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Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
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RASSEGNA STAMPA
GIOVEDÌ 3 MARZO 2011
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Rassegna Stampa del giorno 3 Marzo 2011
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
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UN AFORISMA AL GIORNO
a cura di “eater communications”
“
l'astronomia costringe l'anima
a guardare oltre
e ci conduce da un mondo
ad un altro?
”
( Platone)
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Bankitalia vigila sui conti del Raìs
Sotto controllo i movimenti finanziari. Frattini: congelare la quota Unicredit? Deciderà l’Ue
ROMA— Sulle vicende libiche si muove anche la Banca d’Italia, o meglio la Uif l’unità di informazione finanziaria per il contrasto al riciclaggio. Con una stringatissima comunicazione inviata a tutte le
banche e agli altri intermediari finanziari l’Uif sollecita il monitoraggio delle operazioni che coinvolgono la famiglia di Gheddafi e il Governo della Libia. E richiama i destinatari all’obbligo di «segnalare le operazioni sospette» così da consentire la sospensione immediata dei rapporti. Insomma è massima allerta ma sul fronte del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo, come peraltro la stessa Uif
aveva segnalato con una precedente comunicazione, all’accendersi delle turbolenze nel Nord Africa. Il
faro acceso dall’Unità di Bankitalia sulla famiglia di Muammar Gheddafi e del governo libico risponde, viene precisato nella comunicazione, alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu dello
scorso 26 febbraio sul congelamento dei fondi e delle risorse economiche di alcuni membri della famiglia del leader libico, e si inserisce nel quadro delle «iniziative che livello internazionale sono state avviate per immobilizzare le attività riconducibili a persone ed entità del governo della Libia» . Diverso è
l’intervento di congelamento delle partecipazioni azionarie libiche in società italiane, prime fra tutte
Unicredit (7,5%) e Finmeccanica (2%), che spetta al governo. Il ministro degli Esteri Franco Frattini,
ieri, è stato preciso a riguardo: le decisioni andranno prese «a livello di Unione europea» ha detto rilevando che «non risultano ancora riflessioni europee tra ministri del Tesoro competenti» . Né misure
sanzionatorie già adottate dal Consiglio di sicurezza. La discussione, a livello internazionale, verte in
questa fase sull’ampiezza da dare alla risoluzione dell’Onu che riguarda solo le persone della famiglia
di Gheddafi. Se cioè far risalire a loro anche le proprietà dello Stato e quindi intervenire con una sanzione generale. È probabile che l’Europa decida nel Consiglio straordinario convocato per l’11 marzo.
Nel frattempo le società coinvolte, ed i loro azionisti come le Fondazioni per Unicredit, seguono con
grande attenzione le vicende libiche anche se il problema concreto si dovrebbe aprire solo in occasione
del voto nelle assemblee di bilancio di primavera. A questo riguardo la banca di Piazza Cordusio ieri
ha comunicato di aver ristabilito i contatti con il vicepresidente del consiglio di amministrazione
dell’istituto, Farhat Bengdara, che si erano interrotti all’inizio delle sommosse di Tripoli. Anche Finmeccanica mostra tranquillità. Sia per la partecipazione, considerata non significativa, sia per gli affari:
«Su 48,7 miliardi di portafoglio ordini, la Libia copre solo 800 milioni circa. Il discorso sarebbe diverso nel caso in cui tutto il mondo arabo, con Arabia Saudita, Algeria, Oman fosse coinvolto dai disordini, perché questo è un mercato molto grande e ricco» , ha osservato Pier Francesco Guarguaglini, amministratore delegato di Finmeccanica.
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Dall’America a Vienna
le vie del denaro libico
dividono l’Occidente
MILANO — Tony Blair è tornato. Per la prima volta era stato in Libia nelle vesti di primo ministro di
Sua Maestà britannica nel 2004 e aveva offerto a Muhammar Gheddafi, disse, «la mano dell’amicizia»
. Già allora il Colonnello non era più il «cane pazzo» del Medio Oriente (definizione di Ronald Reagan) ma un «forte partner dell’Occidente» con cui si poteva trattare. Blair lo ha fatto in prima persona
quando, appunto, l’estate scorsa è tornata. Stavolta l’ex leader laburista di Londra indossava il cappello
di consulente di Jp Morgan, la grande banca americana. Vero: Blair quella volta è stato, eccezionalmente, uno dei tanti. A quel tempo Sir Mark Allen per esempio, la spia dell’MI6 che negoziò il riavvicinamento di Tripoli a Londra, aveva già catturato un bel contratto con la British Petroleum, che in Libia ha investimenti per oltre un miliardo di euro. La baronessa Elizabeth Symons, ex ministro del Foreign Office di Blair, sedeva invece (remunerata) nel Consiglio nazionale per lo Sviluppo della «Grande Jamahiriya Socialista del Popolo Libico» . Ma ugualmente qualcuno forse in questi giorni avrà ripensato a quella seconda visita di Blair sotto la tenda, magari in cerca di lumi. Perché in effetti qualcosa da capire resta: se non sugli investimenti britannici a Tripoli o su quelli di Tripoli in Gran Bretagna,
per lo meno su quelli del Colonnello e dei suoi cari negli Stati Uniti. Magari il fatto che Jp Morgan sia
uno dei titani di Wall Street non ha niente a che fare con tutto questo, anzi è probabile che non c’entri
proprio. Eppure questo lunedì David Cohen, sottosegretario al Tesoro Usa, ha annunciato il congelamento di beni presenti sul suolo americano e riconducibili alla famiglia Gheddafi per oltre 30 miliardi
di dollari. Da questa settimana ne sono bloccate sia la disponibilità, sia la distribuzione di cedole. Cohen non ha spiegato come e quando negli Stati Uniti si sia trovato posto (dove?) a una somma del genere. Ma su un punto è stato preciso: la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu approvata due
giorni prima «decide» il congelamento non solo dei conti e dei beni della famiglia Gheddafi, ma anche
degli investimenti di tutto ciò che somiglia a un fondo sovrano libico. Sembrerà lana caprina, eppure è
una (mancata) distinzione vitale. Il Consiglio di sicurezza sanziona infatti il blocco di tutti i patrimoni
«direttamente o indirettamente» nella disponibilità del «cane» ritornato «pazzo» . Ma che dire allora
della Lybian Investment Authority (Lia)? Quel veicolo gestisce fra i 60 e gli 80 miliardi di dollari del
primo Paese per riserve petrolifere del continente africano. E il fatto che sia «indirettamente controllato» da Gheddafi, secondo gli americani, fa sì che i suoi investimenti vadano congelati perché così detta
l’Onu. Il problema è che Lia, un tipico fondo sovrano arabo, ha quote praticamente ovunque e anche in
Unicredit, Finmeccanica o nell’Eni. Fra alleati occidentali ci sarà ancora da discutere. Di certo, a Londra il cancelliere dello Scacchiere George Osborne sembra propendere per la lettura
dell’amministrazione Obama. Domenica scorsa all’ora del tè Osborne ha emesso «The Lybia Order
2011» , un decreto con cui minaccia sanzioni nei confronti di chi non congeli i beni dei Gheddafi. Nel
giro di poche ore Pearson, editore del Financial Times e della Penguin, ha consultato gli avvocati e si è
adeguato: via al congelamento del 3,2%del suo capitale oggi in mano alla Lia. «Non scegliamo i nostri
azionisti — ha osservato la capo azienda Marjorie Scardino — sono loro che scelgono noi» . Ma Charles Goldsmith, portavoce del gruppo, evita attentamente di affermare che la risoluzione dell’Onu e
l’Order di Osborne hanno obbligato Pearson ad agire. Il testo del Consiglio di sicurezza e la decisione
del Consiglio dei ministri Ue che la applica restano infatti capolavori di ambiguità. Per alcuni i conti
esteri di Gheddafi e le partecipazioni delle società di Stato libico restano patrimoni ben distinti. Osserva una fonte di Bruxelles vicina al dossier: «Chi può garantire oggi che il colonnello abbia davvero il
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controllo del suo fondo sovrano?» . L’impressione è che alcuni Paesi, fra i quali l’Italia, sopravvivano
benissimo senza bloccare le quote della Lia o della banca centrale di Tripoli nelle loro società quotate.
Non è un caso se resta svincolato anche in Gran Bretagna un capitale libico pari a circa dieci volte
quello, da circa un miliardo di sterline, che a Londra è già stato bloccato. Altrove poi si pratica soprattutto l’arte del beau geste, congelando solo ciò non fa poi troppi danni. Ma anche certe piccole mosse
portano con sé scoperte interessanti: in provincia di Malaga il Colonnello da vent’anni ha terre al sole
per 6.500 ettari, da ieri sequestrati dal governo di Madrid. In Austria le banche ospitano nei loro conti
anonimi un patrimonio libico da 1,2 miliardi: anche quello solo entrato da ieri, dopo chissà quanti anni,
nel mirino del governo. Ma il vero capolavoro ancora una volta è indiscutibilmente svizzero. Dopo lo
sdegnato sequestro dei beni dell’egiziano Hosni Mubarak il giorno dopo la fine della sua trentennale
dittatura, il 24 febbraio il governo di Berna ha rassicurato il mondo. Non ci sarebbero conti di Gheddafi nella Confederazione, ha dichiarato il ministero degli Esteri. Nel frattempo, il Consiglio federale ha
annunciato la decisione di congelare eventuali beni svizzeri di Gheddafi e dei suoi. Vero è che ce ne
saranno ben pochi, perché il Colonnello svuotò i suoi forzieri cantonali quando nel 2008 gli arrestarono il figlio Hannibal a Ginevra perché picchiava la moglie in un albergo. Ma l’altro figlio Saif, quello
dei fiumi di sangue annunciati in diretta tivù, fino a dieci giorni fa era un Global Young Leader (pagante) del World Economic Forum di Davos. Forse perché, in effetti, solo questo prestigioso club impegnato a «migliorare lo stato del mondo» ha la risposta alla domanda del momento: è più cinico tenere le quote libiche, o denunciarle solo ora?
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Il primo non bastava,
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MILANO — Nuova tornata di stress test per le banche europee. L’iter inizierà domani con l’invio da
parte della European Banking Authority di tutte le informazioni sui cui le banche dovranno valutare la
propria tenuta in caso di nuovi shock. «I test — ha spiegato l’autorità europea — verranno condotti
prendendo a riferimento uno scenario base e uno scenario economico avverso» e dureranno «diversi
mesi» . Le informazioni inviate dalla Eba alle banche non saranno definitive. Una volta ricevute gli istituti di credito potranno infatti discuterne con l’authority per affinare così i modelli di riferimento sui
quali eseguire il test. La discussione si chiuderà comunque prima del 18 marzo, giorno in cui saranno
resi noti gli scenari macroeconomici e l’elenco delle banche coinvolte. Ieri l’Eba ha fatto sapere che lo
scenario «definito dalla Bce incorporerà una deviazione significativa dalle previsioni economiche di
base e choc specifici di paesi su prezzi immobiliari, tassi di interesse e sovrani» . Sarà più duro di quello effettuato la scorsa estate, ma comunque «in linea con gli obiettivi micro prudenziali dell'analisi dell'equilibrio prudenziale delle specifiche istituzioni» . La scelta di accentuare gli effetti dello shock a cui
verrebbero sottoposte le banche potrebbe essere legato all’esito del primo stress test, effettuato dopo
l'esplosione della crisi dei mutui, che aveva promosso i due principali istituti di credito irlandesi, poi
travolti dalla crisi del debito sovrano. Di qui, molto probabilmente, la necessità di rivedere i meccanismi del test. Per definire la metodologia l’Eba sta lavorando con l'Autorità di Vigilanza Macroprudenziale Europea e i supervisori nazionali anche per comprendere meglio «le misure di protezione che gli
stati definiranno per fronteggiare ogni debolezza che lo stress test potrà far emergere» . Il governatore
della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha già sollecitato più di una volta le banche a rafforzare il proprio
patrimonio. Lo ha fatto anche sabato scorso al Forex. Il 2010 sarà infatti un anno cruciale per gli istituti italiani che dovranno rifinanziare 230 miliardi di bond bancari, in uno scenario di tassi in crescita, e
se dovesse passare l’idea di portare la soglia minima del Tier 1 al 10%dovranno trovare almeno altri
40 miliardi. Senza contare i possibili aumenti di capitale che Draghi ha chiesto di annunciare prima dei
risultati degli stress test per evitare terremoti sul mercato. Ovvero entro giugno.
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Marcegaglia riapre l’articolo 18
«C’è un problema di flessibilità in uscita» . No di Camusso
ROMA — Perché la Germania ha salari più alti dei nostri? Perché nell’anno della crisi, il 2009, il Pil è
crollato del 5%e la disoccupazione è aumentata solo dello 0,2%? E ancora, perché la loro cassa integrazione (Kurzarbeit) funziona meglio? La sintesi è che il modello tedesco genera più produttività perché il mercato del lavoro e quello delle regole associative è più flessibile (almeno in entrata) e perché
c’è forte convergenza negli obiettivi da raggiungere tra imprese e lavoratori. Di questo si è discusso al
workshop organizzato da Tito Boeri (fondazione Rodolfo DeBenedetti) al quale hanno partecipato economisti del lavoro tedeschi, i leader sindacali italiani (Angeletti, Bonanni e Camusso) e il presidente
di Confindustria Emma Marcegaglia. Sindacati e Confindustria hanno convenuto che l’attuale cassa
integrazione in deroga (che pesa ormai per 1/3 sul totale) deve essere superata, riassorbita ed eventualmente rimodulata con contributi che coinvolgono tutti. La Marcegaglia, a margine del convegno
tenuto nella sede dell’Einaudi institute for economics and finance (Eief, voluto dal governatore della
Banca d’Italia Mario Draghi per stimolare ricerca a livello internazionale) ha precisato che in Italia
«c’è un mercato del lavoro duale forse con una eccessiva flessibilità in ingresso ma con un problema di
flessibilità in uscita che prima o poi va affrontato» . Il presidente di Confindustria ha così sfiorato il tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, già oggetto di un duro scontro con la Cgil nel 2002.
Marcegaglia ha quindi toccato il tema dell’opting-out (l’uscita temporanea di una impresa
dall’associazione, come il caso Fiat) «una possibilità che in Germania c’è dal 2005» . «In un momento
di grande discontinuità -ha aggiunto -dobbiamo concordare regole per raggiungere livelli più elevati di
produttività e salari» . Un percorso da fare insieme ai sindacati perché «dobbiamo decidere se questo
percorso lo vogliamo subire o gestire» . Sulla flessibilità in uscita, un tema affrontato recentemente
con proposte operative formulate da Boeri-Garibaldi e dal senatore Pd e giuslavorista Pietro Ichino, il
segretario generale della Cgil Susanna Camusso -ha successivamente evitato commenti suggerendo
che al momento è meglio occuparsi della crescita. Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi si è trovato
d’accordo con la Marcegaglia «quando sottolinea l’esigenza di completare la regolazione del mercato
del lavoro e fa bene a voler cercare un’intesa con i sindacati» . Nelle quasi quattro ore di relazioni e dibattito coordinati da Boeri con Michael Burda (Humboldt university di Berlino) e con i docenti di Norimberga Claus Schnabel ed Herbert Brucker, al centro c’è stato il tema di quali siano le lezioni per
l’Italia dalla Germania sulla contrattazione e la cassa integrazione. Sintetizza per tutti Boeri, in una
conversazione al termine dei lavori, spiegando che la cassa integrazione made in Germany protegge
meglio i lavoratori primo perché costa molto di più e in secondo luogo perché non viene mai spinta fino a zero ore come invece avviene in Italia. A monte c’è un forte ricorso delle imprese tedesche al
work-sharing, alla riduzione degli orari di lavoro e in genere a soluzioni in nome della solidarietà che
spesso porta anche a forti riduzioni di salario. Un posizionamento d’attesa che ha evitato la dispersione
di professionalità e ha permesso alla machina produttiva tedesca di ripartire appena l’economia ha ripreso a girare. Altri punti di forza del mercato del lavoro tedesco sono i contratti di ingresso molto
flessibili e graduali ma che poi sfociano in posti fissi. E la rappresentanza e la gestibilità dei contratti
resi più agevoli dal sindacato unitario dei metalmeccanici e dallo sciopero consentito solo se il via libera arriva da almeno il 75%degli iscritti.
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La mossa di Scaroni:
«Ora una rete del gas europea»
MENAGGIO (Como) — Alla fine di un dibattito sul futuro delle forniture energetiche dopo la crisi
politica nei Paesi arabi, l'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni ha consegnato un documento
al commissario europeo per l'Energia, il tedesco Günther Oettinger. Contiene la proposta di collegare
tra loro tutti i gasdotti nazionali che esistono in Europa, in modo da creare una rete unica centralizzata,
un European Trasmission System Operator. Ciò permetterebbe di razionalizzare la distribuzione del
metano e consentirebbe di svincolare la distribuzione dalla dipendenza dei fornitori, siano essi la Russia, l'Algeria, la Libia. «Una misura — secondo Scaroni— che, unita ad altre, ci assicurerebbe tutto il
gas di cui abbiamo bisogno quando e dove serve e a prezzi compatibili con la crescita economica» . A
suo parere, «se l'Europa fosse perfettamente interconnessa si potrebbero assicurare le forniture di gas a
tutti anche nel caso di interruzione per un anno delle forniture da parte di Gazprom (il monopolista
russo del settore, ndr), che è il primo fornitore dell'Unione europea» . Oggi, i gasdotti sono infrastrutture nazionali, scollegate tra loro, per lo più vie di comunicazione tra il produttore di gas e il Paese fruitore: ciò rende gli europei dipendenti dalle politiche, dai capricci e dalle crisi dei singoli fornitori. L'interconnessione, invece, secondo il numero uno dell'Eni permetterebbe a tutta l'Europa di rivolgersi a
un produttore o a un altro: se un giorno, per dire, Mosca chiudesse i rubinetti il suo metano potrebbe
essere sostituito, per tutta la Ue, da quello proveniente da altri Paesi. Il documento dell'Eni è stato consegnato a Oettinger lunedì sera, a margine di un incontro tra giornalisti presso il Centro italo tedesco di
Villa Vigoni, sul Lago di Como. Secondo la proposta, i gasdotti dei principali distributori di gas dovrebbero essere messi assieme nell'European Trasmission System Operator, il quale avrebbe il compito
di gestirli e di svilupparli. In parallelo, un'Authority europea dovrebbe coordinare i lavori di connessione tra le pipeline esistenti e regolare le tariffe in modo che gli operatori che questi investimenti fanno vengano remunerati. E'che, di fronte ai cambiamenti in corso nei Paesi arabi, le compagnie che energetiche si interrogano sul futuro e, già oggi, cercano di prendere iniziative per rispondere all'emergenza. Notizie che arrivano dalla Libia, per esempio, dicono che alcuni gruppi petroliferi avrebbero loro uomini nel Paese per prendere contatto con i capi dell'opposizione a Gheddafi, compresi leader tribali, per avere garanzie sul futuro dell'estrazione. Secondo Scaroni, in effetti, un accordo tra le potenti
tribù del Paese sarebbe una soluzione auspicabile, soprattutto per evitare il rischio maggiore, «una somalizzazione del Paese» , cioè la caduta della Libia nel caos tipico di uno Stato fallito che impedirebbe
le attività di estrazione. A parte la gestione immediata della crisi nel Maghreb, l'amministratore delegato dell'Eni ritiene che la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e di trasporto sia il solo
modo per assicurare gas e petrolio all'Europa. Quindi i nuovi gasdotti ma anche— ha detto a Villa Vigoni — lo sviluppo di progetti come il Cng (Compressed natural gas), cioè un sistema di navi che trasportano il gas del Turkmenistan, compresso, tra le sponde del Mar Caspio, per superare l'opposizione
russa alla creazione di un gasdotto sottomarino. E un impegno che potrebbe essere notevolissimo, nell'estrazione di metano dalle formazioni argillose, lo shale gas, forse una nuova grande frontiera. Scaroni ha anche detto che a suo parere l'Arabia Saudita non vuole che il prezzo del barile di petrolio resti
sopra i cento dollari: lo si capisce da come cerca di sostituire il petrolio libico che è venuto a mancare
sui mercati con greggio della qualità il più simile possibile.
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Sospetti e segreti, la caduta di Yunus
La banca centrale del Bangladesh vuole licenziarlo, il no del banchiere dei poveri
MILANO -«Succhia il sangue dei poveri!» . «No, è dalla loro parte e crea sviluppo sociale ed economico dal basso!» . Luci e ombre dietro la vicenda del premio Nobel per la Pace (2006) Muhammad
Yunus, il «banchiere dei poveri» , rimosso ieri dai vertici della Grameen Bank, la banca da lui fondata
che in Bangladesh ha dato speranza a milioni di persone. A sollevarlo dall’incarico, ufficialmente è la
banca centrale di Dacca (ma dietro c’è la lunga mano del governo) per aver violato la normativa sul
pensionamento: l’economista, che ha 70 anni, ha continuato a rimanere alla testa del microcredito da
lui inventato, nonostante abbia superato il sessantesimo anno, età limite prevista nel Paese per il «riposo» . Ma il banchiere conta di dar battaglia e con una nota la Grameen fa sapere che Yunus rimarrà al
suo posto, almeno fino all’esito del ricorso. Personaggio cult a livello internazionale, il banchiere dei
poveri è molto criticato in patria, soprattutto dall’establishment. E le tensioni, nelle ultime settimane,
sono schizzate alle stelle, tanto che la premier Sheikh Hasina Wajed (primogenita di quello che viene
considerato il padre della patria, Sheikh Mujibur Rahman), dopo aver mosso numerose accuse (ritenute
pretestuose da diversi osservatori) contro Yunus, ha nominato presidente dell’istituto (e quindi suo capo) Muzammel Huq, lo stesso che ieri (dopo averlo definito un «codardo» ) ha messo alle porte il Nobel. Lo Stato detiene un 25%dei diritti di voto nel direttorio della Grameen che conta su prestiti per
955 milioni di dollari a 8,3 milioni di clienti, nella maggioranza donne. L’ostilità del governo di Dacca
nei confronti di Yunus sembra risalire al 2007: quando a seguito di un golpe militare il banchiere manifestò l’idea di creare un suo movimento politico («per far pulizia» ). I leader politici e la maggioranza della Wajed (partito al governo) non gliel’hanno perdonata, considerandolo un rivale nella contesa
del potere. La campagna denigratoria contro Yunus è stata anche alimentata da un reportage di una Tv
norvegese che sollevava scetticismi sul microcredito, anche tornando su alcune controversie di vecchia
data— poi chiarite— che il Nobel ebbe con Oslo in merito ad alcuni finanziamenti europei alla Grameen Bank. Al di là del regolamento di conti interno al Paese, il microcredito, anche alla luce della
crisi indiana, funziona? E ha, come promesso, aiutato la povera gente a uscire dalla povertà? Secondo i
suoi sostenitori, fuori e dentro il Paese, sì, confortati dal fatto che come ha detto di recente Mirza Azizul Islam, ex consulente del governo di Dacca, al Financial Times, da metà degli anni 70 (quando il
microcredito è partito) a oggi le persone sotto la soglia della povertà sono passate dall’80 al 38%. Per i
suoi detrattori, invece, avere di che mangiare, non significa «uscire dalla povertà» , anche perché i tassi
d’interesse applicati dalla banca di Yunus sarebbero a livelli di usura («Succhia il sangue dei poveri!»
). «No, sono al 20%— dice la banca — anche se poi qualcuno se ne approfitta e applica tassi al 50 o
addirittura all’80%» . Il dibattito sul microcredito è sicuramente salutare ma come ha scritto Hossain
Zillur Rahman, economista bengalese, «non facciamo un bel servizio alle nostre aspirazioni mettendo
a rischio i successi provati della Grameen» .
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“Più flessibilità in uscita dal lavoro”
Marcegaglia rilancia, sì di Sacconi. Camusso: l´articolo 18 non è priorità del Paese
È un problema che prima o poi andrà affrontato, non possiamo eluderlo. Invece, la flessibilità
in ingresso è forse eccessiva
ROMA - Riaprire il capitolo del mercato del lavoro sulla cosiddetta "flessibilità in uscita". «È un problema che prima o poi va affrontato. Non possiamo continuare ad eluderlo», dice Emma Marcegaglia,
presidente della Confindustria, al termine di un seminario promosso dalla "Fondazione Rodolfo Debenedetti" dedicato alla Germania e alla ricetta che le ha consentito di uscire dalla crisi meglio degli altri
Paesi, con più crescita e più lavoro. «Il problema dell´Italia non è l´articolo 18», ha replicato subito la
leader della Cgil, Susanna Camusso. Appoggio a Confindustria, invece, dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi.
Quello della presidente degli industriali è un ragionamento e non un replay della sfida sull´articolo 18
dello Statuto dei lavoratori. Ma è anche un tema che continua ad affiorare ogni qual volta si riflette sul
dualismo del nostro mercato del lavoro: i lavoratori protetti da una parte, i precari (perlopiù giovani e
donne) dall´altra; i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti (quelle che applicano l´articolo
18), e quelli delle piccole e piccolissime che lo Statuto non sanno neanche cosa sia. Lo dice la stessa
Marcegaglia: «C´è un problema di flessibilità in ingresso, forse eccessiva, con strumenti che vanno
tarati, e un problema di flessibilità in uscita che, appunto, prima o poi va affrontato». E così coglie la
palla al balzo il ministro del Lavoro Sacconi, protagonista nel 2002 della battaglia per modificare
l´articolo 18, per schierarsi: «Bisogna completare la regolazione del mercato del lavoro e dei rapporti
di lavoro. Bisogna farlo d´intesa con le parti sociali. Nella stessa direzione va la bozza di un disegno
di legge delega per un moderno Statuto dei lavori che potrebbe realizzarsi in questa legislatura».
Proposta più che urticante per la Cgil, non per Uil e Cisl. E il rischio, se si dovesse provare l´affondo,
è quello di un altro accordo separato. Eccola, infatti, la risposta di Camusso: «Il pensiero corre immediatamente all´articolo 18 e al tentativo, che ha in mente Sacconi, di destrutturazione dello Statuto dei
lavoratori. Questo non ha nulla a che vedere con la realtà di oggi del paese, con i problemi che dobbiamo proporci».
Diversa la discussione, e diversi i temi, all´interno del seminario. Il "caso Germania" (ne hanno parlato
Tito Boeri della Fondazione, Michael Burda dell´Università di Berlino, Claus Schnabel dell´Università
di Norimberga e Herbert Brucker dello Iab di Norimberga) può fare scuola per non perdere posti di lavoro anche durante le crisi. Quasi un "miracolo" fatto di riduzione dell´orario, sistema delle bancheore individuali, cassa integrazione (kurzarbeit) più costosa della nostra e mai a zero ore, contratti decentrati nelle grandi imprese e accordi individuali nelle più piccole. E quel modello sta contribuendo a
far maturare la convinzione tra le parti sociali italiane dell´anomalia della nostra cassa integrazione in
deroga (finanziata dal fisco e non dai contributi di imprese e lavoratori) ed estesa a tutti. Ora, le parti,
propongono di abbandonarla gradualmente una volta che la crisi sarà alle spalle. Perché le piccole
imprese non manifatturiere potrebbero abusarne.
(r. ma.)
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Parla Cofferati, dieci anni fa leader Cgil e paladino dell’articolo 18
“Macché tabù della sinistra
Quella norma difende
la dignità delle persone”
Siamo alla riproposizione ideologica di un falso obiettivo. È una classica fuga dalla realtà
ROMA - Sono passati quasi dieci anni dalla battaglia del 2002 sull´articolo 18. Sergio Cofferati era
all´epoca il segretario generale della Cgil e il "capo" del movimento a difesa dello Statuto. Oggi, dopo
essere stato sindaco di Bologna, Cofferati è parlamentare europeo per il Pd.
L´articolo 18 continua ad essere un tabù per la sinistra?
«Non è mai stato un tabù. È sempre stata una norma a difesa delle dignità delle persone. È un diritto».
Eppure riguarda una minoranza dei lavoratori visto che lo Statuto si applica solo nelle aziende con più
di quindici dipendenti.
«Allora perché i dipendenti delle piccole imprese, i lavoratori precari, i giovani parteciparono con tanta
determinazione alla difesa di quella norma che non li riguardavano direttamente? Perché era evidente
la posta in gioco: e cioè l´idea stessa del diritto del lavoro. E, insisto, il rispetto e la dignità di chi lavora. È bene ricordarsi poi che si parla del divieto di licenziamento senza giusta causa. Perché è questo
che non è accettabile nella coscienza delle persone. Ora siamo alla riproposizione ideologica di un
falso obiettivo. È una classica fuga dalla realtà. Poiché la realtà è drammatica, non viene affrontata e
si parla d´altro. Con una crescita economica intorno all´1 per cento non si crea occupazione aggiuntiva. Vuol dire che chi è fuori dal lavoro non rientrerà e per i giovani non c´è nemmeno la prospettiva
del lavoro temporaneo. D´altra parte, sono i dati dell´Istat che lo dicono».
Come pensa, allora, che si possa superare il dualismo del nostro mercato del lavoro, diviso tra chi ha
tutte le tutele e chi ne ha pochissime?
«Questo è il momento delle riforme. Servono nuovi strumenti. Noi continuiamo ad applicare la cassa
integrazione e i prepensionamenti che sono nati all´inizio degli anni Settanta. Il mondo è cambiato».
Qual è la sua proposta?
«Vanno riformati gli ammortizzatori sociali e introdotti nuovi strumenti. Per esempio è una proposta
interessante quella di Tito Boeri sul reddito minimo garantito contro la povertà. Noi siamo tra i pochissimi Paesi europei a non avere uno strumento di questo tipo. Abbiamo ancora la cassa integrazione
ordinaria e quella straordinaria, mentre ci sarebbe bisogno di elementi unificanti».
Resta il fatto che quasi nessun Paese ha una norma come quella dell´articolo 18.
«Se è per questo in nessuna nazione europea è stato sollevato il problema dei licenziamenti. Comunque ciascun Paese ha la sua legislazione e la sua storia».
Che cosa pensa dello Statuto dei Lavori proposto dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi?
«Penso che lo Statuto dei Lavoratori del 1970 sia una legge modernissima per concezione e anche
per le soluzione adottate. C´è un sistema di diritti che viene riconosciuto. C´è, invece, da scandalizzarsi davanti all´idea che siccome non tutti godono delle tutele dello Statuto, allora queste si riducono
a tutti. Nel 2003 la Cgil raccolse 6 milioni di firme per una legge di iniziativa popolare che estendesse
la rete dei diritti, modulandola in base alle tipologie del lavoro. Dove è andata a finire?».
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Dietrofont del governo sull’energia
rinnovabile via i tetti agli incentivi
L’opposizione: settore ancora senza certezze
Braccio di ferro in vista del Consiglio dei ministri di oggi Il pressing della Prestigiacomo
ROMA - Braccio di ferro nella notte per salvare le fonti rinnovabili. La bozza di decreto legislativo proposta dal ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani, con il blocco secco del fotovoltaico e tagli
retroattivi del 30 per cento per l´eolico, ha suscitato una rivolta bipartisan che ha spinto la maggioranza a correggere il tiro. La decisione ufficiale verrà presa questa mattina dal Consiglio dei ministri ma
nelle ultime, serrate fasi di trattativa si è profilata una mediazione basata su tre punti.
Primo punto. Il tetto di 8 mila megawatt per gli incentivi agli impianti fotovoltaici, una misura non presa
in considerazione dal Parlamento e introdotta dal ministero dello Sviluppo Economico, scompare. Un
tavolo di confronto tra il dicastero di Romani e il ministero dell´Ambiente definirà entro il 30 maggio la
road map per arrivare al 17 per cento di energia da fonti rinnovabili al 2020. L´obiettivo non è negoziabile perché altrimenti scatterebbero le sanzioni europee.
Secondo punto. Il rapporto tra superficie agricola e fotovoltaico si semplifica (si possono mettere i
pannelli sul 10 per cento della superficie) evitando di fissare un tetto di potenza per gli impianti.
Terzo punto. I tagli dei certificati verdi per l´eolico, che Romani voleva portare al 30 per cento, vengono ritoccati fissando l´asticella al 22 per cento.
Questa ipotesi di accordo soddisfa il responsabile dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo, il ministro
che più si è battuto a difesa degli impegni internazionali assunti dall´Italia nel campo delle rinnovabili.
Scettica invece l´opposizione. «Chiudere a maggio la fase di incentivi che doveva durare fino al 2013
e aprire un periodo di grande incertezza sul sostegno economico alle rinnovabili vuol dire salvare la
faccia ma perdere la battaglia: quali investitori accetteranno questo livello di rischio?», obietta il senatore Pd Francesco Ferrante.
Resta da vedere la reazione del cartello spontaneo nato ieri mattina, in poche ore, per opporsi alla
decapitazione del settore che comporterebbe la scomparsa di 150 mila posti di lavoro. Rispondendo
all´appello Sos rinnovabili, si è mossa la rete dei social network facendo arrivare 14 mila mail di protesta in tre giorni. Il Consiglio nazionale degli architetti è insorto. Si sono mobilitati gli enti locali e sezioni della Confindustria. Cgil e Cisl hanno chiesto un immediato dietrofront e investimenti nel settore
delle rinnovabili. Le associazioni ambientaliste che fanno riferimento alla destra, come Fare verde,
sono scese in campo.
Anche a livello politico il malumore è diventato palpabile. Cinquantasei parlamentari, in larga parte
della maggioranza, hanno chiesto al governo di rivedere le misure anti rinnovabili. I deputati di Forza
Sud hanno minacciato di ritirare l´appoggio al federalismo e hanno parlato di «dati falsi diffusi dalla
lobby dei petrolieri e del carbone». Il segretario della commissione ambiente della Camera, Mauro Libè (Udc) ha precisato che «la revisione del sistema degli incentivi deve servire a favorire lo sviluppo
delle energie rinnovabili, non ad affossarlo».
«A qualcuno l´energia pulita dà fastidio perché gli impianti di rinnovabili installati lo scorso anno in Italia sono in grado di generare oggi una quantità di elettricità analoga a quella di una delle centrali nucleari che il governo pensa di far entrare in funzione dopo il 2020», commenta Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club.
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Un socio indiano per la De Tomaso
“300 mila auto sul mercato asiatico”
Rossignolo: il nostro progetto per Termini Imerese è in pole position
GINEVRA - Arriva un socio indiano per De Tomaso. Un partner che dovrebbe portare nelle casse della società di GianMario Rossignolo un centinaio di milioni di euro. Il closing dell´operazione è fissato
entro fine marzo. Dell´intesa fa parte anche una joint venture in India per la produzione di 300 mila
utilitarie destinate al mercato asiatico e commercializzate con il marchio Fissore. Ufficialmente la De
Tomaso non commenta: «Non ci esprimiamo mai sui rumor», dice Rossignolo. Informalmente la società fa sapere che «attualmente sono allo studio diversi dossier con l´estero ma in ogni caso non avranno ripercussioni sui progetti italiani già annunciati in Piemonte, Toscana e Sicilia».
La messa a punto dell´operazione spiega perché in questi giorni a Ginevra si aggirasse per lo stand
della casa torinese il signor Joachim De Sousa, incaricato dal governo di Delhi di proporre in Occidente partecipazioni in cambio di tecnologie. Il signor De Sousa fa infatti parte di quella task force governativa che attende con impazienza la firma dell´accordo tra l´Ue e il governo di Delhi per far cadere le barriere doganali e rendere libero l´utilizzo in India delle tecnologie europee. L´accordo dovrebbe
essere firmato prossimamente.
L´operazione De Tomaso-India prevede che l´emissario del governo indiano crei a Londra una società per rilevare il 30 per cento della società italiana. In quel modo entreranno nelle casse di Rossignolo
circa 100 milioni di euro. Contemporaneamente la stessa società inglese rileverà uno stabilimento indiano già utilizzato dalla Gm e successivamente dismesso per effetto della bancarotta della casa di
Detroit. Nella fabbrica lavoreranno 2.500 dipendenti che realizzeranno un´utilitaria destinata al mercato indiano. La vettura sarà progettata in Italia e costruita con il sistema di stampaggio laser già utilizzato da De Tomaso per i progetti italiani. Il personale che dovrà guidare la fabbrica nel nord dell´India
sarà addestrato in Italia.
I vertici della De Tomaso hanno colto l´occasione ginevrina per rispondere alle perplessità dei palazzi
romani sulla loro reale intenzione di impegnarsi nel rilancio di Termini Imerese: «Abbiamo presentato
a Invitalia un piano industriale con precisi impegni e la richiesta di precise garanzie. Al rispetto di
quegli impegni da parte nostra e di quelle garanzie da parte del pubblico è legata la possibilità di realizzare l´investimento», spiega Gianluca Rossignolo, uno dei due figli (l´altro è Edoardo) che collaborano con il fondatore alla conduzione della società. Aggiunge Gianluca Rossignolo: «Il nostro piano
ha ottenuto l´approvazione di Invitalia ed è dunque entrato nella short list dei progetti che si realizzeranno nell´area. Non abbiamo motivo di credere che gli impegni assunti vengano disattesi».
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Parmalat, in campo
una cordata italiana
Il fondo Charme (Montezemolo) valuta il dossier, il ruolo di Intesa e la carta Granarolo
Bondi fa un regalo ai soci: in arrivo azioni gratuite per un valore totale di 200 milioni
MILANO - Doppio colpo di scena nella partita per il futuro della Parmalat. Il comitato investimenti di
Charme esaminerà oggi l´ipotesi di un ingresso nel capitale di Collecchio. La quota del fondo gestito
dalla Montezemolo & partners –se dalla riunione uscirà l´ok all´acquisto –potrebbe costituire il primo
mattone di quella cordata italiana auspicata da banche (Intesa Sanpaolo in testa) e politica per non
lasciare il controllo del gruppo in mano a Skagen, Zenit e Mackenzie, i tre fondi esteri scesi in campo
con il 15,3% del capitale per nominare in assemblea un nuovo cda e far fuori Enrico Bondi.
L´altra novità di giornata è l´asso calato dallo stesso amministratore delegato per convincere il mercato a rinnovargli la fiducia: la distribuzione ai soci di un´azione gratuita ogni 20. Un ramoscello d´ulivo
che vale 200 milioni e che sommato ai dividendi distribuiti negli ultimi 5 anni (62,5 milioni nel 2010)
porta a 1,04 miliardi il totale dei soldi girati dalla Parmalat ai suoi azionisti.
La partita per il futuro di Collecchio è ancora apertissima. A presentare l´ipotesi di ingresso nel capitale a Charme sarebbe stata una banca d´affari (si parla di Banca Imi ma da Ca´ de Sass non giungono
conferme) che starebbe provando a mettere insieme una soluzione stile Alitalia anche per Parmalat.
Contatti sarebbero in corso con altri potenziali partner (Maccaferri –dato tra i candidati –ha smentito
un suo impegno) con l´obiettivo di creare un polo lattiero caseario tricolore in cui far confluire anche
Granarolo, di cui Intesa Sanpaolo controlla già il 19,78%. I tempi sono stretti –l´assemblea è prevista
per il 14 aprile –e raccogliere il consenso necessario per battere i fondi non è facile. Intesa ha però
già in portafoglio il 2,4% di Collecchio e se riuscisse a raccogliere consensi sul mercato oltre a nuovi
investitori, l´impresa non sarebbe impossibile. A Bondi, in questo caso, potrebbe essere offerta la
presidenza con deleghe del gruppo. Contro la scalata dei fondi esteri, del resto, ha già dato segnali
chiari la politica con la norma del Milleproroghe che ha blindato gli 1,4 miliardi di liquidità in portafoglio
a Parmalat. Skagen, Zenit e MacKenzie –che hanno sempre negato di voler mettere le mani sulla liquidità di Collecchio –hanno presentato ieri un esposto in Consob smentendo le notizie sulla cessione delle loro quote alla francese Lactalis.
Bondi, nel frattempo, non resta certo con le mani in mano. La proposta di distribuzione di azioni gratuite –operazione che non indebolisce patrimonialmente l´azienda –è arrivata ieri assieme alla presentazione dei conti 2010. L´utile di gruppo è calato a 282 milioni dai 519 del 2009, anno in cui era
gonfiato da 384 milioni incassati grazie alle transazioni legali, quello di gestione è balzato del 68%. Il
giro d´affari è salito dell´8,5% grazie alle buone performance di Canada e Australia mentre il dividendo sarà di 3,6 centesimi ad azione.
Le linee strategiche di Bondi, se confermato, prevedono acquisizioni per rafforzarsi nel formaggio e
crescere in nuovi paesi, specie in Sud America. Prevista anche la cessione di attività che non fanno
parte del core-business (come quelle immobiliari) per liberare nuova liquidità da girare ai soci.
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La Fiba-Cisl
Vi augura
una giornata
serena!!
Arrivederci a
domani 4 Marzo
per una nuova
rassegna stampa!
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