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commentary Commentary,20gennaio2014 ROCKIN’ IN THAILAND: VERSO LA CRISI DEL MODELLO STATUALE LORENZO M. CAPISANI D ©ISPI2013 a diversi mesi, la Thailandia è scivolata in una crisi che ha ormai superato i limiti del normale dibattito democratico. Domenica due esplosioni hanno ferito 28 manifestanti mentre, due giorni prima, il bilancio di una bomba e una sparatoria contava due morti e 35 feriti. Attori di questo scontro sono, da una parte, il governo di Yingluck Shinawatra e del Pheu Thai, partito populista al governo che ha vinto di misura le elezioni del 2011 contro il Partito Democratico e che viene oggi accusato di usare le forze di polizia in senso repressivo. Dall’altro, l’opposizione di piazza guidata da Suthep Thaugsuban, ex segretario generale democratico, e dal suo Comitato popolare per le riforme democratiche (PDRC), fautori di un non meglio precisato “consiglio popolare” che, in maniera simile a un governo tecnico nostrano, porti avanti le riforme più importanti per il paese. Le contestazioni avevano avuto inizio nel novembre 2013, quando Yingluck, prima donna ai vertici della politica nazionale nonché premier più giovane degli ultimi decenni, aveva tentato senza successo l’approvazione di una sospetta amnistia generale. In novembre e dicembre, i manifestanti erano arrivati a occupare ministeri e tagliare le linee di alimentazione elettrica attraverso una serie di proteste culminate il 13 gennaio 2014 con una manifestazione anti-governativa di grande eco. «Paralizzare Bangkok», questo l’obiettivo, ha improvvisamente alzato il livello dello scontro. Eppure, per comprendere quanto accade in Thailandia, sembra essere necessario risalire ancora più indietro nel tempo. Dopo una lunga dittatura militare e un processo di democratizzazione alterno, conclusosi con la Costituzione del 1997, le elezioni generali del 2001 hanno visto l’ascesa di Thaksin Shinawatra, fratello di Yingluck, e del suo partito Thai Rak Thai. Miliardario, magnate delle telecomunicazioni, il leader ha costruito la propria fortuna politica grazie a provvedimenti in favore della popolazione rurale, che gli hanno assicurato un certo consenso. Il governo di Thaksin è stato il primo nella storia thailandese a completare il mandato quadriennale ed è stato riconfermato nel 2005 con una maggioranza assoluta (56%). Le accuse di compravendita dei voti e di nepotismo, però, hanno costituito il motivo – o il prete- Lorenzo M. Capisani, ISPI Research Trainee. 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI. Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. commentary mistero come tra gli slogan di Suthep ci sia anche il ritorno al modello della monarchia assoluta o, comunque, a un suo maggiore peso in politica. Rama IX, il cui regno è iniziato nel lontano 1946, è oggi un monarca debole ma che, sin dagli inizi, si è dimostrato strettamente legato alle forze armate per vincere le forze centrifughe degli altri rami cadetti. I colpi di mano militari che si sono succeduti durante il suo regno, più di dieci, hanno sempre ricevuto l’appoggio della corona. Oggi, l’esercito si è dichiarato intenzionato a non intervenire, ma il pericolo è sempre latente non soltanto per quella che il professore australiano Nicholas Farrelly ha definito una “elite coup culture”, ma soprattutto in seguito all’incontro di Suthep con il comandande in capo Tanasak Patimapragorn. sto – per un colpo di stato che, nel 2006, ha portato alla formazione di una giunta militare, poi stabilizzatasi come consiglio di sicurezza nazionale. Una nuova Costituzione e le elezioni del 2007, da cui il Thai Rak Thai è stato estromesso, hanno dato origine a un governo di coalizione guidato dal PPP (Phak Palang Prachachon o Partito del potere popolare) e composto da molti parlamentari provenienti dal partito di Thaksin. Quest’ultimo è fuggito all’estero fin dall’anno del golpe ed è stato poi condannato in contumacia per corruzione. Il nuovo esecutivo ha avuto vita breve: già nel 2008, il PPP fu giudicato colpevole di frode elettorale e, secondo la sentenza della Corte costituzionale, smembrato. Rinnovate elezioni, al termine di un periodo di scontri fra esercito e camicie rosse dell’UDD (Fronte unito per la democrazia e contro la dittatura), hanno portato nel 2011 alla vittoria del partito Pheu Thai e di Yingluck. Per questo, la proposta di amnistia dello scorso novembre è apparsa alle forze d’opposizione un escamotage per riportare in patria Thaksin. Yingluck stessa è stata definita una marionetta nelle mani del fratello “esiliato”. In crisi sembra dunque essere proprio il modello statuale thailandese, la cui unicità viene stigmatizzata dagli stessi thai. Il PDRC e la corona si dimostrano fondamentalmente inclini a ignorare la prassi tipica delle democrazie, uno dei pochi punti su cui gli Stati Uniti, principale partner per Bangkok, si sono però dimostrati inflessibili. Thaksin, d’altro canto, è un personaggio segnato da luci e ombre e le strade percorribili sembrano essere soltanto due: quella dello scontro o quella del compromesso insoddisfacente. Quand’anche gli Shinawatra, che in qualche modo interpretano l’ala secolarizzatrice della Thailandia, riuscissero a imporre elezioni nelle quali hanno ampie probabilità di vincere, mancherebbero comunque istituzioni democratiche realmente investite di potere e capaci di portare avanti riforme decisive per il paese. ©ISPI2013 Al di là dell’occasione rappresentata dall’incauta mossa politica del governo, Suthep e il PDRC sembrano avere mire di ben più ampio respiro: chiedono la destituzione dell’esecutivo e lo spostamento delle elezioni previste per il 2 febbraio. L’obiettivo potrebbe essere la sezione 7 della Costituzione: nel caso di crisi istituzionale e di empasse governativa, i poteri passerebbero nella mani del capo di stato, cioè del re, che lo dovrebbe esercitare «in accordance with traditional practices». Non è un 2