5° Modulo L`autobiografia, le storie di vita, le narrazioni Sommario L
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5° Modulo L`autobiografia, le storie di vita, le narrazioni Sommario L
5° Modulo L’autobiografia, le storie di vita, le narrazioni Sommario L’autobiografia si è affermata come un metodo d’indagine che ha caratteristiche specifiche e, come tale, è diventata campo d’interesse per le scienze umane nel loro complesso. Ma, al tempo stesso, essa è una “tecnologia”, come ha riconosciuto Foucault, della “cura di sé”. In tal senso aiuta il soggetto a riconoscersi e ad auto-formarsi, scoprendo i propri punti di forza e le proprie debolezze, indecisioni. Nel dover scegliere che taglio dare all’argomento, assai vasto e policentrico, si è preferito un approccio volto a riflettere sui modelli epistemologici e interpretativi. Non mancano esempi pratici di tecniche applicative e nemmeno imput tematici che troveranno riscontro in altri moduli successivi. Esperienze concrete sviluppate nella scuola potranno essere oggetto di trattazione in fase di laboratorio. Temi: Un banco di prova per le scienze umane L’enigma dell’osservazione Una "tecnologia" formativa Una metodologia umanistica e attivistica Il soggetto plurimo nel mondo complesso Nomadismo dell’io e ad-ventura Narrazione di sé come anti-scienza? 1.Un banco di prova per le scienze umane Per chi non è addentro al dibattito sulle pratiche della narrazione di sé l’argomento in questione appare di matrice nettamente letteraria: “Una parola, autobiogragfia, che di solito ci richiama alla mente personaggi famosi che hanno lasciato traccia di sé, in quanto la loro vicenda era da considerarsi memorabile: o perché il loro destino si era intersecato con la grande storia, o perché era in grado, a partire dalla memoria individuale, di propagare una nuova luce sui fatti salienti di un'epoca. E' il caso, tra gli altri, dell'imperatore Marco Aurelio, dello storico rinascimentale Guicciardini del celebre e discusso nobiluomo veneziano Casanova. Ma esistono anche le storie di vita di persone comuni che, già da tempo, sono diventate oggetto di studio sociologico, antropologico, psicanalitico. Rispetto ad esse il ricercatore non si muove solo con l'intento di raccogliere fatti, ma fatti significativi, che Abraham H. Maslow definì negli anni Sessanta peak experiences (esperienze apicali) e Daniel Levinson, sul finire degli anni Settanta, maker events (eventi marcatori). Spesso in ambito antropologico o sociologico, attraverso il metodo dell'intervista e della registrazione di narrazioni personali, si è giunti a sostenere una tesi: è il caso di I figli di Sanchez del 19611, dove Oscar Lewis fa dipendere la povertà più da responsabilità individuali dei protagonisti, che dalle condizioni economiche, sociali e ambientali, indagando sulle variazioni generazionali all'interno della stessa famiglia. Di segno nettamente opposto il lavoro di Danilo Montaldi dello stesso anno2, che cerca di fare emergere gli orientamenti ideali dei suoi intervistati nella prospettiva del cambiamento, dell'emancipazione politica e del riscatto dalla miseria. L'antropologo Ernesto De Martino, negli studi che definì "etnologici", diede legittimazione alle "voci" della gente comune, osservando che i racconti di queste persone non potevano più restare chiusi nell'angusto ambito privato, ma dovevano acquisire carattere pubblico, per entrare nella tradizione e nella storia3” (M. Righetti, Narrarsi e riconoscersi nel cambiamento, in A. Gramigna, M. Righetti, Multimedialità e società complessa. Questioni e problemi di pedagogia sociale, FrancoAngeli, Milano, 2001, pp. 47-58). E’ fuori dubbio che l’interesse maturato nell’ultimo messo secolo sul tema non sia riducibile alla prospettiva unica della letteratura: “Da che cosa può dipendere tanto interesse, che passa per l'intera storia culturale del Novecento e attraverso contrastanti interpretazioni, per le vicende personali e il loro racconto? Il fascino del modello consiste soprattutto nell'opportunità che viene offerta al ricercatore di indagare sull'identità individuale, colta nella sua unicità irripetibile. Vi è, tuttavia, una difficoltà di fondo: la vita umana risulta assai complessa e, quando la si voglia studiare con metodi sperimentali, ci si vede costretti a frammentarla nelle sue componenti (sensazioni, sentimenti, socialità, ecc.) perdendo di vista la globalità che essa incarna. Di qui l'opposizione tra metodo sperimentale e metodo clinico-biografico: da un lato l'esigenza di una ricerca delle costanti, delle regolarità nel mondo sociale e psichico del soggetto preso in esame, oltre che in quello naturale-ambientale; dall'altro, non meno importante, la necessità di tener conto del contesto multiforme, sistemico, dell'oggetto di studio, che non può essere sezionato a piacere per esigenze scientifiche, pena la perdita della sua autenticità e qualità peculiare. Non è un caso che con l'affermarsi del positivismo, e l'assolutizzazione oggettivistica del metodo scientifico sperimentale, le pratiche autobiografiche abbiano subito un declino, perché ritenute localistiche e troppo soggettive per assumere valenza scientifica. Mentre in epoca più recente vi è stata la tendenza a cogliere in esse il significato prezioso della documentazione, di 1 2 3 O. Lewis, I figli di Sanchez, trad. it. Milano, Mondadori, 1966 D. Montaldi, Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi, 1961. P. Clemente, Gli antropologi e i racconti della vita, in "Pedagogika", Anno III, n. 11, settembre-ottobre, 1999. una testimonianza nei suoi risvolti psicologici, nelle scelte ideologiche affrontate, nelle soluzioni concrete adottate, nei dubbi morali che appartengono ad ogni vissuto umano4” (Ibidem). Anche in questo contesto emerge la differenza di prospettiva metodologica ma, ancor più, tenderà a farsi problematico il ruolo di chi fa ricerca: “La distanza incolmabile tra un approccio e l’altro pare riscontrabile in particolare rispetto al tema dell’impegno: i ricercatori quantitativi ritengono che la ricerca debba essere “pura” e, pertanto, non orientata verso idealità estranee alla scienza che non considerano pertinenti; i ricercatori qualitativi fanno rientrare nel loro compito di studiosi anche un’eticità volta alla solidarietà e alla giustizia sociale. Questo schierarsi dalla parte del più debole implica una scelta metodologica che vuole cogliere l’esperienza umana nella sua interezza, nella sua “qualità” appunto, anche se ciò può andare a discapito dell’esattezza e condurre oltre i limiti certi dei saperi codificati. Anzi, i protocolli predeterminati, definiti nel dettaglio, rispondenti in pieno ai modelli consolidati, vengono avvertiti come limitativi del progresso della conoscenza, unilaterali e, non di rado, pilotati dall’alto secondo una logica della convenzionalità e della standardizzazione, che poco hanno a che fare con i vissuti della marginalità, del disagio, della devianza, che rappresentano l’oggetto privilegiato della pedagogia sociale, così come di tanta parte della ricerca sociale di frontiera” (Ibid.). Per approfondire: A. M. Macioti, ( cura di), Biografia, storia e società. l’uso delle storie di vita nelle scienze sociali, Liguori, Napoli, 1988. F. Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Bari, 1981. G. V. Caprara, A. Gennaro, Psicologia della personalità e delle differenze individuali, Il Mulino, Bologna, 1987. R. Massa, D. Demetrio, (a cura di), Le vite normali, CNPDS, Milano, 1989. L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, La Nuova Italia, Firenze, 1988. 2.L’enigma dell’osservazione Nell’indagine biografica entra in crisi uno dei capisaldi della scienza classica. Ciò a rimarcare come la ricerca sul soggetto umano non sia facilmente riducibile ad oggettività: “Al di là dei diversi modelli metodologici, dei dissidi e dei tentativi di ricomposizione, la valenza epistemologica di ogni narrazione, scritta o orale, libera o strutturata, è rintracciabile nella rappresentazione personale, non solo dell'osservato, ma anche dell'osservatore che entra in relazione con esso. Nell'incertezza, pressoché ineliminabile, di dove termina l'oggettività dell'uno e di dove inizia la soggettività dell'altro, è opportuno tener presente che: "Così come esiste l'illusione di osservare, esiste pure l'illusione di trascrivere al di fuori della soggettività. Per questo il metodo delle storie di vita è chiamato a dichiarare il modello concettuale nel quale non includerà, volgarmente, le biografie, per validarsi, ma del quale si gioverà per esplorare nuove domande da rivolgere a nuovi interlocutori"5. Esplorare, scoprire, problematizzare: queste le operazioni che ricercatore e soggetto osservato devono porre in sinergia, in particolare attraverso il colloquio orientato, che consente al ricercatore di individuare "organizzatori mentali", "unità di analisi" ed "ingrandimenti"6. Sono gli strumenti indispensabili, questi, per quella "micropedagogia" che consente sì di isolare frazioni qualificanti da un contesto per sviscerarle in profondità, ma solo al fine di riconnetterle al generale affinché diventino illuminanti di un processo vitale: "L'osservatore non deve più essere considerato chi osserva, esterno o interno che sia o al limite anche chi agisce, ma deve diventare chi dà senso, significato, a ciò che osserva, conosce, esperisce"7 (Ibid.). 4 5 Cfr. M. S. Knowles, La formazione degli adulti come autobiografia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996. D. Demetrio, L'età adulta. Teorie dell'identità e pedagogie dello sviluppo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996, p. 61. 6 D. Demetrio, Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 99. 7 D. Fabbri, La memoria della regina. Pensiero, complessità, formazione, Milano, Guerini e associati, 1992, p. 30. La trasformazione del ruolo dell’osservatore è tutta giocata sulla responsabilità interpretativa, non può trovare “consolazione” in alcun dato certo: “L'osservatore, dunque, quale soggetto-oggetto di conoscenza, consapevole che conoscere implica più problemi che soluzioni sulla via della complessità, la quale ci mette alla prova nel tentativo di cercare equilibrio tra il nostro e l'altrui pensiero, di affrontare la differenza e di accettare la possibilità di uscirne modificati imprevedibilmente. Si tratta di una prassi ermeneutica che cerca di interpretare i vissuti, le storie, dal punto di vista soggettivo allargando i confini metodologici della critica letteraria, della filologia, dell’esegesi” (Ibid.). La questione dei fattori che “identificano” l’individuo come significante vanno ridefiniti alla luce di un presente incerto: “L'identità personale è certo costituita dalla permanenza, quale necessaria componente caratterizzata da costanti che, pur nel corso del tempo, resistono ai mutamenti; ma la società complessa richiede una marcata capacità di differenziazione, non solo rispetto agli altri Sé, ma anche come adattamento al nuovo e riorientamento rispetto al passato, per questo si parla sempre più di identità aperta, non definitiva, in quanto soggetta a confrontarsi di continuo con più mondi: "Non è più chiamata in causa la capacità di armonizzare le parti (vecchia e superata metafora dell'unità del sé o della coscienza) o le varie vite o le varie applicazioni dell'intelligenza, bensì la competenza sia etica che esistenziale di saperle gestire coerentemente nella loro differenza, separatezza, distanza, impossibile comunicazione"8 (Ibid.). Approccio teorico che passa trasversalmente tra questi moduli, il richiamo al pensiero di Bateson è indispensabile: “Non può mancare, in questo ambito di riflessione, un riferimento al concetto "ecologico" della mente formulato da Gregory Bateson durante gli anni Settanta. Per lo studioso britannico la mente si configura come insieme di componenti che interagiscono e comunicano, secondo un modello sistemico complesso che trova precisi punti di contatto con il pensiero cibernetico. I processi mentali, infatti, sono definiti dall'informazione, quindi dai modi i cui entriamo in relazione con le cose o stabiliamo relazioni tra di esse. L'epistemologia di Bateson non è solo una teoria della conoscenza, ma anche una ricerca sui modi della conoscenza, le scelte e le strategie che essa implica. In tal senso il sistema delle relazioni interne di un organismo risulta essenziale per comprendere il fattore comunicazione sia interno che esterno al soggetto, poiché la relazione è il cardine costitutivo, inseparabile dall'individuo, dell'epistemologia delle scienze umane. Ogni vivente, animale o umano, cresce e apprende relazionandosi, e i cambiamenti sono segni di adattamento in nuove forme, perché l'apprendimento denota cambiamento ed è "un fenomeno di comunicazione"9 (Ibid.). Durante gli anni Sessanta il confronto tra biologia e cibernetica offrì notevoli spunti di analisi e di reciproca influenza, anche se il tema dell’autonomia del vivente non può trovare paragone nell’autonomia programmatoria dell’informatica: “Le operazioni mentali umane sono rese complesse dal linguaggio verbale che, condizionando l'esperienza, può produrre errori di pensiero e di comunicazione. Ma il nostro accesso alla realtà, strutturato su classificazioni, descrizioni e spiegazioni, è solo una parte del più ampio sapere che coinvolge l'evoluzione dei sistemi viventi. Dialogo e relazione facilitano la crescita coevolutiva, in quanto consentono agli errori di valutazione di manifestarsi anche nella loro portata metacognitiva, quali momenti cooperanti al controllo non solo dell'apprendimento ma anche delle sue implicazioni operative. La comunicazione risulta fenomeno complesso, a volte contraddittorio, ma, nel gruppo, si scorge una tendenza positiva: "Se vi sono differenze tra entità collidenti, queste differenze subiranno cambiamenti che le ridurranno, oppure interverrà un adattamento reciproco o complementarietà"10. Non vi è solo uno stretto legame tra apprendimento e cambiamento, ma 8 D. Demetrio ( a cura di), Apprendere nelle organizzazioni. Proposte per la crescita cognitiva in età adulta, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994, p. 39. 9 G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi edizioni, p. 303. Ivi, p. 278. 10 anche tra cambiamento e processo. Di particolare rilievo il processo stocastico, attraverso il quale "l'autore rivaluta (...) l'elemento casuale, aleatorio, probabilistico in base al quale si ha l'irruzione improvvisa di informazione nel sistema. L'organizzazione evolve perciò non solo in funzione di un adattamento all'ambiente, ma per motivi anche casuali e imprevisti"11 (Ibid.). Per approfondire: G. V. Caprara, a cura di), Personalità e rappresentazione sociale, la Nuova Italia Scientifica, Roma, 1988. V. F. Guidano, La complessità del sé, Boringhieri, Torino, 1988. S. Manghi, Il gatto con le ali. Ecologia della mente e pratiche sociali, Feltrinelli, Milano, 1990. H. R. Maturana, F. J. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1992. 3.Una "tecnologia" formativa Fino a questo punto, però, non è emersa la dimensione educativa della prassi narrativa del sé: “Perché si può parlare di un utilizzo educativo della biografia individuale? Innanzitutto essa rappresenta sempre un'occasione riflessiva e quindi formativa. Attraverso la memoria, opportunamente stimolata, l'individuo scopre dentro di sé (come lo schiavo Menone tramite la mediazione di Socrate) ciò che non sapeva di possedere. Ma chi si dedica a quest'opera di autoformazione, meglio se guidata da un esperto, individua pure la peculiarità del narrare, mai riducibile al descrivere, perché il narratore ri-percorre una strada esistenziale nella quale si identifica. Infine, accanto alla realtà del ricordo, affiora sempre nel racconto la letterarietà e, quindi, la trasfigurazione poetica del vissuto, che arricchisce e valorizza anche l'esistenza in apparenza più insignificante” (Ibid.). A questo punto occorre inserire la nozione di tecnologia, secondo l’accezione impiegata da Foucault già a partire dagli anni Settanta: “Demetrio, prendendo a prestito l'efficacia simbolica dei termini da Foucault, parla di tecnologie della narrazione di sé12, facendo risalire alle Confessioni di S. Agostino il genere introspettivo. In esse sarebbero già evidenti i procedimenti cognitivi adeguati per cogliere nella memoria, opportunamente interpellata, i tratti essenziali della propria esistenza, che si caratterizza attraverso l'ansia della conversione e la ricerca di Dio. Agostino di Ippona scopre, attraverso la macerazione interiore, la possibilità di un dialogo con Dio, che porta a rivisitare la memoria quale luogo di stratificazione degli eventi da cui si evolve la personalità individuale: "Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; ..."13 (Ibid.). Entrare nei testi illustri delle’autobiografia può essere un modo per stimolare gli studenti a misurarsi con il metodo, ma anche per imparare a valutare la straordinaria diversità di approccio: Ma vi sono altri due modelli emblematici, oltre a questo della ricerca di un rapporto con il divino, rappresentati da Montaigne e Rousseau. Il primo racconta di sé per il proprio piacere narrativo, il secondo per lasciare un esempio di impegno problematico alla società civile. Gli illustri esempi citati non vogliono essere tanto modelli da seguire, o da imitare pedestremente, quanto piuttosto simboli chiari di diversità di approccio al tema e stimoli che facciano comprendere la necessità di intraprendere tale "viaggio di formazione"14 attraverso 11 12 D. Demetrio, L'età adulta..., op. cit., p. 103. D. Demetrio, Raccontarsi, L'autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, p. 216. Agostino di Ippona, Confessioni, X, 27. 14 ) D. Demetrio, Raccontarsi..., op. cit., p. 145. 13 una sintassi adeguata (ibid.). …E, per mettersi alla prova, ecco qualche suggerimento pratico: “Affrontare il passato con l'intento di ricostruirlo, infatti, non è impresa facile e, soprattutto, per nulla esente dall'impiego di strumenti idonei. Di qui l'opportunità dell'utilizzo di tecniche che consentano di fare ordine, di periodizzare il lavoro attraverso la predisposizione di paragrafi e capitoli, capaci di orientare i nostri ricordi, come suggerisce Kundera15: - La pagina dei personaggi-chiave della mia vita - La pagina degli oggetti (soprammobili, abiti ecc.) - La pagina degli "interni" fondamentali (i luoghi dell'intimità al chiuso; stanze, cortili, vicoli, cunicoli ecc.) - La pagina dei "paesaggi" (i luoghi "aperti": campagne, spiagge ecc.) - La pagina delle sensazioni più antiche (gli odori, i suoni, i colori) - La pagina delle "scene" (i quadri viventi, i gruppi di famiglia ecc.) - La pagina dei compagni di gioco o di scuola - La pagina degli amori (persone, animali, giochi ecc.). Si potrebbe continuare con le pagine dei viaggi, dei dolori, delle conquiste, delle fughe, ecc. La scelta, nonché il "titolo" del paragrafo, appartengono alla libera decisione individuale. Ma ciò non basta; occorre un "coraggio autobiografico", una ricerca di verità che non può accontentarsi di riempire pagine di memorie ben confezionate e rassicuranti. Per essere veramente "ricerca", si rende necessario che il soggetto interpreti il proprio vissuto alla luce dei nessi: "ciò che permette alle cose di rimettersi in moto e di trovare la loro giusta e plausibile combinazione"16 (Ibid.). Possiamo testimoniare che se il “coraggio autobiografico” scatta in una classe, la trasformazione è garantita, ma bisogna saperla gestire e indirizzare in modo adeguato: “E la verità della ricerca su noi stessi è chiamata a fare i conti pure con quanto non abbiamo fatto, con ciò che non siamo stati. Lo scavo nel passato comporta sempre interpretazione e, quindi, una forma che può andare, a seconda delle preferenze e degli stati d'animo, dalla novella intimistica (che racconta emozioni) al reportage (scarno e sintetico); dal saggio filosofico ( che attraverso i fatti giunge alla riflessione di ampio respiro) alla cronaca esperienziale (soprattutto di descrizione dell'ambiente lavorativo o familiare). Si tratta solo di qualche esempio tratto dal multiforme arcipelago della scrittura, sul quale occorre esercitarsi, tenendo conto, ad esempio, delle parole-chiave che possiedono una particolare "magia" evocativa (Ibid.). Guidare un lavoro di classe in questo ambito, implica prima di tutto operare con ordine: “Ciò che importa maggiormente è "l'assetto evolutivo"17 della vicenda narrata, l'evidenza di un "prima" e di un "dopo", di un itinerario di crescita che possa emergere attraverso la fabula (gli eventi nel loro ordine, i personaggi nei loro ruoli). Anche in questo caso è possibile fornire una scheda di riferimento formata da un inizio (incipit), uno svolgimento (ruit), una fine (exit): Incipit (la mia vita ha inizio, dispongo di...), ricordi evidenti di cose (oggetti, volti, rumori ecc.), riflessioni d'apertura, figure che mi hanno aiutato, antefatti, fatti; Ruit (la mia vita ha avuto un corso e scorre attraversando...) educazione ricevuta, la mia famiglia, ambienti di vita infantile, figure adulte, coetanei, giochi, crisi, rotture, scoperte, attese, abbandoni, bilanci, tappe, desideri, apogei, fughe, incontri, amicizie, passioni... Exit (la mia vita si conclude a questo punto, almeno per ora) risultati raggiunti, risultati non conseguiti, capacità, scopi ulteriori, programmi (con l'aggiunta degli eventi riconducibili a tutto quanto contrassegna il nostro ruit dell'ultimissimo periodo)” (Ibid.) Per approfondire: M. Foucault, La cura di sé, Storia della sessualità, vol. 3, Feltrinelli, Milano, 1985. M. Foucault, L’ordine del discorso: i meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, 15 Cfr. M. Kundera, L'arte del romanzo, Milano, Adelphi, 1988. D. Demetrio, Raccontarsi..., op. cit., p. 150. 16 17 Ivi, p. 156. Einaudi, Torino, 1972. T. Todorov, I generi del discorso, la Nuova Italia, Firenze, 1993. P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaka Book, Milano 1993. P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 2 e vol. 3, Jaka Book, Milano 1987, 1988. 4.Una metodologia umanistica e attivistica Da quanto siamo venuti argomentando, sia pure in estrema sintesi, si sono già individuati importanti elementi di matrice pedagogica. Innanzitutto il passato corrisponde alla nostra identità, ricordarlo con metodo significa riappropriarsi di sé in un lavoro quotidiano di tenace autoformazione. Scoprire le connessioni tra i ricordi è, di fatto, un apprendere, poiché ogni ricordo è segno che apre la porta su di una vicenda e richiama altri segni, altre scene vitali, in una rete di interrelazioni complesse. “Siamo in grado, perciò, di esercitare una "intelligenza retrospettiva"18 che collega gli eventi, va alla scoperta di cause, nessi, spiegazioni che rappresentano un vero e proprio esercizio cognitivo. Questa intelligenza autobiografica è sinonimo di libertà, spesso gestita "contro le pressioni, i condizionamenti, le violenze che, nella storia, sono state inferte innumerevoli volte al pensiero individuale, alla ricerca autonoma di risposte, all'elaborazione di punti di vista divergenti o alternativi ai poteri, ai costumi, alle norme dominanti"19. Proprio in virtù di questa potenza intrinseca al ricordo narrato si può affermare che dimenticare rappresenta un "peccato", una perdita di legami e di coscienza, un vuoto di conoscenza e di capacità di agire. Al contrario, il paziente sforzo sulla memoria scritta, con impegno quotidiano, lascia intravedere la straordinaria facoltà del pensiero, e del ritorno su di esso che è frutto del ricordare. Tra le scoperte più significative di questa "tecnologia del sé", appaiono nitidi alla nostra mente i vari "avvenire" prefigurati, a volte mai raggiunti a volte conseguiti parzialmente. Di qui il rigore indispensabile ad affrontare il bilancio delle proprie esperienze, riconoscendo "ciò che si è riusciti a conquistare o ad avere per diligenza e convinzione profonda, per fortuna, caso, aiuto, inspiegabile coincidenza"20 (Ibid.). La tensione al cambiamento è una sorta di fattore implicito delle “scoperte” che avvengono sulla trama della propria esistenza: “L'autobiografia non è già di per sé l'auspicabile cambiamento in atto, ma un mezzo che rende comprensibile la positività del cambiamento attraverso l'indagine sulla nostra esperienza di vita, perché ci parla del nostro stato di benessere e del modo di relazionarci agli altri, ma anche del disagio o della difficoltà di comunicazione. Essa implica sempre un "lavoro della mente" che comporta l'analizzare, il classificare, il collegare e il connettere, il mettere in sequenza, ma anche l'inventare e l'immaginare. Ancor più, l'autobiografia costituisce un punto d'approdo alla dimensione filosofica e scientifica, oltre che alla prassi letteraria. Si tratta infatti di una pratica di approfondimento cognitivo che non si ferma alle apparenze, non si accontenta di facili risposte ma, anzi, pone problemi, elabora ipotesi, formula teorie, scopre indizi nel labirinto dei tempi e degli spazi vissuti. Così, accanto all'arte dello scrivere che soddisfa la sensibilità, si colloca il rigore della ricerca con il 18 Ivi, p. 60 19 Ivi, p. 63. 20 Ivi, P. 95. costante controllo dei metodi e dei risultati conseguiti e, ancora, il desiderio di approfondire le ragioni dell'esistenza” (Ibid.). Le tante ricerche e studi in materia evidenziano che, nel chiarire la propria storia individuale, si acquisisce una maggiore capacità empatica: “Cambiare, attraverso questo modello, vuol dire pure acquisire una maggior attenzione alla vita degli altri e, perciò, alla convivenza e alla solidarietà. La fonte del raccontarsi è la vita, fondamento comune al quale attingere, per questo la sua espressione tende ad avvicinare gli individui attraverso una metodologia umanistica e attivistica, che raccoglie in sé il meglio di queste tradizioni pedagogiche: il rapporto diretto con le cose e con gli altri esseri umani, l'apprendimento dall'esperienza, il dialogo che accomuna, il conflitto come elemento relazionale inevitabile nella mediazione tra più soggetti” (ibid). Per approfondire: P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, Astrolabio, Roma, 1980. C. Saraceno, Età e corso della vita, Il Mulino, Bologna, 1986. D. Rudhyar, Il ciclo delle trasformazioni, Astrolabio, Roma, 1988. E. H. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando, Roma, 1984. L. Bovone, (a cura di), Storie di vita composita, Angeli, Milano, 1984. 5.Il soggetto plurimo nel mondo complesso La storia individuale, che l’individuo è motivato a riscoprire, ha sempre a che fare con l’orizzonte del presente e i suoi risvolti critici per l’equilibrio del soggetto: “Le parole chiave del lavoro nel mondo della globalizzazione sembrano essersi ridotte drasticamente a due: flessibilità e mobilità e, quindi, specialismo qualificato che caratterizzi la professionalità, ma anche cultura generale in grado di gestire, in termini di riflessione efficace, gli incessanti mutamenti cui sono sottoposte le tecniche specialistiche. E, ancora, capacità di autonomia critica ed autocritica, mentalità plastica, disponibilità ad entrare ma anche ad uscire dal mercato del lavoro, per ri-orientarsi, acquisire le competenze richieste di volta in volta, intraprendere nuove esperienze, escogitare diverse strategie, costruire relazioni altre rispetto al passato” (Ibid.). Quello indicato è l’assetto prevalente del rapporto con il mondo del lavoro per le giovani generazioni: “È innegabile, però, che tutto questo genera disorientamento, stress, frustrazione, insicurezza. Tra le difficoltà più evidenti, quella di impadronirsi dei nuovi alfabeti e dei nuovi linguaggi, che sono parte integrante dei processi di innovazione lavorativa, nella loro peculiarità di vertiginoso sviluppo e di vero e proprio "terremoto" intermittente sui mondi della informazionecomunicazione-produzione, ormai tra loro indistinguibili. Nella inevitabile preoccupazione che ciò comporta per ognuno, lo sguardo non può che volgersi alle nuove generazioni, non tanto per prefigurarne, con rassegnazione, l'adattamento passivo al modello dominante, ma per tentare di segnalare le forme di pensiero individuale, e le strategie di un pensiero socialmente coinvolgente e motivante, che possano lasciare all'essere umano una effettiva dignità di vita e, quindi, di scelta” (Ibid.). Come può reggere una metodologia di indagine interiore, tanto datata nel tempo, alle scosse dell’innovazione? “Accanto però a quella che Morin definisce la via esteriore di un "apprendistato alla vita", nella quale la conoscenza dei media è basilare, risulta indispensabile mantenere salda la via interiore: "Si dovrebbero insegnare soprattutto gli errori o le deformazioni che si verificano anche nelle testimonianze più sincere o convinte; si dovrebbe studiare il modo in cui la mente occulta i fatti che disturbano la sua visione delle cose; si mostrerà inoltre come questa visione delle cose dipende non tanto dalle informazioni ricevute quanto dal modo in cui è strutturato il modo di pensare"21. Se il sociologo francese ritiene che ciò, attraverso l'esame di sé, l'auto-analisi e l'autocritica, debba essere già fonte di apprendimento nella scuola primaria, a noi sembra che il metodo autobiografico possa rappresentare un buon esempio di continuità formativa, sullo stesso versante, in età adulta” (Ibid.). Vi è una strategia della ricerca della propria autenticità, che nessun sapere moderno, o postmoderno, potrà sostituire: È importante mantenere viva la parola spontanea, anche quella apparentemente banale del linguaggio parlato, perché è segno di vita come pratica quotidiana e di un rapporto concreto con le cose, che facilmente si smarrisce nei linguaggi on line mancanti di sfumature affettive e di contaminazioni sentimentali: "La rappacificazione, la compassione, la malinconia - (...) sono sentimenti che, mitigando la nostra soggettività, la aprono ad altri orizzonti. Quando il pensiero autobiografico, un pensiero che nasce dalla nostra individualità e di cui soltanto noi siamo gli attori, conosce e svela questi istanti affettivi, abbandona la sua origine individualistica e diventa altro"22. La narrazione di sé ha così, spesso, una funzione di condivisione e di scambio, soprattutto quando nel lavoro di ricostruzione diviene difficile assumere una serena responsabilità di giudizio sul proprio passato, quel rigore critico che sappiamo applicare con tanta lucidità, a volte impietosa, alle esistenze altre” (Ibid.). Un percorso di crescita, quindi, faticoso e non semplice come quello dei miti televisivi che offrono un’immagine della vita falsamente “reale”, cui la mente tende ad assuefarsi: “La storia di vita produce effettiva autoeducazione quando sa abbandonare le certezze facili dei luoghi comuni, i percorsi lineari e scontati, per affrontare la dimensione dell'incertezza, della frantumazione e del disorientamento che accompagnano momenti di ogni vita. L'adulto dovrebbe abbandonare la propria "maschera", come l'ha efficacemente definita Lapassade23, e accettare i segni perduranti di quell'immaturità che non rappresenta affatto un fattore degenerativo ma una risorsa: "Lo spazio non inquieta l'inquieto immaturo. L'ostacolo è previsto, se non auspicato, perché è occasione di cura di sé. Adottano costoro, senza saper di latino, l'antico precetto solvitur ambulando. Camminare e vagare senza fretta e senza nevrosi di fuga, ovunque. E sospensione di ogni sguardo indiscreto"24. Il punto d’incontro, allora, tra generazioni diverse sembra trovare un comune terreno nell’accettazione serena della capacità di stupirsi, di commuoversi di fronte alla bellezza, di sognare altri mondi senza rifiutare di vivere in questo. Per aprofondire: A.Melucci, Culture in gioco. Differenze per convivere, Bompiani, Milano, 2000. A.Giddens,Trasformazioni dell’intimità, Il Mulino, Bologna, 1995. U. Galimberti, Psiche e Tecnhe. L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, Milano, 1999. F. Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano, 1984. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002. 21 ) E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 80. 22 23 D. Demetrio, Raccontarsi..., op. cit., p. 11. Cfr. G. Lapassade, Il mito dell'adulto, Firenze, Guaraldi, 1971. D. Demetrio, Elogio dell'immaturità. Poetica dell'età irraggiungibile, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999, pp. 88-89. 24 6.Nomadismo dell’io e ad-ventura “Questo "nomadismo" è anche uno spazio di ricerca tra i diversi ruoli che abbiamo rivestito, non sempre con piena consapevolezza; anzi di frequente cercando di mascherare accuratamente una vertigine: l'impressione di non essere affatto monolitici nel nostro essere interiore, ma sintesi contraddittoria di Sé antitetici che mutano seguendo strategie inconciliabili. Su questo affascinante e delicato argomento, si ravvisa l'opportunità di indicare due diverse tendenze interpretative, per alcuni aspetti convergenti” (Ibid.). In realtà il problema sta nell’accettare l’idea di una vita plurale, per quanto vissuta dallo stesso soggetto. Ciò urta con una tradizione culturale e religiosa che, spesso, diamo per scontata: “Da un lato, Elster25 ha sostenuto, rispetto alla tradizione freudiana, l'affiorare di una nuova pluralità, non più di sistemi separati, come di fatto erano Es, Io e Super-io, ma interna allo stesso sistema del Self. Dentro di esso possono coabitare e interagire motivazioni divergenti che non mettono a repentaglio la sanità psichica del soggetto, laddove egli sia in grado di gestirle secondo una strategia pluralistica. Ciò non significa che l'individuo in questione non viva situazioni conflittuali, ma la negoziazione fra esse diviene qualità specifica che, com'è facile intuire, torna di grande utilità nella prassi lavorativa delle organizzazioni attuali. D'altra parte, Ermanno Bencivenga ritiene che l'io diviso non sia affatto "il personaggio di una patologia, il protagonista di un errore"26, ma un io teatrale che sa recitare ogni volta il tema che la vita gli propone. Le diverse facce di questa drammaturgia interiore entrano sì in conflitto, "anzi, per meglio dire, si mettono reciprocamente in crisi (...) e crisi e conflitti costringono i personaggi a crescere, a svilupparsi"27 (Ibid.). Convivere con le proprie crisi o, meglio, prenderne atto non per lasciarsi schiacciare dal peso della quotidianità, ma per assaporare fino in fondo l’impazienza dell’oltre: “E se la nostra parte è considerata perdente, se le nostra esistenza dovesse risultare costellata di errori, resterebbe almeno la persistenza di un mito personale come ad-ventura, che trova origine nell'età mitica per eccellenza: l'infanzia. Parte difficile da ricomporre e rendere terreno di relazione intersoggettiva, poiché, come ha scritto Bachelard, " Per comunicarla - come la rêverie - bisogna scriverla, scriverla con emozione, con gusto, rivivendola così come la si scrive"28. Tra le stimolanti interpretazioni della portata formativa dell'avventura, ci ha colpiti in particolare quella di Massa29, che ha scorto in essa un elemento di rottura rispetto alla quotidianità e ai suoi ritmi ripetitivi e alienanti. Con tempi e spazi che le sono propri, l'avventura incarna un gioco che travalica le regole e i limiti imposti dalla consuetudine, per accedere ad una dimensione altra, di eccezionalità che non implica il ricorso agli strumenti usuali della ragione strumentale, ma a sentimenti e sensazioni che tendono a sconvolgere l'abituale ordine gerarchico di mente e affetti. Educarsi all'avventura significa accettare di convivere con il caos, scommettere sulla possibilità di governarlo per i propri fini, acquisire una prospettiva ottimistica, che affonda le proprie radici nella creatività produttrice di innovazione” (Ibid.). L’ipotesi è affascinante, ma anche inquietante, poiché ognuno di noi vorrebbe poter alternare allo slancio avventuroso la quiete di un meritato riposo. In ogni caso il presente lascia intravedere il bisogno di mutamenti radicali, al fine di riequlibrare i processi in atto. Nel mondogovernato dalla globalizzazione dei processi, si rende evidente la necessità di una improrogabile "riforma del pensiero" come sostiene Morin. 25 Cfr. J. Elster, L'io multiplo, Milano, Feltrinelli, 1991. E. Bencivenga, Oltre la tolleranza, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 76. 27 Ivi, p. 83. 26 28 G.Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 1993, p. 14. 29 Cfr. R. Massa, Linee di fuga, Firenze, La Nuova Italia, 1989. “Non si tratta affatto di demonizzare il sapere specialistico che rimane fondamentale nel mondo lavorativo avanzato; quanto piuttosto di considerare che il suo impiego meccanico, burocratico e iper-specializzato, rappresenta un freno allo sviluppo della conoscenza. A fronte dell'accrescimento incessante e incontrollabile del sapere, è fin troppo facile comprendere che nessun specialista disciplinare è in grado di controllare per intero la massa di informazioni che riguardano il suo ambito specifico. Abbandonando un pregiudizio culturale radicato, dovremmo quindi cominciare a considerare che "Più potente è l'intelligenza generale, più grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali"30. Per approfondire: E. S. Parsons, Sogni a occhi aperti. Come la fantasia trasforma la nostra vita, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998. A. Kaiser, Antropologia pedagogica della ludicità, La Scuola Brescia, 1996. R. Caillois, I giochi degli uomini. La maschera e la vertigine, bompiani, Milano, 1981. P. A. Rovatti, Per gioco. Piccolo manuale dell’esperienza ludica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993. 7.Narrazione di sé come anti-scienza? Il titolo “ad effetto” di questo ultimo tema, si ricollega, come vedremo, ad una graffiante polemica che Foucault, durante gli anni Settanta, sostenne nei confronti del sapere ufficiale. E poiché l’autobiografia viene ancora considerata, in particolare nel mondo accademico, come una cultura minore… Lascio a voi le conclusioni. “L'autobiografia rappresenta uno strumento che si avventura nella direzione di riappropriazione da parte dell'uomo della sua interezza concreta, poiché frutto della vita reale nel suo evolversi, e ideale in quanto slancio autopoietico e, quindi, proiettato all'autorealizzazione. Ma cosa ha a che fare la piccola, irrilevante storia di sé con lo smisurato e inquietante orizzonte della complessità? Ad un primo sguardo nulla, tanto essa sembra lontana, nella sua soggettività spesso confusa o incerta, dalle "sfide" tecnologiche che questa proietta nella vita di tutti. Eppure siamo sollecitati a tentare un'ipotesi nella quale i due termini convergano, sotto la suggestione rinascimentale di un microcosmo che riproduce in sé il macrocosmo ed un'altra, più attuale, che vuole interpretare entrambi i termini in gioco alla luce del concetto di sistema” (Ibid.). Non si tratta tanto di uno sforzo per attualizzare il metodo, che sembra difendersi benissimo da solo, ma di un tentativo di collegare trasversalmente saperi con diverse matrici epistemologiche per sperimentare nuovi itinerari: “Riteniamo che la gamma dei ricordi, una volta inserita in un metodo adeguato, rappresenti un mezzo per concepire l'uomo in qualità di sistema aperto, che tende all'autoproduzione e all'autorganizzazione; interagendo con il contesto e mantenendo una propria relativa autonomia. Un sistema, quello della persona, che ha bisogno di chiusura per "mantenere la propria individualità e la propria originalità"31, ma che deve continuamente "aprirsi" verso l'esterno per recepire l'energia necessaria alla propria sopravvivenza. Il mondo dei vissuti, nel suo insieme, non pare disponibile a rinunciare ai propri caratteri distintivi, ma sa di dipendere inevitabilmente da un intreccio di relazioni con il contesto che lo circonda e rispetto al quale non può sentirsi estraneo” (Ibid.). 30 31 E. Morin, La testa ben fatta..., op. cit., p. 16. E. Morin, Le vie della complessità, in G. Bocchi - M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 54. Il richiamo alle teorie sistemiche e al tema batesoniano della relazione, apre la porta ad un ulteriore, suggestivo passaggio: “Eppure, proprio nella misura in cui ogni essere umano entra in rapporto con altri, non va dimenticato che in quello scambio operano meccanismi non sempre trasparenti, o evidenti, di potere. Qui e ora la lezione di Foucault sulla "microfisica" del potere32, più che nella metà degli anni Settanta quando fece la sua comparsa, si connota di un ampio significato” Ibid.). Tutti sappiamo quanto sia potente oggi la parola, come possa incidere sui destini di ognuno, dato l’uso amplificato e falsificante che se ne può fare: “La paura del potere si traduce, ora più di allora, in "logofobia" e si manifesta “contro questa massa di cose dette, contro il sorgere di tutti questi enunciati, contro tutto ciò che ci può essere in questo, di violento, di discontinuo, di battagliero, di disordinato e di periglioso, contro questo brusio incessante e confuso del discorso”33. Nel caso indicato da Foucault, il potere non teme la parola “tecnologica”, quella che viaggia per Internet, ma la parola detta e scambiata tra gli uomini che, così, esercitano il loro pensiero critico: Di qui la necessità di esercitare quei meccanismi di controllo, di regolarizzazione e di normalizzazione che il filosofo francese affronta tenendo sempre presenti i due lati del problema: da una parte il potere, che va studiato genealogicamente così come Nietzsche aveva fatto per la morale, dall’altra il mondo della differenza che lo subisce nelle sue forme più varie e meno appariscenti, non certo quelle dei grandi apparati di Stato, ma della capillarità “microfisica” (Ibid.). E’ ,in particolare, la massa dei disadattati che disturba e che deve essere sottoposta a controllo, con tutti i mezzi, anche quelli della scienza che offrono l’apparenza della neutralità: “Foucault è il pensatore, a nostro parere, che meglio ha saputo leggere il fenomeno della diversità alla luce dei suoi rapporti storici con il potere: dai lebbrosi del Medioevo ai folli “dell’età classica”, dai piccoli masturbatori agli omosessuali, dai carcerati ai barboni, dai mostri di ogni grandezza ai piccoli devianti di provincia. Ognuno trova sulla propria strada una tecnologia predisposta ad arte che, col mutare dei tempi, esclude o include, rinchiude, normalizza, tanto nei manicomi come nelle scuole, o nelle fabbriche, o nelle carceri, o nelle caserme, fino ai muri di casa. Il potere si esercita sul corpo, attraverso tecniche che si servono del sapere, lo piegano ai suoi scopi e da esso traggono nuovi modelli di regolamentazione e di ordine” Ibid.). La straordinarità dell’indagine del pensatore francese si può cogliere, ancor oggi, nell’equilibrio tra ricerca colta e impegno etico: “Il lavoro storico, antropologico e filosofico di Foucault è tutto teso a rendere chiari questi fattori che vorrebbero restare occulti; la possibilità di ricerca che egli individua, si è detto, è la genealogia: “l’accoppiamento delle conoscenze erudite e delle memorie locali, che permette la costituzione d’un sapere storico delle lotte e l’utilizzazione di questo sapere nelle tattiche attuali”34. Lo studio genealogico, dunque, nasce dal’incontro tra il sapere alto dell’intellettuale e i “saperi assoggettati”, le storie individuali e collettive degli esseri umani che hanno vissuto l’esperienza coercitiva dell’ordine regolarizzante. Storie che diventano i materiali esplicativi della denuncia, dello svelamento delle pratiche autoritarie, rese efficaci dall’anonimato e dal puro formalismo che le rende applicative (Ibid.). Gli intellettuali non hanno alcun ruolo di guida delle masse, l’importante sarebbe che non fossero complici del potere e che esercitassero una scelta di campo veramente democratica: 32 33 Cfr. M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977. M. Foucault, L’ordine del discorso: i meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Torino, Einaudi, 1972, p. 39. 34 M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1978, p. 168. “Le masse non necessitano di una guida illuminata degli intellettuali. E’ la resistenza plebea il nuovo orizzonte rivoluzionario che Foucault immagina agli inizi degli anni Settanta, anche a causa della delusione storica per le strategie della sinistra francese, europea, internazionale. Ma non è questo l’aspetto più interessante oggi della sua militanza culturale e politica. A convincere per la sua efficacia rimane piuttosto il metodo di ricerca; quella genealogia che non è una scienza, bensì un’anti-scienza, e ciò non perché rifiuti i metodi di questa ma perché individua come il discorso scientifico sia strumento di potere. Si tratterebbe di valutare, allora, con attenzione proprio quali saperi le scienze vogliono escludere per scoprire, alla fine, che proprio essi nella loro origine e trama “plebea” vanno liberati, e contrapposti storicamente, anche nella dimensione caotica, disordinata e frammentaria che li contraddistingue, all’ordine formale e unitario del procedimento scientifico” (Ibid.). Come si può evincere, il concetto di anti-scienza punta ad un diverso uso dell’indagine scientifica, che trova nello studio delle storie di vita il materiale di prima mano per gettare le basi di un mondo altro, più libero e più giusto: Per approfondire: si ritengono sufficienti le indicazioni in nota.