La morsa di ferro della civiltà: l`età assiale - Contra

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La morsa di ferro della civiltà: l`età assiale - Contra
La morsa di ferro della civiltà: l’età assiale
di J. Zerzan
La civiltà è controllo e, in larga misura, consiste in un processo di estensione del controllo. Questa dinamica
si dispiega su livelli molteplici e ha prodotto alcuni punti di transizione di importanza cruciale.
La Rivoluzione neolitica della domesticazione, che ha instaurato la civiltà, ha comportato un riorientamento
della mentalità umana. Jacques Cauvin ha definito questo livello iniziale del controllo sociale “una sorta di
rivoluzionamento del simbolismo”1. Tuttavia, questa vittoria del dominio si rivelò incompleta, e le sue
fondamenta dimostrarono di aver bisogno di altri puntelli e di un’ulteriore ristrutturazione. Le prime civiltà
e i primi imperi degni di nota, in Egitto, Cina e Mesopotamia, restarono ancorati nella coscienza delle
culture tribali. Certo, la domesticazione aveva avuto il sopravvento – in sua assenza, non esisterebbe alcuna
civiltà –, ma le nuove prospettive dominanti erano ancora intimamente correlate ai cicli naturali e
cosmologici. La loro espressività simbolica complessiva non era ancora del tutto commisurata alle esigenze
dell’età del ferro, nel primo millennio prima di Cristo.
Karl Jaspers ha individuato un punto di svolta della risimbolizzazione umana nell’“età assiale”2, un’epoca
che si è snodata tra l’800 e il 200 a.C. nei tre principali territori della civiltà: il Vicino Oriente (Grecia
compresa), l’India e la Cina. Nello specifico, Jaspers ha identificato nel VI secolo importanti profeti e figure
spirituali quali Zoroastro in Persia, Deuteroisaia tra gli Ebrei, Eraclito e Pitagora in Grecia, il Buddha in India
e Confucio in Cina. Questi individui fornirono in maniera simultanea – ma indipendentemente l’uno
dall’altro – un contributo indelebile alla coscienza postneolitica e alla nascita delle religioni mondiali3. Con
sviluppi dallo stupefacente decorso parallelo, si produsse un mutamento decisivo attraverso il quale la
civiltà stabilì a livello globale un ascendente più profondo sullo spirito umano.
Gli sviluppi interni a ciascuna di queste società interruppero la relativa quiescenza delle culture precedenti
dell’età del bronzo. Un mutamento dilaniante e nuove esigenze imposte alle dinamiche preesistenti si
posero in evidenza in molte zone. Negli anni compresi tra il 600 e il 450 a.C., ad esempio, la popolazione
urbana mondiale giunse quasi a raddoppiarsi4. Si era resa necessaria – e si era posta in atto – una
trasformazione universale capace di gettare le “basi spirituali dell’umanità”, basi che esistono a tutt’oggi5.
L’individualità fu così ben presto schiacciata dal ritmo sempre più rapido della civiltà dell’età del ferro.
L’accelerazione dell’opera di domesticazione imponeva una ricalibratura della coscienza via via che la
dimensione umana e l’integrità venivano accantonate. Mentre nelle prime civiltà mesopotamiche, per fare
un esempio, le divinità si identificavano più da vicino con le diverse forze della natura, adesso la società
generale si differenziava e il divario tra il naturale e il soprannaturale si accentuava. I processi naturali,
com’è ovvio, sussistevano ancora, ma le crescenti tensioni sociali ed economiche ne compromettevano
l’integrità nella loro funzione di fonti di significato.
L’età neolitica – come quella del bronzo – non aveva mai assistito al completo capovolgimento
dell’equilibrio natura-cultura. Prima dell’età assiale, gli oggetti venivano descritti a livello linguistico in base
all’attività a essi correlata; in seguito, l’accento fu spostato sulle qualità statiche degli oggetti, omettendo il
riferimento ai processi organici. In altri termini, ebbe luogo una reificazione in cui il punto di vista (ad
esempio etico) si allontanò dal discorso correlato alla situazione per spostarsi verso un orientamento più
astratto e decontestualizzato. Per citare Henry Bamford Parkes, le nuove fedi affermarono “una visione
della vita umana più che tribale”6.
Tutto il patrimonio dei luoghi sacri, del politeismo tribale e della venerazione di quanto era incentrato sulla
terra fu infranto, e i suoi rituali e i suoi sacrifici risultarono di punto in bianco obsoleti. Di pari passo con
l’ascesa delle civiltà “superiori” e delle religioni mondiali, fece la sua comparsa l’idea di sistema, e assunse il
predominio l’esigenza di una codifica7. Nelle parole di Spengler, “il mondo intero è un sistema dinamico,
esatto, matematicamente ordinato, capace fin nelle sue prime cause di essere verificato a livello
sperimentale e di essere fissato sul piano numerico in modo che l’uomo possa dominarlo (…)”8. Un punto
comune di questa nuova riformulazione fu l’ascesa della singola divinità universale, che richiedeva la
perfezione morale anziché le antiche cerimonie. L’aumento del controllo sulla natura e sulla società doveva
evolversi verso un’accentuazione del controllo interiore.
L’umanità “animista” preassiale si fondava non solo su una repressione meno totalizzante, ma anche su un
persistente senso dell’unione con la realtà naturale. Le nuove religioni invece tesero a scindere i legami con
il multiforme mondo profano imponendo la chiusura sopra e contro il soprannaturale e l’innaturale.
Questo processo comportò (e tuttora comporta) quella che Mircea Eliade chiamò “cosmicizzazione”, il
passaggio da un piano situazionale e condizionale a un “modo d’essere incondizionato”9. Esiste
un’immagine buddista che rappresenta “lo sfondamento del tetto”, vale a dire la trascendenza dal mondo
terreno e l’ingresso in una realtà transumana10. Le nuove religioni, tipicamente monoteiste, guardavano
con ogni evidenza a questa trascendenza come a un’unità, al di là di qualunque particolarità dell’esistenza.
Per far fronte alla crescente incapacità delle autorità politiche e religiose di fornire un contenimento
adeguato alla disaffezione dell’età del ferro, si rese necessaria un’autorità o una rappresentanza
sovraindividuale, “il concetto della religione più ricorrente sul piano culturale, più rilevante sul piano
cognitivo e meno resistibile sul piano evolutivo”11.
Il rapporto personale diretto con la fondamentale realtà spirituale fu il fenomeno che attestò lo sfacelo
della comunità. Lo sviluppo di un’identità religiosa individuale, distinta dal posto occupato dall’individuo
nella tribù e nel mondo naturale, fu una delle caratteristiche della coscienza assiale. La personalizzazione
del viaggio spirituale e del distanziamento dalla terra plasmarono a loro volta le società umane. Queste
innovazioni negavano e reprimevano le tradizioni autoctone alimentando l’implicita illusione di sottrarsi
alla civilizzazione. La trasformazione interiore, “diretta verso l’alto”, implicava un divorzio dello spirito dal
corpo, il nirvana separato dal samsara. L’astensione yogica, l’ascetismo che rinnega la vita e via dicendo
erano tutti profondamente dualistici, quasi senza eccezione.
Questa tendenza si osservò in molti luoghi, soprattutto a partire dal 500 a.C. circa, nel contesto di un livello
inedito di razionalizzazione e di controllo della quotidianità. Riferendosi alle conseguenze di questo
fenomeno, S.N. Eisenstadt ha parlato di una “ribellione contro i vincoli della divisione del lavoro,
dell’autorità, della gerarchia e [...] della strutturazione della dimensione temporale [...]”12. Le religioni
assiali si formarono in un periodo di dissesto sociale, quando le antiche fonti di soddisfazione e sicurezza
cominciarono a venir meno e la precedente autonomia relativa delle tribù e dei villaggi iniziò a sgretolarsi. Il
risultato generale fu un notevole rafforzamento dei sistemi tecnologici e l’ascesa pressoché simultanea di
potenti imperi in Cina (Qin Shi HuangDi), India (dinastia dei Maurya) e Occidente (imperi ellenistici e, poco
dopo, l’Imperium Romanum).
La domesticazione/civilizzazione si mosse lungo questa traiettoria in virtù della sua stessa essenza, dando
vita alla tecnologia in quanto dominio della natura e a sistemi basati sulla divisione del lavoro. Prima del
3000 a.C. nel Sinai (prima età del bronzo) già si praticava l’estrazione mineraria, e nel corso del terzo
millennio la tecnologia metallurgica subì un rapido sviluppo. Queste innovazioni coincisero con la nascita di
stati veri e propri e con l’invenzione della scrittura. La denominazione delle fasi dello sviluppo culturale
fondata sul riferimento ai metalli ne attesta in modo appropriato il ruolo centrale: la metallurgia ha infatti
stimolato a lungo tutte le altre attività produttive. Nell’800 a.C. al più tardi l’età del ferro si era affermata in
tutto e per tutto in Occidente, con la produzione massificata di oggetti standardizzati.
La massificazione della società, fondata sulla specializzazione, diventò perlopiù la norma. Per esempio, i
fabbri dell’età del bronzo ricercavano, estraevano e fondevano i minerali metallici e quindi lavoravano i
metalli e creavano leghe. Gradualmente, invece, ciascuno di questi processi divenne prerogativa di singoli
specialisti, e l’autonomia e l’autosufficienza ne risultarono compromesse. Quanto alla lavorazione della
ceramica, quella che un tempo era una comune attività domestica fu rilevata da professionisti del
settore13. A questo punto il pane veniva prodotto più di frequente dai panettieri che nelle case. Non è un
caso che l’età del ferro e l’età assiale inizino quasi nello stesso momento, intorno all’800 a.C. Le turbolenze
e i sollevamenti del mondo reale trovano nuove consolazioni e compensazioni nel territorio dello spirito:
nuove forme simboliche per future società di frazionamento14.
Nell’Odissea omerica (VIII secolo a.C.), i Ciclopi, tecnologicamente arretrati, conducono una vita di
straordinaria agiatezza, se paragonata ai popoli coevi della Grecia dell’età del ferro, quando un sistema
manifatturiero era già agli esordi. Lo sviluppo degli aratri e delle armi in acciaio accelerò la distruzione della
natura (erosione, deforestazione ecc.) e i danni della guerra.
In Persia già si raffinava il petrolio, sebbene non lo si estraesse ancora. Proprio lì stava facendo la sua
comparsa il profeta Zoroastro (o Zarathustra), che elaborò potenti concetti quali quello dell’immortalità,
del giudizio universale e dello spirito santo (ben presto assimilati dall’ebraismo). Il dualismo della lotta
sferrata contro il male dal divino Ahura Mazda era in larga misura teologico, in un sistema religioso
intimamente legato alle esigenze dello stato. Di fatto, il sistema giuridico persiano del periodo achemenide
(558-350 a.C.) coincise quasi del tutto con lo zoroastrismo, e in effetti quest’ultimo divenne ben presto la
religione di stato. Secondo Harle, lo zoroastrismo “nacque per soddisfare il bisogno di ordine sociale in una
società in rapido mutamento ed espansione”15.
Il monoteismo zoroastriano non costituì soltanto un allontanamento definitivo dall’animismo e dagli antichi
dei, ma segnò anche una notevole elevazione delle categorie di bene e male a concetti universali e basilari.
Questi due aspetti furono componenti fondamentali dell’età assiale. Spengler considerava Zarathustra un
“compagno di viaggio dei profeti di Israele”, i quali estraniarono anch’essi le credenze popolari dal reticolo
di riti e prospettive panteistici e locali, incentrati sulla natura16.
La tradizione ebraico-giudaica stava subendo un mutamento analogo, soprattutto in quel medesimo VI
secolo, nel momento cruciale dell’età assiale. Nel Mediterraneo orientale, in particolare in Israele, si stava
assistendo a un’ondata di urbanizzazione tipica dell’età del ferro. L’ordine sociale era sottoposto a una
considerevole tensione nel contesto di un bisogno nazionale di identità e coesione, soprattutto di fronte ai
più potenti vicini, che si stavano costituendo in impero. Per due terzi del VI secolo gli Israeliti furono
prigionieri dei Babilonesi.
Da dio locale della fertilità, Yahweh ascese a una condizione monoteistica in modo commisurato alle
esigenze di un popolo assediato e minacciato. La sua grandezza, e l’universalità del suo ambito di rilevanza,
uguagliarono l’ambizione di potenza dei Giudei in un mondo ostile17. Nell’VIII secolo a.C. Amos aveva
annunciato questa prospettiva come una traiettoria spirituale di deritualizzazione e trascendenza. La
singolarità ebraica si dispiegò quindi sullo sfondo di una divinità radicale e unitaria.
L’“uomo nuovo” di Ezechiele (inizi del VI secolo a.C.) si collocava in una dimensione sovrannaturale che,
ancora una volta, traeva origine da un periodo di instabilità. Come ha osservato Jacob Neusner, nel VI
secolo a.C. – al più tardi – l’economia non si fondava più sulla sussistenza e sull’autosufficienza18. Il ruolo
dell’ambiente domestico aveva subito un notevole ridimensionamento in seguito alla divisione del lavoro e
alla nascita del mercato massificato. Un dio onnipotente che imponeva la sottomissione assoluta
rispecchiava le aspirazioni dei governanti all’autorità imposta dall’alto e deputata alla stabilizzazione. Al pari
di Zeus, Yahweh era in origine un dio della natura, per quanto correlato alla domesticazione. Il suo dominio
giunse a stabilire il controllo sull’ordine civico e morale, fissato dal governo dei re. Fu a questo punto, e il
fatto non sorprende, che la sofferenza assunse un ruolo positivo di redenzione, di pari passo con un
raffinato dominio politico. Deuteroisaia (il Secondo Isaia), il più grande dei profeti ebrei dell’età assiale,
creò un’ideologia regale proprio nel VI secolo a.C.19 Il profeta annunciò che l’essenza più intima del patto
con Dio era incarnata dal sovrano in persona, che, insomma, il re era il patto20. Questa affermazione traeva
la propria forza dalla legge cosmica universale, a prescindere da qualunque percezione sensoriale e da
qualsiasi parallelo terreno: i fenomeni naturali non ne erano che un’espressione, elaborata in un’infinità
inconoscibile ai comuni mortali.
Nella Grecia presocratica, in special modo all’epoca di Pitagora ed Eraclito, nel VI secolo a.C., le comunità
tribali stavano andando incontro alla disintegrazione, mentre nuove collettività e nuovi complessi
istituzionali erano in via di formazione. Nelle miniere d’argento di Laurium lavoravano migliaia di schiavi.
L’“avanzata tecnologia manufatturiera”21 delle grandi officine urbane presentava di frequente un elevato
grado di divisione del lavoro. “Ad Atene la ceramica veniva prodotta in fabbriche che giungeva a dare
impiego, alle dipendenze del mastro ceramista, anche a settanta uomini”22. Gli scioperi e le rivolte di
schiavi non erano rari23, e le industrie domestiche e i piccoli agricoltori facevano fatica a competere con la
recente produzione di massa. Le frizioni sociali trovavano espressione, come sempre, nel contrasto tra
differenti visioni del mondo.
Esiodo (VIII secolo a.C.) si inserì in una tradizione di elogio dell’età dell’oro, che celebrava un’umanità
originaria e pura. Nell’età del ferro questi autori intravedevano un ulteriore degradante allontanamento da
quelle origini. Al contrario, Senofane (VI secolo) proclamava in modo inequivocabile che il nuovo era
preferibile, facendo eco ai profeti ebrei dell’età assiale, che avevano contribuito in modo significativo al
pensiero progressista. Il filosofo si spinse a intravedere nel movimento progressivo della civiltà l’origine di
tutti i valori, che raggiungevano la massima gloria nell’urbanizzazione e nei sistemi tecnologici sempre più
complessi24. Senofane fu il primo a proclamare la fede nel progresso25, e anche se i cinici si schieravano a
favore della vitalità e dell’indipendenza del passato, il nuovo credo guadagnò terreno. I sofisti ne portarono
la bandiera, e a partire dal 500 a.C. il diffuso elogio della civiltà superiore sopraffece la precedente nostalgia
di un primordiale mondo scevro da alienazione.
Le basi trascendentalizzanti di questo spostamento di prospettiva si intravedono nell’accelerazione del
distanziamento dalla terra, che stava avendo luogo su livelli molteplici. Il pluralismo terreno dei piccoli
produttori, caratterizzato da un’affezione politeistica agli usi e ai costumi locali, fu trasformato dalla
crescita e dalla stratificazione urbana e da una prospettiva più distaccata che potesse addirsi a questo
fenomeno. La Repubblica di Platone (400 a.C. circa) è un prodotto raggelante e incorporeo della crescente
tendenza alla trasformazione del pensiero e della società secondo linee standardizzate e isolanti. Questo
modello di società fu un’imposizione premeditata del nuovo autoritarismo, esplicitamente estraneo alle
ricchezze superstiti con cui la civiltà era coesistita fino a quel punto.
La vita sociale si impose in tutti gli ambiti della coscienza, e i due schemi, quello dell’età del ferro e quello
dell’età assiale, si sovrapposero e interagirono assieme anche in India. Il periodo compreso tra il 1000 e il
600 a.C. segnò la transizione dell’età del ferro da una modalità socio-economico-culturale di stampo
tribale-pastorale a una stanziale-agraria. Il dominio del surplus e del sedentarismo subì un rapido sviluppo
grazie alla piena maturazione dell’agricoltura basata sull’aratro in ferro e in acciaio. In India, anche le
miniere e le prime fabbriche si incentrarono sulla tecnologia del ferro, contribuendo a spingere verso
l’omogeneizzazione delle culture nello stato Mauryan. Via via che, per citare Romila Thapar,
l’“egualitarismo tribale” cedeva il passo al nuovo sistema, quanto meno a partire dal 500 a.C.26, nella valle
del Gange si assisteva a una nuova ondata di domesticazione (ad esempio dei cavalli), di urbanizzazione, di
estesa privatizzazione e di lavoro salariato.
Questa fu anche approssimativamente l’epoca del Gautama Buddha. Le origini e il ruolo del buddismo in
relazione alla diffusione dell’età del ferro non sono difficili da rintracciare27. Gli scritti canonici parlano di
antichi maestri buddisti che svolgevano la funzione di consiglieri presso i governanti di alcuni stati indiani, a
testimoniare la diretta utilità rivestita dal buddismo per il nuovo ordine urbano in un periodo di grandi
trasformazioni. Vari analisti hanno interpretato la riformulazione buddista delle premesse dell’induismo
quale ideologia nata per soddisfare le esigenze di una struttura inizialmente contestata28. I primi
sostenitori del buddismo, è evidente, facevano perlopiù parte delle élite urbane e rurali29.
Per il Buddha – e per altri profeti dell’età assiale in generale – la sfera individuale aveva la precedenza su
quella sociale. Egli era l’osservatore distaccato, che aspirava alla libertà dal mondo e accettava perlopiù un
ambito d’attenzione e responsabilità molto ristretto. Questo atteggiamento corrisponde a un fatalismo che
fondò il buddismo innanzitutto sulla sofferenza, una condizione della vita che bisogna accettare. Il
messaggio del dukkha (sofferenza) esprime la fondamentale incapacità della condizione umana di
comprendere entrò di sé la felicità.
Eppure, ponendo l’accento sulla salvezza individuale, il buddismo prometteva una via d’uscita dal
dislocamento e dal malessere sociale30. L’obiettivo ultimo è l’“estinzione” o nirvana, la soppressione di
ogni interesse per il mondo raggiunta da chi ne è ormai disincantato. In modo analogo, la presentazione del
“processo cosmico” offerta dal Buddha era privata di qualunque processo terreno, umano o non umano
che fosse. Pur criticando il sistema delle caste e l’ereditarietà del sacerdozio, il Buddha non assunse un
ruolo attivo nell’opporvisi. Il buddismo era molto adattabile riguardo al mutamento delle situazioni sociali,
e quindi risultava utile alle classi dominanti.
Il buddismo divenne una delle tante religioni mondiali, estendendosi su scala globale e presentando
caratteristici esseri sovrumani cui rivolgere le preghiere. Intorno al 250 a.C. il Buddha si era trasformato
nella nota figura divina assisa e il buddismo era la religione ufficiale dell’India secondo il decreto di Asoka,
l’ultimo sovrano della dinastia Mauryan.
L’età del ferro si affermò in Cina un po’ più tardi che in India; qui la produzione industriale di ferro battuto
si diffuse al più tardi nel IV secolo a.C. In precedenza, il politeismo dell’età del bronzo era simile a quello
osservato in altre zone, con tanto di una profusione di spiriti, celebrazioni della natura e della fertilità e via
dicendo, ad attestare uno stile di vita meno specializzato e di portata più ristretta. La dinastia Zhou aveva
cominciato a declinare in via graduale a partire dall’VIII secolo, e le guerre e le lotte di potere continue
raggiunsero un apice nel periodo dei Regni Combattenti (482-221 a.C.). In tal modo, le tradizioni spirituali
autoctone, tra cui lo sciamanesimo e alcuni culti locali della natura, furono travolte da un contesto di
consistente mutamento tecnologico e politico.
Il taoismo fu un elemento di questa era di cambiamento radicale, e offrì un percorso di distacco dal mondo
e di spiritualità pur conservando alcuni filoni di tradizione spirituale animista. Di fatto, il primo taoismo era
una religione incentrata sull’azione, e alcuni dei suoi “ribelli leggendari” si dedicarono alla resistenza nei
confronti delle nuove tendenze stratificanti, per ristabilire un’età dell’oro priva di classi31
La tematica primitivista si rileva con chiarezza in Chuang-tzu e sopravvive nel Tao Te Ching, testo
fondamentale della voce più eminente del taoismo, Lao-tse (VI secolo a.C.). L’enfasi sulla semplicità e su
una visione antistatalista contrappose il taoismo alle esigenze della civiltà superiore in Cina. Anche in
questo caso, il VI secolo a.C. fu un’epoca cruciale, e la contrapposizione tra il messaggio di Lao-tse e quello
di Confucio è tipica della scelta operata nell’età assiale.
A differenza di Lao-tse, suo antagonista a tutti gli effetti, Confucio (557-479 a.C.) si fece paladino dello stato
e del nuovo ordine mondiale. Invece di rimpiangere l’era virtuosa del “nobile selvaggio”, il tempo
precedente la formazione delle classi e la divisione del lavoro, la dottrina confuciana coniugò il
progressismo culturale con l’abbandono dei legami con la natura. Sulle divinità dei monti e dei venti, sugli
spiriti ancestrali e così via non fu posto alcun veto, ma quelle entità non furono più considerate centrali, e
neanche rilevanti.
Il confucianesimo fu un adattamento esplicito alla nuova realtà, uno schieramento dalla parte del potere
compiuto in modo più efficiente e meno trascendente che in altri spiritualismi dell’età assiale. Per Confucio,
la trascendenza era soprattutto interiore: egli pose piuttosto enfasi sul rigore etico al servizio dell’autorità.
In tal modo ebbe luogo un’ulteriore colonizzazione civilizzatrice, sul piano della personalità individuale.
L’interiorizzazione di una rigida struttura di dominazione, priva dell’aspetto teologico ma disciplinata da un
elaborato codice di comportamento, è stata l’approccio confuciano che ha dominato sulla Cina per duemila
anni.
Queste istantanee estremamente superficiali delle società dell’età assiale possono servire quantomeno a
offrire un contesto minimo alla formulazione di Jaspers della “svolta” spirituale globale. Il crescente
conflitto tra cultura e natura, le tensioni sempre maggiori dell’esistenza umana si risolsero a favore della
civiltà, elevandola a un nuovo livello di dominio. Il giogo della domesticazione fu modernizzato e adattato in
modo più rigido che mai. L’ambito spirituale fu decisamente circoscritto e le antiche fedi fondate sulla terra
furono rese obsolete. La prima vittoria della civiltà sulla libertà e sulla salute fu ribadita e ampliata, e in
questo processo di aggiornamento furono molte le vittime sacrificali.
Tutto il territorio della pratica spirituale fu modificato per adeguarsi ai nuovi requisiti della civilizzazione di
massa. Le religioni dell’età assiale offrirono la “salvezza” al prezzo della libertà, dell’autosufficienza e di
gran parte dei rapporti diretti sopravvissuti nelle comunità. Nel vecchio ordine le autorità dovevano
ricorrere alla coercizione e alla corruzione per controllare i loro sudditi. Da quel momento in poi, poterono
operare più liberamente entro l’ambito appena conquistato del servizio e della venerazione.
Gli dei furono creati innanzitutto per soddisfare i radicati bisogni dei popoli che venivano costantemente
deprivati dei loro autentici poteri e della propria autonomia. Tuttavia, per quanto la via d’uscita da quella
progressiva abiezione fosse stata sbarrata dal mutamento dell’età assiale, la civiltà non è mai stata
accettata fino in fondo, e quasi nessuno si è mai identificato appieno con il sé “spiritualizzato”. In che modo
si sarebbero potute abbracciare del tutto quelle idee, fondate com’erano su un’immane sconfitta? Per
Spengler, le genti dell’età assiale che adottarono queste nuove religioni erano “cittadini stanchi”32. Anche
gli odierni fedeli sono probabilmente stanchi abitanti di megalopoli – ancora troppo spesso incantati, dopo
tanti anni, da ideologie di sacrificio, sofferenza e redenzione.
Le rinunce sono state innumerevoli. Il buddismo fu fondato, ad esempio, da un uomo che aveva
abbandonato la moglie e il figlio neonato quali ostacoli al suo progresso spirituale. Gesù, qualche secolo più
tardi, costrinse i suoi seguaci a compiere “sacrifici” analoghi.
L’imminente catastrofe della realtà odierna è correlata in misura consistente con il rapporto tra religione e
politica – e, cosa più importante, con l’accettazione di un’inevitabile traiettoria della civiltà. È stata l’idea
dell’“inevitabilità” a spingere le genti del VI secolo a.C. verso le false soluzioni della religiosità dell’età
assiale; oggi la nostra impressione di inevitabilità rende inermi di fronte alla rovina, su tutti i fronti. 2.500
anni non ci sono bastati a imparare che la fuga dalla comunità, e dalla terra, non è una soluzione, ma una
causa fondamentale dei nostri problemi.
La spiritualità autentica è una funzione quanto mai importante del nostro legame con la terra. Per
reclamare la prima, dobbiamo recuperare il secondo. Il fatto che tanta strada ci resti ancora da fare è
misura della nostra profonda miseria. Avremo la fantasia, la forza e la determinazione necessarie per
recuperare l’integrità che fu un tempo diritto di tutti noi umani fin dalla nascita?
1Jacques Cauvin, The Birth of the Gods and the Origins of Agriculture Cambridge University Press,
Cambridge 2000, tradotto dal francese da Trevor Watkins, p.2 (edizione originale: Naissance des divinités,
naissance de l’agriculture: la revolution des symboles au neolithique, CNRS, Paris 1997).
2Karl Jaspers, The Origin and Goal of History, Yale University Press, New Haven 1953, tradotto dal tedesco
da Michael Bullock, pp. 1-25 in particolare (edizione originale: Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Piper
& Co., München 1949; trad. it. di A. Guadagnin: Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano
1965).
3 Il cristianesimo e l’islam si potrebbero adeguatamente considerare effetti tardivi di questo periodo
assiale, in quanto la loro natura si era già affermata alcuni secoli prima.
4 Andrew Bosworth, “World Cities and World Economic Cycles”, in Civilizations and World Systems, a cura
di Stephan K. Sanderson, AltaMira Press, Walnut Creek, CA 1995, p. 214.
5 Karl Jaspers, Way to Wisdom,Yale University Press, New Haven 2003 [1951], tradotto dal tedesco da
Ralph Manheim, pp 98-99 (edizione originale: Einführung in die Philosophie: Zwölf Radiovorträge, Artemis,
Zürich 1950; trad. it. di Pietro Chiodi: Introduzione alla filosofia, Longanesi, Milano 1959).
6 Henry Bamford Parkes, Gods and Men: The Origins of Western Culture, Vintage Books, New York 1965, p.
77.
7 John Plott, Global History of Philosophy, Motilal Manarsidass, Delhi 1963, vol. I, p. 8.
8 Oswald Spengler, The Decline of the West, Alfred A. Knopf, New York 1928, traduzione dal tedesco di
Charles Francis Atkinson, vol. II, p. 309 (edizione originale: Der Untergang des Abendlandes, Braumüller,
Wien 1918-20; trad. it. a cura di a cura di Rita Calabrese Conte, Margherita Cottone, Furio Jesi: Il tramonto
dell’Occidente, Longanesi, Milano 1978, 3° ed.).
9 Mircea Eliade, “Structures and Changes in the History of Religions”, in City Invincible, a cura di Carl H.
Kraeling e Robert M. Adams, University of Chicago Press, Chicago 1958, p. 365.
10 Ibid., pp 365-366. Il balzo di Karl Barth al “livello superiore della fede” ha un senso analogo; cit. in
Seyyed Hossein Nasr, Knowledge and the Sacred, State University of New York, Albany 1989, p. 48.
11 Scott Atran, In Gods We Trust: the Evolutionary Landscape of Religion, Oxford University Press, New
York 2002, p. 57.
12 S.N. Eisenstadt, “The Axial Age Breakthroughs,” in: Daedalus, 104 (1975), p. 13. “Possano gli Dei
distruggere l’uomo che per primo scoprì le ore e che per primo innalzò qui una meridiana”, Plauto, III
secolo a.C. Quello di Eisenstadt è il miglior saggio generale che sia riuscito a reperire sull’argomento.
13 A questo proposito, viene in mente, a quasi tre millenni di distanza, la sorte dei tessitori domestici
manuali: la gestione casalinga e indipendente della tessitura fu travolta dal sistema delle manifatture
introdotto con la Rivoluzione industriale.
14 È un singolare paradosso che Nietzsche abbia chiamato Zarathustra il suo personaggio archetipo “al di là
del bene e del male”.
15 Vilho Harle, Ideas of Social Order in the Ancient World, Greenwood Press, Westport, CT 1998, p. 18.
16 Spengler, op. cit., pp 168, 205.
17 V. Nikiprowetzky, “Ethical Monotheism,” in: Daedalus, 104 (1975), pp 80-81.
18 Jacob Neusner, The Social Studies of Judaism: Essays and Reflections, Scholars Press, Atlanta 1985, vol. I,
p. 71.
19 Paolo Sacchi, The History of the Second Temple Period, Sheffield Academic Press Ltd., Sheffield 2000, p.
87 (edizione italiana: Storia del secondo tempio: Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Società editrice
internazionale, Torino 1994).
20 Ibid., pp 99-100.
21 Friedrich Klemm, A History of Western Technology, Charles Scribners Sons, New York 1959, traduzione
dal tedesco di Dorothea Waley Singer, p. 28 (edizione originale: Technik : Eine Geschichte ihrer Probleme,
Alberg, Freiburg-München 1954; trad. it. di Umberto Zangrande: Storia della tecnica.
22 Charles Singer, E.J. Holmyard, A.R. Hall (eds.), A History of Technology, Clarendon Press, Oxford 1954,
vol. I, p. 408 (trad. it. a opera di autor* non segnalat*: Storia della tecnologia, Boringhieri, Torino 1966-85).
23 C. Osborne Ward, The Ancient Lowly, Charles Kerr, Chicago 1888, vol. I, cap. 5.
24 Ludwig Edelstein, The Idea of Progress in Classical Antiquity, Johns Hopkins University Press, Baltimore
1967, pp 15-16 (trad. it. di Marco Fantuzzi, rivista da Giovanni Climaco: L’idea di progresso nell’antichità
classica, Il Mulino, Bologna 1987).
25 Ibid., p. 3.
26 Romila Thapar, “Ethics, Religion, and Social Protest in India”, in: Daedalus (104), 1975, p. 122. V. anche
pp 118-121.
27 Ad esempio, Vibha Tripathi (ed.), Archaeometallurgy in India, Sharada Publishing House, Delhi 1998, in
particolare Vijay Kumar, “Social Implications of Technology”.
28 Vedi Greg Bailey e Ian Mabbet, The Sociology of Early Buddhism, Cambridge University Press, Cambridge
2004, pp 18-21. Bailey e Mabbet, va sottolineato, delineano un quadro completo che si spinge al di là di
questo singolo fenomeno.
29 Thapar, op. cit., p. 125.
30 Bailey and Mabbet, op. cit., p. 3.
31 Joseph Needham, Science and Civilization in China, Cambridge University Press, Cambridge 1962, vol. II,
pp. 99-100, 119 (trad. it. di M. Baccianini: Scienza e società in Cina, Il Mulino, Bologna 1969).
32 Spengler, op. cit., p. 356 (trad. it. p. 819).
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