leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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http://www.10righedailibri.it
J.C. REEd
prigioniera
del tuo amore
romanzo
Traduzione dall’inglese di Francesca Noto
Prima edizione: giugno 2014
Titolo originale: Surrender Your Love
© 2013 by J.C. Reed
© 2014 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Leggereditore è di proprietà
della Sergio Fanucci Communications S.r.l.
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.leggereditore.it
Italian language rights handled by
Agenzia Letteraria Internazionale, Milano, Italy
in cooperation with Dystel & Goderich Literary Management.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
J.C. REEd
prigioniera
del tuo amore
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Ero seduta al bancone, e stavo bevendo il mio secondo
Margarita. La mia gonna al ginocchio sfiorava lo sgabello
vuoto accanto, mentre tamburellavo con le dita su una coscia, al ritmo della musica proveniente dall’invisibile impianto di amplificazione. Non era il genere di locale che
frequentavo di solito, ma il mio capo era stato irremovibile
sul fatto che dovessi incontrare Mayfield nel suo ambiente
preferito. Così avevo accettato, sebbene con una certa trepidazione, di entrare in un lussuoso club per soli uomini in
cui splendide ragazze si aggiravano per la sala in lingerie di
classe, e la regola del minimo di due drink mi era già costata
più della mia normale spesa settimanale.
A giudicare dalle innumerevoli luci e dagli scintillanti pavimenti di marmo, il locale trasudava stile e ricchezza. Sebbene fosse ancora vuoto, ero certa che si sarebbe ben presto
riempito, facendo guadagnare una fortuna al proprietario.
Una vivace ragazza che sembrava uscita da una copertina
di fhm si arrampicò su un palo e ridiscese in spaccata, per
‘riscaldarsi’, mentre il dj annunciava il programma della serata ai pochi avventori in completo da sartoria. Sospirai con
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impazienza, incassando ancora di più la testa nelle spalle,
seduta sul mio lussuoso sgabello che si sollevava al di sopra
dei morbidi divanetti di pelle e delle pareti a specchio accanto all’entrata.
Mayfield era in ritardo. Molto in ritardo, a dire il vero. Non
avevo mai sopportato i ritardatari, soprattutto quando sarei
dovuta essere a casa, a rilassarmi con un calice di vino dopo
una giornata trascorsa in mezzo agli agenti immobiliari. Quel
lavoro doveva essere un riempitivo finché non fossi riuscita
a mettere le mani su un posto in una compagnia come la Delaware & Ray, ma, come accade sempre, i lavori di ripiego
finiscono per diventare quelli definitivi. Così, dopo due anni,
mi ritrovavo ad averne ventitré, bloccata e piena di lavoro,
senza promozioni in vista.
Non appena vidi entrare quell’uomo nel locale, forse per
il modo in cui camminava, sicuro di sé e pieno di arroganza,
ebbi la certezza che non mi avrebbe portato altro che guai.
Così abbassai gli occhi sul mio drink evitando lo sguardo
curioso dello sconosciuto. Sentii i capelli rizzarsi sulla nuca.
Mi girai lentamente, rendendomi conto che si era fermato
proprio dietro di me. Il suo respiro caldo sfiorava la pelle
sensibile della mia guancia, quando si chinò su di me per
sussurrarmi all’orecchio.
«Spicca come un pollice dolorante. Non so esattamente se
sia un bene oppure un male.»
Aveva una voce bassa e roca. Calda.
Una voce da letto... Quell’espressione riecheggiò da qualche
parte in fondo alla mia mente.
Sentii il cuore balzare in gola, reazione che attribuii al fatto che non mi piacevano gli sconosciuti che si chinavano su
di me. E in particolare non quelli con la voce bassa e sexy,
con tanto di leggero accento del Sud. Lottando contro l’urgenza di scattare in piedi e mettere la necessaria distanza tra
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noi, raddrizzai la schiena e mi voltai a guardarlo, pronta a
rispondergli a tono.
Santo cielo.
Era incredibilmente bello. No, bello non rende l’idea. Era
spettacolare. Totalmente, completamente, assolutamente
spettacolare. Su una scala da uno a dieci, avrebbe ottenuto
un cento.
Per qualche istante, non potei fare altro che fissarlo, mentre lo stomaco mi si annodava e il battito accelerava paurosamente. Quell’uomo era maledettamente attraente e, a giudicare dal sorrisetto sornione che aveva sul volto, non era
sicuramente il tipo di ragazzo da far conoscere ai genitori.
Era alto, mi superava almeno di tutta la testa. Doveva sfiorare il metro e novanta. I suoi capelli corvini e umidi erano
forse un tantino troppo lunghi e scomposti, come se vi avesse appena passato in mezzo le dita. La sua giacca, bagnata
dalla pioggia che si riversava su New York da tre giorni, non
faceva niente per nascondere le spalle larghe e il fisico atleti­
co, e neanche la sua postura insolente. Nella luce soffusa del
locale, i suoi occhi elettrici scintillavano come smeraldi.
Non avevo mai visto occhi come quelli. Erano di un verde
cupo. Vibrante. Pronti a spogliare una donna con un singolo
sguardo. Mi sentivo già nuda, nonostante i vari strati di abbigliamento che indossavo. Li vidi spostarsi con aria soddisfatta sul davanti della mia camicia, e indugiare sulle mie gambe
più di quanto fosse accettabile. Sentivo la pelle fremere sotto
quello sguardo. Mi sistemai una ciocca di capelli ricci dietro
l’orecchio, umettandomi le labbra improvvisamente secche.
L’effetto che aveva su di me era al tempo stesso snervante
ed eccitante. Incrociai le braccia sul petto, mordendomi con
forza il labbro inferiore nel tentativo di riguadagnare l’uso
della parola. Lui mi osservò con le sopracciglia sollevate e
un’aria di evidente divertimento, come se sapesse cosa era
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riuscito a farmi con una singola occhiata. Ma non fu la sua
palese arroganza a farmi saltare subito i nervi. Fu il modo in
cui la sua mano aperta indugiò in modo intimo sulle mie reni, come se avesse già accarezzato in precedenza quel punto.
Come se le appartenesse.
«Come mai mi parla così? Perché non indosso un tanga
striminzito e i tacchi a spillo, e le mie tette non strabordano
da un reggiseno leopardato?» domandai a denti stretti, ignorando il piacevole calore che sembrava volersi concentrare
in qualche punto profondo del mio ventre.
«Jett Townsend.» Arricciò le labbra. «Mayfield non ce l’ha
fatta a venire, perciò dovrà vedersela con me. Ma non si preoccupi, andremo perfettamente d’accordo.» Assottigliò deliziosamente lo sguardo, creando una ragnatela di piccole rughe agli angoli esterni dei suoi occhi, mentre le sue labbra si
sollevavano in un divertito sorriso, mostrando due perfette
fossette. Perché mi sembrava di avvertire un malizioso doppio senso nelle sue parole?
«Brooke Stewart» risposi. Indugiai con lo sguardo sulla
sua camicia azzurra e sui jeans sbiaditi che indossava, il cui
orlo sfrangiato sfiorava i tacchi di un paio di stivali da cowboy, e non potei trattenere la sensazione di scherno che mi si
stava formando in gola.
«Vino?» domandai, pronta a ordinare.
«No, Sex on the Beach.» Ammiccò
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verso di me, sogghignando maliziosamente. Immaginai che stesse facendo una
battuta, e che, a giudicare dal suo sorriso poco casto, non si
stesse riferendo strettamente al cocktail. Iniziai a sentirmi
accaldata, all’immagine involontaria che mi era balenata in
mente, di noi due che facevamo sesso su una spiaggia. La
mia pelle fremette per l’innegabile attrazione che c’era tra
noi.
Ma che diavolo stava succedendo?
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Mi costrinsi a distogliere lo sguardo dalla sua figura, nella
speranza che quella violenta sensazione non fosse altro che
la mia immaginazione.
«Dunque, Brooke. Parlami di te.» Si piegò in avanti, lanciandomi un proditorio quanto affascinante sorriso.
Inspirai seccamente, d’un tratto infuriata. Come osava
darmi del tu e chiamarmi per nome? E soprattutto, come osava farlo in modo tanto sexy?
«Posso ricordarle che questo è un appuntamento di lavoro e non un’uscita tra amici?»
Lui inarcò le sopracciglia. «Perché, vuoi un appuntamento per uscire?»
«Cosa?» Le mie guance avvamparono, e il mio cuore prese a martellare ancora più forte. «Non era questo che intendevo. Io...»
I suoi occhi scintillarono di divertimento. «A quanto pare,
ti piace quello che vedi, e anche per me è così. Quindi...» Si
strinse nelle spalle, senza concludere la frase, lasciando il resto alla mia immaginazione.
Odiavo gli uomini attraenti, in particolare quelli che erano perfettamente consapevoli del loro fascino. «Si fidi, non
è niente che non abbia già visto.» La mia bugia sembrò ridicola, e lui lo sapeva. Riuscivo a vederlo nel suo sorrisetto
irritante, compiaciuto e tuttavia splendido.
Iniziai a sentirmi sempre più infuriata.
Quel nostro incontro doveva essere un iniziale tentativo
di scoprire se le nostre due compagnie potessero prendere in considerazione una possibile partnership. Il fatto che
la Mayfield Realties avesse mandato qualcuno che non
era neanche in grado di vestirsi nel modo appropriato per
l’occasione era ridicolo. Perché mai Mayfield voleva essere
rappresentato da un uomo che mancava chiaramente di
qualsiasi conoscenza di ciò che era anche solo lontanamente
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accettabile nel trattare con un potenziale socio in affari? O
forse a Mayfield non interessava la nostra collaborazione, e
quello era il suo modo per dirmi di andare al diavolo. In ogni caso, non ne ero contenta, e non avevo alcuna intenzione
di nascondere la mia insoddisfazione. Mayfield era un noto
figlio di puttana, nel suo campo. E sapevano tutti che non si
faceva fregare da nessuno. Se volevo farcela, in quel mondo
di tagliagole dominato dagli uomini, dovevo imitare le sue
tattiche, o lasciar perdere una carriera che già non stava andando da nessuna parte.
«Senta, apprezzo il fatto che lei sia venuto fin qui, Mr
Townsend, ma preferirei parlare almeno con un vicepresidente regionale. La prego di riferire a Mr Mayfield di chiamarmi appena sarà pronto a prendere un nuovo appuntamento. Buonasera.» Recuperando la borsa e il cappotto dal
bancone scintillante, saltai giù dallo sgabello e stavo per dirigermi all’uscita, quando le sue dita forti si chiusero intorno
al mio bicipite. Mi bloccai dov’ero.
«Non dimenticare l’ombrello. Non vogliamo che quel bel
visetto si bagni tutto, giusto?» mi bisbigliò Townsend all’orecchio, inviandomi un altro delizioso brivido lungo il corpo. Perché quell’uomo amava tanto i sussurri? Non avrebbe
potuto semplicemente parlare come tutte le persone normali? Mi girai alla cieca e afferrai l’ombrello che mi stava tendendo. Senza guardarmi più alle spalle, uscii a passo di marcia dal locale, tenendo la testa orgogliosamente alta. Soltanto
quando ebbi raggiunto il punto in cui avevo parcheggiato,
a una decina di metri di distanza dall’entrata principale del
club, mi fermai ed esalai un lungo respiro.
L’aria della notte era fredda. Mi strinsi nel cappotto e mi
affrettai ad aprire lo sportello della mia Volvo. Era una macchina vecchia, ma era anche il regalo di laurea del mio patrigno, quindi la amavo. Anche se era scomoda da guidare
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in città, la preferivo a dovermene stare chiusa in un taxi con
uno sconosciuto di cui non potevo fidarmi alla guida.
Ingranai la marcia e uscii dal parcheggio. Il mio sguardo
si fermò brevemente sullo sconosciuto che torreggiava sulla
soglia del locale, guardandomi, mentre proseguivo oltre.
Mi aveva seguito fuori? Il mio cuore prese nuovamente
a martellare, ma non mi fermai. Anzi, schiacciai il pedale
dell’acceleratore, e la Volvo borbottò, scattando in avanti. Il
motore gemette di protesta, ma non mi lasciai impietosire.
Qualunque cosa Townsend avesse in mente, decisi che era
pericoloso, e che non volevo vederlo mai più. Non ero di certo il tipo di donna che si lascia abbindolare da un bel fisico e
da un paio di deliziose fossette.
Raggiunsi il mio minuscolo appartamento a Brooklyn
Heights in meno di un’ora e parcheggiai la macchina di fronte
all’edificio a cinque piani che era diventato casa mia da quando ero uscita dal college, due anni prima. La strada era bagnata e deserta. Il lampione di fronte all’edificio emanava un bagliore dorato che si rifletteva sul portone di metallo, che dava
su uno stretto androne con una piccola portineria. Facendo
attenzione alle grosse pozzanghere, pescai le chiavi dalla borsa ed entrai, per poi infilarmi in ascensore fino al quinto piano.
La mia coinquilina e migliore amica, Sylvie, non era in casa. Da quando era riuscita a ottenere l’impiego nel settore
degli investimenti che aveva sempre sognato, a stento riusciva a rincasare prima di mezzanotte. Mi era stato insegnato
a impegnarmi al massimo in quello che facevo, ma Sylvie
riusciva a dare nuovi significati all’idea di duro lavoro. Arrivava al punto da sacrificare hobby, amicizie e salute per fare
straordinari non pagati e tentare di farsi notare per gli sforzi compiuti. Ogni mio tentativo di farle notare quanto fosse
stressata e quanto questo le facesse male era stato inu­tile, fino a quel momento, ma non ero intenzionata ad arrendermi.
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Lasciando l’ombrello in un portaombrelli d’ottone e borsa e cappotto sul vecchio tavolino dell’ingresso, scalciai via
le scarpe e mi diressi in cucina per versarmi un bicchiere di
vino, che ritenevo di essermi decisamente guadagnata. Stavo
sorseggiando il secondo calice, quando sentii la chiave girare
nella toppa e la testa bionda di Sylvie entrò nel mio campo
visivo.
«Che sorpresa!» Mi raddrizzai e indicai il bicchiere. «Ti va
un po’ di vino?»
«Sarà meglio che tu abbia una bottiglia intera.» Si lasciò
scivolare sul divano accanto a me e sollevò le lunghe gambe.
Lasciai risalire lo sguardo dalla sua gonna a righe appena sopra il ginocchio fino al suo viso e ai suoi capelli biondi e umidi. C’era qualcosa di diverso, in lei. Aveva il mascara sba­vato,
e la pelle sotto i suoi occhi azzurri era gonfia e arrossata, come se avesse pianto, il che mi sembrava impossibile. Sylvie
non era il tipo di persona che si lasciava andare facilmente alle
lacrime. In tutti gli anni in cui eravamo state mi­gliori amiche,
non l’avevo mai vista piangere. Sembrava sempre felice.
Mi raddrizzai, avvertendo istantaneamente che qualcosa
non andava. «Cosa è successo?»
«Mi hanno buttata fuori.»
«Cosa?»
Mi sfilò il bicchiere dalle mani e lo vuotò in un unico sorso.
«Mi hanno licenziato. Hanno detto che non avevano bisogno
di un’altra stagista. Bla, bla, bla.» Roteò gli occhi. «Le solite
stronzate.»
«Oh, merda.» Scossi il capo, incredula. «Ma hai lavorato
così tanto.»
«Lo so, che credi? Ma sai cosa? Non importa. C’est la vie. È
ora di andare avanti.» Si alzò di scatto in piedi, con il sorriso
sulle labbra. «Prepariamoci, su.»
Aguzzai la vista. C’era qualcosa, nel modo in cui evitava
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di guardarmi in faccia, che mi insospettì subito. «Aspetta!»
La afferrai per un braccio e la costrinsi a sedersi di nuovo sul
divano. «Non mi stai dicendo tutto.»
Lei tornò a roteare gli occhi.
«Avanti, parla» ripresi.
Sylvie serrò le labbra in una linea sottile.
«Sylvie» insistetti.
«D’accordo. Sono andata a letto con il capo.»
Spalancai la bocca. «No.»
Lei annuì. «Ebbene sì. La sua assistente personale, che è la
migliore amica di sua moglie, ha cominciato a insospettirsi.
E così, a quel bastardo è venuta la tremarella e ha deciso di
liberarsi di me.»
«Ma è legale?»
Lo era?
Sylvie si strinse nelle spalle. «Probabilmente no, ma il mondo è piccolo e ho bisogno di una referenza, se voglio sperare
di ottenere un altro lavoro in questo campo.»
«Che bastardo» mormorai, ripetendo la sua stessa espressione. Sylvie era la persona più intelligente che conoscessi.
Era la prima del suo corso al college, e qualsiasi compagnia
sarebbe stata ben contenta di assumerla. «Troverai un altro
posto in un attimo.» Non avevo dubbi, in merito.
Lei ammiccò. «Sì, solo che la prossima volta dovrai ricordarmi di non andare a letto con il capo, per quanto sia irresistibile.
Sei così fortunata ad avere Sean. Perlomeno, lui non è sposato
e non ti viene a dire che non ha neanche dormito nello stesso
letto con sua moglie negli ultimi due anni. Tanto per tirare fuori il solito cliché.»
La abbracciai con affetto, e Sylvie posò la fronte contro la
mia spalla, come faceva sempre quando una sua relazione
andava a finire male. E andava sempre a finire così, che lo
volessimo o meno.
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«Sean non è perfetto, lo sai. E io non voglio legarmi» dichiarai.
«Però, perlomeno è onesto. Ed è più di quanto si possa
dire della maggioranza degli uomini là fuori.»
Chiamatemi romantica, ma non ero d’accordo con Sylvie
su quel punto. Per me, gli uomini non erano tutti bugiardi o
terrorizzati da una relazione stabile. Alzai gli occhi al soffitto, al pensiero del ragazzo che tutti ritenevano perfetto. Sean,
il fidanzato che non voleva impegnarsi. E neanch’io volevo,
per motivi miei. Era bello, aveva successo sul lavoro, e stavamo insieme da quasi un anno, sebbene sapessi che la nostra
relazione era un vicolo cieco e poteva terminare da un momento all’altro. Se il suo ‘vediamoci ogni tanto’ poteva dirsi
una relazione, ecco cosa eravamo, in realtà: una specie di coppia di amici che finivano a letto.
Con un po’ meno di amicizia e un po’ più di letto.
Ci eravamo conosciuti una volta che io e Sylvie eravamo
uscite e ci eravamo sbronzate, e lei aveva dimenticato la borsetta in un bar. Sean l’aveva trovata, e quando si era presentato sulla soglia del nostro appartamento, avrebbe dovuto
ringraziarlo lei per non averle rubato i soldi e non aver gettato la sua carta d’identità nel primo bidone dell’immondizia.
Ma Sylvie era troppo occupata a vomitare in bagno, dove era
chiusa da quasi un’ora... quindi, Sean aveva conosciuto me.
Ci eravamo piaciuti subito, e avevo anche pensato che potesse diventare qualcosa di serio. Ma poi avevo scoperto che
per lui anche organizzare un semplice week-end insieme era
legarsi troppo. Non riuscivo a ricordare l’ultima volta che avevamo condiviso una serata romantica. Anzi, non riuscivo
a ricordare neanche di aver mai organizzato con lui qualcosa
di diverso dalle uscite con altri amici, finendo regolarmente
per ubriacarci.
Fin dall’inizio, Sean mi aveva fatto capire chiaramente che
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non eravamo una coppia fissa, e a me stava bene, perché lui
mi faceva sentire bene. Quando c’era lui, sentivo di poter essere me stessa. Quando parlavamo, il tempo sembrava volare, e finivamo per passare tutta la notte a chiacchierare. Okay, non era amore, non quello che fa venire i brividi, i calori
e le farfalle nello stomaco, ma in fondo, quel tipo di amore
esiste davvero, al di fuori dei romanzi di Barbara Cartland?
«Comunque,» continuò Sylvie, strappandomi alle mie
considerazioni private «come è andato l’appuntamento con
quel tizio?»
«Mayfield» precisai, per rinfrescarle la memoria.
«Mayfield» ripeté lei.
«Non ne parliamo.» Sventolai una mano, scegliendo di evitare l’argomento. «Non si è neanche presentato all’appuntamento.»
«Sembra che entrambe abbiamo bisogno di un drink.»
Sylvie saltò in piedi di nuovo, questa volta trascinandomi
con lei. Esitai. Lei poteva anche essere disoccupata, ora, ma
io avevo ancora un lavoro. Sarebbe certamente stato divertente farsi un giro dei locali di New York, sorseggiando Margarita a mezzanotte, ma non avevo la Visa platinum della
mia amica, gentilmente offerta da suo padre, per pagare le
bollette. Mi sarei dovuta alzare presto, la mattina dopo, per
andare al lavoro.
«Avanti, tesoro.» Sapendo che mi avrebbe fatto ridere, tirò fuori il buffo accento inglese che aveva acquisito in una
delle vacanze con la sua famiglia. «Dimentichiamoci questo
dannato giorno.» Le mie labbra fremettero. «Saremo di ritorno in un batter di ciglia.» Il che, nel dizionario personale di
Sylvie, significava passare tutta la notte fuori. Ma era la mia
migliore amica e aveva bisogno di me. Avrebbe sicuramente
fatto lo stesso per me. Ovviamente, la mia serietà non aveva
alcuna possibilità di vincere.
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Roteando gli occhi, scossi la testa e la seguii fuori dall’appartamento. L’aria fredda della notte mi spostò qualche ciocca di capelli contro il viso. Fortunatamente, il nostro locale
preferito era appena dietro l’angolo, quindi non dovemmo
affrontare a lungo il freddo, prima di sistemarci al nostro
solito tavolo, circondate dagli innumerevoli ammiratori di
Sylvie, e da qualche bicchiere di tequila con lime.
Un suono insistente e penetrante mi svegliò troppo presto.
Mugolai, coprendomi le orecchie con il cuscino e pregando
silenziosamente che qualunque cosa stesse emettendo quel
maledetto suono la smettesse in fretta. Mi ci volle qualche
istante per rendermi conto che si trattava della mia sveglia.
Mi girai su un fianco e la lanciai sul pavimento. Una voce
maschile emise uno sbuffo divertito. Mi sollevai a sedere, di
colpo sveglia. Il mio sguardo si fermò sul ragazzo che se ne
stava disteso sul lato sinistro del mio letto, e iniziai a sentire
una vampata di imbarazzo salirmi prepotentemente al viso.
Era appoggiato su un gomito, con un braccio sotto la testa; il
suo petto scolpito, coperto da una leggera peluria scura che
scendeva verso l’addome piatto, era ovviamente nudo. E il
lenzuolo che copriva i suoi fianchi non lasciava nulla all’immaginazione. A dire il vero, non servì ad altro che a farmi
provare un indesiderato calore tra le gambe. Non solo era
attraente, ma anche ben dotato. Una combinazione piacevole, per quanto pericolosa, in un uomo. Mi umettai le labbra
improvvisamente secche, mentre scostavo lo sguardo dalla
protuberanza evidente sotto il tessuto sottile.
Che diavolo ci faceva quel ragazzo nel mio letto? E perché
era nudo?
Che credi, stupida? Non ci vuole mica un genio per capirlo. Basta dare un’occhiata a quel suo ghigno sornione.
Lanciai uno sguardo al suo volto. Alla luce chiara del
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mattino che entrava dalla finestra, sembrava più giovane di
quanto non mi fosse apparso la notte prima, ma altrettanto
arrogante. Le sue belle labbra si incurvarono nel sorriso più
sconvolgente che avessi mai visto. Un sorriso che da solo sarebbe bastato a spogliare una donna, come l’avrebbe definito Sylvie. Impallidii a quell’improvvisa consapevolezza. Mi
ero spogliata per lui?
Mi fissò con un’espressione di leggero divertimento negli
occhi scintillanti, del colore del muschio scuro coperto da un
sottile strato di nebbia opalina. Il modo in cui mi fissava mi
faceva sentire come se riuscisse ad attraversarmi il corpo e a
guardarmi direttamente nell’anima. Nessuno mi aveva mai
fatto sentire così, prima di quel momento. Del resto, non avevo mai incontrato qualcuno di così affascinante, ma in fondo
c’è sempre una prima volta per tutto.
«Pronta per il secondo round?» La sua voce trasudava insinuazioni. Avevo già sentito quel tono basso e roco, ma dove?
La mia mente lottò per tentare di collegare i ricordi attraverso
la nebbia provocata dall’alcol. Poi, di colpo, capii.
«Eri al Black Rose. Dovevo incontrare Mayfield, invece ha
mandato te!»
Il suo sorriso sornione si allargò, rivelando due file di denti candidi e regolari.
Denti bellissimi e forti, che avevano mordicchiato il mio
collo e la pelle sensibile delle mie cosce.
Diavolo, e questo da dove veniva? Scossi leggermente la
testa e tentai di aggrapparmi al ricordo che mi era passato
davanti agli occhi, ma era già svanito.
«Abbiamo per caso...» Accennai al suo petto nudo. Il mio
cuore cessò di battere per un attimo, mentre aspettavo di
sentirlo rispondere che era tutto un equivoco, che non mi
ero portata a letto uno sconosciuto, perché le storie di una
notte non erano proprio nelle mie corde. E poi ero impegna19
ta, e d’accordo, la nostra era una relazione aperta, ma barare
non era comunque nelle mie abitudini. Non mi stavo trasformando in Sylvie, vero? E probabilmente non ero così stupida da aver fatto sesso con quell’uomo.
Mister Mistero aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse, e in quel momento capii.
Ero davvero una ragazza facile, anche perché, tra l’altro,
non riuscivo a ricordarmi neppure il suo nome.
«Oh, dio.» Saltai fuori dal letto, rendendomi vagamente
conto del fatto che non avevo nulla addosso, neanche le mutandine. Probabilmente grazie a quel maledetto sorriso. Mortificata, gli strappai via il lenzuolo per coprirmi, poi raccolsi
quelli che immaginavo fossero i suoi jeans dal mucchio di vestiti sparso sul pavimento e glieli lanciai contro. Lui li afferrò
al volo, ma non si affrettò a infilarli. Era chiaro che non fosse in
imbarazzo a mostrare le parti intime senza il minimo pudore.
Buon per lui.
Con una smorfia, sibilai: «Vattene.»
Lui sbatté le palpebre e aggrottò la fronte, come se non fosse abituato a sentirsi trattare in quel modo da qualcuno. Era
forse un accenno di delusione, quello che scorgevo nei suoi
occhi? Scossi la testa, scacciando quei pensieri confusi. Perché
mai si sarebbe dovuto sentire deluso, se neanche mi conosceva? Ma poi quel qualcosa sparì dal suo sguardo, e i suoi occhi
scintillanti divennero di ghiaccio. Sentii il cuore stringersi nel
petto.
Gli volsi le spalle ed esclamai, senza girarmi: «Hai trovato
il modo di entrare in casa, quindi sono certa che saprai anche
come uscire.» Poi scattai fuori dalla stanza, cercando rifugio
in cucina dove trovai Sylvie che stava mettendo su il nostro
solito caffè mattutino.
«Qualcuno sta forse percorrendo la via del rimorso?» mi
domandò, indicando le mie guance infuocate.
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Fissai il suo viso truccato e i capelli perfettamente in piega.
Dannazione, come faceva a sembrare appena uscita da un
salone di bellezza, dopo una notte di bevute selvagge, finita
a vomitare nel minuscolo giardino davanti casa?
Sylvie mi porse la sua tazza di caffè. «Ecco, tieni. Ne hai
più bisogno di me.»
«Grazie.» Ne presi un sorso, bruciandomi la lingua. Il dolore improvviso e acuto fu comunque una gradita distrazione
dalla domanda che continuava a lampeggiarmi nella testa.
Perché avevo portato a casa un uomo?
«È ancora qui?» mi sussurrò Sylvie, con aria complice.
Rischiai di sputare il caffè. «Lo sai?»
Lei annuì. «Non hai esattamente cercato di nascondere il
fatto che te lo volevi portare a letto.»
Che diavolo avevo fatto? Mi ero spogliata e gli avevo fatto
la lap dance? Da come parlava Sylvie, sembrava che mi fossi
comportata come una ninfomane. Non mi stupiva, ora, che
il tipo fosse deluso per essersi visto rifiutare la sveltina del
buongiorno.
«Sei la mia migliore amica. Avresti dovuto fermarmi!» Ero
infuriata con lei, con me stessa, con Mister Sexy Arrogante
a Torso Nudo per aver accettato le mie avance dovute fin
troppo chiaramente all’alcol. Ma, per quanto fossi arrabbiata,
sapevo che lui era l’ultimo su cui potevo scaricare la colpa.
Quale uomo avrebbe mai detto di no a una ragazza consenziente dalla dubbia morale?
«Ero ubriaca» sussurrò Sylvie, come se quello potesse
spiegare tutto.
Dei passi pesanti risuonarono lungo lo stretto corridoio,
fermandosi sulla soglia della cucina. Trattenendo il respiro,
affondai lo sguardo nel caffè e desiderai di poterci affogare
dentro, così almeno avrei potuto evitare di dover affrontare
la vergogna che le mie azioni mi provocavano.
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«Buongiorno, ragazze» esordì Mister Mistero.
«Ti va una tazza di caffè?» Sylvie si affrettò a versargliene
un po’, ignorando il mio sguardo velenoso.
Ma che diavolo...?
Ora doveva anche rimanere per colazione? Non aveva capito l’antifona?
«Salute.» Prese un lungo sorso e sospirò leggermente.
Dannazione! Perché sembrava così sensuale anche soltanto
nel compiere azioni normalissime come bere il caffè? Sentii
le guance avvampare, mentre il mio sguardo scivolava sul
suo petto scolpito, e la mia mente mi restituiva immagini di
lui sopra di me. Era un tentativo del mio cervello di ricordarmi ciò che avevamo fatto, o soltanto la mia immaginazione?
«Come sei riuscita a rimorchiare uno stallone del genere?
Sono davvero invidiosa, e tanto, tanto fiera di te» sussurrò
Sylvie, senza preoccuparsi minimamente del fatto che la mia
conquista probabilmente aveva sentito ogni sua parola. Il
suo sguardo indugiò su di lui, apprezzando ciò che vedeva, e
probabilmente spogliandolo istantaneamente con quei suoi
occhi a raggi X. Di solito questi suoi atteggiamenti non mi infastidivano, ma per qualche inesplicabile motivo questa volta
la cosa mi urtò. La vidi arricciare le labbra in un languido sorriso, mentre iniziava a giocherellare con una ciocca di capelli
biondi. Non mi sarei sorpresa se si fosse attaccata a una sua
gamba, sbavandogli addosso.
«Smettila.» Le mollai una gomitata nelle costole, nel caso
fosse così ipnotizzata da non sentirmi.
Lei scrollò le spalle e fece un passo indietro, ma non smise
di fissarlo con insistenza.
«Qualche piano per la giornata?» domandò Mister Mistero. La cucina restò silenziosa, finché non mi resi conto che si
era rivolto a me. Alzai lo sguardo dal pavimento, fino ai suoi
occhi di quel verde impossibile, e desiderai subito non averlo
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fatto. Non avevo mai visto occhi così: verdi come il peccato,
un peccato che non mi era mai sembrato così invitante. Deglutii rumorosamente e implorai il mio cuore di rallentare,
prima che mi uscisse dal petto. Era forse un invito a trascorrere la giornata con lui? No, non poteva essere. Quell’uomo
aveva ottenuto la sua notte di sesso. Non è forse il sogno di
ogni uomo, divertirsi senza alcun tipo di legame? E allora
perché avrebbe dovuto sperare di poter rivedere le mie mutandine... a meno che quelle mutandine non fossero degne di
un secondo giro?
Il sangue prese a ribollirmi nelle vene, quando ammiccò
verso di me, con quella sua solita sicurezza. Quindi, il pranzo
gli era piaciuto, e sperava di avere il bis? D’accordo, cos’altro aveva da offrirgli il mio ristorante? Oh, brutte notizie: era
chiuso. Non avrebbe avuto altro, sebbene il mio corpo urlasse il contrario, e mi implorasse di seguire quella strada per
scoprire dove mi avrebbe portato.
«Sì, ho dei piani. Molto importanti.» Raddrizzai la schiena
e sostenni il suo sguardo intenso, decisa a farglielo abbassare. Lui inarcò le sopracciglia. I suoi occhi scintillavano di
sfida e determinazione.
«Allora cancellali» dichiarò, nel suo tono basso e roco.
Trattenni uno sbuffo e incrociai le braccia sul petto. Ma
davvero, chi credeva di essere? Forse la maggior parte delle
donne avrebbe dato qualsiasi cosa per trascorrere una giornata con lui, ma io non facevo parte di quella categoria. «No,
non è possibile.»
«Giochi a fare la difficile?» Sorrise, mostrandomi una fossetta alquanto sensuale. «Di sicuro ieri sera non lo eri.»
Sentivo le guance andarmi a fuoco. Sarei voluta diventare
invisibile e sparire dalla faccia della Terra. E solo dopo forse
sarei riuscita ad affrontare l’imbarazzo e l’umiliazione che
provavo. Forse.
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«Recupera la tua roba e va’ al diavolo.» Indicai la porta.
Lui non si mosse, quindi lo afferrai per un braccio e lo strattonai forte. Il suo bicipite si tese sotto la stoffa leggera della
sua camicia, ma lui non si mosse di un millimetro.
Inspirai seccamente ed espirai con lentezza, mentre sceglievo le parole. «Senti, qualunque cosa sia successa questa
notte, non succederà di nuovo.»
«E perché no?» rise lui. «Pensavo che ne volessi... ancora.»
Un lampo di dolorosa mortificazione mi bruciò dentro.
Nella mia stanza, mentre ci stavamo divertendo, ero forse
arrivata a dirgli che ne volevo ancora?
Oh, dio.
Il mio cuore iniziò a martellare contro le costole, mentre
lui mi fissava da capo a piedi, godendosi ogni istante di quella che avrei facilmente definito come la più grande umiliazione della mia vita.
«Perché no, davvero?» ripeté.
Serrai i pugni e sentii il viso contrarsi in una smorfia di rabbia, al lampo di divertimento che scorsi nei suoi occhi. «Perché è stato uno sbaglio. Dovevamo incontrarci per lavoro,
non per finire a letto» sibilai, puntandogli un indice contro
il petto muscoloso. La mancanza di una benché minima reazione da parte sua mi fece infuriare ancora di più. «Sei stato
soltanto uno sbaglio che ho commesso mentre ero ubriaca, e
che non ripeterei mai da sobria, quindi sarà meglio che ora
te ne vada.» Per qualche inesplicabile ragione, mi pentii di
quelle parole nello stesso istante in cui le pronunciai, ma non
c’era modo di tornare indietro. Era un uomo maledettamente
sensuale, con un volto stupendo e il corpo di un dio, ma non
potevo ignorare la consapevolezza che per uomini come lui
far cadere le donne ai loro piedi era soltanto una specie di
gioco. Un gioco per assicurarsi di essere sempre irresistibili.
E a giudicare dal pigro sorriso che gli aleggiava sulle labbra,
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ero certa che non potesse che concordare con me in merito.
Quindi, per quanto mi sentissi attratta da lui, dovevo assolutamente stargli lontano, per il mio bene.
Si chiama rispetto di sé stessi.
Cosa che non avevo certo dimostrato la notte prima.
Quel ragazzo era un donnaiolo che non mi avrebbe portato altro che guai. L’avevo capito nel momento stesso in cui
aveva messo piede al Black Rose, e la mia intuizione si era
rivelata totalmente esatta. Ingoiando il mio orgoglio, mi allontanai furiosamente da lui, senza riuscire a ignorare del
tutto il lampo di divertito interesse nei suoi occhi.
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Mister Mistero non mi seguì fuori dalla cucina. Avvertii
un fremito di rimorso, mentre recuperavo la prima camicia
e il primo paio di jeans che mi riuscì di trovare nell’armadio,
barricandomi nel minuscolo bagno per farmi una rapida
doccia prima di andare al lavoro.
Mi guardai allo specchio. Avevo degli antiestetici cerchi
neri intorno agli occhi nocciola. I capelli castani erano totalmente aggrovigliati, proprio come erano sembrati anche i
suoi, solo che a me quel look non stava bene come a lui. Ero
pallida, e tuttavia la mia pelle scintillava come succede soltanto dopo un lungo sonno, o a causa di ormoni post coito.
Non avevo certo bisogno di domandarmi da dove venisse
quel colorito, perché di sicuro non avevo dormito molto, cosa che non fece altro che mandarmi ancora di più su tutte le
furie.
Davvero, come mi era passato per la testa di portare a casa
un uomo? E cosa era passato per la testa di Sylvie, quando
mi aveva lasciato prendere una decisione del genere, ubriaca fradicia? Ora avevo di fronte un altro dilemma. Sean, il
mio presunto ragazzo, che non voleva neanche definire la
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nostra relazione, doveva saperlo? Lui sarebbe stato sincero
con me, se avesse avuto una notte di fuoco con un’altra?
Mi strofinai rabbiosamente il bagnoschiuma sulla pelle, e
mi lavai i capelli. L’acqua calda ripulì il mio corpo, ma non
riuscì a portare via anche la vergogna che provavo. Quando
uscii dalla doccia, avevo preso una decisione. Tra qualche
giorno ci sarebbe stato un party per festeggiare la promozione di Sean. Non gliel’avrei rovinato raccontandogli tutto, ma mi ripromisi di farlo dopo i festeggiamenti, chiedendogli scusa e facendo del mio meglio per sistemare i nostri
problemi. Sean mi piaceva, e volevo vedere dove il nostro
rapporto ci avrebbe portato in futuro, perciò non avrei lasciato che la storia di una notte si mettesse tra noi. Quello che
era accaduto la sera prima non era altro che il frutto di una
decisione sbagliata presa sotto l’effetto dell’alcol e degli ormoni impazziti. Mister Mistero non mi avrebbe più sconvolto l’esistenza, e neanche la mente... o le mutandine, se
era per quello.
Preparandomi ad altri sguardi intensi da parte di quei
penetranti occhi verdi, inspirai profondamente e uscii dal
bagno.
«Se n’è andato» mi informò Sylvie, non appena entrai in
cucina. Mi lanciò uno sguardo di disapprovazione, come se
fosse colpa mia, e si girò a lavare la sua tazza. Avrei dovuto
provare soltanto sollievo, ma per qualche inesplicabile motivo, mi sentivo vuota. Tradita. Probabilmente soltanto un’altra tacca nella lista di donne che si era portato a letto.
«Ha detto qualcosa?» La mia voce risuonò tremula e acuta. Sylvie mi fissò da sotto le ciglia lunghe e piene di mascara.
«Ha fatto qualche domanda.»
«Oh? Del tipo?» Mi passai una mano non del tutto ferma
tra i capelli e mi umettai le labbra. «Non che mi interessi»
borbottai, in caso Sylvie si fosse fatta strane idee.
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Lei si limitò a stringersi nelle spalle. «Visto che non ti interessa, non fa niente, no? Non dovresti essere al lavoro?»
Odiavo quando cambiava argomento così. O quando si
metteva dalla parte di un ragazzo, cosa che faceva spesso, soprattutto quando era attraente. Se avessi insistito, si sarebbe
subito insospettita e avrebbe pensato che mi fossi presa una
cotta per Mister Mistero, il che non era vero, dal momento
che neanche lo conoscevo e non avevo alcuna intenzione di
rivederlo. Del resto, cosa aveva potuto chiedere? Forse voleva sapere se i Lakers avevano vinto la partita della sera prima. O magari le aveva chiesto un favore, come chiamargli un
taxi. In ogni caso, non avevo bisogno di saperlo. Apparteneva
già a un passato che ero pronta a dimenticare.
Esalai un silenzioso sospiro e raccolsi la borsa dal pavimento, dove dovevo averla lanciata la sera prima. «Ci vediamo» borbottai, puntando verso la porta.
«Aspetta» mi richiamò Sylvie. «Quando torni a casa? Preparerò la cena.»
Il che, nel vocabolario della mia amica, era l’equivalente di
dare un’occhiata a un mucchio di menu a domicilio e ordinare qualcosa. Era senza lavoro da meno di un giorno, e già
sembrava una casalinga annoiata. Dovevo allontanarmi da
lei, e subito, prima di decidere che forse preferivo divorziare... metaforicamente parlando.
«Scusami, Sylvie. Stasera sono a cena da mia madre.» Non
riuscii a evitare di provare un profondo senso di compiacimento, all’espressione confusa che le comparve sul viso. Punire qualcuno non era nel mio stile, ma avrebbe dovuto dirmi
quello che Mister Mistero aveva chiesto prima di andarsene.
Mi avrebbe resa più incline a invitare anche lei da mia madre, anche se i loro silenzi glaciali e i loro reciproci sguardi di
disapprovazione mi facevano sempre desiderare di trovarmi da tutt’altra parte. Mia madre riteneva Sylvie una stronza
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presuntuosa che mi era amica soltanto perché ero abbastanza
stupida da lasciarmi sfruttare da lei. E Sylvie, d’altro canto,
pensava che mia madre fosse una stronza per non aver mai
provato ad avere una relazione stabile con un uomo per il
bene della sua unica figlia. In altre parole, riteneva che mia
madre avrebbe dovuto garantirmi una famiglia e una casa,
piuttosto che viaggiare di città in città e passare da un uomo
all’altro, negli anni difficili della mia adolescenza. Entrambe
in un certo senso avevano ragione, ma io preferivo restare
neutrale e tenermi fuori dal loro rapporto di amore/odio, cosa che mi portava di solito a evitare di farle finire nella stessa
stanza.
«Sta ancora con...» Sylvie fece schioccare le dita, pensierosa. «Come si chiama? Quello della scorsa settimana.»
«Era il mese scorso, e si chiama Gregg» risposi.
«Ah, sì. Le mie cellule cerebrali hanno pensato bene che
non valesse la pena memorizzarlo, visto che tanto la prossima settimana sarà già bello che dimenticato.» Sventolò una
mano con noncuranza, come se non avesse alcuna importanza per lei.
Odiavo ammettere che aveva ragione. «In realtà, è già bello che dimenticato.»
«Ma dài. Di già?» Scoppiò a ridere. «Cos’aveva che non
andava? Era troppo simpatico? Troppo carino? Russava?»
Scossi la testa, facendole capire che non ne avevo idea.
«Presto ne arriverà un altro» commentò lei. Io sollevai le
sopracciglia in modo eloquente. Sylvie rise, comprendendo
al volo quello che intendevo. «Già ce n’è un altro?»
Annuii. «A quanto pare, lo conoscerò stasera.»
«Posso venire? Ti prego. Sai quanto mi diverte conoscere
gli uomini di Tina. È come infilare una mano in un pacchetto
di caramelle assortite. Non sai mai cosa troverai.» Arricciò
le labbra in un sorriso e piegò la testa di lato, come faceva
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sempre quando stava per imbarcarsi in una seria campagna
di persuasione nei confronti di qualcuno.
«Dannazione, no.» Sbattei le palpebre e mossi un passo
indietro. «No che non vieni.» Lei schiuse le labbra per protestare, ma tagliai corto: «Non fingere che mia madre ti piaccia: non fate che guardarvi in cagnesco per tutto il tempo.»
«Non è vero... Okay, forse un po’, ma sai cosa mi piace ancora di meno? Essere dimenticata dalla mia migliore amica
un martedì sera. Avanti, Brooke.» Si piegò verso di me con
aria complice. «Hai idea di cosa potrebbe succedere se passassi una serata tutta sola?» Fece una pausa, per aumentare
l’effetto drammatico delle sue parole. «Qualcuno potrebbe
entrare in casa. Oppure, potrei essere così annoiata da finire
tutti gli alcolici e andare a farlo con il nostro vicino dell’interno 4.»
Che orrore. Il vicino dell’interno 4 era un individuo inquietante che girava in accappatoio. Ogni volta che uscivamo di casa, era sul pianerottolo, come se sapesse che saremmo passate di lì.
«Oh, avanti, Brooke. Ti prego, non voglio starmene da sola a casa di martedì 13.»
Alzai gli occhi al cielo. Sylvie amava essere melodrammatica, soprattutto se le serviva per ottenere ciò che voleva. Ben
presto sarebbe passata alle negoziazioni, e se non avesse funzionato, avrebbe tentato con i cari, vecchi ricatti. Era quello
che faceva da vent’anni, da quando mi rifiutavo di cederle
la mia merenda ai tempi dell’asilo. Ma non sarei rimasta a
guardare.
«Avanti, se tu mi fai un favore, io ne farò uno a te» sussurrò. «Vuoi sapere cosa ha detto Jett?»
«Chi diavolo è Jett?» E poi mi tornò in mente. Mister Mistero. Si era presentato, la sera al club, ma aveva un nome
così poco comune che neanche l’avevo afferrato. Avevo pen30
sato che fosse qualcosa come Jack, o Jake, o Jeremiah, e che la
strana pronuncia fosse dovuta al suo accento del Sud.
Perfino il nome sembrava sensuale e proibito. Non riuscii
a evitare di immaginarmi a mugolarlo mentre mi baciava su
tutto il corpo. Sentii le guance avvampare ancora una volta.
Dannazione. Era tutta colpa di Sylvie. Lei sapeva qualcosa in
più rispetto a quello che sapevo io. E se non fosse stata così
decisa a scambiare quelle informazioni con un invito a cena,
non mi sarei ritrovata ad ansimare letteralmente al semplice
suono del nome di un uomo.
«Jett... cioè, Sylvie, non ho tempo per questi giochetti.»
Merda. Mi aveva incantato. Dovevo fare qualcosa per togliermelo dalla testa. E subito, prima di rendermi completamente ridicola. Serrai la borsa al petto e corsi fuori, ignorando le esclamazioni incredule di Sylvie.
«Aspetta, Brooke! Non mi lasciare così» mi gridò dietro.
Lanciandomi uno sguardo alle spalle per assicurarmi che
non mi stesse seguendo, corsi verso il parcheggio dietro l’edificio e mi infilai rapidamente in macchina, pronta ad affrontare una dura giornata di lavoro, o quello che ne restava,
visto che era ormai quasi ora di pranzo.
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