo
preparato una sorpresa per lei. Si trattava di un nastro che era rimasto chiuso a chiave nel
cassetto dello scrittoio dall'ultimo trasloco.
«Lucrezia, desidero farle ascoltare un brano.» Era la registrazione del suo esame di
diploma al Conservatorio, la Quinta suite in do minore per violoncello di Bach, sottratta
dagli archivi con il favore di un'anziana segretaria. Teneva molto a quel reperto, lo
considerava un feticcio. Aveva diciannove anni. Me lo regalò con solennità per il mio
quarantunesimo compleanno. Un esemplare unico. Diceva che in quelle note era
racchiusa la preziosità della nostra unione. Riascoltavo il suono incerto e febbrile del suo
violoncello e lo sentivo lontano, privo di bagliori, opaco. Eppure tenendo tra le mani quel
dono così raro mi ero commossa. No, non piangevo, Gabriella. Come un'equilibrista delle
emozioni riuscivo a ingoiare degli stupidi singhiozzi che mi stavano allagando l'anima. Non
tutti i ricordi serbano inalterata la loro violenza originaria. Un bene, per me, che poco al-la
volta ho imparato a sbarazzarmene.
Distratta da quell'impervia melodia a ritroso nel tempo non mi ero accorta che il viso di
Lucrezia si era macchiato di grandi lacrime che scivolavano inconsapevoli sulla sua pelle
trasparente, liberando la tenerezza che aveva resistito abbarbicata al suo cuore per tutte
quelle ore. I capelli corvini le cadevano lungo le spalle, ma avevano perso la loro
compostezza. Ho provato l'impulso di abbracciarla, io, così minuta, mi reputavo un'esperta
in irragionevoli scoppi di pianto. Sono rimasta immobile e l'ho inondata di parole. Come
quando non riesco a decifrare le grida dei bambini, ero preda di un incontrollabile
imbarazzo:
«Vuole un'altra tazza di caffè? Del cioccolato? Un biscotto? Una sigaretta?»
Cosa potevo offrirle, Gabriella, per risarcirla di quelle lacrime? Magari un bicchiere
d'acqua. Quando qualcosa non va, ti propongono un bicchiere d'acqua. Come se quel
liquido incolore avesse il potere di lasciare scivolare via le impurità della sofferenza.
Non ho trovato nulla di meglio da fare che aprire la scatola, ancora indecisa se sentirmene
la legittima proprietaria. In fondo, quando la spedisci, una lettera non è più tua. Trasferisci
una parte di te all'altro e hai scarse possibilità di rettifica.
Le lettere erano rigorosamente ordinate per data e avevano un'aria consumata. Come quei
libri che si sfogliano di continuo con la speranza di trovare tra le loro pagine un sollievo o
chissà quale risolutiva risposta. Credo le rileggesse quando i voli della mente non gli
bastavano più. E non aveva tra le mani argomenti per telefonarmi.
«Suo padre non era un vile.»
L'ho detto d'improvviso e con eccessiva franchezza. Probabilmente per rassicurare
innanzitutto me stessa.
«Non era neppure un grand'uomo. Non avevamo alter-native.»
Mitizzare i propri genitori è un errore. L'aveva capito per tempo.
«Mi dia pure del tu, signora.»
Avrebbe potuto essermi figlia, ma accordarle un ulteriore segno di intimità sarebbe stato
rischioso. La ragione di quella visita si prestava alle confidenze più segrete, e usare
diplomaticamente il «lei» agevolava il bisogno di preservarmi in un ragionevole distacco
generazionale. Dovevo pure cominciare da qualcosa. Ho estratto dalla scatola la prima
lettera che gli avevo scritto. Osservava attenta. La curiosità nelle mani.
«La chiamavo "la mia stupida dichiarazione", Lucrezia, anche se era già un allarmato
invito a lasciar correre. La mia sfrontatezza procede a intermittenza. Alterno coraggio e
temerarietà a verticali timidezze. Dopo molte esitazioni mi ero fatta coraggio riuscendo a
consegnarla al portiere del teatro.
Lo osservavo da mesi, ma diversi tentativi di avvicinarlo non avevano prodotto alcun
risultato. Nulla nel suo comportamento lasciava intuire un interesse particolare per me.
Una sera, fuori dal teatro, una di quelle sere in cui l'aria è ancora tiepida e la luce se ne sta
a cavallo tra il giorno e la notte in-certa se avvolgere tutto di ombre sinistre o imbrogliarci
ancora per qualche ora, sentii una voce alle mie spalle: È questa l'ora di andare a casa?
«Prima ancora di voltarmi e sfoderare uno dei miei sorrisi più bianchi e seducenti, sentii
quello che nella mia mode-rata esperienza amorosa era per me il "segnale". Un fremito.
All'altezza dello stomaco, un'eccitazione improvvisa, violenta. Bellissima. Incosciente. E
irresponsabile. Non avevo avuto dubbi. Mi ero innamorata. O giù di lì. Di un giovane
musicista, che portava male la sua età. Solo più tardi avevo scoperto che era più giovane
di me. Mi aiutava la fierezza con cui ho sempre portato il mio corpo minuscolo.
«Era talmente alto che avevo fatto confusione associando i suoi centimetri alla saggezza.
Sa, Lucrezia, le persone minute devono imparare in fretta a farsi largo nella vita,
spingendo più degli altri. Desideravo essere la sua bambina. Ci sono riuscita solo
fisicamente. Il "segnale" fu inconfondibile ed eloquente. Almeno ai miei sensi. Capaci di
riconoscerlo dal primo sintomo. Mi era accaduto lo stesso con Guido e dopo sei mesi
eravamo già marito e moglie. Con suo padre ho sentito subito una sorta di legame, una
verità nascosta, da sottobosco. Che attendeva soltanto di essere rivelata. Per prudenza
aspettai qualche giorno, ma l'apprensione non mi abbandonava. Non avevo mai dichiarato
il mio interesse a un uomo in modo così spudorato. Per rendere più leggero il mio
messaggio, gli rivolgevo un ossequioso lei.»
«Legga, signora.»
Quel gioco iniziava a divertirla. Mitigavo l'emozione mettendo ironia nella mia voce.
Insomma, Gabriella, ho provato a scherzarci su.
Professore,
scrivo queste righe per dirle quello che a voce proprio non posso. Pudore? Riserbo?
Vergogna? Tutto questo insieme.
Niente musica, questa volta. Solo io. In queste ultime settimane è arrivato un inatteso,
imprevedibile e assai scomodo scompaginamento di carte nella mia vita quotidiana. Da un
violoncello di fila, affascinante e riservato. I sintomi?
Quelli che mi accompagnano dall'epoca della scuola, quando il compagno di classe era
bersaglio di inconsueti turba-menti interiori, batticuori, rossori, mancanza di controllo,
reazioni inspiegabilmente aggressive, voglia di stringere grandi mani dalle lunghe dita e
dalle unghie rosicchiate, baciandole con devozione. Tutti sintomi allarmanti, per chi
- come me - ci aveva perso l'abitudine. Dopo questi primi, innocenti indizi, è spuntata la
paura. Di espormi oltre il lecito e rendere visibile la mia intimità. Per contratto dovevo
innamorarmi di un teatro. Mi sono innamorata di lei. Non rida, la prego. A quarant'anni,
ammetterlo non è semplice. È successo a me. Ma ora deponga l'archetto, cancelli la
poesia dal suono del suo violoncello, abbandoni quei sorrisi che stregano. Torni, anonimo,
al suo leggio. E abbia pazienza. Mi passerà, lo so.
C.
«Con quella lettera ha infranto una regola in vigore da millenni, signora. Nonostante i
fragorosi risultati del movimento di liberazione femminile, spettava ai maschi il dirittodovere di fare una dichiarazione d'amore.»
Parlava senza alcuna nota di malizia nella voce. Anzi, sembrava capire fin troppo bene.
«È stata coraggiosa, signora. E temeraria.»
«Ah, la prudenza è un talento che il mio carattere non ha mai tenuto in grande
considerazione.»
«Conoscendo la pigrizia di mio padre credo che lei gli abbia reso un grande servigio.»
Iniziava a piacermi, amica mia. Quel colloquio mi accendeva. La ragazza era intuitiva,
sensibile, mostrava di saper guardare alle cose con quella delicata ironia che le fa
sembrare più leggere. La leggerezza! È stata una delle mie conquiste senili, persino lui si
sarebbe stupito dei miei progressi di levità! La considerava la sua arma vincente. Che io
non so-no mai riuscita a ricambiare.
«Sì, Lucrezia. Rispondendo senza riserve al mio appello amoroso, disse che quella pagina
lo aveva sollevato dall'improbo rituale del corteggiamento. Aspettai la mossa successiva.
Era sposato, lo sapevo. Io ero già felicemente approdata al secondo matrimonio.
Recidiva.»
«Romantica», ha aggiunto lei, con un tono di voce che alle mie orecchie suonava di
assennato rimprovero.
Di fronte a quell'aggettivo sono arrossita. È un lato della mia personalità che - come sai ho sempre disdegnato con malcelato fastidio. Dissimulandolo dietro un solido
efficientismo.
«Peggio, Lucrezia. Una stupida sentimentale.»
Nella lista dei difetti che aggiornavo durante regolari bilanci esistenziali stava al quarto
posto. Subito dopo impulsiva, invadente, ingenua. Solo più tardi ho capito che era un dono.
Il primo bacio che ci scambiammo su una panchina dei giardini poteva essere definito
sentimentale. Niente a che vedere con sesso e passione, insomma. Suggellò il debutto
della clandestinità.
«Inaugurammo la nostra prima sera insieme con una lunga passeggiata riassuntiva. Mi
parlò di sé, della sua famiglia d'origine, sovvertendo l'ordine cronologico degli eventi. Le
corde del piccolo violoncello di un bambino di dieci anni che si era di colpo innamorato
della musica e la vita in una famiglia nata e cresciuta in provincia. Tra le cose semplici. E la
cultura a portata di mano. Sapevamo ancora poco l'uno dell'altra ed era necessario
recuperare il tempo perduto. Il cancello chiuso dei giardini suggerì un gesto da ragazzi:
scavalcare il muretto fu una decisione immediata. Il parco, disabitato, era un cimitero di
piante ombrose, tinte d'autunno. Una vecchia panchina aveva ospitato un'interminabile
sequenza di baci. Di quelle che ti fanno tornare a casa con la segreta speranza che tutti
dormano.
Come quando ci si doveva nascondere dai pensieri indiscreti di genitori dalla mentalità
troppo rigida. Quei baci meritarono una lettera che profumava di adolescenza.»
Amore,
c'è una panchina che rimarrà impressa nella mia mente per sempre. Sgangherata e
avvolgente, è stata complice di baci dolci e di abbracci carichi di tenerezza. Sembra un
melò, ha storia giusta al momento sbagliato. Ti amavo tanto ieri sera. Stare con te lascia
impronte di naturalezza dentro. Versino le nostre fattezze fisiche corrispondevano al
giusto. Mi sentivo felice e protetta, c'era armonia, nulla era fuori luogo. Non una sbavatura,
niente che non fosse strettamente necessario. Mi manchi già. Come posso dirtelo? E la
prima volta in quarant'anni che mi innamoro di qualcuno a cui non posso telefonare nel
cuore della notte. Ho l'impressione di dovermi prosciugare dal bisogno di te e restare
avvolta di nulla. Mi chiedo come sarà possibile vivere nell'assenza di questi baci. Ti amo
già. E in questo momento vorrei essere il tuo violoncello.
C.
«Avevo iniziato a scrivergli per dare visibilità a quell'amore.
Gli avevo riassunto la mia vita in una lettera; guardi, eccola.»
Gli scrivevo ciò che la parola inibiva, Gabriella. Nessuno ha mai sospettato che fossi
timida.
Ripercorrevo con gli occhi quella corrispondenza a senso unico tenendo gli occhi fissi
sulla scatola, nel tentativo di allentare il filo della mia diffidenza. Avevo conservato quei
lunghi messaggi su un dischetto per qualche anno e li avevo riletti spesso sullo schermo
del computer, immaginando di stringerli al cuore. Come si fa con le foto delle persone
care.
Un giorno era bastato un clic deciso, secco, semplice. L'avevo cancellato con un colpo di
mouse.
Quella sconosciuta spiava nel mio passato senza averne alcun diritto, ma la mia incertezza
era talmente fragile che mi bastò una sua espressione allusiva per iniziare a vivere
quell'incontro come una guarigione definitiva. Provavo vergogna.
«Non ho conservato nulla di ciò che apparteneva a quell'amore, Lucrezia. Biglietti di
viaggio, fotografie, qualche appunto, locandine di concerti indimenticabili sono finiti nel
cestino: accadde il giorno in cui la sua assenza divenne in-sopportabile. Non me ne sono
mai pentita, mi creda.»
Cercavo nella scatola con soggezione. Le lettere erano ordinate per data e così ben
conservate da non giustificare più la nostra attesa. Debordavano. Come in un archivio
perfettamente organizzato, su quei pezzi di carta stava ordinata la mia vita. Avremmo
potuto suddividerlo per argomenti, in ordine alfabetico: a come accordo o allegria, b come
bambini, m come menestrello, r come rabbia, p come passione, t come tradimento. Un
alfabeto delle emozioni. Quelle che si scorrono su diari scolastici dalle pagine bianche
bordate di rosa.
Da riempire di sogni.
È che l'amore non passa. Semplicemente, cambia direzione.
Amore,
sono a letto, Carolina si è insinuata abusivamente sotto le lenzuola insieme a uno zoo di
pezza per la notte. Mi stringe la mano. Senza abbandono. Ascolto musica in cuffia.
Brahms.
Cos'altro può sedare l'ansia se non lui, che non avrebbe mai immaginato di funzionare da
calmante? Dici di non sapere nulla di me. Per narrarti la mia storia basterebbe una notte.
O un pomeriggio al bar. Per viverla ci sono voluti quarant'anni. Da poco ho iniziato a
raccogliere quelli che chiamo i miei frutti preziosi, utili ad addolcire un carattere spigoloso
e impaurito dal male. Conquiste minimali: quella professionale, il lavoro fra le note; quella
personale, essere riuscita stasera a guardarti in faccia senza sentire lo stomaco stringersi
in una morsa. Un buon risultato, non credi?
Mi proponi una pagina bianca sulla quale schizzare incontri, caffè, flash musicali. È come
aprire un file sul computer, dargli un titolo (come la chiamo? ha Cosa?) e iniziare a
comporre il mosaico. Ti trovo anche poco adatto fisicamente. Per baciarti in piedi dovrei
salire su un gradino. Disdicevole. Io parlo per associazioni visive, evocazioni, intuizioni. Tu
racconti fatti. Forse dovremmo comunicare con il linguaggio segreto dei gesti, come i
primitivi. Non so tracciare la mappa del viaggio che mi ha portato fino a te. Ho solo iniziato
a seguire l'impercettibile filo della trepidazione e della curiosità. Non si conosce qualcuno
sommando degli avvenimenti. O
sbirciando sulla carta d'identità. Non c'è niente che tu debba sapere di me che già non sai.
Eri un ragazzo che mi sembrava di conoscere solo da «quel» giorno (era estate), uno con il
quale avevo scambiato poche frasi di circostanza. Dici di non sapere nulla di me. Eccomi.
Quarant'anni, circa. Due figli.
Due mariti. Il primo: la proiezione di un film sbagliato.
Dopo la necessaria sofferenza siamo rimasti amici quanto basta per offrire serenità a un
cucciolo che adesso ha undici anni. Il secondo, ancora attuale. Un matrimonio tranquillo,
con un uomo tranquillo, una vita tranquilla, in una bella casa tranquilla. Una figlia,
Carolina, che amiamo con forsennata dedizione. Ecco tutto. In poche parole. Ti chiede-rai
cosa c'entri tu con tutto questo.
Tu sei qualcosa che assomiglia al bisogno. Non ha senso aprire il file alla voce «Cosa» se
non si hanno dati da combinare sullo schermo, visto che io vorrei baciarti per ore su una
ter-razza del New England o su una fredda spiaggia bretone mentre tu preferisci
dissertare di letteratura davanti a cappuccini e caffè, optando per un platonico amore
senza senso. Facciamo finta di niente e non parliamone più. Mai più.
C.
«Gli domandavo provocatoriamente di sparire, Lucrezia.
Avevo paura. Ma queste parole, rilette ora, rivelano tutta la mia incoscienza. Nei momenti
bui mi chiedeva cosa sarebbe successo se avesse aderito alla mia proposta di lasciar
perdere quella stupida infatuazione.»
«Che accadde, invece?»
«Glielo racconto domattina, Lucrezia. Si è fatto tardi e, anche se mi costa tremendamente
ammetterlo, ho già varcato la soglia dei settant'anni. Mi hanno prescritto il riposo.»
L'ho accompagnata in camera sfiorandole la mano, eppure incapace di afferrare fino in
fondo le sue dita e intrecciar-le alle mie. Per qualche stravagante mistero genetico, quella
ragazza mi piaceva sempre di più. E persino il rumore dei gradini di legno che
accompagnava quella prima notte insieme, suonava come un ritmo familiare. Sarebbe
ripartita lunedì alle prime ore dell'alba. Ci restavano poco più di quarantotto ore. Sulla
soglia della stanza l'ho salutata stringendole finalmente le mani. Sollevandomi per
un'ultima volta sulla punta dei piedi, sono riuscita a indagare nei suoi misteriosi occhi color
caffè.
«È nata una storia d'amore, ecco ciò che accadde, Lucrezia. Una trattativa durata poco
meno di due anni. Avevo rubricato il suo numero di telefono alla lettera D: Destino. Una
sosta obbligata.»
Quella visita sarebbe stata un'immersione forzata nelle mie remote passioni amorose. Lui
era finalmente arrivato in quella vecchia casa. Tutto tornava, Gabriella. Ormai non potevo
più tirarmi indietro. Quelle lettere le avevo scritte io.
Avevo lasciato troppe tracce. Amica mia, solo tu avresti potuto fare ordine in quel
groviglio.
Intermezzo
La mia stanza era un regno benedetto dall'oscurità, ma nonostante l'intimità offerta da
quel rifugio, non riuscivo a prendere sonno. Avrei potuto cullarmi nel piacere di riedificare
quella favola, lasciando affiorare in me i passi di quei giorni ormai scoloriti nel tempo.
Avrei potuto ricamare ricordi come un ragno nella sua tela. Nell'attesa di lei. Invece avevo
solo bisogno di staccare la mente dal viso di quella giovane donna. Una pausa mi avrebbe
aiutata a recuperare integrità.
Gli stati del cuore. Ne riconoscevo i sintomi. Leggere far-falle che si agitavano dentro il
petto, piccoli dolori lì, al centro, come se l'immaginazione stesse prendendo possesso
della parte migliore della mia ragione.
La bottiglietta dorata del calmante mi guardava dal comodino, invitandomi a perdere
lucidità. No, gustare fino in fondo quell'inaspettata visita post mortem, sarebbe stato un
bene.
Immobile sul grande letto di ferro battuto, stropicciavo nervosamente con le unghie il
copriletto bianco e la sovraccoperta di lana a disegni patchwork. Un pezzo di Martha's
Vineyard, un'estate di non so quanti anni fa. E poi Parigi, il primo appartamento con
Thierry, quattro locali eleganti e discreti in rue du Bac. La nostra prima notte insieme. Nel
mio cervello si sovrapponevano le sagome degli uomini amati.
Apparendomi con fastidio i protagonisti di tenerezze inutili e a termine. L'armadio in noce
dove ho impilato decine di golf con accostamento cromatico impeccabile, nero, blu, viola,
a calare fino al bianco, era di fronte a me. Dicono che l'eccesso di ordine sia segno di
profonda insicurezza. Che spie-ghi il bisogno di tenere tutto sotto controllo. Fare ordine
negli armadi è sempre stata una delle mie occupazioni preferite. Utile, talvolta, a fare
insolite scoperte. Gettare un vestito, un paio di scarpe scollate, una vecchia sciarpa,
aiutava ad assecondare la violenza del cambiamento. E dire che io avrei preferito
scivolare, morbida e cedevole, da una situazione all'altra, recuperando armonia persino
nei distacchi. La vita, spudorata e insolente, mi aveva invece vincolata ai tagli decisi che
come scuri affilate si abbattevano con assidua regolarità su giornate dalla solidità
apparente. Alterandone la melodia. Il momento peggiore era il passaggio da un periodo
all'altro. Un amaro spartiacque tra differenti fasi della vita. Lui era stato archiviato fra le
separazioni obbligate. Ma come spiegarlo a sua figlia?
Il kilim sul pavimento è una concessione di Thierry alla nostalgia. Apparteneva a suo
padre, è un feticcio da cui non ha mai osato separarsi. Oramai è liso, ma la trama gli
sopravvive miracolosamente intatta. Come il ricordo che lui ne conserva. Insieme ai libri,
la collezione di bastoni, i gemelli.
Un tappeto prezioso, che piccole mani, devote e pazienti, hanno tessuto a larghe righe
rosse e viola, stinte ma ancora capaci di attutire il fastidioso croccare del pavimento. Avrei
voluto scendere in salotto a prendere quella scatola, rileggere quelle lettere e
sbarazzarmene una volta per tutte. Magari bruciarle nel grande camino della cucina, dove
la brace fumava con negligenza. Ero ansiosa e irrequieta. L'amore era un'abitudine e non
ammetteva le distrazioni che quella visita aveva provocato senza alcuna saggezza.
Il malessere iniziava a scendere dallo sterno, arrivando con implacabile lentezza fino al
centro del mio corpo. Dalle foto, appese con asimmetrico disordine dietro la testata del
letto, antenati e parenti mi guardavano con espressione severa e, ai miei occhi, persino
stizzita. Criticavano quella visita, lo so.
Il corpo indeboliva verso il sonno. Che mi ha trovato im-preparata a notte fonda. Sfinita
dagli eccessi.
Secondo movimento
sabato
L'alba. Occuparmi di Lucrezia mi avrebbe distratta dall'insana eccitazione che mi aveva
accolta al risveglio. Il cielo era ancora scuro e scegliere l'abito da indossare sarebbe stata
una temporanea salvezza. Accadeva anche con lui. I nostri incontri erano imprevedibili e
scavare nei particolari del visibile, occhi, spalle, collo, capelli, era un espediente per
invogliarlo. A prendersi cura di me.
Non è che volessi fare colpo su di lei, mia cara. So bene che anche il più tenace tentativo di
competere con quella ragazza si sarebbe infranto di fronte all'invadenza dei suoi
trent'anni. Delle nostre vecchiaie, sai, non amo le soluzioni estetiche, quel sentire la pelle
che si ammorbidisce, giorno dopo giorno, fino a diventare trasparente. Floscia. Thierry
non ci bada e tenta invano di convincermi che sono sempre la stessa. Per smentirlo mi
basterebbe mostrargli le fotografie che mi scattò a Parigi, durante il nostro burrascoso
fidanzamento. Ho impiegato tempo a capire che la seduzione si modula sul mistero. E che
a quarant'anni mi ero innamorata di un uomo che metteva al di sopra di tutto il suo bisogno
di solitudine.
Avevo voglia di un lungo bagno. Acqua tiepida e cannella muschiata, come allora. Il vetro
della finestra è velato di un vapore di nostalgia. Gli scrivevo messaggi persino sugli
specchi degli alberghi, parole transitorie che scomparivano dopo pochi istanti. Insieme ai
miei appelli. Su quelle tele provvisorie rispondeva, senza accorgersi che l'alone delle sue
parole sarebbe rimasto visibile fino a quando il cameriere, impietosito da tanto fervore,
non avesse ripulito diligentemente lo specchio. Sporcato di frammentaria tenerezza.
L'armadio trabocca di abiti senza tempo, comodi maglioni, gonne lunghe fino alle caviglie,
impeccabili camicie bianche. I vestitini strizzati che piacevano a lui stanno rinchiusi in un
baule della soffitta. Insieme alla mia giovinezza. Ormai sono vecchia. E mi cullo felice in
questa età fatalmente rag-giunta senza affanni. Assumere con quella ragazza un contegno difensivo sarebbe stato inutile, meglio lasciare da parte ogni ritrosia e dominare la
vergogna che con lo scorrere dei minuti si impadroniva di me. Tanto valeva indossare quel
vestito viola lavanda intenso, scaramantico, che mi aveva più volte regalato lusinghieri
successi. Sul velluto ho lasciato cadere una sciarpa color ghiaccio, che dava a
quell'abbigliamento un'aria di intenzionale eleganza. Il tacco delle scarpe mi regalava
cinque centimetri di rivalsa.
La grande cucina bianca, smodatamente teatrale e romantica, era avvolta nel silenzio.
Camminavo in punta di piedi, pure senza riuscire a zittire il familiare scricchiolio del
parquet di pino a doghe ricche di nodi naturali, che avevo verniciato di bianco. Come le
pareti e le sedie impagliate collezionate nel corso degli anni, l'una diversa dall'altra. In
quella cucina avevo affastellato con apparente disattenzione mobili recuperati nelle
botteghe che punteggiano la regione, a Saint-Rémy, a l'Isle, ad Apt, a Uzès, angoli scoperti
con Thierry nelle passeggiate dei nostri primi mesi provenzali. I cuscini delle sedie sono
stati rivestiti in tinte delicate con tela di cotone a disegni minuti. Niente di eccessivo, nulla
a che vedere con i colori forti ed esuberanti della casa di Andrè, fi-ne musicologo e amico
straordinario, acquistata qualche anno dopo la mia e arredata in tonalità sgargianti. Qui il
decoro della tela - disegni di qualche secolo fa che prendono a modello l'antica tradizione
degli artigiani di questa regione non supera la soglia dell'écru, del beige, dell'azzurro pallido.
Ho arredato la mia vita in modo anticonvenzionale. Persino il mio corpo, che pure non si
presta a nessuna stravaganza.
In questa bastide di campagna ho mescolato stili e materiali senza alcuna logica estetica,
sottomettendomi alle richieste dei miei miraggi di giovinezza. Che avevano previsto la
vecchiaia in questa terra generosa e ironica, abbagliante e ombrosa. Che mi somigliava.
Gesso e legno sono i materiali prediletti. E il bianco. Marmoreo. Etereo. Invernale. Un tuffo
nel candore. Allestire la tavola con cura è sempre stato un inevitabile impegno, utile ad
allontanare un'adolescenza trascorsa davanti a tavole apparecchiate con disordinata
negligenza e popolate di bambini litigiosi. Ero fiera di mostrare alla mia ospite le ricercate
vettovaglie della mia credenza di fine Ottocento, recuperata da un rigattiere e decorata
con invidiabile pazienza da Valeria durante la sua ultima vacanza qui. Le ceste, anch'esse
raccattate un po' ovunque, stavano relegate ai lati del camino. Inanimate. Panieri per
fragole, per olive, per bottiglie. Contenitori di vite concluse sfruttati a mo' di soprammobili.
Ho steso sul tavolo una tovaglia di lino bianco, sommergendola di tazze e frivoli accessori
di ceramica. Ho versato del latte nella mucca di porcellana che mi regalasti per il mio
matrimonio. Non so più quale. Tutto doveva apparire idoneo a raccontarle di me con scuse
gradevoli alla vista.
Si è affacciata sulla porta - strano, la porta di legno rubata da un casolare disabitato nella
campagna qui intorno e installata come trofeo, non cigolava più - distraendomi da una
rarefatta e innaturale solitudine. Era vestita di chiaro. Almeno così la ricordo ora, mentre ti
scrivo. Pantaloni aderenti color vaniglia, un maglione sformato indossato con insensata
eleganza, sotto il quale si intravedevano i polsini larghi di una camicia di taglio maschile.
Certo non sua.
Il cestino del pane grondava dei freschi croissant che Pierre aveva consegnato di buon'ora
insieme alle baguette. Di fronte a quell'abbondanza ha accennato un sorriso di gratitudine.
«Bonjour, madame.»
«Buongiorno, Lucrezia, dormito bene?»
Gliel'ho chiesto solo per spiare l'effetto della stanza di Carolina su di lei.
«Bene, grazie. Tutti quei pizzi, quei cuscini della nonna!
Mi sentivo una bambola d'epoca. Qui è tutto così raccolto, ordinato, avvolto di dolcezza.
Capisco che lei abbia scelto questo luogo per trovare un po' di pace. Lo adotterò come
rifugio e se me lo permetterà verrò spesso a trovarla.»
Effetto «romance» perfettamente riuscito, Gabriella. Anche grazie alla Sonata per violino e
pianoforte di Debussy, scelta come informale accompagnamento musicale di
quell'incontro mattutino.
«Sarà la benvenuta, Lucrezia. Io ho sempre vestito con ascetica sobrietà, eppure ho
arredato questa casa con una frivolezza d'altri tempi. I miei figli mi deridono, anche se
riconosco di aver esagerato con merletti, trine e pizzi, cuscini ricamati a piccolo punto,
coperte di piqué bianco. È come se avessi voluto trasferire su mobili e oggetti la
femminilità che il mio corpo ha preferito nascondere. Questa casa è una scatola protettiva
per me.»
«Si vede», ha risposto, aggiungendo alla sua voce roca una vena di inattesa malizia.
«Se è vero che ereditiamo vite passate, io senza dubbio vissi nell'XI secolo, Lucrezia,
quando in Linguadoca la rivoluzione copernicana dei sentimenti cambiò il mondo. La
trasformazione della cultura occidentale iniziò allora. L'amore terreno approdò ai misteri
dello spirito nelle corti feudali di Provenza, lasciando le tracce che con caparbia
determinazione ho seguito sino a qui.»
Appariva incuriosita e attratta dalle pareti. Interamente occupate da foto incorniciate.
«Chi è tutta questa gente?»
«Parenti, amici, fantasmi. Colleziono cornici di ogni dimensione e foggia, Lucrezia. Mi
piacciono vecchie e consumate. Ci metto le fotografie di zie ingiallite dall'invidia, dei miei
ragazzi e dei nipotini temuti e adorati. Mi fanno pensare a quelle che arredano le tombe:
antenati, trisnonni, bisnonni, nonni mai frequentati, seppiati o in bianco e nero. Solo i
bambini sono a colori. Ho iniziato a raccoglierle da ragazza in Italia, sulle bancarelle dei
mercati. Alcune sono state acquistate già incorniciate. Sono sconosciuti che mi seguono
in ogni trasloco: uomini dai lunghi baffi risorgimentali, fanciulle in fio-re vestite di pizzo,
donne belle e altere, levigate dal pennello di ignoti pittori. È una specie di famiglia
dell'immaginazione.
Quella che non ho mai avuto. Sta lì, sui muri.»
Abbiamo sorseggiato tè al gelsomino, una delle rare con-cessioni di Annette alla cultura
inglese. Ha divorato i miei croissant dopo averli farciti di marmellata alle more.
«Quanto a golosità non ha nulla da invidiare a suo padre!»
«È che non ingrasso, tutto qui.»
Non osavo, ma in realtà avevo solo voglia di parlare di lui. Da cosa cominciare? La notte
era stata prodiga di ricordi, quella visita aveva iniziato a scioglierli e a riportare alla mente
la sua immagine con chiarezza solare. Le sviste, gli incontri, persino il suo profumo
premevano dentro di me. Era necessario liberarsene al più presto. Per anni avevo
rinunciato alla memoria di quel corpo e di quel sorriso che incanta-va, nel timore di
provare nuovamente quel dolore al centro del petto, tra le costole simmetricamente
disposte ad accogliere quella che troppo spesso avevo subito come un'immeritata
umiliazione. Gli avanzi del mio passato si fondevano in me a mano a mano che mettevo a
fuoco il viso e il corpo di quell'uomo. La presenza di Lucrezia districava ombre che
credevo seppellite per sempre.
La scatola era rimasta sul tavolino del salotto, dove Annette aveva ricomposto ordine e
regolarità. Sono andata a prenderla, mentre Lucrezia si accendeva la prima sigaretta della
giornata.
«Dovrei suonare per almeno due ore, signora. Ma preferisco stare qui ad ascoltare il suo
racconto. Dalle sue parole filtra un ritratto inedito di mio padre. Penso sia questione di
ruoli, ha continuato a trattarmi come una bambina anche quando sono andata a vivere da
sola. I genitori sono diversi da come li immaginiamo, non pensa?»
«È così per tutti. Io non ho mai avuto il coraggio di chiedere ai miei figli cosa pensassero di
me. Allora, accordare la mia vita di madre con quel sentimento era un equilibrismo
complesso, Lucrezia. Bilanciare ciò che il sentire imponeva e la ragione frenava pareva un
progetto irrealizzabile. A volte mettevo il mio cuore in aspettativa. Dalla famiglia. Glielo
avevo scritto. Probabilmente speravo facesse altrettanto con voi.»
Amore,
oggi ho chiesto a Guido e ai bambini di assentarmi da loro.
Accovacciata sul divano bianco del salone, circostanziato angolo di pace, ascolto una
Ballata di Brahms. A poche ore dal nostro ultimo incontro cerco di capire perché sono
andata via da te ancora una volta. Perché si sono insinuati, nel chiarore di questo periodo
così intenso, i primi dubbi? Non ho mai chiesto niente della tua vita fuori da me. Ti ho
subito amato con incoscienza, ho censurato ogni possibile processo di selezione, ma
qualcosa ha iniziato a non piacermi. Ho visto il tuo lato piccolo borghese. Per giustificarti
ho pensato che anch'io ho una famiglia. Sono cresciuta in un melting pot degli affetti e
delle eccezioni, in una famiglia ricca e poi indebitata e confusa; con un padre morto troppo
presto e una madre che non trovo ragione per amare. Quando ho sposato Guido
desideravo una famiglia senza steccati ideologici, un luogo dei sentimenti dove ridere e
giocare, piangere ed emozionarsi, leggere e coltivare intelletto e spirito. Le tue proposte,
un cinema, i giardini con le bambine, sono piccoli espedienti, scorciatoie che non riesco
ad accettare. L'organizzazione del nostro quotidiano mi fa sentire un pesce fuor d'acqua.
Ho raggiunto ciò che avevo programmato: un lavoro che adoro, un buon marito, dei figli. Il
mio amore per te ha urgenze che il quotidiano non contempla. Non ho la stoffa dell'amante.
E
neanche dell'amica. Ho bisogno di appartenere a qualcuno. E
voglio qualcuno che appartenga a me. Non divido niente. Tu hai trovato un settore nel
quale collocarmi. Io eccedo. Ce l'ho, una famiglia. E non sai quanto li amo. Quanto sono
straordinari, nella loro imperfezione. E quanto appagano la mia necessità di struttura. Un
luogo da colmare di gesti, parole, tenerezze, serenità. Cerco di insegnare loro a
sopportare la fragilità. Vorrei riuscire a non avere così bisogno di essere amata. E che in
me l'amore crea dipendenza, vulnerabilità, esigenze. Le donne che hanno un amante
gestiscono un tempo che è distante da noi. Sto male.
C.
Mentre leggevo a voce alta quella lettera mi osservava as-sorta. Non lo ha ammesso, ma
credo provasse a scrutare nella sua mente per trovare segni della mia presenza. Tentava
di tornare a quegli anni per mettere a fuoco l'immagine di quel padre che era riuscito a non
cambiare nulla della loro vita.
Ero passata inosservata. Lucrezia sembrava non volermene.
«Solo più tardi capii che i nostri matrimoni ci avevano protetti. Dalla scelta.»
«C'è il sole, signora, facciamo una passeggiata nel suo bel giardino?»
Mi ha interrotta repentina, rompendo d'incanto la piacevole pigrizia che aveva colorato il
preludio di quella seconda giornata insieme.
Ho temuto che si sentisse ferita dalle bugie del padre. Ma del resto, non avevo fatto anch'io
lo stesso con i miei ragazzi?
«È un'ottima idea», ho risposto. Anche se uscire allo scoperto mi avrebbe sradicata dalla
sicurezza di quella confortevole cucina spaziosa. E poi lo sai, quando parlo preferisco
stare seduta. Credo sia per via dell'altezza.
Il giardino era a portata di mano, silenzioso e ovattato di neve. Per un attimo l'ho
immaginato abitato dai bambini nell'aria luminosa dell'inverno. Mancavano pochi giorni alla
mia festa.
«Tentavo continuamente di fuggire da lui.»
«Non capisco, signora.»
«A volte volevo strapparmi di dosso quell'amore con violenza. Era un peso che mi
occupava intera, l'anima, il petto, la pelle. Mi invadeva, non riuscivo a liberarmene.
Provavo di continuo a essere "leggera", ma era come se la vita mi ordinasse di respirare a
metà. Mi disperavo per la mancanza di informazioni. Non avevo dati. Ero come un veliero
costretto a navigare a vista con il solo ausilio dell'intuito. Vivevo col fiato sospeso. Mi
sentivo una sorta di zona franca in cui lui liberava se stesso. Per poi andarsene. Per
sopportare gli interminabili minuti che passavo senza di lui, inspiravo, lasciavo entrare
ossigeno nei polmoni, mi ripetevo con ostinazione che era assolutamente necessario
imparare a trattenermi, mi imponevo distrazioni che per lo più si rivelavano inutili. A volte
camminavo fino a stancarmi e una volta a casa annega-vo nel sonno. Sfinita, aspettavo che
quel malessere passasse.
Senza orgoglio. Sognavo di risvegliarmi con l'animo libero.
In alcuni momenti è stato atroce, mi creda.»
«Mio padre era un uomo pigro che andava eternamente di fretta. È rimasto così anche da
vecchio. Un violoncellista in pensione che rincorre il tempo senza capirne lui stesso la
ragione.»
«Capitava che dopo averlo aspettato tutto il giorno si materializzasse davanti ai miei occhi
in un'ora qualunque. Gli bastava un veloce saluto. Aveva impegni d'ogni sorta, doveri,
commissioni da fare, violoncelli da accordare, bambini da scarrozzare. A me restava la
sete. Il cuore era appesantito, avrei voluto strapparlo e poggiarlo in un luogo diverso dal
mio petto affannato. Qualche goccia di calmante sedava l'ansia, placava la frenesia di
toccarlo, di stringergli le mani. Gesti semplici, innocenti. La normalità in pubblico non era
concessa. La sensualità, per lui, aveva bisogno della notte. Eravamo sposati, lo si sapeva.
Con lui mi sentivo privata del bisogno di ascoltare.»
Passeggiavamo sotto il grande porticato. A piccoli passi, come formiche che avessero
temporaneamente accantonato la loro solerzia. Le mostravo con orgoglio il vecchio
pavimento in cotto di cui Thierry andava fiero.
«Ho ordinato delle piastrelle in Toscana», mi aveva detto un giorno tornando da un viaggio
in Italia, felice di quell'implicito omaggio alla mia terra.
La conoscevo da poche ore eppure il nostro dialogo aveva già la semplicità che
solitamente riserviamo ai rapporti consolidati. La sottile maschera che avevo indossato la
sera del suo arrivo, per celarle quelle che credevo inguaribili feri-te, stava perdendo il suo
contorno protettivo. Le impressioni erano nitide. Non preoccuparti, Gabriella, non ho
perso il controllo, so bene che l'avresti giudicato di cattivo gusto. È
che dal giorno in cui avevo ricevuto la lettera di quella ragazza, solo mentre le mostravo il
giardino prendevo coscienza che non avrei mai più rivisto quell'uomo. Era come se do-po
anni di segregazione mi avessero concesso di rovesciare torti e ragioni, episodi, volontà,
desideri, collere e risate. Sarebbe stato terapeutico. Per una morte meno solenne e più
decorosa. Con quel provvidenziale viaggio all'indietro, avrei avuto la grazia di andarmene
nel sonno. Non avrebbero detto «è morta con passione».
«Capisco cosa intende, signora, anch'io mi sono innamorata di un uomo sposato. Suonavo
nella Filarmonica di Monaco, in Germania.»
Lo ha sussurrato, perdendo per qualche attimo la sua aria diffidente e aprendosi quanto
bastava per prolungare quella inaspettata confidenza che asciugava l'ansia iniziale del
nostro incontro. Non ha aggiunto altro e io non sono stata in grado di fare domande.
Frugavo nei suoi occhi nel tentativo di scorgervi un qualunque sentimento.
«Ci piaceva partire in tournée. Erano gli unici momenti in cui potevo considerarlo mio. Con
licenza di irresponsabilità.»
Gabriella, non ci crederai. Aveva preso a parlare con un tono appassionato, quasi avesse
trovato l'occasione di alleggerire il suo cuore da una crepa che lo aveva incrinato. Senza
rimedio. Non mi spiego altrimenti quella franchezza, quel bisogno, per me insperato, di
sincerità. L'algida Lucrezia perdeva compostezza e confidava a una sconosciuta segreti
conservati troppo a lungo dentro di sé. La guardavo e pensavo a Carolina: non ho mai
parlato di questioni sentimentali con mia figlia. È così sfuggente con me. Non siamo mai
riuscite a diventare amiche, lo sai.
«Le tournée erano isole di felicità, signora.» «È vero Lucrezia, il momento più triste era
quando la voce flautata della hostess annunciava che "era iniziata la discesa verso
l'aeroporto". Precisando con concreta determinazione i minuti che mancavano
all'ennesima separazione.»
Senza lo strumento, mi sento mutilato. Se suonassi il violino lo porterei con me ovunque.
Potrei tenerlo tra le braccia, cullarlo, sorvegliarlo. Come un bambino.
Viveva quella separazione con l'enfasi di un lutto mista a un'irrazionale paura di perdere la
sua identità. La sua voce mi arrivava da lontano, invece stava proprio dietro le mie spalle e
mi soffiava il suo sgomento a pochi centimetri dall'orecchio.
Desolato e irresistibilmente infantile. Non eravamo mai meno di duecento persone, tra
suonatori, organizzatori, interpreti e segretarie. La tournée di una grande orchestra ha i
suoi riti, e tra questi era chissà come d'obbligo la partenza in ore impossibili. Tre, quattro
pullman ci portavano, noi e gli strumenti, borbottando verso l'aereo che era interamente
prenotato per i musicisti. Riuscivamo spesso a vedere il prologo del giorno dal finestrino.
La musica ci aiutava. Migliaia di note ardenti erano padrone di quella sporadica libertà,
che lasciava filtrare la nostra emozione con accenti privati. Provava invidia per i colleghi
che arrivavano alla spicciolata portando con sé la custodia ne-ra di un corno o di un flauto
oppure sulle spalle, a mo' di zaino, viole e violini. Roba da centinaia di milioni, spesso
comprata a rate con i primi stipendi. Erano persone ordinate, disciplinate, si muovevano
come zelanti impiegati della musica.
Non portavano chiome scomposte da artisti quanto, piuttosto, facce inebetite dal sonno. I
più giovani l'espressione goliardica e maliziosa, i vecchi quella di padri di famiglia
dall'anatomia stanca e con il miraggio di una buona pensione rintracciabile nel fondo
scuro delle pupille. Un professore di vent'anni, chiamato a far parte di un'orchestra dopo
aver vinto un concorso, ne diventava presto l'anima palpitante. I vecchi non sopporta-vano
di rileggere la loro storia negli occhi di quei ragazzi e la silente competizione che si intuiva
fra loro stava a un passo dalla ferocia. I più si ignoravano. Qualcuno aveva un amico cui riservare il tempo lasciato libero da prove e concerti. Si forma-vano piccoli gruppi di gente
che solitamente aveva poco da dirsi e che, per l'urgenza imposta dalla forzata solitudine,
mutuava il suo linguaggio naturale adattandosi a spicchi di vite diverse dalla sua. In realtà
ognuno pensava a se stesso.
C'era chi stava sempre solo, come Punzi, la prima tromba, un omino basso e tondo, dagli
occhi cisposi, a fessura, e sopracciglia ornate da ciuffi che si ostinavano a rimanere in
disordine. La mattina le impastava con una pomata, ma dopo poche ore le ritrovava
arricciate come punti interrogativi sulla sua faccia confusa. In concerto indossava una
camicia dai polsini lisi, impreziosita da bottoncini istoriati di madre-perla ingiallita, e calzini
colorati che coprivano a malapena i polpacci, creando un estroso caleidoscopio di colori
sulla tavolozza bianco-nera dell'orchestra. Suonava da poeta, viveva di musica, forse ne
morirà. La sua tromba emetteva suoni densi, compatti. Ogni nota era dedicata a una
moglie morta di crepacuore. Per Punzi l'orchestra era una famiglia, nella quale si muoveva
dubbioso e con rassegnazione. Per altri si trasformava in un personale campo di battaglia
sul quale svelare aggressività e competizione, frustrazioni personali e intime disarmonie.
Archi e fiati, alla stregua di Capuleti e Montecchi, erano due grandi famiglie musicali
contrapposte; sullo spartito seguivano disciplinati il regolare affastellarsi delle gocce
nere, ma rinchiusi nella buca, dove assolvevano il lavoro di tutti i giorni, si detestavano.
Viole, violini e violoncelli erano l'aristocrazia, pizzicavano le corde con mani curate,
appoggiando lo strumento nell'incavo privato della spalla e muovendo l'archetto altezzosi
e sommessi. Trombe e tromboni spingevano fuori l'aria con tutta la rabbia che avevano in
corpo, inseguendo l'armonia con sgraziati movimenti del viso che gonfiava e sgonfiava,
arrossendo di fatica e con visibili cadute di gusto. Tra loro, pacieri di quel sottinteso
conflitto, stavano i flauti, gli oboi, i clarinetti dai suoni acuti e stridenti, pungigli acuminati
nel magma sonoro dell'orchestra. L'arpa richiamava la carezza di mani lunghe e affusolate
e voleva per sé busti fieri e alteri. Stava di lato, defilata e lucente. Suonata sulle sue corde,
anche una piccola nota diveniva imponente. Regale. Maestosa.
Prime parti e fila erano due monadi inconciliabili, a significare un gelido spartiacque tra
chi si trovava a un passo dal ruolo solista e chi, invece, era destinato a rimanere nel
mucchio. Specchio di una società ordinaria dove servi e padroni impartiscono gli uni agli
altri puntigliose lezioni di comportamento musicale, i professori trovavano altrove i lo-ro
capi elettivi. In quel luogo di culto dove le note erano chiamate ad accomunare nel nobile
pensiero della musica, a dominare tra i leggii erano uno o due leader attenti al denaro e ai
privilegi. Al minimo soprassalto di voglie e bisogni ter-reni dei colleghi musicisti, erano
capaci di tenere in ostaggio direttori e compositori, prime blasonate e rappresentazioni
organizzate per studenti e anziani. A dare un tocco di nobiltà al mestiere di orchestrale
restava l'abbigliamento, eleganti frac color della pece e camicie immacolate che
travestivano in giro per il mondo un'apparente nobiltà d'animo.
Era facile che si formassero coppie di innamorati. Condividevano ogni momento di vita,
dentro e fuori dalla buca.
Amori che nascevano tra un concerto e l'altro o durante interminabili tournée, e che
spesso finivano allo stesso modo in cui erano cominciati. Nell'indifferenza degli altri. Le
sale da concerto erano pulpiti dai quali si levava l'orazione colletti-va. Il direttore
celebrava dal podio e i musicanti, a sezioni, in a solo o insieme, accordavano confidenza e
potere all'officiarne. I musicisti erano più o meno quelli. A cambiare erano il pubblico, le
abitudini, l'abbigliamento e gli orari, i festosi ricevimenti che venivano offerti a quella che i
giornali definivano una delle migliori orchestre sinfoniche d'Europa.
I professori, immutabili nei modi paleo aristocratici che quell'insolito mestiere imponeva, si
trasportavano uguali a se stessi da una sala all'altra del pianeta.
Il rito preparatorio si teneva un'ora prima del concerto e i minuti che mancavano ad andare
in scena erano scanditi dall'accordatura. Un frastuono, se ascoltato in uno spazio ridotto.
Un volo solitario per chi amava ricavarsi un angolo privato vicino ai camerini o riparato
dalle casse degli strumenti. Il «la» cancella ogni protagonismo, è il momento co-rale più
emblematico di un gruppo di musicisti. Anarchico, esibito, visibile, democratico. E
necessario. Per trovare sintonia, prima di andare in pasto al pubblico. Il concerto rende
visibile l'orchestra. Che altrimenti vive, anonimo e invisibile suono, in una grande buca ai
piedi del palcoscenico.
Quando il direttore entra in quinta per l'ultima volta, ebbro di successo, lentamente gli
orchestrali si allontanano dai loro strumenti perdendo l'innaturale posa orgogliosa tenuta
fino a quel momento.
La quiete degli strumenti e lo scalpiccio del pubblico che defluisce dalla sala autorizzano
la camminata negligente e il pensiero della
cena.
Nessuno sapeva di noi.
In clandestinità, cose norma li come mangiare, passeggiare, visitare un
Museo o una cattedrale, dormire abbracciati, erano l'eccellenza.
La moglie gli telefonava anche di notte.
Le rispondeva mite, educato chiede va notizie delle figlie, intrecciava
con lei scarni dialoghi di ordinaria quotidianità .
Quando non si ama più qualcuno che si rispetta, solitamente si diventa più gentili. Lui lo
era sempre.
Accondiscendente, fingevo di preferire la sua stanza, anche se all'alba
Avrei dovuto traslocare le mie cose come un ladro di appartamenti.
Ero felice.
Nessuno badava a noi e potevo occuparmi dei suoi occhi ancora appannati di sonno e dei
suoi capelli spettinati.
Adora vo il suo incarnato pallido e lui si esponeva con pigra vanità alla
Mia attenzione, non riuscendo a mascherare la sua miope ed estatica felicità. Dopo ogni
concerto era bello mescolarsi al Paese che ci ospitava.
Per noi era tale lo stupore di sedere a tavola vicini, che le mani si
sfioravano di continuo in un gioco dei sensi leggibile unicamente da occhi attenti.
In quel gruppo, troppo numeroso, ci ignora vano.
Ci amavamo senza fretta, gli ero grata di non pensare al ritorno.
Ai passi delle nostre scarpe sui pavimenti di casa.
In quelle notti il suo respiro si univa al mio.
Senza affanno.
Sotto stelle esauste di sguardi.
Tranne quella volta, quando il suo telefono trillò nel cuore della notte.
Non chiesi spiegazioni e lo accompagnai al treno che lo avrebbe riportato a casa.
L'alba non ci aveva ancora graziati del suo chiarore.
Sul pullman che trasportava l'orchestra mutilata di un leggio verso la tappa che chiudeva
la tournée, piansi senza sosta.
Decidendo che era arrivata l'ora di chiudere quella storia.
***
Quella casa l'avevo comprata perché era isolata. E il piccolo bosco era apparso ai miei
occhi come ne avevo tante volte fantasticato. Un omino dal viso tondo e dai baffi spioventi
come solo ai francesi è concesso portare con indifferenza, gesticolava, le mani grasse e
sudate, per convincermi ad acquistare quel casolare diroccato. Era una fattoria che
sottintendeva ampi volumi, poggiata soave-mente sull'erba, l'incavo scuro e inquietante
del fienile e rampicanti a nasconderne i muri sbrecciati e bisognosi di cure. Non si affannò
a lungo: «La compro», gli dissi, «questo profumo di erica e lavanda è irresistibile».
Imbattersi nel mio spietato romanticismo fu per lui una fortuna.
Non avevo avuto dubbi. Telefonai subito annunciandoti di averla trovata. Mi raggiungesti
col primo aereo nell'albergo di Saint-Rémy dove avevo preso alloggio. Volevi essere certa
che non inciampassi in una delle mie scelte avventate e precipitose. Ti convinse il mio viso
felice.
Quella spruzzata di pini marittimi faticosamente sostenuti da grandi radici strideva con il
grano maturo e i cespugli di lavanda cresciuti tutt'intorno. Un'accozzaglia di sentimenti
che pencolavano in qua e in là, incerti fra violenza e dolcezza, sedotti dal bisogno di
armonia e accesi dalla smania di contrasti. In pochi anni ho ricavato in questo spazio un
giardino di naturale saggezza, senza pretese di solennità. Privo di ostentazione. È
accogliente e mi piace tenerlo ben curato. La neve della settimana scorsa non è sciolta del
tutto, ne rimane qualche cenno sui ciuffi d'erba che sbucano irregolari sul terreno,
imbiancati di rugiada fredda e misteriosa. I colori sono tenui, impalliditi dall'inverno che,
come ben sanno i tuoi reumatismi, qui è mite e distensivo.
«Era una casa sventrata dal tempo, Lucrezia. Il giorno in cui la vidi per la prima volta, i miei
occhi percorsero il giardino ripulendolo di erbacce e piante di inutile bellezza selvatica. Mi
bastò poco per immaginarlo così come lo vede ora.
Giorno dopo giorno si trasformava, come una lenta e regolare marea scandita dal mio
desiderio. Dovrebbe farmi visita a fine giugno, quando il profumo della lavanda penetra le
narici, si insinua nella pelle, inonda le stanze. Sul finire dell'estate la raccolgo e ne
racchiudo i grani viola in sacchetti di tela. Le tarme ne muoiono, stecchite dall'intensità
dell'aroma.
Morire tra la lavanda, è un'idea, non crede?»
Dovrò aggiungere al testamento che desidero sulla mia tomba fasci di lavanda freschi. Una
condanna per figli e nipoti, che forse si disputeranno anche questa casa.
Per andare incontro alle dimensioni ridotte del giardino, Lucrezia e io camminavamo
lentamente, assaporando con piacere la necessità di confidenza che si era risvegliata in
noi.
Come un pigro tasso dopo l'inverno.
«Suo padre adorava i dibattiti intellettuali, durante i quali assumeva posizioni
deliberatamente provocatorie. Aveva il senso della dialettica e del gioco mentale e
l'aspetto magnetico delle persone che inseguono la libertà. Credeva che la vita offrisse
una serie di infinite possibilità e provava ad afferrarle tutte. Aveva una personalità volubile
che faceva a pugni con il suo bisogno di stabilità. Gli piacevano le persone che si erano
fatte da sé. E disprezzava i mediocri. Aveva una segreta paura di fallire che lo conduceva a
ritenere la vita come qualcosa di perennemente provvisorio. Un'attitudine che contribuiva
a negare anche a se stesso il suo bisogno di dipendenza. Aveva incontrato in me i suoi
desideri emozionali e non sopportava di vedermi così sensibile e sotto-messa. I primi mesi
ero attiva di proposte. Gli dicevo di continuo che lo amavo, elencando sensazioni che ai
miei occhi suonavano ricche di significato. Mistiche. Stregate. Eccitate.
Anche amorali, passionali e tortuose. Un giorno ho smesso.
Stavo in attesa. Che si pronunciasse. Desideravo ascoltare la sua voce impegnata in frasi
convenzionali come "mi manchi", "ti voglio", "ho bisogno di te". Volevo che mi inondasse di
quelle meravigliose banalità che erano state bandite dalle nostre conversazioni. Vivevo
affamata di dichiarazioni.
Speravo che il nostro amore abbandonasse per qualche tempo la casualità. E diventasse
una specie di scelta, capisce, Lucrezia?»
«Sì.»
Non ho mai compreso fino in fondo le fattezze della sua anima, né decifrato ogni suo
comportamento. Ma lo amavo.
«Non la sto annoiando, vero?»
L'ho detto così, per dire, mentre le guardavo con attenzione il viso, confidando nella sua
distrazione. Cercavo le or-me di quell'uomo, che per uno strano percorso della mente si
componevano sulla sua pelle compatta. Una pelle curata.
Ascoltando quel racconto Lucrezia non mi interrompeva, forse intimidita dalle mie
trepidazioni di vecchia adolescente. Contrariamente alla sera precedente che aveva visto
trionfare la sorpresa, la voglia di stupire, l'arroganza di un'anziana vis-à-vis con la bellezza
raccolta di una giovane donna, la malinconia stava afferrando la ragionevolezza. Le mie
parole non riuscivano a mantenere un'assennata distanza dalle emozioni. Mi sentivo
perduta.
Intorno, un'immobilità prodiga di richieste. E io la invidiavo, Gabriella. Me lo indicavano i
tremiti, impercettibili dall'esterno, che mi scuotevano le mani. No, non perché era giovane.
È che mi accorgevo di come avesse eredi-tato da suo padre il talento del distacco. Tu sai
quanto ho provato! Tu sola sai quante lacrime ho versato nell'incapacità di rallentare i
battiti cardiaci! Be', gliel'ho detto anche se la conoscevo da poche ore. Su questo non
sarai d'accordo.
«La disciplina emotiva era un esercizio a cui mi applica-vo attentamente, Lucrezia. E più lui
mi feriva con la tagliente intelligenza della logica, più mi intestardivo a spiegargli che era il
cuore, non il cervello, a guidare i nostri comporta-menti. Lascia che sia lui a parlare, ti
prego, lascia che ti dia luce e calore, insistevo, sempre più debole e accorata. Mi
cimentavo nell'arduo compito di dimostrargli che solo così avrebbe potuto sfiorare la
felicità. Io non ho mai provato ad avere le vertigini e poi in fondo è solo un muscolo erano il
suo leitmotiv. Con quelle lapidarie espressioni liquidava l'argomento.»
Che lo infastidiva più di quanto sospettassi.
«Suo padre, Lucrezia, conservava le emozioni come le provviste che si accumulano in
dispensa da utilizzare in caso di bisogno. E restava vago nel mutismo della sua
irraggiungibilità.»
Gliel'ho buttata lì, a mo' di provocazione, accorgendomi di come quella piccola pena
facesse ancora sentire il suo pungiglio.
«Una volta - era già sulla soglia della porta - lo avevo richiamato indietro con la voce rotta
dal pianto, un sibilo flebile, uscito dalla gola come ultima speranza per una riconciliazione
d'anime. Se ne stava andando, quando l'unica cosa che desideravo era che mi
abbracciasse. Ero seduta sul letto di una stanza d'albergo.»
Non mi saluti? Ti ho
«già» salutato.
Abbracciami... Sì.
«Lo faceva con indolenza. Per tacitarmi. Volevo disperatamente che avesse bisogno di me.
Mi lasciavo indietro il sonno e le lacrime mi piovevano dagli occhi senza che io potessi fare
nulla per occultarle prima che lui se ne accorgesse. Non avevo più muscoli, né tonalità
vocale. Ero un essere inerme, vincola-to alla sua volontà: Volevo solo sapere come stai.
«Allora si sedeva, accettando controvoglia uno di quegli estenuanti duelli dell'anima.
L'amore ha bisogno delle parole.
Io ne ho bisogno. Io devo sapere come stai. Cosa vivi. Cos'hai dentro.
«Questo genere di richieste lo infastidiva, con tutta probabilità avrebbe risposto con
maggiore entusiasmo a un pressante interrogatorio sulla composizione di una sinfonia.»
Col tempo, quando vivo accanto a una persona taciturna, assumo in me il suo silenzio.
Oppure parlo di continuo per riempire il vuoto lasciato incustodito dall'assenza di parole.
Mi è accaduto soprattutto con gli uomini. Progressivamente smettevo di parlare. Ho
ancora in mente interminabili viaggi in macchina senza che venisse pronunciata una sola
frase. Silenzio dopo silenzio costruivo un muro interiore che diveniva la mia rete di
protezione. Incomunicabilità e rifiuto. Fino all'indifferenza definitiva. Che segnava il
distacco. L'analisi mi ha salvata da una lunga catena di monologhi.
Mi ha preso la mano, con audacia. La sua mano grande e delicata stringeva la mia, fragile,
infantile, che si era sbadatamente irrigidita. In quel contesto le parole piroettavano
nell'aria. Capricciose. Mi auguravo che fosse felice. Cercavo di capire dai suoi occhi la
ragione profonda di quella visita. Riconosciamolo, Gabriella, ha avuto coraggio. Avrei
potuto deluderla, non soddisfare la sua curiosità, oppure suscitare in lei sentimenti
violenti, competizione, aggressività. Che ne sappiamo, noi, di ciò che deposita la morte nel
profondo dell'animo?
Mio padre se ne andò quando avevo vent'anni e ancora molti dubbi. Lo guardai per un
tempo indefinito sdraiato sul letto dell'obitorio, vestito da mia madre con trasandata
incuria. Un paio di pantaloni di cotone color castagna, una camicia bianca che non
riusciva a nascondere un corpo esiliato dalla malattia e un'inservibile giacca nera.
Pungeva, la rabbia dentro il petto. Ce l'avevo con lui che era morto lasciandomi con la
testa piena di domande senza risposta. Non lo avevo mai visto così sereno. Forse è vero
che, smessa la vita, si riposa in pace. Era morto perché il suo sangue era cattivo. E la sua
anima? Il suo amore di padre? Non conservavo memoria di gesti generosi, solo le
canzoncine che mi sussurrava quando ero piccola, prima che fingessi di addormentarmi.
Non mi fidavo e aspettavo che il sonno mi afferrasse dopo essere rimasta sola. Non avevo
più pensato a lui. E non mi sentivo colpevole, per questa innocente disattenzione. Un
giorno, a distanza di anni, un lampo imprevisto. Sono riaffiorate alla mente le botte. Mi
picchiava con regolarità, senza ragione.
Mia madre stava a guardare. Credo volessero punirmi perché ero - ai loro occhi - una
ribelle. Laddove sono stata troppo obbediente. Ho impiegato anni per trovare il coraggio di
rivivere con la psicoanalista il rombare della testa quando ti trascinano sul pavimento
tirandoti per i capelli.
La morte si è sempre annunciata per telefono. Ho già disposto che la mia giunga per
lettera, piuttosto con un telegramma, se c'è fretta. È un'occasione troppo importante per
rimanere circoscritta nel metallico suono di un apparecchio telefonico. Ascoltavo, passiva,
frasi spietate e uniformi: «il papà non c'è più», «deve venire a riprendersi suo fratello»,
«tua sorella è spirata questa notte, nel letto dell'ospedale. E
stata una morte dolce: non se n'è accorta», «sua madre è deceduta, signora». Sono una
veterana di morti via cavo e lei è stata l'ultima di una lunga catena che andava spezzata.
Per pura sopravvivenza. Non è vero che si morirebbe per qualcuno. Neppure l'amore più
straziante e generoso giustifica la morte. Si diventa egoisti già pochi istanti dopo che
all'altro hanno chiuso gli occhi. L'imbarazzata cantilena dei solerti carabinieri che, come
campanari di funebri rintocchi mi davano l'annuncio, aveva uno spiccato accento
meridionale. Nessuno mi ha devoluto una serena morte nel sonno. Solo suicidi, incidenti,
brevi e devastanti malattie. Eppure, dopo l'ottuso vuoto delle prime settimane, un senso di
impalpabile eccitazione si impadroniva del mio cervello. Ero libera. E il mio in-sano
sentirmi sola al mondo in quella famiglia così affollata aveva finalmente trovato la sua
ragione. Eppure, anche a cercare nei pensieri, non ne ho mai avvertito la mancanza.
Morire d'estate era stata la loro ultima disattenzione. Avevano stupidamente deciso di
andarsene dalla mia vita quando il caldo torrido toglie alla morte la sua sorprendente
levità. E l'inumazione deve essere espletata in gran fretta. Ho impiegato an-ni a seppellirli
davvero. Ma i fatti mi hanno dato una mano.
Guardavo Lucrezia e pensavo a sua madre, per me un fantasma senza viso né corpo. La
osservavo nel trionfo in-vernale del mio giardino e mi chiedevo se quella donna l'avesse
amata. Avrei voluto sapere se erano state felici insieme, se avevano confidenza, se si
abbracciavano, se si consolava-no l'una con l'altra. Ho sospeso la mia invadenza
trasferendo l'argomento su di me.
«Come tutto si riduce a poche, semplici cose, Lucrezia. Il nostro esistere si gioca in quei
primi anni, o mesi di vita quando, prima figli, poi genitori, trattiamo l'altro simulando
esperienza e lasciandoci travolgere dalla nostra ingenuità. Per evitare equivoci, con i miei
figli ho puntato sulla sincerità. Davo conferme, non mi tiravo mai indietro. Ho provato a
vivere nella vaghezza emotiva ed è stato talmente straziante che li ho estenuati con
noiose, forse inutili, rassicurazioni. Ogni giorno ripetevo a Mattia e Carolina quanto li
amavo. Non credo sia servito loro a trascorrere anni indenni dal dolore.»
Avrei voluto mi parlasse di sé, ma lei continuava a passeggiare silenziosa, con lentezza, i
fianchi sinuosi impegnati in un movimento leggiadro che mi è parso francamente
inadeguato alla sua altezza. Quell'incontro stava assumendo sembianze di poesia. Con
finto cinismo ho dato la colpa al paesaggio della mia amata Provenza. Riprendendo il filo
della memoria. In giardino non sentivo più il freddo e anche il vento era stato zittito da una
mano invisibile. Comprensiva.
Gentile.
«Quello per suo padre è stato un sentimento senza identità. Assoluto. Come se una forza
esterna mi avesse chiamata ad amare. La sua lucidità mi toglieva il respiro, volevo
imprigionarlo nelle parole. Ho capito con ritardo che avevo sbagliato linguaggio. Col
tempo ho imparato a modellarlo su di lui, offrendogli il potere di esporre la sua fragilità. Mi
piaceva convincerlo ad avere fiducia.
«E che suo padre non ha mai voluto rinunciare alla sua individualità e alle sue rassicuranti
abitudini. Per quasi due anni ho tentato di dargli il coraggio di accettare che la
commozione lo investisse. Se non gli si lasciava la sua singolarità, non riusciva a
ricambiare nemmeno una briciola d'amore. Io gli dicevo che nell'amore ci si perde. Lui lo
negava. Proclamavo il forte sentire. Rispondeva con il conformismo, la riservatezza,
l'intimità celata. Era certo che la passione fosse antieconomica. Uno spreco. Avrebbe
voluto vivere al riparo da ogni trasformazione.
«Amare un uomo sposato significa centellinare. L'arte di trattenere, ridurre, diluire,
riassumere, costringere nei limiti del tempo e dello spazio, diventa una delle fatiche più
urgenti. In alcuni periodi, amarlo si riduceva a dolore puro. Vivevo con l'assenza emotiva e
con la presenza fisica. Una contraddizione in termini. Il lampo della sofferenza stava con
me tutto il giorno, conficcato in quel punto del petto dove una volta si agitavano, benvolute
e ingenue, immaginarie farfalle. Una paura assordante. A volte bastava la tonalità di una
sola nota, o incrociare qualcuno che mi riportasse a lui, e il minimo benessere conquistato
si trasformava in grumi di melanconia.
«Quando mi mancava troppo ricorrevo a uno dei miei antidoti: camminavo. Mi nutrivo degli
avanzi del nostro ultimo incontro, lo sminuzzavo, ne dilatavo i contorni. Cercavo di
alimentarmi col ricordo. Avrei voluto imparare a fare delle scorte, ma ero troppo
orgogliosa per chiedere. Sto diventando noiosa, Lucrezia, mi scusi. Parole come queste
avrebbero dissuaso dalla passione persino Emma Bovary.»
Mi ha sorriso. Benevolente. Davanti alla simmetria assoluta e inespugnabile di quel cielo di
Provenza, la mia vita assomigliava a qualcosa di molto imperfetto. Mi emozionava ancora
vivere nella terra ricca di colore che gli impressionisti scelsero per appoggiarvi i loro
cavalletti. L'azzurro intorno a noi era macchiato da strisce sottili, bianche. Linee parallele
di nuvole ordinate e aguzze che per uno strano percorso della mente associavo
foneticamente al Lied finale della Quarta di Mahler, «Il cielo è disseminato di violini». La
mitezza dell'aria era interrotta da lampi di freddo che penetravano co-me lame affilate
evocando altri squarci di gelo.
La Bretagna. Una delle rare fughe che ci siamo concessi in quella relazione segreta. E
come la devo chiamare, altrimenti?
Ci siamo accomodate sulla panchina di pietra e ho provato l'istintivo desiderio di
raccontargliela, di evocarne le atmosfere, i colori, di ritornare al mutamento di quelle
emozioni. Richiamare i momenti felici è un esercizio a cui mi sottopongo volentieri. La
mancanza di testimoni mi dava l'occasione di ricamarci sopra. Non ne avrei avuto bisogno:
di quella vacanza non ho ancora dimenticato odori, vapori e ogni virtù. Almeno in
quell'occasione la realtà aveva aderito al sogno. Compenetrandolo.
«Suo padre e io avevamo poche cose in comune e la predilezione per i Paesi del Nord era
una di queste. Adoravamo il grigio mutevole delle spiagge del Nord Europa. Avrei tanto
voluto portarlo a Nantucket, un'isoletta del New England dalla quale gli avevo scritto
lunghe lettere grondanti poesia e tenerezze. Una primavera, non so di quanti anni fa, ci
siamo rega-lati una vacanza in Bretagna. Accadde dopo l'ennesimo, fallimentare tentativo
di separazione. Quella pausa sarebbe stata un reciproco risarcimento. Annunciammo in
famiglia impegni di lavoro in Francia. Avevo già preso quel volo per le vacanze con i
ragazzi, ma quella volta il mio stato d'animo era diverso.
Pregustavo con bulimica avidità l'idea di averlo tutto per me.
Lui e io soli per un'intera settimana. Il pensiero che quel viaggio avrebbe potuto
trasformarsi in una rovina non mi sfiorava, mi sentivo pronta e disponibile ai litigi più
efferati. La destinazione era stata scelta di concerto, ci eravamo confidati decine di volte
che il mare grigio di Bretagna era ciò che più si avvicinava alla nostra idea di pace. Il primo
volo clandestino. All'aeroporto di Quimper abbiamo noleggiato un'auto attrezzata di ogni
comfort, inclusa la radio. Avevo una nevrotica predilezione per le notizie di France-Info, le
ripetono sempre uguali a cadenze regolari. Inebetiscono. Non elidono il mio rapporto con il
reale. E i suoi fatti crudeli. Il tragitto era breve, poco meno di un'ora di macchina. Siamo
scesi verso sud, attraversando Locronan fino ad arrivare alla baia di Douarnenez, là dove
il mare è scuro e feroce. Nella borsa una protezione di note musicali da ascoltare in cuffia.
Avevo riservato una stanza all'Hotel de la Plage di Saint-Anne la Palud, un albergo con un
ottimo ristorante sulla spiaggia. Tutto davanti agli occhi, a portata di mano. La piscina
coperta mi avrebbe illuso di fare del movimento mentre lui dormiva. Nella prenotazione
avevo indicato anche la mia stanza preferita, in mansarda, con un piccolo salotto e un
accogliente letto a due piazze che occupava per intero il soppalco in legno, dal quale si
intravedeva una striscia di mare. Una stanza romantica in ogni particolare: il camino, un
piumone in cotone pesante bianco e blu, il pavimento in legno sul quale erano distesi
tappeti di lana bretone grezza e calda.
Scrivevo nei momenti di pausa, quando dormiva, quando si distraeva da me e potevo
osservarlo indisturbata. Gli ho regalato i miei appunti abbracciandolo all'aeroporto. Senza
affogare nei sensi di colpa.»
«Mi piacerebbe leggerli, chissà se li ha conservati! Inizia a fare freddo, perché non
torniamo in casa e diamo un'occhiata nella scatola? Mi perdoni, signora, sono troppo
indiscreta e forse lei ha da fare.»
«Niente affatto, Lucrezia, ripensare a quel viaggio mi ha fatto venire voglia di cercare
quelle lettere. Venga, mangeremo qualcosa. È anche l'ora di un buon caffè.»
Avevo dato il giorno libero ad Annette, che si era sicuramente rintanata dalla fioraia, la
sola che la sopportava e con cui trascorreva tutto il suo tempo a fare pettegolezzi. L'alone
di mistero di cui avevo circondato l'arrivo di Lucrezia sarebbe stato l'argomento del
giorno. Prima di uscire aveva comunque avuto l'accortezza di preparare una colazione in
veranda con un bricco di caffè che fumava ancora caldo, alcuni cestini pieni di biscotti
freschi e di panini al latte farciti con olive, nocciole ed erbe aromatiche. Le specialità di
Pierre. Lucrezia è andata a prendere la scatola che era rimasta dove l'avevamo lasciata e
dove probabilmente Annette aveva già infilato le sue mani grasse e indiscrete. Seduta sul
grande cuscino bianco del divano, rovistava tra le lettere ridendo come una bambina, con
una curiosità che è parsa eccessiva persino a me. Sarebbe piaciuto anche a noi trovare
tracce di un adulterio paterno, Gabriella?
«Le va di leggermele, signora?»
Disarmata di fronte al suo fare spontaneo, le ho preso dalle mani una voluminosa busta,
stipata di biglietti scritti su fogli di quaderno, sulla quale spiccava una scritta, «Bretagna».
«Solo l'essere innamorati giustifica la banalità di certe espressioni, Lucrezia. Eccole un
verbale di felicità.»
Amore mio,
eri bello stamattina con i capelli scompigliati dal vento mentre ti sporgevi dalla scogliera.
Per un attimo ho immaginato come mi sarei sentita se tu fossi caduto là sotto, tra la
schiuma grigia e fredda di quelle onde. Una terapia preventiva per esercitarmi all'assenza
definitiva di te. Ai miei occhi eri bellissimo, il dolce vita blu spuntava come un pugno buio
dal maglione a grosse trecce che abbiamo comprato nell'unico negozio di Saint-Anne
disabituato ai turisti. Siamo rimasti seduti sulla spiaggia deserta per ore, senza che il
passare del tempo desse segnali di insofferenza. La brezza gelida ti scomponeva i capelli
e in questo inizio di inospitale primavera quei due ragazzi accanto a noi non badavano al
gelo che intorpidiva i loro nasi. Avranno avuto una ventina d'anni, discuteva-no senza
particolare convinzione con accento parigino.
Leggevi Thomas Mann e non capivo l'incoerenza di quella scelta. A uno psicoanalista
sarebbe bastata una veloce occhiata ai libri che avevamo messo in valigia per definire con
accurata precisione le nostre personalità. Avevo portato con me la biografia di Louise de
Vilmorin, l'eroina ideale e l'ispiratrice delle fantasie di questi giorni con te. Vorrei che sulla
mia tomba, accanto alla fotografia venga incisa la frase «Au secours». «Aiuto». Come sulla
tomba di Louise. Si era innamorata di uomini che avevano le iniziali A.M. Come Andrè
Malraux, l'amore dei quarant'anni. E della vecchiaia. Andrè era stato il primo lettore del
suo primo romanzo. Come te.
Somigliavi a una tartaruga che affonda la testa nel suo guscio protettivo, affogavi nelle
pagine di quei racconti e io ti adoravo. Quando i libri non bastavano stavamo seduti, il
mento appoggiato sulle ginocchia, a guardare il mare. Qualche parola qua e là, nulla di
impegnativo. Qui il silenzio è molto più che sopportabile. Penso a Debussy e mi chiedo
quale ma-re avesse davanti agli occhi quando compose La Mer. Non hai mai guardato
l'orologio, per farmi contenta l'hai lasciato in albergo. Trascorriamo la nostra prima notte
insieme senza violoncello al seguito.
Notte.
Ti guardo e penso che ti amo. Ti guardo e riesco a definir-mi solo attraverso di te. Ti sei
addormentato a poco a poco, dopo l'amore. Spossato. Io non riesco a chiudere occhio.
Spiarti nudo, macchiato di sesso, mi riempie di orgoglio. Mi piace pensare di averti
regalato un sonno felice. Con il mio corpo, ormai incapace di nascondere. Ascolto La
morte e la fanciulla di Schubert, in cuffia, per non disturbarti. Penso a mio figlio e lo
immagino uomo. Avrà gambe lunghe come le tue. Fasce di muscoli che ora si
abbandonano fiaccate dalla stanchezza. Abbiamo avuto stanotte ciò che per mesi ci è
apparso sotto le terribili sembianze del nemico, il tempo. Hai scoperto - finalmente! - che
adoro essere baciata lentamente sulla schiena. Sotto le tue labbra i minuti sembrano ore.
Ti amo. Ti amo. Ti amo. ho abbiamo ripe-tuto all'infinito, una cantilena, una ninnananna di
«ti amo». Come posso descriverti la bellezza del tempo? ha felicità di sapere che non te ne
andrai? Domani mi sveglierò accanto a te. Amandoti. Vorrei scuoterti per dirlo. Il tuo
lenzuolo stropicciato odora di sesso. Profuma d'amore.
Quello fatto. E quello che si farà. Ti ho già detto che ti amo?
C.
Notte.
Le ostriche non mi piacciono. Sono molli, viscide, insapori e non capisco perché le
abbiano elevate a simboli erotici. Ne hai succhiate avidamente una ventina, inondandole di
gocce di limone. Guardavo altrove, nella vasca di pesci e aragoste vive che stava vicino al
nostro tavolo, all'altezza del pavimento. Un'oscura e inquietante caverna. Non ti ho mai
visto così felice. Qualcuno suona per me i Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart.
Vorrei venire a letto, ma non riesco a interrompere questo suono. Mi sembra scortese.
C.
Nelle pagine finali della guida che abbiamo portato dall'Italia, l'autore ha elencato alcuni
dei massimi piaceri del viaggiatore: una serata all'opera è indicata fra questi. Vorrei averti
dentro di me, adesso.
Tua C.
Ci sono frasi legate alla mia adolescenza che non posso più ascoltare: «sei forte», magari
con l'aggiunta della parola «tanto». «Tanto tu sei forte.» «Non drammatizzare.» «Hai due
occhi bellissimi.» Le hai dette tutte e tre. Almeno una volta. A mia discolpa potrei citarti
quando. Ver non soccombere ai ricordi bisognerebbe riassumere la propria vita e
consegnarla al destinatario al primo incontro, si eviterebbero inutili incomprensioni. Mi
sono raccontata a brani, senza badare a ciò che era stato importante. Potrei usare questa
vacanza per dare informazioni. Correndo il rischio di trasformarla in una terapia.
C.
Capisco perché qui sei felice.
Hai vinto la tua ritrosia, il tuo moralistico senso del dovere.
Per concederti il sogno.
Sai che durerà solo pochi giorni e questo placa la tua irrequietezza.
Per la prima volta tocchi con mano la possibilità di essere felici in
due, nella natura che più amiamo, dipinta di grigio e monotonia.
Dopo questa vacanza tornerai alla tua vita di padre.
Quello con le tue figlie è l'unico rapporto interpersonale sul quale riesci a costruire un
progetto. Il resto lo lasci agli altri, alle altre, a tutte le donne che, a partire da tua madre,
compongono il tuo firmamento femminile. Ti guardo e penso attraverso i miei occhi.
La luna ci osserva, vorrei arrampicarmi fino a lei.
Come il Barone di Mùnchausen.
C.
Notte.
In cuffia l'Italiana di Mendelssohn. Quante delle sinfonie che ascolto senza effettiva
competenza in campo musicale sono state composte sull'onda di drammi vissuti in prima
persona? Quanto delle note che mi fanno versare lacrime sono sintesi dei tormenti di
Brahms, Schubert, Mahler? In un impeto di rigore ho tentato di studiare il Settecento, ma
riesco ad adagiarmi con innocenza solo sull'Ottocento romantico. Per me, una esemplare
sintesi tra ragione e sentimento. La musica è la mia soluzione. La lampada sul comodino è
accesa. C'è un libro accanto alla luce, La Morte subite, il diario di un grande, autografo per
me. Domani il nostro aereo partirà prestissimo. Abbiamo portato con noi una piccola
sveglia che ora mi guarda minacciosa e implorante. Che ne sarà di noi?
C.
Una mattina mi ero svegliata che albeggiava appena, indecisa se stare accanto a lui e
contemplarlo o fare una passeggiata. Ero uscita. La spiaggia mi guardava, ancora opaca
nel lascito della nebbia che l'aveva avvolta nel suo respiro notturno. Era deserta, una
donna dalle curve afflosciate dall'età e delicate gobbe di sabbia che a tratti increspavano
la sua superficie piana. Una femmina bianca che le ombre della notte avevano
rappacificato con il mondo. Una creatura serena. Non si sentiva il soffio del vento - strano
per la Bretagna - e le mie orme sulla sabbia sporcavano la pace. Per non ripetere il danno,
al ritorno avrei dovuto riaffondare i piedi nelle mie tracce. Pensavo ai bambini e alle
vacanze nella chaumière affittata qualche anno prima a pochi chilometri da Concarneau,
una casa col tetto di paglia, un'unica grande stanza al pianoterra con cucina, salotto e
pavimento di pietra grigia. Spartana, come le camere al primo piano. E
il giardino che profumava di mare. Quella transitoria e si-lente libertà mi riaffidava ad altre
solitudini. L'idea di ritrovarlo al mio ritorno era davvero insolita. Invece era là, in piedi
davanti al cancello in legno dell'albergo, il viso arrossato dal sole.
«Credevo fossi partita», mi disse. Non aveva l'aria di scherzare. Gli occhi erano ridenti e la
pelle del viso distesa, rasata di fresco, con un graffio sul mento come di chi si fosse fatto la
barba con fretta audace. Non lo avrebbe mai ammesso.
Partire dalla felicità? E perché?
L'amore è davvero conformista. Mi vengono in mente solo frasi cretine.
«Le nostre colazioni erano interminabili, Lucrezia. Restavamo seduti per ore davanti alla
tavola apparecchiata. La tovaglia, immacolata, era un trionfo di cibi e profumi, esibiva
marmellate di gusti diversi confinate in ciotole di ceramica dipinte a mano. Mangiava
avidamente, di tutto. Non ho mai capito co-me facesse a ingurgitare uova al tegamino,
croissant fragranti e tazze di latte una dietro l'altra, sommando gusti e colori senza alcun
pudore estetico. Per me il cibo è il riflesso di stati d'animo, Lucrezia. Tristezza è sinonimo
di digiuno. In Bretagna so-no ingrassata. Oberata dalla tenerezza.
«In quel contesto amarsi era una cosa semplice: mangiare, camminare, fare l'amore,
dormire, leggere, parlare senza cronometro. Di quella vacanza non avremmo potuto
illustrare la magia nemmeno al più smaliziato degli operatori turistici.»
I cimiteri bretoni hanno un fascino speciale, vedrai.
«Mi aveva guardato perplesso quando lo avevo convinto a seguirmi in uno dei miei
pellegrinaggi tra sepolcri e storie di famiglia.»
Preferivo chinarmi sulle tombe degli sconosciuti. Non ho mai visitato il cimitero di
campagna dove è sepolto mio fratello. Né ho mai portato fiori sulla tomba del resto della
famiglia. Avevo solo scelto le loro fotografie. Non avrei per-messo che mia madre venisse
guardata da estranei come una vecchia, il viso gonfiato dai lutti. Sulla sua tomba ha poco
più di vent'anni, l'espressione felice, la grande bocca color corallo e una pettinatura a
onde, anni Cinquanta.
In quel cimitero a picco sul mare, ordinate e piccole, le tombe erano separate da stretti
viali di ghiaia bianca e polvere di conchiglia. Anche i fiori sembravano raccolti sul luogo, in
un riverente segno di rispetto per quella terra. Che ospita-va soprattutto giovani caduti in
mare. Accanto ai nomi, alle date di nascita e di morte, navi, vele e ancore di pietra - alcune
di rudimentale artigianato - erano state appoggiate sulle lapidi in modo così
approssimativo che mi sarei aspettata di vederle volare via al primo bisbiglio. Lasciavano
immaginare le famiglie di quei marinai. E ricordavano le pagine salmastre dei romanzi di
Conrad. Ho sempre avuto un debole per i cimiteri. Le tombe dei bambini catturavano, più
di altre, la mia attenzione.
Una volta sognai il funerale di Carolina. Era stata in co-ma, a un anno e quattordici giorni
per insufficienza respiratoria. Quell'incubo fu di sollievo. La dimisero dall'ospedale dopo
alcune settimane, completamente guarita. Così, almeno, avevano detto i medici. Le sue
terminazioni bronchiali erano simili a fragili radici bianche che affondano nel terreno. Era
sana. Mi svegliavo, la notte, per controllare che fosse viva. Percorrevo il corridoio come
una sonnambula, auscultavo il suo petto e mi calmavo solo davanti al ritmo felice del suo
respiro. Dovevo avere bene assorbito quel dramma, perché affiorando in quel soave
cimitero davanti alla tomba di un bambino morto a un anno e quattordici giorni, quel
ricordo non aveva fatto male. Misuro il dolore del passato sull'intensità di quello presente.
E viceversa. Ho avuto in dotazione dalla vita un dolorometro posizionato all'altezza dello
sterno. Benedico la sensazione di sollievo che provo quando il peso non si avverte più.
Quando torna l'indifferenza. Avanti un altro - penso - anche se ormai non c'è più posto.
«Stavamo ore davanti al mare, seduti su uno scoglio o su una piccola panchina rossa
scoperta per caso e subito adottata come fugace ricettacolo delle nostre confidenze.
L'oceano Atlantico è quello che più di ogni altro mi dà la sensazione dell'altrove. La
spiaggia scura, intaccata - in quei giorni dalle maree, era abitata da scogli, massi e pietre di dimensioni crescenti, moloc irregolari,
nervosi, che imponevano ai nostri occhi punte aguzze miste a insperate rotondità. Levigati
dal pedante movimento delle maree. Avevano un aspetto fiero.
Arrogante. Ma libero. La schiuma disegnava involontari ricami sul bordo delle onde.
Davanti a noi, spostato sul lato destro della baia, apparentemente disabitato dagli umani,
stava un faro grigio popolato di uccelli bianchi che gracchia-vano fastidiosi. Incapaci di
intonare la benché minima melodia. Mi teneva accoccolata fra le sue braccia e si
raccontava a brevi frasi, cantilenante, sereno. Tenevo le sue grandi mani tra le mie. Sul
suo anulare la striscia di pelle chiara lasciata dalla fede matrimoniale, che avrebbe
altrimenti oltraggiato la purezza dei nostri sguardi. In quei momenti e grazie alla clemenza
dettata dall'amore, anche la più spietata dalle giurie ci avrebbe dichiarati "non colpevoli".
La felicità, davanti a quel mare irsuto e gonfio, era familiare. Gustavo il senso dell'intimità
con un uomo. Era come armonizzarsi con un profumo, un odore, con il colore del cielo.
Con le parole dell'altro. Un bagno di calore.
«Suo padre era felice di lasciarsi andare, di avere a disposizione tempi lunghi di racconto:
non gli era mai piaciuta la fretta anche se d'abitudine era bravo a passare di continuo da
un'attività all'altra. Lì stavamo finalmente in pace.»
Mi spedivano tutte le estati in colonia. Dai cinque ai dodici anni, sul mare Adriatico,
Gradisca, provincia di Gorizia. Mia madre cuciva sulle canottiere, le mutande e i calzoncini
il numero che avrebbe «segnato» la mia vacanza. 135. Chissà perché non 7 oppure 9?
Sarebbe stato più semplice, no?
Com'era la colonia?
La odiavo. Mi ficcavano in testa un cappellino bianco da marinaio. Col numero. Mi ci
accompagnava mio padre. Con piglio fiero. Non credo si sia mai sentito colpevole per
quell'abbandono di minore. Mi mancava la mamma. Passavo intere notti a piangere.
«Quel dialogo è ancora limpido in me, Lucrezia. Intravidi la sua infanzia. Che sembrava
non avergli serbato alcun incanto. Un appuntamento di cui disfarsi al più presto. Lo
ascoltavo senza fiatare, immaginando che quella visione gli procurasse patimento. Lo
avvertivo sulla pelle dal modo in cui mi stringeva al petto. Sentivo le sue ossa, il respiro
leggermente affannoso. Un ritmo sospirato. Lasciava parlare emozioni antiche, che
sgorgavano dalla sua bocca come perle di violacea sofferenza. Liberava qualcosa che era
rimasto a lungo dentro di sé e le sue labbra mormoravano parole delicate. Non riuscivo a
vedere il suo viso, ma lo immaginavo arrossato e proteso verso l'oceano, mentre l'aria
induriva i nostri visi con le sue zaffate di freddo. Che colpivano diritte, come vecchie
memorie. Intuivo il suo sguardo velato. Suo padre non aveva occhi particolarmente
espressivi, non trova? Erano, piuttosto, pensosi. E nascondevano bene più o meno tutto:
idee, sentimenti, persino la gioia - o il dolore dell'orgasmo. Mi sono spesso domandata se la sua ritrosia nel parlare di sé fosse frutto di
un'educazione rigida o, piuttosto, di un'infanzia troppo solitaria che lo aveva imprigionato
nelle sue fantasie. A volte ricordare fa male come vivere, ma mentre lui parlava mi piaceva
immaginare quel bambino in fila con i suoi compagni, intento a fare giochi sulla spiaggia di
sabbia chiara, larga e monotona, davanti al mare che piace alle mamme apprensive
perché l'acqua ti arriva alle ginocchia per chilometri. Le sue dovevano essere sicuramente
ossute, ordinatamente posizionate a sostegno di due gambe lunghe e magre. Tutte le
scelte che facciamo da adulti derivano da quelle che altri hanno fatto per noi quando
siamo stati bambini. È una delle più crudeli ingiustizie a cui ho assistito, Lucrezia. E di cui
mi sentivo, lì con lui, timida testimone.»
Tornati all'albergo, quasi di fretta, abbiamo fatto l'amore. Come due naufraghi.
Un bambino non racconta l'angoscia. La vive e basta. Se la lascia imporre. La conserva in
qualche angolo del cervello, la accumula, la congela, la liofilizza. E poi tutto a un tratto,
quando è adulto, la ritrova dentro di sé come calcare bianco e secco.
Piangevo e la sognavo. Era bella. Una donna docile e orgogliosa. Ci ha allevati facendo
sacrifici. E senza mai lamentarsi. La colonia era rigorosamente riservata ai maschi. C'era
una bambina, credo fosse la figlia del custode, che veniva a trovarmi tutti i giorni. Stavamo
a parlare attraverso la rete che divideva la colonia da alcune abitazioni lì intorno. Aveva le
gambe abbronzate, delle orribili treccine e due occhi grandi e la bocca carnosa. Variava
tantissimo: inventava un sacco di bugie. Era divertente e mi faceva compagnia. Forse ero
innamorato di lei. Non ci avevo più pensato: me l'hai fatta venire in mente tu adesso.
Ciao. Che classe fai?
La terza.
Quanti anni hai?
Otto.
Io abito qui.
In colonia?
Sì. Mio padre la deve guardare anche d'inverno... abito qui, nella casa di fronte... la vedi?
Quella bianca...
Io ci vengo d'estate. Tutti gli anni a luglio e agosto. Questa è la terza volta.
Che giochi hai?
Qualche macchinina, le palette e il secchiello. Ma non li uso. Ci fanno fare i giochi tutti
insieme: bandiera, mosca cieca, nascondino, con la palla. Perché non entri dalla rete?
Mio papà non vuole, ci sono i maschi.
Ti insegno un gioco. Si fa con i noccioli delle pesche: devi lavarli e togliere tutti i fili. Vuoi
anche ciucciarli, se ti piacciono. Devi averne cinque e tirarli in alto, così, prima due, poi
tre, poi quattro e cercare di prenderli tutti insieme.
Io ciò le biglie. Ci vuole la sabbia per scavare una pista. Si tirano con le dita: vince chi
arriva prima.
«Si inventava, con ironia. Sciocchezze, dialoghi infantili, Lucrezia. In quel gioco eravamo
noi, quei due bambini alla colonia. Ogni tanto lo riprendevamo, immedesimandoci nei
personaggi come in un teatrino dei piccoli che serviva a regalarci brani di intimità
ritrovata. Credo che entrambi ci vergognassimo, il pudore filtrava dalle nostre parole. Da
bambina non ero riuscita a vincere la mia lotta per la sopravvivenza. Ci stavo provando
con lui. Eravamo irresistibilmente attratti da quelle fantasie retroattive, ripercorrere
insieme i nostri primi anni di vita annullava le nostre diversità. La terapia funzionava per
entrambi. Giocavamo a inscenare il mo-do in cui ci vestivano, come erano fatti i quaderni
della scuola, le facce dei compagni di classe e gli innamorati. Si prendeva delle gran cotte,
suo padre. Consumava amori nel silenzio, come quando si infatuò di una violinista, senza
avere nemmeno il coraggio di salutarla quando lei lasciò il teatro dopo aver vinto un
concorso in Germania.
«A che serve l'amore se non lo si comunica? gli avevo chiesto allora, segretamente felice
che quella storia fosse stata un'incompiuta. Mi raccontava ciò che rammentava, in ordine
sparso. Lo stesso facevo io. Il nostro disordine ci serviva per conoscerci.»
«Mio padre di rado parlava di sé. Pensavo che fosse frutto della sua innata riservatezza. A
pensarci adesso, credo mi abbia fatto comodo non chiedergli niente.»
«Spesso imponiamo ai figli di interpretare i nostri desideri infantili, non crede Lucrezia?»
«Mi piaceva fare indossare a Carolina stupidi vestiti con ricami a nido d'ape,
preferibilmente blu, o rosso scuro, calzine in tinta e scarpe con cinturino e punta a
biscotto. E lei insisteva nell'infilarsi delle orribili tute da ginnastica colorate e informi.
Diceva a tutti che i maschi le tiravano su le gonne.
Per giustificarsi.
«Ho tentato di non far soffrire i miei figli per tutto ciò che mi aveva infastidito da bambina. I
capelli, per esempio, erano un vero strazio! Desideravo portarli lunghi e odiavo mia madre
ogni volta che mi obbligava a tagliarli.
«"Starai più comoda", diceva, "averli corti è più sano."
Mi vuole dire, Lucrezia, cosa se ne fa una bambina di un aspetto sano? Io li volevo lunghi,
lunghi e basta. Carolina li ha portati così fino alla "tragedia pidocchi" che aveva tenuta
impegnata la famiglia per settimane. La scuola era infestata da quegli invisibili animaletti
che si aggrappavano ai capelli all'insaputa di tutti. Per i maschi era stato uno scherzo, una
rasata e via. Per lei il problema aveva assunto le tonalità della tragedia. L'avevo portata da
un parrucchiere molto paziente, che le aveva proposto raffinati tagli alla moda. Inutile: non
si lasciava nemmeno avvicinare. La querelle era stata domata dalla nonna. Carolina mi
aspettò sveglia fino al mio ritorno dopo uno spettacolo per mostrare con orgoglio il suo
nuovo taglio a caschetto.
«Lucrezia, non ho mai compreso se i miei figli avessero bisogno di qualcosa di diverso da
ciò che davo loro. Ho sempre confuso desideri ed esigenze reali, capisce?
«Noi bambine trascorrevamo più tempo con la mamma.
Io avevo una istintiva predilezione per mio padre. Con lei c'era competizione, o forse la
provava lei per me. Era scultrice e quando è nata mia sorella ha rinunciato
temporaneamente al lavoro. Dopo cinque anni sono arrivata io e si è impegnata
unicamente a essere una brava madre. Non lavorare le pesava, la rendeva dipendente da
mio padre, persino da noi. Credo non mi abbia mai perdonata quando a vent'anni ho vinto il
mio primo concorso e sono andata a vivere in Germania. Proprio come lui, che aveva
lasciato la famiglia per perfezionarsi al Conservatorio.
«Sono stata una mamma confusa. Non mi hanno mai smentita, né rassicurata. Credo mi
abbiano perdonata. Carolina fa con le gemelle gli stessi errori. Abbiamo imparato a riderci
sopra, per sdrammatizzare. Con suo padre mi accadeva talvolta di sentirmi, con terrore mi
creda, una madre.
«Come quella notte in cui, svegliandosi all'improvviso, la voce roca di sonno, chiese: Mi
aiuti? D'istinto gli avevo risposto sì, anche se non capivo cosa volesse da me. Tornato nella
sua stanza, che il caso aveva voluto proprio a fianco della mia, si era riaddormentato
dicendomi vorrei essere piccolo come un fagiolo per stare dentro ài te per sempre.
«Scrivergli i miei appunti nonostante fosse lì a disposizione era un atto egocentrico.
Lasciavo indizi ovunque. In Bretagna siamo stati felici. Le molte ore trascorse insieme
avevano cancellato ogni grumo di inquietudine e diluito l'inospitale senso di precarietà
della nostra storia. Dopo i primi due giorni il nostro respiro aveva preso un ritmo regolare.
Sperimentavamo, senza ammetterlo, come sarebbe stato vivere insieme come una coppia
qualsiasi. Il tempo dilatato ci aveva insegnato a essere più generosi l'uno con l'altra. Avevo
scoperto in lui un'insospettabile dolcezza. Era un uomo buono. Prima di partire da quel
paradiso gli avevo scritto una lettera. Senza censure.»
Bretagna. Esterno giorno di un giorno felice Amore mio,
vorrei prolungare questa beatitudine per sempre. So che se te lo dicessi a voce mi
guarderesti preoccupato. Così ti scrivo. Siamo seduti al «Cafè des beaux Jours» (adatto
come nome, vero?), e leggi il giornale con quell'ascetica convinzione che mi fa così ridere.
È l'unica copia che abbiamo trovato e anche se le notizie sono vecchie di due giorni, ti va
bene lo stesso. Approfitto di questa pausa per guardarti, la camicia bianca che sporge dal
giubbotto rosso e i jeans di velluto blu. Alla mia psicoanalista basterebbero poche parole
per dimostrarmi che un amore così assoluto è un amore malato e ostacola la mia crescita
personale, quella che affrontiamo insieme con fatica da anni. La gioia di potermi lasciare
andare, senza temere il tuo giudizio, la dolcezza che si scioglie dentro al solo pensiero del
tuo esistere, lascia so-spirare una possibile pace. Una pace condivisa. Versino le nostre
discussioni qui sono facili. Ne sono certa: l'Eden era questo. I miei desideri infantili hanno
trovato risposte e la passione si è come placata, frantumandosi sugli scogli. Vorrei che tu
abbracciassi la gioia insieme a me.
C.
Mentre riponevo quelle testimonianze ripiegandole con cura, guardavo Lucrezia alla
ricerca di un assenso, di un segno di disponibilità. Appariva diversa da ieri. Aveva l'aspetto
stanco, quasi che il mio racconto avesse sopito l'indolente energia della sera. Io le ero
talmente grata per quella visita che per farla felice avrei vinto persino la mia pigrizia
culinaria. Fantasticavo di un soufflé alle erbe di Provenza. Il ricettario assegnava a quel
piatto due stelle di difficoltà.
«Questi panini dolci innaffiati di caffè sono deliziosi. Venga, la accompagno in cucina. È
così accogliente, così bianca.»
Si prendeva gioco di me con impudenza. La mia casa, il mio lato debole, lo specchio della
mia vanità. Questo buen retiro sarebbe piaciuto anche a lui, non credi? Avrebbe amato
trascorrere la vecchiaia tra ha. natura solare e i grandi locali di questa cascina, piena di
musica e affollata di volumi sugli scaffali. Incontrarci adesso sarebbe stato l'ideale. Ne
avrei amato anche gli inevitabili acciacchi. Si vocifera che il sesso della terza età sia
un'esperienza da assaporare. Avremmo recuperato il tempo perduto. Invece è morto.
Senza avvertirmi.
Ho preparato il pranzo mettendo in tavola qualche capriccio gastronomico, un pretesto,
certo condiviso, per restare ancora insieme. Non riuscivamo a interrompere quel dialogo,
Gabriella. Avevo ancora molte informazioni da dare.
«Lucrezia, quella vacanza in Bretagna era stata l'inizio della fine.»
Il rumore della macchina di Thierry mi distrae da te. Sono rimasta seduta al tavolo per ore
senza accorgermi che il cielo è diventato buio. Nemmeno uno scampolo di stella mi
soccorre con la sua luce. Meglio scendere da lui. A presto, amica mia. A prestissimo.
Intermezzo
Annette ha servito in tavola con il tono sdegnato di chi si sente estromesso da un
importante affare di famiglia. In realtà non avevo parlato di Lucrezia con nessuno se non
nella lunga lettera a Gabriella. Mangiare era quanto di meglio potessi fare per allontanare
il mio pensiero da quella ragazza. Thierry mi vezzeggiava con il tocco discreto di quei gesti
affettuosi che lo rendono irresistibile. Parlava con un tono leggero, quasi che non volesse
trattare argomenti più impegnativi. Dissertava di mobili e suppellettili e mi elencava gli
ultimi pettegolezzi ascoltati in paese. Ero come una bambina alle prese con un grande
segreto e non vedevo l'ora di tornare nella mia stanza.
«Come li dividiamo?» ha detto, interrompendo un silenzio irreale per noi che solitamente
non stavamo mai zitti, soprattutto dopo una giornata trascorsa lontani l'uno dall'altra.
«Chi?» gli ho risposto, fingendo di non capire di cosa stesse parlando.
«I ragazzi, la famiglia, li hai dimenticati? Mancano pochi giorni al tuo compleanno e
dobbiamo dare istruzioni ad Annette. Non sa ancora come preparare le stanze.»
Voleva distrarmi. E lo faceva guardandomi ambiguo e sornione, trattando l'unico
argomento che mi avrebbe coinvolta e cioè i figli, gli ex mariti, i nipotini che avevo invitato
per il mio settantaquattresimo compleanno. Il loro imminente arrivo increspava l'aria,
rendendo irreale l'atmosfera della stanza. Davvero sarebbero piombati tutti qui?
«Carolina e Mattia occuperanno le loro camere. Sai bene che non è possibile fare
altrimenti. Adorano tornarci al punto che a volte ho il sospetto che vengano qui più per
fare un tuffo nella loro giovinezza che per salutare me. I nipoti si contenderanno la
mansarda e per chi arriva secondo potrebbe andare bene la stanza delle rose: troppo
romantica per i due ragazzi, ma abbastanza grande per contenere la loro esuberanza.»
«Il problema è Marco con la nuova fidanzata. Sarà imbarazzata di trovarsi qui, non
conosce nessuno.»
«Che importa? La festa è mia. Si adatterà.»
«Non hai ancora smesso di volergliene, vero?»
«È l'unico con cui non riesco ancora a essere gentile. La sua provvisorietà affettiva
continua a stupirmi. Ma non gli verrà mai voglia di fermarsi? Di scegliersi una moglie,
finalmente?»
«Diventerai una donna serena quando la smetterai di voler organizzare la vita di tutti.»
«Ma se non sono riuscita a mettere ordine nella mia!»
«Gabriella occuperà il tuo studio, è l'unica alla quale concedi di usarlo anche per la notte.»
«È la mia più cara amica, Thierry, ci conosciamo da cinquant'anni. E non siamo mai state
così unite come adesso.
Finalmente ci fidiamo l'una dell'altra.»
Abbiamo proseguito nell'ideale arredamento di quella casa per tutto il tempo della cena,
suddividendo stanze e famiglie, come su una scacchiera del destino cui spettasse un
posto a testa. Thierry non ha chiesto nulla della lettera, né della misteriosa ragazza che
era venuta a farmi visita dall'Italia. Gli ho accennato di Lucrezia senza mettere troppa
enfasi nella voce. Considera dannose per la mia salute quelle che giudica stravaganze
emotive. «Andrò a leggere in salotto», ha detto stringendomi la mano con un sospiro
commosso, «e non ti stupire se non mi vedi in camera.»
L'imminente arrivo di figli e nipoti turbava anche lui.
Che dopo tutto quel tempo si sentiva ancora l'ultimo arrivato.
***
Sono di nuovo a te, Gabriella. Thierry legge sprofondato in poltrona. Avrei potuto
chiamarti, ma saremmo rimaste al telefono per ore. Scriverti mi aiuta a mettere ordine nei
pensieri che si affacciano, disordinati e scomposti, alla mia mente.
In cielo è apparsa la luna. È grande, né argentea né bianca. Ha il colore dell'acciaio. Se
potesse parlare, predicherebbe prudenza. Proprio lei, che non ha fatto altro che regalarci
illusioni! Ricordo ancora quando ci guardava di nascosto, solitaria testimone di
quell'amore, nel cielo di Siviglia. Chiusi le tende della stanza, per pudore. Hanno lasciato
fuori Bo-ris, il cane dei vicini, che ora mugola per il freddo. Sarà felice anche lui dell'arrivo
dei bambini, gli unici che non temo-no la sua apparente aggressività difensiva.
La visita di quella ragazza mi ha disarcionata dal beato isolamento nel quale avevo
felicemente confinato la mia esistenza. È sempre andata così, riuscivo a costruire muri
protettivi, recuperavo verginità esistenziale fino all'uomo successivo che, senza grazia,
sgretolava la mia invalicabile difesa. Un gioco di costruzione e distruzione: è stata questo
la mia vita, Gabriella? Non credo di avere ancora trovato il sentiero giusto. Procedo
seguendo l'intuito che mi guida verso pericoli ignoti. Non ne ho perso uno, davvero. E la
tua amicizia la coscienza in cui mi specchio in cerca di riparo. L'arrivo di quella donna è
stata un'insperata occasione per tracciare un bilancio. Tardivo. Ancora pieno di
trabocchetti.
Come contrappunto al romantico resoconto di quell'interludio durato una sola settimana,
ho mostrato alla mia ospite le lettere della lontananza. Dopo una pausa di telefonate, ci
siamo ritrovate in veranda.
«I nostri abbandoni erano tappe di un percorso che non .
ha mai avuto una fine, cara. Frammenti di assenza assai produttivi che mi lasciavano ogni
volta più vulnerabile. Il nostro amore è cresciuto nutrendosene.»
Mi guardava indulgente e serena. Ormai ero riuscita a in-filtrarmi nel suo animo e mi
sentivo al sicuro.
«Ma cosa dice, signora? Voi vi allontanavate sapendo con certezza che vi sareste
ritrovati.»
Avevo sopportato la morte senza battere ciglio, a cominciare da quella di mio padre.
Persino il suicidio di mio fratello, che si era sparato un colpo di fucile in gola a vent'anni
durante il servizio militare, protetto da litri di grappa in una squallida garitta, era scivolato
via indenne. Speravo di non accasciarmi proprio ora sulla morte di quell'uomo, volevo
trattenermi dal chiederle come e perché fosse successo, se avesse sofferto, con che abiti
lo avevano vestito, che fine avesse fatto sua madre. E se i professori dell'orchestra fossero
stati avvertiti e avessero partecipato al funerale. E in chiesa? Qualcuno aveva suonato in
chiesa? Lei stessa avrebbe potuto accompagnare la funzione religiosa, con gli anziani
colleghi.
«Accusavo suo padre di non accettare la resa emotiva, Lucrezia. Mi accorsi più tardi che
in realtà, a non volere soccombere, ero io. Facevo tentativi, spesso abortiti, di andarmene
da lui. Fino al giorno in cui c'ero riuscita. Per una ragione che mi pareva abbastanza nobile
per essere sopportata da un cuore pieno d'amore.»
Aveva conservato anche quelle, Gabriella. Titolo del mazzo: «Distacchi».
Stamattina camminavo in centro, una passeggiata fino al teatro. Era presto, le piccole vie
erano quasi deserte. Niente signore eleganti, solo bambini che correvano a frotte verso il
portone della scuola. Colorati e con la faccia ingombra di sonno. Mi chiedevo come avrei
fatto a sopportare l'arrivo della primavera. Non riesco a venire a patti con me stessa.
Allora me ne vado, incapace di intestare questa lettera. Non so chiamarti amico. Fuggi da
qualsiasi definizione. Mi ribello a te usando giri di parole e idiomi di stridente chiarezza.
Sono i momenti in cui le nostre diversità si palesano con evidenza rabbiosa. Io detesto i
tuoi mutismi. Tu, i miei appelli. Vorresti che tutto rimanesse sottinteso, sepolto da
chiacchiere nebbiose e ogni volta che ti metto di fronte all'inconsistenza del tuo linguaggio
tremi e ti rabbui. Cambi faccia, mantenendo inalterato solo l'incarnato pallido ed esangue.
Disserti di amore platonico, lo suggerisci come possibile svolta a una passione che ti ostini
a non riconoscere. E io, visionaria e solitaria, non trovo altra strada che quella di
andarmene dall'androne del portone buio che ha ospitato il nostro ultimo duello verbale. Mi
umili e non voglio più provare una simile sensazione di sconfitta. Perché questo mi fa
detestare persino l'aria che respiri. Aspetti giorni prima di esprimere anche un'idea
semplice, fino a che non esibisci per l'ennesima volta la tua diversità. Non ho più incanti. E
mi sento offesa. «Soffri di complessi di tesa maestà», dici. «Hai di me
un'immagine irreale», incalzi. «E tu rifiuti di ammettere che di me hai bisogno.» Un
ritornello. Preferisco vederlo morire, questa specie di amore, piuttosto che lasciarlo
vivacchiare come un omino storpio nascosto al mondo. Gli tolgo il respiratore. E non ho più
ossigeno. Taci. E
acconsenti. A lasciarti trascinare dalle cose. Ascolto un'incisione di Antonio Guarnieri,
gracchia e ha una sua austera levità. Lascia intravedere l'epoca scomparsa di un teatro
abitato da rigidi signori in nero e donne impeccabili, in severi e maliziosi abiti da sera, i
cocchieri ad attenderli nella piazzetta dinanzi alla facciata. Gente annoiata ed estasiata da
suoni eterni che tu interpreti inconsapevole e leggiadro, incurante del sangue che vi è
stato profuso. Sei anemico. Mi chiedo quando finirà questo strazio. È un passaggio
obbligato, un tunnel di cui non intravedo la fine. Non mi ribello più, mi ci oppongo quel
tanto che basta per sopravvivere pubblicamente. Mi soccorrono le faccende di casa: è
sabato e ho deciso di non lavorare.
Giornata strana, quella di oggi, abbagliante di sole e di cui non sei stato l'unico
protagonista. Ho accompagnato un'amica dal dottore; ho visto il suo ventre bianco di latte
disteso sul lettino, i fianchi di un corpo che conoscevo asciugato dalla danza, leggermente
arrotondati. L'ho amata come non ho mai amato una donna. Era bella, nella sua virginea
nudità di artista prestata dalla vita alla vita.
Terminata la visita a quel desiderato e desiderante inquilino, è venuta verso di me, nuda e
inesperta, gli occhi umidi di commozione. L'ho abbracciata e abbiamo pianto, complici e
felici di quell'unione di anime che per pochi at-timi ci ha fatto credere che si può anche
essere felici della felicità altrui. Parli di amore platonico e di un desiderio che nasce solo al
centro del petto, senza accorgerti che amore e desiderio so-no semplicemente quello. Non
mi manchi oggi, all'indomani dell'ennesima violenza che impongo a questa storia senza
impalcature. Prendo una pastiglia e vorrei annegarci dentro. Ver addomesticarmi. E tirare
sera senza che intorno nulla cambi: il rapporto con i bambini, con mio marito, con le carte
da sbrigare che mi aspettano in ufficio. Tutto bene, amore. I nostri bambini mangiano,
ridono, crescono, proseguono la loro lenta corsa verso l'età adulta. Giorno dopo giorno
edifichi il tuo matrimonio nella solidità dell'indifferenza, lo, il corpo estraneo, sono fuori. Le
nostre anime vagano per la città, si rincorrono e si respingono.
Vanno tutto loro. E ora l'esercizio a cui mi sono allenata per mesi: evitarti, non chiamarti,
non vederti, nascondermi ai tuoi occhi perché tu non legga nei miei quanto mi manchi,
quanto ho bisogno del tuo amore. Non piango neanche più. È tutto chiuso dentro insieme a
una tristezza che sembra non avere mai fine. Ma è questo l'amore? Ditemelo voi, per
favore. «Essere adulti è essere soli», enunciava Ro-stand. Ma io non voglio essere adulta.
Voglio essere amata.
Dici che vuoi essermi amico, ma tu sai esserlo? Balzac scriveva che «quello che rende
indissolubili le amicizie e ne raddoppia l'incantesimo è un sentimento che manca all'amore:
la sicurezza». Io non ho nemmeno quella. Voglio guarire e obbligare le nostre solitudini a
non sorreggersi più. Mi accusi di non sapere stare sola. Ma io so stare sola.
È senza di te che non so stare. Tu, che alberghi nell'isolamento come un pesce nuota nella
sua acqua di luce, non ammetti la mia ribellione. Non vuoi che io viva la passione perché
con la mia risveglio la tua. Che giace sottesa e acquattata nel tuo animo e non vuole
saperne di rivelarsi a te.
Voglio non esserci più il giorno in cui te ne accorgerai. Voglio non vederti più, non salutarti
se ti incontro, voglio andare contro la tua ragione. Devo domare i miei istinti. Non posso
più ascoltare musica, né leggere libri perché ogni no-ta, ogni frase, sono pura e dolorosa
evocazione. E le canzonette non mi piacciono.
C.
«Altre volte intuivo con precisione il suo abbassamento di morale, "il calo ipoglicemico",
come lo chiamavo io. Lo guardavo negli occhi e capivo che stava male. Allora gli scrivevo
lettere al miele che portava con sé, consolatorie. Gli bastava toccare la busta, nella tasca
della giacca, per sentirsi subito meglio. Eccone una, Lucrezia.»
Amore,
la nostra «terza via» esiste. Anche se talvolta è invisibile anche ai nostri cuori. Perché non
vi si accede via cavo, né via etere, né per le vie brevi. È la via interiore, quella che lega due
persone anche se non si vedono, non si sentono, non si toccano. È una via piena di luce, di
pensieri e idee. È una via che ha il potere di cancellare l'ansia. E che deve e può dare
sollievo quando ci si sente tristi, magari un po' soli. E
si ha voglia di abbracciarsi, perdendosi l'uno nell'altro. Forse è una via d'amore. Questa via
trasparente, tra me e te, esiste. Io ne sono certa. La nostra strada invisibile è ricca e
feconda. Nessuno potrà mai privartene. Nessuno potrà mai farlo con me. Lì ci siamo tu e
io. E non diamo fastidio a nessuno. E una via di luce, dove il tempo non esiste. Perché il
tempo interiore non ha confini. E non subisce censure. Non immaginarti conteso: da un
lato ci sono io, dall'altro la tua famiglia. Io abito la tua strada invisibile. Se noi ci siamo
trovati dopo mesi in cui ci eravamo solo intravisti, significa che le nostre anime, i nostri
cuori e i nostri corpi avevano bisogno di incontrarsi. Anche se da un lato ci sono le
responsabilità della vita, noi non dobbiamo cancellare la nostra
«via». Stare insieme fa bene. A tutti e due. Ho voglia di raccontarti il mio viaggio. Appena
puoi trova un'ora, io mi libero e ti porto a vedere un angolo che ti piacerà.
C.
«Mi illudevo e lo illudevo, Lucrezia. In realtà non dimoravano, in noi, i cromosomi degli
amanti. Lo abbiamo ammesso con ritardo. E queste lettere erano miraggi di un rapporto
impossibile. Il nostro punto di contatto interiore era invisibile. Ci univa l'emarginazione
vissuta da bambini. Cercavamo i nostri simili, per sopravvivere al deserto esistenziale
degli adulti.
«Sa, io non ho mai visto i miei bambini nascere. Li ho trovati tra le mie braccia soffici e
puliti al risveglio, quando una fitta lancinante segnalava al cervello che ero ancora viva,
dopo quell'ora passata senza che il cuore lasciasse avvertire il suo battito, mentre Mattia e
Carolina venivano al mondo. Il dolore acuto che provavo ogni volta che lui se ne andava o
quando in un imperio ribelle lo lasciavo, rievocava, almeno idealmente, quel preciso
momento. Suo padre trovava luce nel suono del violoncello. Io accumulavo cornici sui muri
di casa.»
«Pensa davvero che mia madre non si sia accorta di nulla, signora?»
«Suo padre non ne ha mai parlato. E, come può immaginare, a me non è costato nulla
sorvolare sull'argomento. Ripeteva alla nausea che, se ci fossimo incontrati anni prima, le
nostre vite avrebbero imboccato strade diverse. Nonostante questa certezza non ha mai
voluto intervenire sul lento scorrere del tempo, né è stato capace di orientarlo verso di noi.
Passivo, faceva in modo che fossero gli altri a decidere della sua vita, fingendo di
accogliere con rassegnazione una sorta di destino ineluttabile e malfermo. Ero sempre io a
lasciarlo, a prendere per entrambi la decisione di non vederlo più. Chi teme l'abbandono
impegna la sua vita ad andarsene anzi-tempo. Accadeva dopo i momenti più felici. Senza
piani organizzati scattava il piano di fuga. Sapevo che la clandestinità di quell'amore era
come un acido corrosivo, ma vivere senza di lui era quanto di più penoso conoscessi.
«Mi accadeva di incrociarlo per la strada, non ci salutava-mo neppure. Un mattino, era
inverno, suo padre camminava sul marciapiede opposto al mio. Ci dividevano pochi metri
ingabbiati dalle automobili. Mi era bastato il suo sguardo per sentire l'istantanea necessità
di svenire. Avrei dovuto nascere nel Settecento, Lucrezia, a quell'epoca per le donne
perdere i sensi era un dovere. Oltre che un ottimo stratagemma per non dare spiegazioni.
La psicoanalista ha impiegato tempo a liberarmi dal paradiso immaginario in cui
rinchiudevo le mie storie d'amore. Insistevo a spiegarle che senza "quelle" vibra-zioni non
valeva la pena vivere. Ognuno continuava a camminare sul proprio marciapiede. Fino a
quando, dopo mesi abitati dal nulla, ho ricevuto un telegramma.»
«Da lui? E cosa le aveva scritto? Lo ha conservato, signora?»
«Oh, chissà dov'è finito! Non ho nessun souvenir del suo caro padre da regalarle. Mi
colpirono le sue parole, non era da lui usare quel linguaggio. Aveva scritto, sinteticamente,
"senza ossigeno si muore". E la sua firma. Non conoscevo altri uomini con quel nome. Non
sentivo la sua voce da mesi.
E non desideravo ascoltare che quella tonalità. Non lo chiamai per qualche giorno.
L'assenza ci apparteneva come un'in-sana abitudine. La sua immagine si era impressa
come un fermo fotogramma nel mio cervello, negli occhi, sulle mani, ma lo scorrere delle
settimane aveva dissolto i contorni del suo volto, mitigato le punte aguzze del dolore che
era divenuto, a poco a poco, monotono e uniforme. Piatto. Atonale. Coabitavo, rassegnata,
con la nostalgia. Solo la musica evocava in me la sua bellezza, intatta, e i capelli neri, folti,
spessi. Che ricordavo sparsi sulla federa bianca del cuscino come cespugli nei quali
incespicavo con piccole dita infantili. Era irriconoscibile, quell'estate in cui li aveva tagliati
come a voler rispondere con un insolente segno di ribellione alle sue noiose abitudini
estetiche. Il pensiero di lui dimorava in me, come un film senza colori. Per sopravvivere
seguivo un metodo: dare alle giornate un ritmo regolare, senza concedermi distrazioni.
Non cercavo in alcun modo di incontrarlo. Quella firma sul telegramma mi aveva saziata
per qualche giorno. La felicità era sapere che non mi aveva dimenticata. L'idea di parlare
con lui mi toglieva il respiro. Rimandai, fino a che non lo rividi.
Per caso. O perché era arrivato il momento.»
Sono passati più di trent'anni, Gabriella, ma la presenza di Lucrezia sembrava avere
estinto le prescrizioni del tempo.
Che, ragionevole, impone di smarrire la memoria con una certa urgenza.
«Non pensavo si potesse amare con tale intensità, signora. Quando ho trovato la scatola
nascosta fra i libri di mio padre, ho provato per lei un odio feroce. Ho avuto l'impressione
che non fosse stata lasciata lì per caso. Lei, per me, era una consonante che aveva preso il
posto di mia madre nel suo cuore. I figli non si chiedono mai se tra i genitori c'è amore e
spesso si prova un reale fastidio nell'immaginarli innamorati. Davanti a quelle lettere la sua
morte mi è sembrata ancora più ingiusta. Non ne ho fatto parola con mia sorella, che non
avrebbe condiviso la mia decisione di scriverle. Arrivando qui temevo il suo rifiuto, ma ora
prosegua, la prego. Conoscere la vostra storia, sentirla raccontare di lui, mi aiuta a dare
un senso alla sua assenza.»
Mentre parlava senza riuscire tuttavia a imbrogliarmi con innaturale disinvoltura,
arrotolava una ciocca di capelli intorno all'indice. Gliene ho contato qualcuno bianco, che
creava un felice punto di disordine in quella testa forte e intelligente. Avevamo fatto
irruzione nelle vite l'una dell'altra e non sapevamo più come rimediare.
Per me questa giovane donna è stata un dono, Gabriella.
Puoi capirmi? Mi aveva spesso parlato delle sue figlie, come può farlo un padre. La scuola,
i loro progressi di bambine, il suo amore per loro, i piccoli problemi di tutti i giorni, così,
senza profondità. Diligente e inappuntabile. Come un manua-le per genitori che hanno
bisogno di sentirsi perfetti. Per cela-re a se stessi le proprie imperfezioni. Ci piaceva
raccontare le imprese dei nostri bambini. Un giorno mi disse che avrebbe voluto una
mamma come me. Incauto, il ragazzo. In un confronto con Mattia e Carolina avrebbe senza
dubbio cambiato idea. Quell'importuna mi coinvolgeva come mai avrei potuto immaginare,
imbrigliandomi in un sentimento che oscillava tra l'ammirazione e il timore. Le maniche del
maglione scendeva-no capricciose a coprirmi le mani, in un gesto di istintiva protezione.
Sedute l'una accanto all'altra, Lucrezia e io ci siamo sintonizzate su un metro e novanta di
ricordi.
«Era pomeriggio. Una prova di assestamento, poco prima di un concerto. Sedeva in un
palco, solo. Lo intravidi dalla platea. Lo raggiunsi senza riflettere. Intorno a noi tutto era
calmo. Il destino aveva programmato la sua sceneggiatura con dovizia. Eseguivano il
primo movimento della Terza di Brahms, una sinfonia che pochi direttori hanno in
repertorio per via del finale sussurrato, indefinito, invisibile, etereo. Un finale che non
invita all'applauso. In quel momento il direttore e quei cento e più professori d'orchestra mi
apparvero come eleganti e incolori comparse delle mie vaghezze ro-mantiche. Quelle che
ho sempre approntato con cura riuscendo persino a interpretarne brevi sequenze in
appassionanti film-verità. Mi sedetti sulla poltrona di velluto rosso di quel piccolo palco di
terzo settore, gli strinsi i polsi con garbata dolcezza, guardandolo dritto negli occhi.
Cercava una risposta al mio sguardo trafelato, ma in quelle condizioni non riuscì a
pronunciare nemmeno il più formale dei saluti. Ec-co, Lucrezia, è andata così.»
«E poi? Che è successo, dopo?»
«Abbiamo cominciato nuovamente a frequentarci con le stesse modalità, con la medesima
intensità. Facevamo l'amore per provare a noi stessi che la nostra armonia non era
artificiale. Le prime volte era davvero ridicolo e tenero l'imbarazzo di entrambi! Parlare
avrebbe significato interrompere quella fragile intimità ritrovata.»
«Come era mio padre a letto?»
Gabriella, quella ragazza dimostrava coraggio. L'immagine dei genitori che fanno l'amore
è fastidiosa e mette i figli nella penosa condizione di doverli considerare esseri umani
come altri. Gente che talvolta si ama. Lei mi chiedeva, e senza mostrare il minimo
turbamento, di descriverle come si comportava con me suo padre a letto. Con una donna
diversa da sua madre, capisci? Davanti a lei, la mia spregiudicatezza sbiadiva. Il punto era
che non ricordavo affatto come fosse suo padre a letto. E poi come si risponde a una
domanda così? Con un aggettivo? Che so, «brioso», «cupo»,
«artigianale», «fantasioso», «arioso», «professionale»?
Non avevo dimenticato, invece, come mi sentissi trasparente e senza difese quando
desideravo che mi tenesse tra le sue braccia.
«C'erano giorni, Lucrezia, in cui volevo solo spogliarlo.
Non mi interessava altro. Potevamo trovarci in un bar per un rapido caffè, in strada, in un
palco del teatro ad ascoltare musica. Tutto ciò che desideravo si comprimeva nella voglia
di privarlo di ogni indumento. Con esasperante lentezza oppure con strappi decisi. Suo
padre non aveva un bel corpo, inteso come muscoloso e compatto. Il suo corpo era
liquido.
Si adattava con disciplina alle superfici sulle quali poggiava.
Portava i suoi bellissimi polsi con riluttante eleganza e io adoravo le sue lunghe gambe.
Sono arrivata a settantatré anni senza poter tenere una lezione di sessuologia nemmeno
alla più inesperta delle adolescenti! Dopo la prima volta gli avevo scritto una lettera. E
dopo la seconda. E la terza. Quasi a voler fermare nel suo cuore e nelle sue cellule la
meraviglia di ogni nostro incontro.
«Fare l'amore era un fatto incidentale, per noi. Ma ci desideravamo sempre. Non c'era mai
bisogno di riannodare i fili. Anche se stavamo mesi senza sfiorarci. Eravamo fisicamente come dire - compatibili. Due metà che quando si in-contravano si fondevano. E
diventavano una.»
Non mi era più successo, Gabriella. Nemmeno con Thierry. L'amore dell'età adulta. Ho
riletto quelle lettere di nascosto, approfittando dell'assenza di Lucrezia che si era chiusa
nel mio studio per fare qualche nota. Si era ricomposto in me il pudore che da vecchi
riesce a soffocare la naturalezza anche nelle persone più sfrontate. Col pensiero gli
accarezzavo i peli scuri e morbidi intorno ai capezzoli, rivede-vo la pelle bianca e
macchiata da minuscole lentiggini rade color caffelatte, mentre il suono tondo del
violoncello di sua figlia mi accompagnava con la malinconia sottile della musica di
Debussy. Le lettere erano nella scatola. Lise dalle sue mani. Capitolo «Noi».
Professore,
non ho mai scritto né provato a raccontare una notte d'amore. La timidezza seleziona per
me la scelta delle parole.
Non posso scrivere di sesso, non ne conosco il vocabolario.
In questa prima notte insieme, un manipolo di ore, minuti, molecole di secondi, ci siamo
messi a nudo l'uno per l'altra.
Sei entrato nella stanza con quel passo felpato e prudente che ho imparato a conoscere in
questi mesi. Mi piace il tuo modo di entrare nelle stanze. È guardingo. Quasi che tu abbia
paura di arrecare disturbo. Io invado gli spazi.
Tu, no. Forse avevi un padre che ti esortava a fare piano.
Perché sei alto e ingombrante. Non appena sei entrato il nostro timore si è sciolto in un
sorriso. Ti sei sdraiato sul letto e ti ho spogliato con l'ingordigia di una bambina. La polo
blu, una t-shirt bianca come la tua pelle, una cintura elegante in coccodrillo marrone. Ho
perso i dettagli per tuffarmi su quel corpo conosciuto da mille anni. Per baciarlo con la
perizia e la lentezza con cui si sfiora una tovaglia di fiandra in una casa di campagna.
Sentivo il tuo profumo. E tutto era familiare. Avevo paura di perdere quella possibilità
attesa da mesi. Prolungarla diventava un'acrobazia impossibile. Ho amato subito il tuo
petto sottile, ho guardato di sottecchi quei polsi che mi hanno fatto sognare per settimane.
Mi sono persa su di te, ho toccato e baciato il tuo sesso per la prima volta. E ti ho sentito
indifeso. Giovane. Hai un corpo accondiscendente. Spartano. Era asciugato dall'attesa e
pronto a offrirsi con semplicità. I corpi di una donna e di un uomo, così scompostamente
diversi, ma pure armoniosi, stavano accoccolati l'uno sull'altro. Le nostre mani cercavano
la conoscenza. Le nostre bocche succhiavano il bene. Di quella notte sento ancora il
profumo. Il tuo era come quello di un albero di bosco. Intenso, quello del tuo sesso. Un
sesso dolce, non aggressivo, amichevole e avvolgente, che penetrava con arguzia alla
ricerca di un luogo concavo e caldo nel quale perdersi. Per trovare sollievo. L'eccitazione
era un fatto mentale. Non volevo che tu mi prendessi prima del tempo: prolungare
quell'esplorazione infinita mi dava piacere. «Hai la pelle calda.» Chissà perché l'hai detto.
Avevi gli occhi dilatati dalla grazia. E la mia bocca si muoveva con la natura addosso.
Ti stavo sopra. Minuta e sottile, magra e delicata. Come la mia anima. Che si impossessa
lentamente di un piacere sconosciuto e trova tra le tue braccia il confine sottile e
impercettibile dell'abbandono. E lo afferra d'improvviso.
Ho perso il mio corpo per consegnarlo a te infinite volte, trovando estasi duratura e
continua, prolungandola con la naturale esperienza di chi, per passione, l'ha «fatto» poche
volte. Non ho mai imparato a fare l'amore. Non me lo ha insegnato nessuno. Stare lì con te,
averti in me, era qualcosa di ancestrale e antico. Ti parlavo con i muscoli e i nervi, ti
guardavo specchiandomi come Narciso nell'acqua sorgi-va. Ho voluto abbeverarmi alla
tua fonte, in quella bocca che dici di amare.
Era come se tutto dovesse continuare per sempre. Il mio corpo temeva fosse l'unica volta.
Presentiva, forse, il pianto squassante del giorno dopo. E mi chiedeva di amarti con
un'intensità mai provata prima. Per imprimere su quelle cellule un'emozione che voleva
incancellabile. Più che il piacere ho in me l'intenso sapore di te, che ora, a distanza di
giorni, è solo un momento sospeso. Il tempo, nemico feroce, compie ogni giorno lo stesso,
identico sbaglio: passa.
E nessuno di noi sa come sarà domani. Cosa sarà il nostro desiderio, domani? Lascerai
che i nostri corpi così dissimili e perfetti l'uno per l'altro si incontrino di nuovo? Sarà allora
altro da quella notte. Ora siamo pronti. Eccitare un uomo è un espediente della fantasia. E
come dare alimento a un bambino. Non ti ho mai smarrito neanche per un secondo, quella
notte. Desideravo prenderti dentro di me per farti dono di me. Non ci siamo sedotti. Solo
donati piacere, pace. Anime solitarie racchiuse in corpi ancora giovani che si sono unite in
una notte senza nome e senza data. In un letto piccolo e poco confortevole. Ti rivedrò e
saremo diversi. Perché quella notte si è incisa sulla nostra pelle regalando un piacere, che
non riesco a prolungare.
Come il tuo orgasmo nella mia bocca, incavo di gioia e di dolore. Che per una notte ha
trovato tregua. Abbracciato all'infinito. Ti amo
C.
Ieri abbiamo fatto l'amore. Ho temuto per tutto il concerto che non avresti trovato una
buona scusa. Sei salito in camera per portarmi il regalo di compleanno. Avevi tenuto quel
pacchetto in valigia fino a notte. Ti sei fatto più vicino e mi hai baciato le spalle lasciate
nude dall'incuranza di quel vestito minimale comprato qualche anno prima. Appoggiavi le
labbra senza muoverti dando a quel tocco leggero il sapore della tua esitazione interiore.
Ti offrivo la mia nuca, seguivo l'onda calda delle tue labbra e ne assecondavo il movimento.
Mi sono girata e ti ho preso il volto tra le mani, iniziando a baciarti dalla fronte. Eri
precario. Gli occhi avevano l'obbligo di assentire, per non perdersi di vista. C'era levità
nell'aria e noi non sapevamo sorridere. Sei incespicato con le dita lungo la cerniera
dell'abito. Il mio corpo debuttava di fronte a te. Abbronzata e felice ti sbottonavo la camicia
con esasperante lentezza. I bottoni dei polsini già slacciati mi facilitava-no il compito. Non
ho mai saputo togliere una camicia con eleganza e non ho mai amato le canottiere, uno dei
rari istanti conservati di mio padre, a letto con mia madre, quando mi accecava con
ineleganti canottiere di cotone bianco. Ti ho sdraiato sul letto, le lunghe gambe
saldamente ancorate a terra. La tua solidità difensiva e una piccola donna a cavalcioni su
di te. Ti imprigionavo nelle carezze. Ti ho baciato il palmo della mano, chiudendoti gli occhi
come si fa con i bambini per indurli a dormire. Mi lasciavi fare, acquietando la mia voglia di
possesso. Ti piaceva quell'albergo perché aveva la spartana neutralità degli incontri
provvisori.
Amore, la consuetudine di un corpo non si avverte con il tempo o con la pratica. Il tuo era
così disponibile, egoista e infantile da richiamare il dono di sé. Le tue mani valicava-no la
soglia del conformismo che avevi loro imposto fino a quel momento. Giocavamo con i corpi
di un uomo e di una donna che avevano censurato il loro desiderio per mesi.
Senza capire che la negazione lo accentua: che scemi, a non averci pensato prima.
«Ti voglio.» L'hai detto in un soffio, ma mi hai accarezzata all'infinito, quella notte non c'era
fretta. Ci siamo sdebitati per la troppa assenza. Il dopo è un tranello teso verso la banalità.
Non ci siamo cascati. E per questo ti amo.
C
Terzo movimento
domenica
Il suono si udiva flebile, mentre sussurrava miele agli alberi ancora infagottati nella neve
che aveva interrotto la sua lenta discesa sul terreno. Graziata da quella musica, un
Preludio di Bach, esercizio difficile anche per mani dalle dita veloci co-me le sue.
Sembrava cercare melodie perdute e la musica sorgeva dallo strumento come un figlio
nasce dalla madre. La spiavo dalle finestre del salone dove si esercitava strigliando con
dolcezza le corde del suo violoncello. Mi sono dissetata a quella melodia senza avere il
coraggio di interromperla, nel timore di infrangere il chiarore che emanava dalla sua figura
snella protesa in avanti in una concentrazione che la isolava, temeraria e sfuggente, dal
resto del mondo. Ho atteso che quelle geometriche note si stemperassero, docili, che lei
poggiasse a terra l'archetto tenuto fino a pochi istanti prima fra le mani come oggetto di
insostituibile possesso. Le sono andata incontro fingendo di essere arrivata in quel
momento.
«Sono stata in paese a fare delle spese, ma la prego continui a esercitarsi, Lucrezia,
mentre io preparo la colazione.
Staremo comode in veranda. Le ho comprato dei croissant, una deliziosa marmellata di
pesche e del succo d'arancia.»
Avrei dovuto riprendere il racconto dove lo avevo lasciato la sera, Gabriella. Le mie parole
si erano incagliate sulla passione e ora chiedevano spazio per l'evocazione del male.
Il cibo mi aiutava a parlarne con il dovuto distacco. Sorseggiancìo il caffè, ho iniziato a
raccontare con tono distratto e approssimativo.
«Qualche mese dopo la pace è iniziata la malattia.»
«Quale? Chi si è ammalato?»
Il Concerto per pianoforte e orchestra di Brahms risuona-va in veranda, inondando l'aria di
sontuosa poesia. Quella parola l'aveva scossa dalla pigrizia in cui era affondata dopo lo
studio, appagata per avere allenato le sue corde a dovere.
Credevo ne avesse abbastanza di me e di lui, ma con mia sorpresa mi ha esortata a
continuare. Quel dialogo proseguiva a senso unico, forse avrei dovuto fare io delle
domande, ma la sua discrezione allontanava ogni possibile indagine. Preferivo fosse lei a
cercare la mia confidenza. Il caffè fumava ancora davanti al mio naso e sentire la mia voce
ripetere quella parola mi ha regalato il primo sorriso della giornata.
«Suo padre provava lo stesso fastidio che manifesta lei nei confronti della parola
"malattia", Lucrezia. Mi vietò di pronunciarla e dovetti sostituirla con blandi sinonimi.
Come malessere, malanno, disturbo, acciacco. Invece era una menomazione. Me ne
accorsi dopo qualche mese. Ancora una volta avevo toccato l'argomento con una lettera.»
Amore,
vorrei essere capace di farmi anticipare dalle parole. Stare nascosta dietro le loro spalle e
osservarle mentre corrono solitarie verso il foglio a comporre questi scampoli di pensiero.
Che arrivano fino a te. Potrei intitolare questa lettera con una parola che è rimasta in esilio
dal nostro vocabolario. Futuro. Nelle quarantotto ore passate a letto con l'influenza si è
insinuata nel mio cervello. Illecita.
Inusuale. Fastidiosa. La ascoltavo girare in circolo e poi tornava, breve e secca, al punto
da cui era partita. Sei lettere impacciate. Lettere semplici, indelicate, puerili: futuro. Sei
lettere, come tesoro, gioire, valore. Anche Brahms ha sei lettere. Come Mozart. Come te.
Per rincuorarmi sfoglio epistolari celebri, le lettere che Wagner scrisse a Mathilde o quelle
di Stendhal alle sue amanti, o ancora quelle - grondanti efferate tenerezze - che si
scambiarono George Sand e Alfred de Musset. Tu non rispondi mai.
Scrivo monologhi. Leggendo i grandi, do una giustifica-zione alle mie amplificazioni
epistolari. E tu? Dove con-servi tutta questa carta? Non mi sento padrona del mio destino,
mentre tu abiti le tue abitudini. E io non lo sono ancora diventata.
Guardo con timore al domani, non ho ricette o soluzioni da proporre. Inseguo l'ambizione
di un percorso naturale che conduca il filo del tuo pensiero fino a una «scelta».
Non voglio essere solo amata. Ora voglio essere preferita.
Tu pensi alla tua spalla, che da due settimane avvelena anche le note più tenui del tuo
violoncello: mi racconti di un male sottile, che hai spiegato all'ortopedico arricchendolo di
particolari e con la segreta speranza che quello sforzo di chiarezza ti possa aiutare a stare
meglio. Racconti di un male stupidamente normale, che imprime una persistente
sensazione di fastidio al tuo corpo. «Non è proprio un dolore», borbotti, «ma l'embrione di
un dolore.» Non parli d'altro e io ti accompagno dal dottore in un passivo pellegrinaggio
alla ricerca della beatitudine scomparsa. Sei ombroso e antipatico con chiunque ti
avvicini, per colpa di una spalla. «Perché proprio lei?» chiedi in un ossessionante
ritornello. Come sei eccentrico. La spalla è il tuo strumento di lavoro, no? Da quel punto
preciso del corpo (ti ho mai detto che le tue braccia sono bellissime?) nasce l'arte.
Esagerata. Da lì si dirama la possibilità fisica del tuo esistere musicale. Così va meglio.
Come posso parlarti del nostro futuro mentre tu ascolti i tendini nel tentativo di domare un
fastidio che rovina la tua gioia di fare musica?
Vedrai, il prossimo specialista troverà una soluzione atta a risanare l'augusto braccio.
Tento di prendere le distanze dal mio melodramma interiore e rifletto sui giorni che
verranno.
Potremmo prolungare il nostro incontro affastellando atti-mi, caffè, rincorse. Senza una
meta precisa. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra. Solo quando coincide, la necessità si
traduce in timida felicità. Siamo vittime di un'irresistibile attrazione dominata
dall'irrazionalità, ogni volta che proviamo a rinchiuderla in una definizione si sente in
gabbia e noi creiamo disordine. Non sono adatta a vivere una storia nascosta, la ragione
del mio malessere è questa. Mia madre ha sopportato senza fiatare le numerose amanti di
mio padre, non che me ne importi granché, ma questa istintiva diffidenza nei confronti
della clandestinità potrebbe forse nascere da quell'apparizione rimossa. Non amo
nascondermi. Se non agli occhi di chi mi fa paura. L'amore segreto è l'amore che non c'è.
Incontrarti e non poterti amare è come non esistere più. E negare il mio essere nel mondo.
Lo sto facendo da troppi mesi, trovando il mio essere fisico nella famiglia, con il lavoro, gli
amici. Penso a noi come a una coppia. Mi chiedo come sarebbe un futuro insieme. Anche
una tappa: tre anni, cinque, dieci. L'argomento è scabroso.
Meglio rimandare. E andare dall'ortopedico. L'amore continua ad apparirmi come l'unica
terapia escogitata negli ultimi millenni per guarire gli uomini da ogni disturbo. Primo fra
tutti, quello di esistere. E io ti amo, confusa.
C.
Amore,
eccomi a te, dopo una giornata frenetica e nervosa. Non so-no riuscita a placare la tua
ansia nemmeno oggi, adorato Professore. Ci provo con questo biglietto che raggiungerà il
tuo leggio in tempo utile per la prova di questa sera. L'ultima prima della pausa forzata.
Avere a che fare col materialismo dei dottori è la definitiva conferma che le loro diagnosi
ignorano l'anima. «Non deve suonare per due settimane.» L'ordine è stato perentorio,
assoluto. Vibrava indignazione. «Tratti se stesso come un malato», ha detto, stringendoti
la mano con irritante complicità. Lo so che tu non vuoi essere malato. Ma ti prego,
ascoltiamolo. Domani ci facciamo un regalo: quanti anni sono che non vai al cinema nel
pomeriggio? Vorrei essere la tua spalla. E dolerti con amore.
C.
«Queste e altre lettere, Lucrezia, hanno accompagnato un calvario durato mesi. Suo padre
trascorreva più ore a casa, leggeva, riceveva gli amici, innaffiava le piante, cucinava
deliziose torte di frutta. Faceva tutto "a metà", utilizzando la parte sana del suo corpo. Mi
confidava di avere recuperato il piacere di giocare con voi. Il violoncello restava
appoggiato in un angolo dello studio, muto e prigioniero della sua custodia scura. Teneva
compagnia alle decine di libri che si accumulavano sugli scaffali. Suo padre aveva
finalmente trovato l'occasione di catalogare gli spartiti stampandovi sul frontespizio l'ex
libris che gli avevo regalato, il disegno di un violoncello accanto al suo nome.
«La sua malattia ci dava la possibilità di vederci più spesso. Era tenero come un bambino
imbronciato, fragile e a tratti furioso come un dio ai miei occhi. Andavamo al cinema,
facevamo lunghe passeggiate, lo accompagnavo dal fisiatra; come due studenti
universitari in vacanza, frequentavamo chiese e musei, ignorati fino a quel momento.
Anche lì, nelle sale ovattate della Galleria d'Arte Moderna o davanti all'austerità di una
chiesa romanica, la nostra diversità si manifestava in corroboranti litigate. Di fronte alla
bellezza non so tacere. Lui sceglieva pause contemplative. La nostra condizione di amanti
era, almeno all'apparenza, meno drammatica. Ci pensavo spesso. Lui rivolgeva
un'ossessiva attenzione al decorso della malattia. Non suonare lo immalinconiva e io
evitavo di parlare di musica. Per lui lo strumento definiva la sicurezza. Era il ritrovo dalla
tristezza, lo sbocco della rabbia, l'impegno quotidiano, il dialogo con se stesso. Non era un
rapporto d'amore. Delineava piuttosto il contatto fisico, tattile, con il sé più profondo. Di
voi musicisti ho sempre invidiato la miracolosa capacità di concentrazione, la dedizione
assoluta per lo studio, l'aspetto ascetico della professione.
Davanti a quei nobili e misteriosi pezzi di carta sui quali esercitate corpo e anima anche
solo per operare invisibili rifini-ture, apparite agli occhi del profano come figure lontane.
Inaccessibili. Privilegiate, per chi non comprende il vostro linguaggio segreto. È da quei
minuscoli segni neri impaginati con dovizia matematica che nascono suoni in grado di
emozionarci. Gli artisti sono come bambini costretti a invecchiare presto, non crede? La
disciplina ruba tempo alle distrazioni infantili.»
«Mio padre non mi ha mai parlato del suo male.» «Era piccola, Lucrezia. Quel malessere
alla spalla è durato pochi mesi. Anche se è stato un intervallo tra un atto e l'altro. Tra la
passione e la partenza finale. Più io mi interrogavo sul nostro futuro, più il suo tormento
diveniva intenso. La sua lontananza da me era tangibile, lacerante. Ho capito la sua
disperazione un giorno, in treno, di ritorno da Parma.
Ascoltava in cuffia un brano del concerto che avrebbe dovuto suonare di lì a una
settimana, lo spartito appoggiato sulle ginocchia.»
he dita non mi seguono più, ho perso la sensazione tattile.
«Non vedeva con la mente i punti dove avrebbe poggiato le dita. Guardava le note e le
sentiva lontane, assenti.
Capisce? Avvertiva un senso di vertigine, di nulla. Si sentiva impotente. La sua insicurezza
si coagulava nella mancanza di percezione. Che gli appariva, in quel momento, definitiva.
«Da quel giorno aveva iniziato a non rispettare più le istruzioni del medico: suonava di
nascosto da tutti, non più di mezz'ora al giorno, guardando ossessivamente l'orologio.
Per non peccare. Lo scorgevo, a volte, mentre inclinava la testa sul lato della spalla
dolente e stava in silenzio, quasi a voler percepire i movimenti di un clandestino che si era
abusivamente introdotto nel suo corpo. Appoggiava l'orecchio sulla spalla e mi parlava del
suo male.
«Ascolta, diceva, e io fingevo di capire. Ero inaccessibile e lontana, contavo i giorni che ci
separavano dall'addio. Sapevamo entrambi che la nostra storia stava finendo. Non potevo
consolarlo. Ero bloccata, intristita, perdevo energie. E
peso. Addestravo il mio spirito nel tentativo di domare l'angoscia e trasformarla in serenità
davanti a lui. Mi limitavo a non parlargli di noi. E la sera mi addormentavo piangendo.
Avrei voluto imporgli l'unica via d'uscita possibile: andarcene via insieme. Mi preparavo
con ostinazione ad annunciar lo ai bambini, a Guido. Per non accettare che non lo avrei
mai dovuto fare.
«Stava troppo male fisicamente per potersi occupare della mia anima. Un indefinibile
senso di colpevolezza gli inibiva il sonno. Il medico ci aveva avvertiti: "La notte le sembrerà
che il male sia ancora più forte, non riuscirà a dormire sulla spalla e faticherà a girarsi".
Per la prima volta aveva davvero paura. Non facevamo l'amore da settimane. Smisi di
chiederglielo. Per paura di un rifiuto.»
Sapevo che il mio corpo sarebbe stato testimone della sua innocente incapacità di amare.
Il mio bene rimbalzava sul suo petto coperto di peluria sottile. Da ragazzo. Se n'era andata
l'intimità. Celavo quei segnali in un sorriso. Che si riduceva a una pallida tensione
muscolare all'altezza della bocca.
«È stato bravo a nascondere tutto questo in famiglia.
Certo non voleva preoccupare la mamma.»
«No, Lucrezia, si serviva di quella spalla per nascondere a se stesso qualcosa di oscuro e
invisibile che incalzava i suoi sensi con avvilenti interrogativi.
«Ci rivolgemmo a uno specialista americano consigliatoci da un comune amico ortopedico
che aveva frequentato i suoi corsi alla Boston University. Il professor John Buster era in
Italia per una serie di conferenze alla Facoltà di Medicina, aveva già curato altri
violoncellisti ed era considerato un'autorità in quel genere di pazienti. Ottenere un
appuntamento non fu certo difficile, la musica fa breccia nel cuore di molti. E il dottore
aveva una viscerale passione per l'opera lirica. Ci incontrammo all'ospedale e dopo un
breve colloquio che spaziava da Verdi ad altri esempi di tendiniti perfettamente guarite,
aveva suggerito un'ulteriore ecografia alla spalla. Bastò per confermare ciò che gli altri
ortopedici avevano segnalato e cioè una progressiva calcificazione del tendine. Buster
suggerì a suo padre di sottoporsi a un ciclo di ionoforesi, mezz'ora al giorno per dieci
giorni. Dopo quella prescrizione sembrò sollevato; do-versi occupare di sé gratificava il
suo narcisistico pragmatismo e calmava l'ansia. Evitavo di parlare di me, cercando di
approfittare di quella vacanza forzata per godere della sua presenza, così inconsueta. Lo
accompagnavo all'istituto anche se ormai il pensiero del nostro futuro mi tormentava come
un cancro. Ideavo modi per parlargliene, lui eludeva l'argomento. Quella maledetta spalla
era l'unica protagonista delle sue giornate. Per uno strano gioco della mente, il fastidio
aveva contagiato anche il gomito. Un dolore proiettato. Un indolenzimento progressivo. Si
lamentava e io la sera lo salutavo sempre più vuota e preoccupata. Chiedere qualsiasi
spiegazione sarebbe risultato umiliante. Mi si stava calcificando l'anima. La vita non
racchiudeva più il desiderio. Le mancava un progetto.
«In famiglia tutto proseguiva con eccessiva e innaturale regolarità. Guido capiva. Era
troppo intelligente per inondarmi di tardivi mazzi di fiori. I bambini erano autosufficienti.
Arriva un momento in cui ciò che conta sono i compagni di scuola, le feste, i pomeriggi con
gli amici. Lavorare era facile. E non mi distraeva più.
«Gli scrivevo scegliendo parole come fedeli specchi del mio stato d'animo. Che diveniva di
giorno in giorno più ansioso.»
Il telefono non suona. Tu non chiami e non sai che schifo è stare sospesa tra rabbia,
frustrazione e paura. Dove sei?
Passo dalla felicità più febbrile (ma esiste una felicità paca-ta?) allo scoramento più
profondo. Perché non chiami, amore mio?
C.
Ho chiamato io. Ora sto meglio. La tua voce è balsamica. Di-ci anche cose carine, quando
sei tranquillo. Oggi dieci minuti interamente dedicati alla spalla. Su dodici di telefonata:
non male, vero? Ho dormito bene. Con la tua voce dentro.
Domani arrivi. E già sono qui a chiedermi se troverai un minuto, uno soltanto, per stare un
po' con me. Ne ho bisogno.
C.
«Lo accompagnavo in ospedale per la ionoforesi. Cercavo parole sdrammatizzanti. "È
come andare all'istituto di bellezza", dicevo. Non rideva nemmeno di quelle. Il trattamento
era indolore: gli facevano penetrare in profondità l'EDTA, un farmaco utile a polverizzare la
calcificazione. Dopo un primo ciclo, nessun segno di miglioramento. Suo padre era
depresso.
La diagnosi del bostoniano era stata musicalmente impietosa:
"periartrite scapolo-omerale con calcificazione del tendine sovraspinoso", altrimenti detta
morbo di Duplay, dal nome dello studioso che per primo descrisse le rigidità della spalla e
le sue lesioni. Mi disse che quel nome assomigliava a un libro di tecnica che studiava al
Conservatorio. Era di pessimo umore ugualmente. E io sapevo di amarlo sempre di più.»
Dottore, non posso perdere il Concerto di lunedì. Faccia qualsiasi cosa ma rimetta questa
spalla in condizione di lavorare.
«Glielo chiese con le lacrime agli occhi, mentre mi stringeva la mano come un bambino in
preda all'angoscia. Le infiltrazioni di cortisone anestetico attenuarono il suo patimento per
qualche giorno.
«Il reparto di radiologia ricordava un padiglione della NASA, visitato durante un viaggio a
Cape Canaveral che aveva entusiasmato Mattia. Ci eravamo fatti fotografare dietro un
pannello sul quale apparivamo vestiti come Un ambiente asettico, interamente rivestito di
acciaio. Privo di fascino. Il radiologo ci condusse nel suo studio. La spalla era lì, davanti ai
nostri occhi su una lavagna luminosa. Ingigantita e mostruosa. Una visibile e inquietante
macchia bianca sovrastava la sua curva sinuosa e incavata. Bianca su fondo nero. Una
macchia di male che per un attimo mi apparve come un grande cuore trasparente, nel
quale un'anima malandrina aveva conficcato una freccia di legno. Mi teneva per mano. Non
ascoltai le parole del medico e solo alla fine capii che quell'ultimo tentativo - le infiltrazioni
a cui si era sotto-posto - avevano prodotto risultati poco appariscenti e di scarsa efficacia.
Il male ci guardava. Prepotente. Indissolubile. Esauriente e chiaro. Senza appello. Come
quello che percepii in lui quando nello studio ci raggiunse Buster: "Professore, da questa
malattia solitamente si guarisce, ma per lei non credo ci sia ancora molto da tentare. Sono
veramente desolato".
«Lucrezia, il responso fu drastico. Non avrebbe più potuto suonare. Disattendendo ogni
statistica. Aveva trentasette anni. Operarlo significava rischiare. Scavare la sua parte più
profonda, scardinarne i segreti. Senza alcuna certezza di trovarvi una soluzione.
Prendemmo tempo.»
Per cena l'ho invitata a «L'Ousteau de la Baumanière», una locanda piena di fascino che si
trova a Beaux de Provence, dove sono ospite gradita da quando la frequento con Thierry,
un paio di volte al mese. L'idea di uscire con lei mi elettrizzava. Sarebbe partita dopo
poche ore. E io sentivo già la sua mancanza.
È scesa dalla sua stanza con un'espressione sorpresa di-segnata sulle labbra. Non si
aspettava di trovarmi già pronta con cappotto e cappello.
«Lucrezia, questa sera ceneremo fuori. Mi piacerebbe farle conoscere il ristorante dove
Thierry mi ha chiesta in moglie.»
«Volentieri, signora, spero di essere vestita in modo adeguato.»
Quanta malizia, nella sua voce! Era elegante, poteva essere altrimenti, amica mia? Per te
che ami i particolari: indossava un abito di lana nera che le sfiorava i polpacci, lasciando
intravedere calze spesse e un paio di stivaletti stringati dal tacco basso. Niente gioielli, se
si esclude una collana di perle, indubbiamente autentica.
Dopo mezz'ora di tragitto in macchina, durante il quale le indicavo i paesi che passavano
veloci davanti a noi, ci siamo accomodate al tavolo di quella discreta locanda provenzale,
abbarbicata su suggestive rovine medioevali. Nessuno ci avrebbe scambiate per un'allieva
in visita alla professoressa quanto, piuttosto, per un'anziana madre che cenava con la
figlia più amata. Era il tempo ritrovato: lui era servito a questo. Ho ripreso il mio racconto,
accompagnando le mie parole con un gratin d'aubergine alla crema.
«Sa, Lucrezia, ho cercato di mantenere l'abitudine di fare gli acquisti di Natale nel mese di
novembre, quando le commesse dei negozi conservano ancora un tono gentile, la gente
cammina senza fretta e il freddo non entra nelle ossa, fermandosi timidamente sulla soglia
della pelle. Quest'anno non sono riuscita a rispettare i miei propositi e ho comprato doni
per tutti pochi giorni fa. Le richieste dei figli di Mattia e delle gemelle di Carolina sembrano
l'inventario di un negozio di giocattoli che chiude per cessata attività: per accontentarli ho
saccheggiato negozi per giorni. Sanno con scientifica precisione quanto sia sensibile alle
loro lusinghe. Hanno manifestato il loro affetto annunciando che metteranno in scena uno
spettacolo musicale in onore del mio compleanno che cade poco dopo Natale. Carolina
racconta che sono impegnati da settimane con le prove. Si chiudono nella loro stanza in
gran segreto con l'incontrollabile perfezione che so-lo i bambini sanno avere, mettono la
musica a tutto volume e inscenano la loro rappresentazione. Pare che il povero Brahms
debba vedersela con volgari canzonette moderne.
Spero solo che non si tratti di una versione aggiornata di Cappuccetto Rosso. Sai, lì la
nonna finisce davvero male.»
Cercavo di essere spiritosa, Gabriella, ma non ero allegra.
La malinconia si stava aggrovigliando dentro di me come un malefico rampicante. Va bene,
lo ammetto: mi addolorava l'idea che partisse. E non criticarmi, per favore. Lo farai a voce, la prossima settimana.
«Questo anniversario, Lucrezia, è molto significativo per me. Dopo anni che non accadeva
ci saranno davvero tutti.
Persino Marco, il mio primo marito, ha accettato di parteci-pare a questo insolito
resoconto. Vuole presentare in famiglia una nuova amica, l'ultima di una lunga e
ininterrotta serie di fidanzate a termine. Fa l'arredatrice e dichiara cinquant'anni senza
timore di essere contraddetta. Siamo tutti sicuri che ne nasconda almeno un'altra decina
dietro una leziosa bugia, ma non abbiamo alcun motivo per smascherarla. Verrà anche
Guido, il padre di Carolina. Ha finalmente deciso di operar-si alla schiena. Vive a New York
da quando abbiamo divorziato. Si occupa di teatro. Ha settantasei anni, ma ha conservato
l'irrequietezza e la tensione morale di un ragazzo. Sarà solo. Credo sia un uomo sereno. Ci
saranno i miei figli con i rispettivi mariti e mogli e i miei quattro nipotini. Tutta la mia
meravigliosa e imperfetta famiglia sarà qui a rendermi omaggio. Hanno organizzato una
grande festa per celebrare i miei prossimi settantaquattro anni. Ti confesso che questa
espressione di affetto collettivo mi insospettisce e un po' mi inquieta. Che sia il preludio
della fine? In fondo, con la mia fragilità ben portata, sono una nonna ancora presentabile,
non trovi?»
Lucrezia non sorrideva della mia vanità, anche se mentre divagavo stava sicuramente
chiedendosi perché mai avessi aspettato l'epilogo della sua visita per elencarle il cast
della mia numerosa famiglia. In realtà, Gabriella, allungavo il racconto perché non sapevo
come arrivare al punto.
Sarebbe ripartita l'indomani, molto probabilmente non l'avrei più rivista e nasconderle
quell'episodio così importante avrebbe intaccato la meraviglia del nostro incontro.
Questo fine settimana è stato così intenso e perfetto che non avrei potuto rovinarne il
finale con dissennate omissioni.
Quando verrai alla festa avrai avuto tutto il tempo di riflettere su questa insolita parentesi
della nostra amicizia. Sì, perché nemmeno a te ho raccontato ciò che mi è accaduto
durante il mio ultimo viaggio in Italia. Imperdonabile.
«Quella che io chiamavo "la sua sindrome" è durata qualche mese. Ho lasciato il teatro
all'improvviso e nessuno ha mai saputo perché. Avevo accettato un nuovo lavoro piuttosto
noioso ma ben pagato. A quanto ne so tuo padre non ha fatto nulla per trovarmi, se non
lasciare sulla segreteria telefonica un laconico messaggio nel quale accennava a una
nuova cura. Nient'altro. Non lo vedevo da settimane.»
«Mi sembra impossibile, signora.»
«Aveva vigliaccamente accolto la rinuncia, Lucrezia. Era talmente assorbito dalla sua
malattia da destinare a quel dolore l'alibi per nascondere la sua incapacità di scelta.
Avrebbe voluto continuare ad amarmi in silenzio, a incontrarmi in modo frammentario e
parziale, imponendo a quell'amore l'epitaffio di "storia clandestina". Un amore al buio, che
alla luce del sole si sarebbe forse dissolto. Il suo futuro non apparteneva ad altri che a se
stesso, l'unica persona per la quale era disposto ad affrontare sacrifici e impegno. Dopo
pochi mesi decisi di trasferirmi a Parigi. Il dolore, intollerabile, si era impiantato dentro di
me ed era diventato urgente staccarmi dalla sua musica. Dovevo allontanarmi da quella
stupida infatuazione, capisce?
«Non ho fatto nulla perché lui venisse a sapere della mia partenza. A un anno dalla mia
fuga gli scrissi una lettera, ma non la troverà in quella scatola, Lucrezia. È la sola che non
gli ho mai spedito. Non avrei più potuto sopportare un silenzio definitivo. Stanotte l'ho
cercata. Era ancora dove l'avevo nascosta, ripiegata fra le pagine di un libro, la tragica
storia di un amore impossibile che porta Elias Alder, un innocente, alla morte. Avevo
preferito salvarmi con la fuga. Eccola.»
Mentre le porgevo quell'ultimo, decisivo frammento di carta scritto a mano, mi accorgevo
che in quelle poche ore avevamo tratteggiato una conversazione a due voci e che quelle
lettere, in fondo, erano solo stralci di una mutilata sceneggiatura. Non è forse più saggio
chi sa strappare il passato? Conservare è inopportuno. Ero rimasta legata a quell'uomo
per più di trent'anni senza sentirmene responsabile. E
ora avvertivo la presenza di quella giovane come fatale. Già da ragazza costruivo
eccentriche mappe mentali su invisibili simboli. Cercavo coincidenze, ricorrevo a
linguaggi segreti, trovavo segni ovunque, nella musica soprattutto. Anche in quei giorni.
La mattina in cui avevo ricevuto la sua lettera, nel negozio di dischi che frequento
abitualmente avevo incontrato un giovanotto che, svagato e distratto, chiedeva proprio la
Quarta di Brahms. Vuoi altro? Accontentata. Il mese scorso ho accompagnato Thierry a
Valencia dal suo editore spagnolo. Passeggiando nel giardino ricavato sul letto del fiume,
davanti a un grande auditorium, incrociai l'insegna luminosa di un albergo, che qualcuno
aveva impropriamente deciso di chiamare Brahms, e non con logica campanilistica De
Falla o Albéniz, quasi che le note desolate e vittoriose dell'amato Johannes avessero
deciso di trascinare fino a lì, consolatorie, la mia vita randagia e inquieta. Quel mio lato
oscuro e segreto che tu guardi da sempre con educata diffidenza, quel trovare di continuo
invisibili legami tra casualità e destini, da saga mitologica, ha lusingato speranze e creato
unioni indissolubili. Anche di quei giorni nati sulla trama di un itinerario improvvisato, avrei
dovuto inseguire i segni, come un cane a guardia del piacere. Quella donna, Gabriella, era
ormai parte di me. Me l'aveva mandata lui. Mi piaceva esserne certa. Avrei voluto
abbracciarla, ma mi distraevo da lei che, il viso levigato da un'invisibile spruzzata di cipria
chiara, teneva tra le mani la mia ultima lettera a suo padre. Punzecchiavo con la forchetta
il delizio-so stufato di primizie che il cameriere aveva posato davanti a me, assaporandolo
con impassibile lentezza. Mi tremavano le labbra.
Parigi, un anno dopo
Amore mio,
avrei forse potuto racchiudere superflue spiegazioni in un disadorno addio? Le valigie
erano già pronte nell'atrio. Gli scatoloni sigillati in modo definitivo da un nastro adesivo
color corda. I miei libri, centinaia di volumi spolverati a uno a uno e suddivisi per
argomento, gli album con le fotografie dei bambini che tengo ordinate per data dal giorno
del parto, erano già arrivati a destinazione. Due divorzi in quindici anni e i bambini come
segno tangibile. L'amore non lascia trame visibili. Se non nelle ragnatele che si for-mano
sul nostro viso, insistendo soprattutto intorno alla bocca e agli occhi. Dei corpi dei bambini
afferri invece la-rumorosa e flessibile presenza. Hanno le loro facce, quelle dei miei mariti,
quasi che mi fossi premunita per tempo dalla loro lontananza. Ora dovranno accontentarsi
di me.
Guido e io abbiamo diviso tutto senza lacrime, proprio co-me si fa nei divorzi per bene. E
nei film inglesi. Sono certa che rimarremo amici.
Vivo a Parigi da un anno. Ti scrivo dal Cafè de Flore, proprio dove sedevano Simone e
Jean-Paul, coppia simbolo della mia giovinezza. Ritrovare con i miei occhi i luoghi di quelle
pagine è un modo per riavvicinarmi a lei. Senza più sentirla estranea. È stato un duro colpo
accorgermi da adulta che si erano doviziosamente traditi per tutta la vita. Lei ha amato con
veemenza un americano, che si infuriò quando Simone consegnò a un editore il loro
epistolario. Un amore di carta, bellissimo, travolgente. Finito per eccesso di passione.
Il pomeriggio di questa Parigi è ingrigito da una famiglia di nuvole rimaste appese al cielo
dopo il temporale che mi ha costretta a questo improvvisato e illustre rifugio. A tratti il sole
sbuca prepotente e diluisce il suo calore autunnale sul mio viso. Sto seduta qui da ore,
forse aspettando di veder spuntare tra la folla una faccia conosciuta. Stamattina sono
stata dal parrucchiere, questo taglio da ragazza parigina ti piacerebbe. Il mio francese
migliora, confido nella possibilità di una mimesi completa. Il loro accento non mi
infastidisce più e provo un inspiegabile senso di appartenenza a questi luoghi.
Ci siamo trasferiti tutti e tre. Mattia non me l'ha ancora perdonato, lasciare i suoi amici è
stato talmente drammatico per lui che si dichiara «prigioniero politico» di una madre
despota che non lo capisce. È che sono indispensabili alla mia sopravvivenza, almeno
tanto quanto lo sono io per loro. Carolina è felice, la nuova scuola la eccita, adora i vestiti
che le ho comprato e porta con orgoglio e malizia un caschetto di capelli biondi che la fa
assomigliare a una Louise Brooks in miniatura. Chiede spesso di suo padre, co-me temevo
e aspettavo. Le ho parlato a lungo. È saggia, sai? Molto più di sua madre. Chiede a
intervalli regolari
«perché non sono più innamorata di lui». Fa mille domande sull'amore, si cautela e vuole
imparare presto. Lei sa come sedurli. Io non sono riuscita a tenermeli. Ho abbandonato
tutti sentendomi perennemente colpevole. Non so che farmene di questa libertà. Senza di
te appare come un accessorio superfluo. Ti piacerebbe qui, la bellezza è a portata di
mano. Di giorno e di notte. Frequento le chiese, la mattina presto, e mi lascio andare alla
forza del silenzio che vi si respira. Riservo le mie parole ai bambini. Abbiamo preso in
affitto un appartamento in rue de Saintonge, nel Marais, al primo piano di uno stabile
d'epoca, non proprio di lusso ma «assez charmant». Faccio la spesa al mercato sotto
casa. Mi ci vedi? Ho acquistato un cestino e la mattina lo riempio di baguette, croissant per
i bambini, frutta e Mi manchi. Disperatamente. A volte la nostalgia è come un'erba malata,
si arrampica proprio nel posto dove dicono esista il cuore, fino a soffocarlo. Sono passati
mesi ma la sera ancora non riesco a dormire. Ricorro alle pillole, che avvolgono il mio
sonno senza di te. Le prime settimane non ho ascoltato musica, le note facevano male lì a
sinistra, in quel punto del corpo dove sembra essere calato un sasso di ingovernabile
disperazione. La psicoanalista mi ha indirizzata a un collega, con il quale ho ripreso il filo
del racconto, anche se lei mi ha anticipato con una lettera di presentazione. Cosa ci avrà
scritto? «Caso disperato», credo. Non ho mai potuto sopportare le donne che amano
troppo, plateali, esagerate, prive di dignità. Io non cedo. Ti ho rinchiuso in me e solo la
notte mi concedo il ricordo.
Altrimenti è male fisico, credo mortale. Non passa. È come il movimento delle onde, come
il suono del tuo violoncello, mi accompagna con un languido pianissimo o con un forte
lacerante. Nessuno mi onora di una composizione, le note oscillano in qua e in là,
perseguendo un misterioso moto di inquietudine. Ero certa che questo amore esistesse
quando ero io a produrlo. Invece gode di una straordinaria autonomia, non mi abbandona
che per poche ore al giorno.
Momenti nei quali il respiro si fa più calmo, in cui riesco a godere la bellezza di questa
nuova vita. Come posso stare senza di te? Come farò a non rivederti mai più? Sarai
sicuramente offeso. Forse no, lo sapevi anche tu che quella spalla era il simbolo del nostro
senso di impotenza. O era la musica a provocare quel pianto? È stato, il mio, un ultimo,
estremo gesto d'amore. Il nostro eroe, ricordi? Si lascia morire non dormendo più. Io me
ne sono andata. E mi co-stringo ad ascoltare solo il Settecento, rigidi oratori, persino
Telemann che non ha mai toccato le mie corde interiori.
Ho acquistato decine di cd che suonano la ragione. Che cercano la convenzione della
tecnica. Per sei mesi mi sono regalata la pigrizia di Parigi, indecisa sul da farsi. Ora non ci crederai! - ho aperto un negozio. «Les belles cho-ses», si chiama proprio così.
Vendo tutto quello che penso possa aiutare a vivere felici: libri, arredi di una casa come la
vorrei, oggetti appartenuti ai grandi, antiquariato musicale, niente di impegnativo. La
musica, il teatro, l'opera lirica, la danza stanno sugli scaffali. Ho messo la passione in
ordine, regalandomi il piacere di fare arrivare dagli editori solo libri che amo: biografie,
innanzitutto, e poi lettere, un intero ripiano di lettere, carteggi inediti ed epistolari famo-si.
Infine le note. Solo dei musicisti amati. Consiglio Brahms come unguento dell'anima - «vi
farà sentire be-ne», dico. E il bello è che mi credono. Viene spesso uno scrittore ad
acquistare libri. Si chiama Thierry, scrive saggi sull'Ottocento francese. Ci siamo
incontrati alla Sorbona dove tiene un corso di letteratura, adorato dalle sue allieve.
Mi concedo qualche uscita con lui, che insiste nel propormi quelli che pomposamente
definisce «gli aspetti gradevoli della vita». No, niente sesso. Per ora è rimasto nel ricordo
di te. Che di questa stupida fedeltà lontana probabilmente non sapresti che fare. Ti amo.
Temo per sempre.
C.
Ha ripiegato lentamente la lunga lettera con aria sollevata. Questa, almeno, era
l'impressione che ne ricevevo, mentre fissava il camino della sala da pranzo del ristorante
la-sciandosi servire gustose losanghe di foie gras da un altezzoso cameriere. Aveva in
mano la mia vita: gliel'avevo riassunta in poco più di ventiquattro ore.
«Troppo tardi anche per lui, Lucrezia. È morto senza sapere dove ero andata a finire.»
Non parlava, guardandomi con quell'enigmatico lampo negli occhi che ormai non mi
faceva più paura. Ero stata assolta. Anche da lei. Mi autorizzava a proseguire. Lo faccio
anche con te che questa volta dovrai rassegnarti alle coincidenze, al caso, alla precipitosa
irruzione della fatalità.
«La settimana scorsa sono tornata in quel teatro, Lucrezia. Non accadeva da quando mi
ero imposta un volontario esilio durato quasi trent'anni. Ho superato l'insensata censura
che avevo dettato a me stessa per tutto quel tempo. È stato grazie all'invito di Valeria, che
aveva due biglietti per un concerto. Ho accolto quel dono con benevolenza, ho trascorso il
pomeriggio dal parrucchiere e nell'intento di dare a quell'occasione un tocco di misteriosa
ufficialità, ho riutilizzato un vestito nero indossato in quegli anni, conservato in-tatto
nell'armadio di Carolina. Il mio corpo invecchia, cara, ma non ingrassa.»
Gabriella, sono arrivata in teatro con una strana sensazione di ansia addosso. Un
presentimento. Sai quelli che avvertivo d'improvviso e telefonavo subito dopo chiedendoti
«se c'era qualcosa che non andava»? C'era sempre qualcosa che non andava, vero? Sono
stati quei presentimenti il collante di questa nostra amicizia, che ha da poco compiuto
cinquant'anni. Lucrezia sembrava una bambina a cui la nonna decide di rivelare qualcosa
di misterioso. C'era profumo di intimità. Mi piaceva immensamente guardarla, era bella e la
sentivo amica. Anche darle del tu era ormai naturale.
«Mi è apparsa la sagoma antica del teatro, sai, proprio come l'hanno mantenuta dopo la
ristrutturazione del nuovo millennio. Aveva l'aspetto di una villa disabitata avvolta nella
nebbia, davanti alla quale si affrettavano sagome nere con cappelli e abiti eleganti. Valeria
mi aspettava nel foyer ed è scesa con me in sala. Avevo una poltrona centrale della fila N.
Sui posti ho ancora una memoria infallibile. Sarei in grado di suddividere platea e palchi in
ordine di prezzo tenendo gli occhi chiusi. A quei tempi si veniva educati a non tra-scurare
le minuzie e quell'abitudine mi era rimasta addosso, indelebile.
«Tutto era immutato e familiare. Le locandine ci informavano del programma della serata:
il concerto chiudeva con la Quarta sinfonia di Brahms. Mi sono chiesta se Valeria l'avesse
fatto apposta. Mentre mi accomodavo in quella poltrona emozionata come una debuttante,
presagivo già l'affanno del mio petto all'entrata del direttore: per un attimo la sua
silhouette mi avrebbe fatto pensare ai giorni del Maestro. Ho sentito il corpo vibrare con
un'intensità che credevo rimossa. Non ho più voluto assistere a un concerto dal vivo dopo
la sua morte.
Da quel giorno, la musica sta rinchiusa tra le pareti del mio salotto provenzale dove i cd si
ammassano come amici rassicuranti e sinceri.
«Ingannavo il tempo sfogliando le pagine del programma di sala, con l'animo sospeso alla
ricerca di un indizio. Scorrevo l'elenco dei Professori d'Orchestra provando un sottile
piacere nell'associarli ai corpi e ai volti che lentamente sali-vano sul palco per
accomodarsi ai loro leggii. Tra i primi violoncelli mi ha accecato il tuo cognome, Lucrezia.
Ti ho cercata nelle file degli archi. Col cuore in tumulto. Avresti dovuto avere una trentina
d'anni.»
A interrompere quel dialogo è arrivato, dietro le mie spalle, un educato cameriere che
spingeva un carrello di deliziose gourmandise. Ho optato per un delicato soufflé al
pistacchio e alle mandorle, suggerendo alla mia ospite una terrina di panna cotta alla
liquirizia. Non ha fatto commenti e con occhi inquieti e un che di frettoloso nella voce, mi
ha esortata a proseguire.
«Il destino legato al tuo nome mi si rivelava con quella forza che mi aveva trovata disposta
a trasformare tutto in simboli, a cogliere i segni mandati dalla vita con quell'eccessivo
sentire che mi ha portato fino a qui. Ti ho subito riconosciuta. L'abito nero ti donava
un'eleganza che pareva innata. Un'allure aristocratica, ottocentesca. Sei come tuo padre,
Lucrezia.»
«Perché non ha voluto incontrarmi quella sera?»
Si era sentita spiata, Gabriella. Ho temuto per un momento di averla offesa, ma mi è
bastato il suo sorriso per dissipare quel pensiero illecito.
«Durante il concerto non ho avuto occhi che per te. Ti offrivi al direttore e al pubblico con
gesti cauti, ti porgevi al mondo con prudenza, una dote che ho invidiato a chiunque.
Perché non l'ho mai posseduta. Non avrei potuto avvicinarti all'intervallo. Mi stava
accadendo qualcosa a cui non ero preparata e che avevo atteso per anni. Ho capito che
quella sera, usando l'innocente alibi del tempo che ci era trascorso addosso, avrei potuto
dire ciò che non avevo mai osato prima. La vita mi offriva l'occasione di spiegare senza più
paura di essere fraintesa. Improvvisamente il destino mi devolveva ciò che aveva occupato
i miei sogni, capisci?»
«Non si interrompa, signora, la prego.»
Usava un tono tranquillo e pacato. Quasi che il mio racconto non la sorprendesse. Il
rumore del vento, fuori dalla locanda, non ci distraeva e accompagnava le mie parole con
naturale musicalità.
«Quando si sono accese le luci dopo il Concerto per violino e orchestra di Brahms, i miei
occhi seguirono un unico impulso: trovarlo. Percepivo una strana immobilità in platea. La
gente sciamava verso il foyer ma per me era come se tutto si fosse fissato in un fermoimmagine che mostrava le figure di donne grandi e misteriose e ragazzi impacciati per
l'inusuale ricercatezza imposta dall'occasione. Sagome immobili in quel paesaggio di
velluti. Innocenti protagonisti di una nuova fotografia in-corniciata in cucina. Mi
interrogavo con civetteria sul mio aspetto. Chiedendomi come si guardano due persone
anziane.
«Ho incontrato i suoi occhi che si sono fatti subito profondi e seri. Mi ha fissato per un
attimo interminabile. Senza meraviglia. Gli sono andata incontro con quell'incedere
determinato e sicuro che non mi ha mai abbandonato. Era alto e ancora bello, Lucrezia. I
suoi capelli erano lunghi e folti. Solo completamente bianchi. Non vestiva con eleganza
sfacciata. Quella, tuo padre, l'ha sempre avuta dentro. È stato come rivedere me stessa a
quarant'anni, nello stesso luogo, con lo stesso abito. Quel lieve sorriso non chiedeva altre
spiegazioni. Dopo una sensazione così avrei potuto lasciare la vita senza alcun rancore.
«È venuto verso di me attraversando la platea con passo felpato e dolente, la schiena
leggermente ingobbita. Ho rivisto con emozione le falcate che seguivo a fatica dato che
uno dei suoi passi contava almeno tre dei miei. Aveva l'aspetto di un padre orgoglioso
della figlia e non aveva avuto bisogno di indicarti a me, né di chiedermi cosa ci facessi io lì,
proprio quella sera. Conosci il gioco del "non dire", Lucrezia? Ci riusciva sempre. L'ho
insegnato ai bambini, spiegando loro che "quando si vuole bene a qualcuno, bisogna
pensare intensamente a qualcosa e provare a comunicarla senza le parole. La condizione
perché il gioco riesca è quella di amare dal profondo. Il messaggio arriverà". I miei nipotini
lo sperimentano con la maestra e non funziona mai, ma quando provano a farlo con me
ottengono l'effetto desiderato. Il pubblico rientrava per la seconda parte del concerto. Noi
ci siamo accomodati su un divano rosso del ridotto, al primo piano.
E' bella. E bravissima, ho detto, assecondando la sua gioia paterna.
È stata più brava di me: è una prima parte.
Lucrezia ti somiglia. Sei
sempre la stessa.
«Ho riso con malizia, per quella tardiva generosità. Dopo trent'anni i nostri ruoli erano
rimasti identici. Io ero il personaggio infuriato e passionale. Lui era esattamente come lo
ricordavo, lievemente impacciato nei movimenti e posato nei modi. Sapevo che si era
separato anni prima. E che aveva ripreso a suonare. Non gli ho domandato se si era
risposato. Non lo ha chiesto lui a me. Il tempo era come sospeso e sembrava volesse
chiudere dei conti privati. Con gentilezza. Mi è venuto in mente che era l'unico musicista di
cui ero stata innamorata. Gliel'ho detto. A titolo di statistica. Di tanto in tanto passava una
maschera, indugiava, non osando interrompere quel dialogo così intimo e segreto per
avvertire che il concerto stava riprendendo. Brahms guidava come un sospiro lontano il
nostro colloquio, come già anni addietro, in una memorabile Quarta sinfonia. Abbiamo
evitato le banalità che accompagnano gli incontri desueti. Notavo che la mia perfetta
padronanza non lo infastidiva più. Forse come allora, per mettermi in difficoltà gli
sarebbero bastati pochi indizi. Avrebbe potuto usare la freddezza tagliente che era stata
spesso dolorosa. La lontananza ci aveva insegnato che eravamo fatti così, che per far
respirare il nostro amore avremmo dovuto accettarne il ritmo interiore, un alternarsi di
attrazione e repulsione che lui insisteva a volere rivestire di leggerezza.»
«Era una mania, per lui, quella della leggerezza!»
«Con lui dovetti sacrificare la mia passionalità per trasformarla in dedizione.»
Per un curioso gioco di prospettive, l'immagine di una anziana signora minuta e di un uomo
affascinante e dall'aspetto se-vero si rifletteva all'infinito sugli specchi dalla cornice dorata
che guarnivano il salone. Era come se gli anni ci avessero risparmiato il racconto grafico
dell'età. Lo dico senza vanità, credimi, ma sono assolutamente sicura della mia memoria:
le rughe che segnavano i nostri volti si concentravano soprattutto intorno agli occhi, che
non avevano perso lucentezza e sembravano avere conquistato la pace. Forse perché ci si
accorge di essere diventati vecchi solo quando ci si riflette nella vecchiaia degli altri. Lo
fissavo con attenzione, cercando di afferrare quell'ultima possibilità di confronto. Non
percepivo nulla di remoto. Quasi che il ricordo si opponesse al fatto di diventare memoria.
Era tutto così vitale da spazzare via gli anni con il cenno di una ma-no. Ha steso le lunghe
gambe sulla moquette rossa di quel salone addobbato come per una festa di fine
Ottocento, e mi sono parse un poco smagrite rispetto all'immagine che ne avevo
conservato. L'età gioca scherzi che la memoria non contempla. Che importa, Gabriella? So
con certezza di avere notato che guardava i miei orecchini. Riconoscendoli.
«Non riuscirò mai a giustificare chi si arrende, Lucrezia, ma quella sera ho compreso che
fuggire da quella specie di amore incompiuto è stato un errore. La mia adorazione per lui
era rimasta immutata. Siamo entrati in un palco chissà come rimasto vuoto. Ha posato con
un tocco garbato la sua bella mano sulla mia spalla e abbiamo ascoltato insieme il Quarto
movimento.
Ho pensato in quel momento di avere chiuso ogni conto con la vita. Gli ho guardato i polsi,
per l'ultima volta. Erano eleganti e sottili. Ormai aveva imparato, lui, quanto fosse difficile
camminare da persona forte con un corpo debole. Sapeva che avevo compreso il suo
bisogno di essere fiero senza nascondere la propria fragilità. Di me gli avevo raccontato
tutto. Che lo avevo amato, lo sapeva già. È morto sapendo che gli ero stata anche amica.
Ciò che aveva desiderato di più.»
Quarto movimento
lunedì
Gabriella,
è partita stamattina di buon'ora. Destinazione Parigi e tre concerti alla Salle Pleyel. L'ho
abbracciata sul portoncino di casa senza riuscire ad arrivare fino al cancello. La sua bella
mano serrava il manico della custodia del violoncello con fa-re protettivo mentre i suoi
occhi guardavano diritti nei miei, appagati dalla quiete dell'aria intorno.
Le labbra parevano nascondere preziose gocce di parole, che erano state sbadatamente
frenate da un gesto invisibile.
Che opponeva loro il suo silenzio. La cintura del cappotto cammello le stringeva la vita. Mai
come in quel momento mi è parsa sottile, al centro di un corpo pronto a spezzarsi al
minimo sgarbo. Volevo mettere a fuoco anche i tratti più innocui di quel congedo,
osservandola con attenzione attraverso l'unico raggio di luce che filtrava, pallido e
discreto, dalla finestra.
«Le scriverò, signora, grazie per la sua ospitalità. Sono stati giorni indimenticabili.»
Pensi che avrei perduto qualche istante di quella visita, Gabriella? Ho saputo cancellare
sgradevolezze e arroganze, oppure friabili felicità senza nome. Non le persone. Quelle, se
ne andavano. Lasciando dietro i loro passi luminose scie di dolore o riflessi di
irraggiungibile letizia. Leggere nuovamente quelle lettere, però, non avrebbe avuto alcun
senso.
E nemmeno conservarle come i resti di un amore glorioso.
Quell'uomo tanto amato era morto. Altrove. Io no. E l'idea di piangere sulla lapide di una
fossa così anonima non mi sfiorava nemmeno. Per suscitare il mio interesse avrebbe
dovuto essere un musicista famoso, un pittore, un artista oppure uno scrittore. Di quelli
che sanno urtare l'anima.
Con il sorriso. Lo sconosciuto sepolcro nei pressi di Firenze non avrebbe arricchito la mia
collezione fotografica di lapidi celebri. Che senso avrebbe avuto arrivare fin laggiù per
rileggere a un morto lettere d'amore vecchie e consumate? Avevo bisogno di musica. La
Quarta di Mahler si adattava con assoluta simmetria emotiva al mio stato d'animo, alla
tristezza per quel frettoloso congedo che si confondeva con un innaturale respiro di
liberazione. Il mondo con i suoi rumori da niente era in un altro luogo. In me pulsava
un'insolita quiete. Meglio tornare in salotto e mettere ordine. Da una finestra
sbadatamente lasciata aperta, si faceva largo una lama di gelo affilato, disposta a
infrangersi sul mio viso al primo, incauto passo. La scatola di latta era ancora là sul
tavolino. Ammaccata sui lati.
Scompaginata. Aperta. Una scatola da mercatino delle pulci. Sul coperchio erano state
appoggiate due buste gemelle, color avorio. Chiuse. Indirizzate a me. Una dalla scrittura
inconfondibile, sghemba, dislessica, aguzza. Riportava il mio indirizzo. L'ho lasciata chiusa
fino a notte. L'altra era di Lucrezia.
Gentile signora,
le lascio questa lettera che ho trovato in un cassetto della scrivania ài mio padre accanto
alle istruzioni per la sua sepoltura. La mossa conclusiva. Spero sia per lei un raggio di
luce. Qualche giorno prima di morire mi ha chiamata a sé dicendo: «Vorrei che tu
conoscessi una donna, Lucrezia. È
stata molto importante per me ed è anche l'unica persona estroversa che ho sopportato».
Credo l'abbia molto amata, mi ha parlato di lei con l'orgoglio di chi disvela qualcosa di
prezioso che ha trattenuto a sé in segreto, per paura che ne venisse sgualcita la fragilità.
Come vede il suo indirizzo è scritto con precisione sulla busta, a dimostrazione che mio
padre non ha voluto accordarmi nessun alibi. Sono felice di essere venuta di persona a
consegnarla. Sentivo di appartenere a lui in modo cieco e assoluto, ci ha uniti un
sentimento che trascendeva le regole del rapporto tra padre e figlia. Ero certa si trattasse
del violoncello, il nostro tramite nello speciale dialogo tra musicisti che annullava le nostre
timidezze, sostituendo con le sue note decine di abbracci mancati. Talvolta avvertivo in lui
un impercettibile senso di colpevolezza nei miei confronti senza capirne la ragione, fino a
quando non ho letto le sue lettere, che sono state scritte quando avevo pochi mesi di vita e
nessuna possibilità di ricordarne il protagonista se non come un volto curvo sul mio lettino.
Le ho subito voluto bene, signora, anche se ho provato, aspro e violento, un sentimento di
gelosia nei suoi confronti. Spero che lei non mi giudichi infantile se, ora che i nostri destini
si sono incrociati, le chiedo di non dimenticarmi. Verrò presto a trovarla. Con affetto e
riconoscenza, Lucrezia
Era scritta con la stilografica, Gabriella. Un esperto della scientifica avrebbe rintracciato
in quei grafismi di inchiostro maschio e austero una Mont Blanc, probabilmente la sua
«Leonard Bernstein».
Costanza, amore mio,
è la prima volta che pronuncio con te, seppure costringendola in una lettera postuma, la
parola amore. Tu l'hai usata dal primo giorno. Ho pregato Lucrezia di consegnarti questa
mia solo dopo la mia morte. Sono passate poche ore dal nostro ultimo incontro, un rendezvous organizzato dal caso che dopo troppi anni mi ha spinto verso questo foglio seguendo
l'impulso di scrivere -finalmente! dirai tu - quello che ho trattenuto gelosamente in me.
Penserai che sono stato vigliacco fino all'ultimo perché ho atteso l'unico momento in cui
non avresti avuto alcun diritto di replica. Dormire, questa notte, appare ai miei sensi
stanchi un atto ingiusto.
Non ti ho mai detto «ti amo» mia piccola Costanza (posso chiamarti cosi ancora una
volta?), neppure quando queste parole erano urgenti e inevitabili. Lo faccio adesso
sapendo che non è tardi.
Allora pensavi che la vita non fosse quella che si vive, ma ciò che tu sognavi. E volevi. Ti
amo, dal giorno in cui ti ho incontrata e mi hai sedotto con occhi di petrolio che sapevano
sorridere anche nei momenti di furore. So che queste parole ti sembreranno retoriche e
ancora adesso starai lì a chiederti perché ho evitato con cura maniacale di ammettere fino
in fondo che quel sentimento altalenante e confuso, era semplicemente amore. Mi chiedevi
una grande storia e io non sono stato capace di offrirtela se non per brevi momenti. L'ho
vissuta con egoismo dentro di me. Sei entrata nella mia vita prendendomi per mano, hai
profanato i miei segreti più profondi, con quell'aria da canaglia sei riuscita a distillare dai
miei silenzi mille parole. Ho provato spesso nei tuoi confronti un sentimento che tu detesti,
la gratitudine. Ti ero grato perché avevi scoperto in me il mondo che non ho concesso a
nessuno di conoscere. E non ne hai approfittato. Solo da vecchio ho giustificato a me
stesso il mio essere romantico. Ho seguito i consigli dei musicisti più amati, lasciando che
mi attraversassero. Mi irritavo di fronte alla tua sfrontata abilità di linguaggio amoroso,
invidiavo quella tua innata capacità di lasciarti andare, di voler vedere poesia in ogni dove,
di esibire l'amore con modi impertinenti La tua profondità faceva male. Mi sentivo
osservato, inconsapevole Narciso, mentre ti specchiavi dentro di me.
Amore mio, il tuo dono più grande è stato il coraggio di rischiare la malinconia, hai
accettato che la fierezza dell'amore ti facesse sentire un po' sola nel mondo. Volevi farmi
innamorare della vita mentre io mi proteggevo da lei. Usavo la formalità per tenere a
distanza gli estranei. Non so chi abbia detto che «le donne non si limitano a vivere le
passioni: le commentano. E così le vivono due volte». Tu sei stata così. Ti ho amata con
riserva. Con moderazione. In ritardo ho compreso che ciò non è possibile. Mi sono chiesto
per lungo tempo la ragione della mia rinuncia. Voi ho smesso. Senza più aspettarti. Sono
arrivato a questa età attendendo con ansia la vecchiaia. La identificavo con la saggezza.
Con sorpresa, vi ho trovato l'innocenza. Non giudico questa vita un fallimento, il rapporto
con le mie figlie è ancora un luogo incontaminato.
Lascio in questa casa i miei libri e un'apparente serenità che spero dia loro lo slancio per
essere migliori di me. Con gli an-ni sono diventato più tollerante.
Sceglierti mi sembrò allora un progetto impossibile. Solo nei fatti. Non nello spirito.
Di una cosa sono certo: sei la più brava scrittrice di lettere che ho conosciuto.
Ver sempre tuo,
Andrea
Finale
Giulia e Marta sono due gocce d'acqua. Se non fosse per quell'involontaria distrazione
della natura che ha regalato lo-ro capelli folti e lucidi, ma di colori diversi. L'una sottili e
biondi come il grano maturo, l'altra fulvi con sfumature color ebano, ricci e scomposti in un
approssimativo disordine.
Mia figlia si ostina a vestirle con abiti uguali, che acquista in coppia senza ascoltarmi
quando la esorto a dare alle bambine una possibilità di distinzione estetica. Le gemelle si
vendicano con ferocia infantile mescolando fantasie e colori in modo indigesto e offensivo.
Almeno agli occhi della madre.
Erano da poco arrivate e si rincorrevano in tutte le stanze, assordanti e radiose con grida
alle quali questa casa era oramai disabituata. Una banale questione cromosomica che non
mi procurava fastidio, dato che anche la mia voce è squillante e di un tono superiore alla
media. Le piccole manifestavano la loro felicità per essere arrivate quaggiù prima dei
cugini. La stanza dei fiori, chiara e spaziosa con eleganti copriletto di cretonne intonati alla
tappezzeria punteggiata di papaveri e spighe di Provenza, sarebbe stata a loro
disposizione. Un privilegio. Quella camera lontana dagli adulti è un regno segreto che i
bambini hanno attrezzato di misteriosi nascondigli. Tra quelle pareti hanno imparato a
parlare. E
ho insegnato loro a sognare. Inaccessibile a chiunque avesse superato la soglia dei dieci
anni di età, era stata riempita di costumi per la recita. Vederle eccitate nei preparativi mi
alleggeriva l'animo, ancora scosso dalla visita della scorsa settimana.
Ero stata scalzata da immutabili abitudini e non sapevo più come tornare indietro. Mi
distraevo muovendomi di continuo, affrontavo lavori fisicamente impegnativi, spostando
oggetti, rassettando le stanze, coordinando i colori degli asciugamani nei bagni,
aggiungendo lavanda nei cassetti, testando nuove ricette. Fare ordine era utile ad
allontanare il sottile malessere che non mi abbandonava dal giorno della sua partenza. Il
mio cervello era costantemente occupato da Lucrezia, le nostre conversazioni mi avevano
esposta a stati d'animo che pensavo avessero perso diritto di esistenza. La vecchia
passione palpitava in me, stemperata dagli anni, ma ancora viva. Incancellabile. Si era
insinuata attraverso la sua pelle chiara e ora si materializzava nel ricordo bruciante della
scorsa settimana, sul vi-so di quella ragazza. Come un indelebile ponte levatoio che
avesse traghettato una signora anziana nel suo passato d'amore. Era come se quella
giovane donna avesse dato un senso nuovo alla parola destino. La vecchiaia non si
mostrava al mio cospetto come puro viatico verso una distaccata saggezza, né come
sunto numerico di anni sommati l'uno all'altro. Era semplice felicità della memoria
ritrovata. Il viso di Andrea, solo un poco più arrugginito di un tempo, assentiva, sereno. E
mi guardava ancora, mentre cavava note dolenti, sublimi e increspate, dalle corde del suo
violoncello.
La famiglia si era sparpagliata per la casa, i cui ampi locali offrivano spazio alle libertà
personali e smorzavano possibili incomprensioni. Erano decisi a evitare pericolosi
confronti. Io stessa mi sono mossa con precauzione assegnando loro le stanze che
preferivano: ai miei figli le camere di quando erano ragazzi, ora occupate da due letti
matrimoniali in ferro battuto acquistati da Pocquelin e dipinti di bianco. Vi sopravvivevano
come fantasmi inanimati i loro giochi, le bambole e gli orsetti di Carolina, i rollerblade, la
bicicletta e i mostri extraterrestri di Mattia. Simboli inanimati della loro prima bolla di
Provenza. A Marco e alla sua nuova compagna avevo destinato la bellezza delicata di una
stanza con camino, mentre Gabriella si era sistemata nel mio studio. Un comodo angolo
per le nostre confidenze notturne. Le era bastato il nostro abbraccio, sulla porta di casa,
per leggere l'inquietudine che si era profilata in me. Non aveva fatto domande. Sapeva che
dopo cena, quando il cibo avrebbe messo a tacere ogni residuo di diffidenza, ci saremmo
rifugiate furtive nello studio per goderci una delle nostre interminabili conversazioni. Il suo
viso irradiava calma e coerenza. Vestita con un sobrio tailleur pantaloni color crema che
fasciava languidamente un corpo ancora asciutto, aveva la materna capacità di addolcire
le mie eruzioni emotive.
I costumi, brandelli di vecchi abiti raccattati nelle case di parenti e amici, erano stati
occultati in grandi scatoloni da trasloco. Mattia raccomandava calma ed educazione.
Inascoltato. Il salone aveva l'aspetto di una nave corsara abbanonata dal suo equipaggio;
mobili e oggetti accatastati in un angolo lasciavano spazio a un improvvisato
palcoscenico.
Non erano previsti né quinte né fondali, i bambini avevano scoperto la nuda bellezza del
teatro povero, che costringe a dispiegare le forze dell'immaginazione e a costruire
scenografie a proprio piacere nello spazio della fantasia. I cartoncini d'invito
raccomandavano puntualità.
Non conservavo memoria di un compleanno così agitato.
Il pensiero della recita mi distraeva da lei, mentre davanti a me sfilavano, mai messi a
fuoco fino in fondo, i membri della mia famiglia. L'avevo costruita seguendo un filo
trasparente che con meticolosa devozione era stato riannodato dagli strappi che la vita
aveva programmato per me. Questa volta ero riuscita a trascinarli tutti lì. Mancava l'ultimo
tassello. In vista di una morte serena. L'oncologo lo aveva confermato anche durante la
mia ultima visita in Italia: «Potrebbe arre-stare il suo sviluppo ancora per anni, signora. È
una forma di tumore di cui si conoscono pochi casi al mondo, si è formato all'altezza dello
sterno, in un punto "vuoto" del corpo.
L'età le sarà d'aiuto, ormai le sue cellule si sviluppano con lentezza».
Andrea, Lucrezia: i miei segreti. Avrei taciuto anche il terzo. Almeno fino a quando non si
fosse reso necessario da-re spiegazioni. Vestita come una vera nonna d'altri tempi gonna
di ciniglia nera, camicia bianca, uno scialle a frange sulle spalle, scarpine con ricami
provenzali, nere dal tacco medio, un paio di orecchini antichi - ho fatto il mio ingresso con
passo regale nella stanza adibita a temporaneo teatro.
Avrei voluto abbracciarli. Chiedendo loro perdono. Mi hanno distratta con un applauso.
Gabriella stava al mio fianco, seduta in una comoda poltrona. La nostra amicizia superava
ogni grado di parentela e ci era stato concesso il posto d'onore. Convenzionali, i ragazzi
avevano disposto le sedie in modo che i presenti si mescolassero fra loro, quasi a voler
mettere un amoroso accento su quel macchinoso e complesso nucleo familiare. Marco
stava in fondo alla sala, di fianco a una mal tollerata fidanzata e, forse per tenere discosto
l'ennesimo intrigo amoroso del padre, al suo fianco sedeva nostro figlio Mattia, giovane
uomo dall'aria disattenta e segreta, insieme a sua moglie Carlotta. Un amore robusto, il
loro, che proseguiva dall'università e del quale non avevo mai compreso a fondo la
stabilità. Erano due astrofisici e il loro mondo era così scientificamente diverso dal mio da
incutere una certa soggezione. Carolina e suo marito Giovanni, un uomo dolce e dallo
sguardo disciplinato come la sua fronte alta, si erano accomodati su due poltrone
trafugate dal mio studio. Guido aveva trovato conforto nella vicinanza di Gabriella: dal
giorno in cui glielo presentai - dovevano essere trascorsi almeno quarant'anni - si era
creata tra loro una profonda intesa. Si somigliavano, nella voglia di vivere e nell'adesione
ai doveri. E si completavano a vicenda. Federico, unico, adorato figlio della mia più cara
amica, poggiava il gomito sulla poltrona della madre. Quasi a volerla preservare da
sgradevoli sorprese. Sorridendo riconoscente alla mia platea, come un esperto direttore
di scena ho dato inizio alla messa in scena de La bella e la Bestia.
In un impeto di sincerità, i nipoti avevano confidato di avere scelto quella fiaba perché era
l'unica che potesse contare su tre personaggi di pari grado. Sospettavo altre ragioni, ma
ancora una volta me ne assumevo per intero la responsabilità. Come nella Bestia della
fiaba, c'è sempre stato in me qualcosa di diverso che mi aveva precocemente separata
dalla normalità. Così li avevo educati ad adottare con tenerezza le persone che apparivano
ai loro occhi strane, anormali, in-disciplinate, estroverse e ribelli. Avevano rappresentato
una storia di diversità. Che chiedeva di non fermarsi alle apparenze. Luca e Francesco, i
figli di Mattia, imponevano alle cugine la loro irrilevante differenza anagrafica. Le loro
piccole vite contavano otto e dieci anni. Quanto bastava per contrastare le zelanti gemelle.
Mi raccontarono più tardi che il ruolo di Belle era stato sorteggiato dopo estenuanti
riunioni. Luca aveva scelto per sé il ruolo della Bestia; come suo padre era esuberante in
tutto e l'idea di impersonare un autentico mostro lo aveva sedotto dalle prime letture.
FranceIl nipote mite e mansueto ma orgoglioso di bellezza mediterranea (nessuno poteva vantare
occhi scuri come i suoi, in famiglia), impersonava il padre e si adattava al ruolo di
primogenito con vibrante rassegnazione. Il pubblico aveva a disposizione un cartoncino
con l'elenco dei personaggi e degli interpreti: Belle (Marta), la Bestia (Luca), il padre
(Francesco), la voce narrante (Giulia). Non c'era traccia di madri.
Che l'avessero fatto apposta?
Sul biglietto d'ingresso che veniva consegnato in cambio di una modesta somma di
denaro, campeggiava la scritta
«Spettacolo in onore della nonna». Sotto, in bella grafia, un numero decisivo e terribile: 74.
Anni. I miei. Che mi regala-vano il diritto a rannicchiarmi in una regale poltrona al centro
della stanza. Li amavo, ma non era più un'abitudine che assimilavo al senso di colpa. È
trascorsa una buona mezz'ora senza che mi accorgessi che lo sguardo affettuoso dei miei
figli si era posato molte volte su di me. Avevano sicuramente preso in considerazione
l'eventualità della mia scomparsa.
Che avessero già iniziato il conto alla rovescia? E come mi avrebbero ricordata? Mentre la
mia mente si affollava di impertinenti e impronunciabili pensieri, Giulia chiudeva la sua
prima esperienza di voce narrante, annunciando al pubblico che «il mostro si era
trasformato in un bellissimo principe, che sposò Belle vivendo con lei felice e contento».
Smessi i panni mostruosi del delicato animale, Luca tornò a essere il mio nipote prediletto
e il pubblico si sciolse commosso e divertito in uno scrosciante applauso. Il fatto che il mio
viso fosse inondato di lacrime non destò meraviglia né apprensione. Solo Gabriella mi
strinse a sé augurandomi un felice compleanno.
Il compito di riportare un tocco di quiete nella confusione che si andava formando in
salone toccò ad Annette, che interruppe il nostro vociare con il suono petulante delle sue
parole, annunciando che era pronto in tavola. L'innaturale silenzio che avvolgeva la stanza
durò pochi, interminabili istanti, fino a quando, all'unisono e con diversi gradi di intensità,
le voci di tutti si levarono in un gracchiante «Happy Birthday». Avevo l'aspetto di una
nonna felice.
Il tavolo ovale, i piatti con il bordo rosso posati sulla tovaglia di pizzo antico, era stato
decorato con eleganza e sfar-zo. I piccoli avevano a disposizione un tavolo rotondo che si
affollò di grida al loro riapparire, vestiti di jeans sui quali cadevano lunghi maglioni
sformati, di colori incandescenti e vistosi. Un abbigliamento che ogni madre avrebbe certo
giudicato più idoneo ai lavori in giardino. Nessuno li criticò, nemmeno Carolina che di
solito importunava le gemelle con il suo gusto raffinato. L'aperitivo venne accompagnato
dal fruscio della carta che avvolgeva i regali trovati sulla mia se-dia, con grande
disappunto di Annette che scuoteva il capo desolata di fronte all'ordine sovvertito della
sua serata. Scartavo i pacchetti senza alcuna emozione, mi sentivo un guscio vuoto e
senza energia mentre gli altri continuavano a parlare fra loro, considerando esauriti i loro
doveri. In pochi minuti mi ero ritrovata fra le mani una spilla Liberty, acquistata da Mattia in
uno dei suoi ultimi viaggi a New York, del mio mercato preferito sulla Prima Avenue. Tra i
regali, anche un twin-set in cachemire color corallo e una sciarpa indonesiana che non
avrei mai potuto indossare dato che l'estate, qui, concede al massimo vecchi jeans sdruciti
o, se proprio si vuole fare sfoggio di eleganza, le gonne colorate di Soleiado.
Non ho dovuto leggere il biglietto per capire che si trattava di un pensiero di Marco. Aveva
tralasciato da decenni di interessarsi ai miei gusti. L'anello antico apparteneva alla dote di
Carolina e mai avrei pensato che se ne sarebbe privata.
Forse i miei settantaquattro anni facevano sperare nella possibilità di un veloce recupero.
Guido mi è venuto incontro tenendo tra le mani una rosa. Sul gambo, stretta in un fiocco
rosso, spuntava una busta. Conosceva bene la mia passione per le lettere ed era felice di
averne trovata una della Duse da un rigattiere. Li ho ringraziati abbracciandoli con gli
occhi illanguiditi da tanta delicatezza, mentre allegri e incoscienti si accomodavano ai loro
posti per dare inizio alla cena. Annette aveva scelto un'entrée di crostini alle erbe di
Provenza da accostare a diversi tipi di pàté.
La neve che aveva ripreso a cadere leggera imbiancava i davanzali rendendo inoffensiva
l'atmosfera. Priva dei rancori e delle rimostranze che avevano accompagnato pranzi e
cene della mia giovinezza. Le lasagne di Annette vennero salutate con gridolini eccitati,
con gioia della mia cameriera che si sentì nuovamente padrona della situazione. Erano da
poco scoccate le nove dalla vecchia pendola che arredava il corridoio, quando a distrarci
arrivò, inatteso ospite, il suono del campanello. A dimostrazione che nessuno dei miei
irresistibili parenti aveva chiuso l'uscio che dava sulla strada, e che persino il ladro più
maldestro avrebbe potuto entrare in casa indisturbato.
«Sarà Andrè che vuole farti gli auguri, mamma», disse Mattia, alleggerendo la sorpresa
che si era posata come un punto interrogativo sui nasi dei commensali. Fu Thierry a
sciogliere il dubbio andando ad aprire e ripresentandosi po-co dopo in sala da pranzo
insieme a una ragazza elegante, dai capelli corvini che cadevano diritti su due spalle
fasciate da un cappottino nero. Le sono andata incontro con malcelata naturalezza e l'ho
introdotta alla curiosa platea del mio salone. Lei ha mormorato un solare «buona sera» e si
è accomodata a tavola dove Annette, con sorprendente tempismo e quasi fosse al
corrente del suo arrivo, aveva aggiunto piatti, posate e bicchieri. I bambini non le avevano
dato troppa importanza e si erano limitati a un indolente saluto collettivo.
Tutti si sentivano in dovere di rivolgerle delle domande, solo leggermente inquietati da
quella «straniera» accolta al tavolo familiare. Per conquistarli le erano bastati pochi minuti
e la sua eleganza, unita a una sospetta preparazione sui loro ruoli, la rendeva
perfettamente adatta all'ambiente e alla situazione. Io ero finalmente felice. Già da ieri
avrei dovuto dare ascolto alla mia voce interiore che dava per certo quell'arrivo atteso e
invocato nel silenzio.
«Manca la musica. Per oggi niente sinfonie, ho scelto le Ouvertures di Verdi.»
Cosa proporre di più appropriato per rendere omaggio al grande assente? Prima che
Annette servisse in tavola la tarte tatin che Pierre aveva preparato in formato adatto a
soddisfare la golosità di tutti, si è alzata da tavola con un gesto a sorpresa. Nessuno le ha
badato, tanto erano indaffarati a parlare tra loro. Le gemelle erano riuscite ad accattivarsi
l'attenzione dei membri della famiglia imitandoli a turno in modo irresistibile.
Il gesto improvviso di Lucrezia mi inquietava, temevo non si sentisse a suo agio. Mi
piaceva, però, che avesse confidenza con lo spazio di quella casa. Pretendere che si
considerasse della famiglia sarebbe stato illegittimo. Anche se in fondo ci speravo. La
bellezza chiara e delicata di Carolina svaniva di fronte a quel naso fascinoso e importante.
Dopo lo stupore iniziale, figli e nipoti si erano abituati ad averla lì.
Nessuno ne era geloso. Con tutta probabilità la considerava-no la mia ultima infatuazione.
Ho finto di non badarle, mentre si allontanava verso il corridoio. Un semplice bicchiere
d'acqua o, piuttosto, l'improvviso bisogno di prendere una boccata d'aria fuori da quella
stanza affollata di parenti, mi dava l'insperata occasione di spiarla a distanza. L'ho seguita
e ci siamo trovate vis-à-vis trattenendo a stento l'impaccio.
Aveva capito che mi sarebbe piaciuto, per un istante, stare sola con lei.
«Ti ho portato un regalo, Costanza, spero ti piaccia.»
Mi ha teso senza tremiti e con visibile eccitazione negli occhi una scatola quadrata avvolta
di blu e sovrastata da un grande fiocco di raso rosso.
«Grazie, Lucrezia», ho detto arrossendo imbarazzata davanti a un'elegante confezione di
carta da lettere sulla quale campeggiava un piccolo stemma rosso. Che intrecciava
maliziosamente la lettera C alla lettera A.
L'ho abbracciata sciogliendomi in un pianto garbato, lieve. Vergognoso.
Si è avviata verso la cucina con quel passo felpato e sinuoso che avevo tanto amato. Al suo
passaggio la porta in legno non aveva fatto rumore. L'ho spiata, diritta davanti al muro,
mentre frugava con gli occhi tra le fotografie incorniciate. Vecchi, nonni, bisnonni mai visti
né conosciuti. Un passato che non urgeva più.
La sua foto stava bene, lì, insieme a quelle dei bambini.
Era l'unica adulta a cui avevo concesso il colore. L'abito ne-ro scivolato addosso come
pelle protettiva e seducente, suonava il Guadagnini di suo padre.
Senza più alcuna smorfia di dolore sul viso.