Cicatrici - Libreria Piave

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Cicatrici - Libreria Piave
Cicatrici
(Concorso Racconto d’Estate di Mirella Alfarano)
Bella non era mai stata bella, adolescenza infelice e brufolosa, autostima zero, inadeguate
capacità seduttive con i ragazzi, cotte solitarie…Il perimetro della casa dei genitori di A. si
stringeva intorno a lei ogni giorno di più, ogni parola era fuori sincrono, specie con la madre. La
madre! Da sempre era stata dispotica, toccava a lei punire i figli in surroga del padre
strategicamente latitante. A. non aveva mai dimenticato quell’episodio della sua infanzia, quando si
sciolse in un pianto dirotto, in previsione di essere picchiata per aver frantumato un’insignificante
boccetta, ma la madre fu disarmata da quella disperazione “preventiva”, forse consapevole per una
volta di aver innescato nella figlia il senso di colpa. Il beneficio della grazia non durò a lungo però:
anche da grande A. aveva dovuto incassare una gragnola di schiaffi sulla soglia di casa, senza
nemmeno avere il tempo di dare una spiegazione al suo ritardo. “Da quando vai con i
comunisti…”.”Finché sei in questa casa, fai come dico io”, e via minacciando. Ma, negli ultimi anni
della sua vita, la madre era diventata appiccicosa, le dava e cercava baci che non si erano mai
scambiate prima, neppure quando A. era una bambina molto gelosa del fratello, che secondo lei era
il prediletto.
Eppure, quando aveva preso finalmente il treno che la distaccava di mezzo stivale da
quell’atmosfera vischiosa, già sarebbe tornata indietro: stava le ore al telefono con una madre che
non aveva fatto nulla per essere amata, ma erano telefonate che A. faceva per smarrimento non per
amore filiale. Però lo strappo era riuscito, molto prima che la madre si avvicinasse alla fine: infatti,
era ancora giovane e combattiva quando A. se n’era andata, sempre pronta a colpevolizzare la figlia.
Come quando, durante una delle sempre più diradate volte in cui A. sprecava le sue ferie per stare
un po’ con lei, le inferse una stilettata a tradimento. Le mostrò un foglietto su cui il suo figliolo
adorato, la sera prima di sposarsi, aveva scritto: “Non ti voglio lasciare, voglio stare sempre con te”.
A. non si era mai data pace per quella perfidia, mai nessuno schiaffo era stato così bruciante. Lo
pensava anche quando la osservava ormai prosciugata in quel suo abito blu a pois bianchi. E
l’interrogativo che, qualche anno prima, si pose nel guardare il padre cereo, fu lo stesso di fronte
alla madre inanime: l’ ho mai conosciuta questa persona?
Da quando aveva reciso il cordone ombelicale, A. aveva tentato di costruirsi un po’ di fiducia
in se stessa. Amava definirsi una ex timida, non poteva vincere un concorso di bellezza ma si rese
conto di piacere. Conobbe un sacco di gente, ma con gli uomini continuava ad essere un mezzo
disastro. Possedeva una particolare abilità ad ingannarsi. Ed era ciò che fece nell’imbarcarsi in
quell’amore con un uomo sposato, illudendosi, anzi creandosi l’illusione che non sarebbe tornato
dalla famiglia. Tutta la storia era già scritta in un manuale: la moglie che trova il numero telefonico
di A. nella tasca di lui e che telefona all’”altra” chiedendo perentoriamente del fedifrago lì presente;
lui che, dopo una manciata di mesi, ritorna pentito dalla consorte.Per A. – abbandonata come in un
ritornello dei Pooh – solamente un altro segno nell’anima. Più che manuale romanzo popolare! Il
fatto è che il curriculum sentimental-sessuale di A. non sarebbe piaciuto nemmeno ad un regista di
B-movie. Pagine e pagine di diario erano state dedicate dalla quindicenne A. a V.,il bel ragazzo
bruno che la considerava giusto per canzonare la sua goffaggine. Frequenti i ragazzi-meteora nella
sua vita: dai cafoni che la mollavano perché “non la dava” ai fifoni che se la squagliavano per la sua
fragilità. Per una crudele beffa del destino dovette anche subire il sarcasmo del tizio che la violentò:
“Non mi dirai che è la prima volta!”. E quella cicatrice veniva illuminata dal lampo dei suoi occhi.
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L’investimento di cui fu vittima qualche anno dopo fu una specie di prova generale della sua
morte, l’occasione “per passare a miglior vita” senza dover decidere il modo. Come in un film in
bianco e nero si era risvegliata in ospedale e in un flashback poteva solo catalogare delle sensazioni
confuse di sballottamento, toccamenti (qualcuno aveva difficoltà a sganciarle il body) con voci fuori
campo mentre c’era, sottotraccia, una grande smania che quel sogno, tremendo e noioso insieme,
finisse al più presto, ma dell’investimento nessuna memoria. Le fece visita anche F., il marito
prodigo: nel vederlo si dette un contegno, era comunque facile simulare in una corsia ospedaliera
superaffollata. Un rigurgito di tristezza la riportò alla realtà: di un amore inesorabilmente
interrotto,a dispetto delle affinità tra i due, rimaneva il pensiero peregrino che F. le avesse voluto
bene, ma si trattò della solita illusione ottica degli innamorati.
Quell’anno dell’incidente segnò anche l’inizio di una storia senza futuro (troppi anni di
differenza tra loro) che ha attraversato gli ultimi vent’anni Una storia che nasceva sullo spazio di un
pianerottolo ed è ora finita sul percorso di quasi duecento chilometri. Il corteggiamento ostinato del
vicino capitava nel bel mezzo di giornate scandite da Roipnol e consueti auto-inganni. Quel ragazzo
le faceva tenerezza ma A. non voleva farsi coinvolgere, per ritrosia, ma soprattutto per la paura
fottuta di impelagarsi in una relazione con troppe controindicazioni: l’età, la cultura, la mentalità,
l’estetica persino. Ma A. era rimasta la fragile ragazza prigioniera delle insicurezze introiettate
dalla madre, perciò col tempo si era arresa a quel rapporto, perché non implicava la convivenza ma
garantiva la certezza di poter contare su di lui ad un tiro di schioppo. In quella fase l’aveva
considerato ormai parte delle sue giornate: si era assuefatta all’idea che si trattava di una persona
buona e intelligente, e che gli effetti collaterali potevano essere aggirati con qualche accortezza.
Insomma, si era voluta convincere che non potesse aspirare ad altro: dopotutto lui l’adorava, che
voleva di più? Se la sua amica M. – la sua coscienza, la sua vice-mamma – avesse saputo di questa
capitolazione, l’avrebbe disapprovata con la sua saggezza petulante, sufficiente però a riattivare il
solito senso di colpa di A.
E oggi, improvvisamente, quel cielo sereno senza essere terso è diventato incombente e
minaccioso. A. sta (non) vivendo un terzo momento di questa relazione: come se non bastasse
l’inquietudine che comporta la fine della giovinezza, proprio in questa fase terribile E. non è più ad
un tiro di schioppo, la sua disponibilità deve fare i conti con quasi duecento chilometri di distanza.
Il lavoro l’ ha costretto ad allontanarsi, ed è appunto l’ineluttabilità del destino che aumenta in A. la
prostrazione. A prolungare stancamente il legame tra di loro rimane il telefono, portatore sano di
recriminazioni, sgomento (di lei), di impotenza e rassicurazioni poco convincenti (di lui), ma anche
di acrimonia e battibecchi.
Negli ultimi tempi A. era terrorizzata al pensiero di somigliare sempre più a sua madre, di
impaludarsi nella sua irrimediabilità lagnosa, nelle sue continue recriminazioni. “Smettila di vivere
nel passato e nella paura del futuro, così perdi di vista il presente!”: era questo il rimprovero che
faceva alla mamma, ma adesso si accorgeva di essere lei stessa immersa in una fogna maleodorante
di rimpianti senza prospettive, e di ripensamenti puntellati di “avrei potuto”, di “avrei dovuto”,
frustrata perché i tragitti della vita non prevedono la retromarcia.
Anche trentacinque anni fa, ai tempi dello strappo, era estate come oggi, ma questi che sono
irrespirabili giorni di angoscia non possono essere confortati da alcun climatizzatore: questa estate
si sta rivelando la peggiore della sua vita. Nella città deserta, qualsiasi oggetto, parola, canzone, e
specialmente luogo in cui le succede di passare, le procurano desolazione, lacrime pronte. A casa si
sente possibile preda di qualsiasi pericolo, il silenzio opprimente che la circonda la paralizza, la
solitudine le schiaccia il petto. Spalanca le finestre con l’alibi dell’afa agostana, ma in realtà spera
che anziché insetti molesti entri un suono, un urlo, una risata. Ma dove sono finiti tutti? Ma certo, le
vacanze, come no! E i suoi amici allora? A dire il vero, non è da quest’estate che si è accorta che si
concedono con il contagocce. Ormai,inspiegabilmente,da un po’ di tempo la cercano poco Le
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accade spesso di elemosinare spiccioli di comunanza, anche se le basterebbe un ciao nella segreteria
telefonica o almeno disperso per sbaglio nel groviglio degli spam della posta elettronica. Ma è nel
periodo estivo che la sindrome dell’abbandono si fa più lancinante. Si sorprende a pensare ai suoi
talenti abortiti: aveva lasciato l’inappagante insegnamento contando di fare la sceneggiatrice, ma
poteva anche essere una ritrattista, un’interprete, una pallavolista…Tutte attitudini rimaste a metà.
“Tanto tu non ci riesci!”, usava dirle la madre (ma perché??) nel lanciare un salvagente bucato
all’autostima che già annaspava….Si impone una tregua al continuo rimuginare e fa una
scorpacciata di quei vecchi film che la tivù passa d’estate, e giacché c’è risponde all’ “arrivederci”
dei telegiornalisti
Allora decide di andare a trovare E., visto che lui non viene più in città. E meno male che c’è
l’aria condizionata in quel buffo treno-lumaca regionale,su cui mai alcun controllore si disturba a
chiedere il biglietto, che del resto è rimasto inviolato (a memoria d’uomo, l’ultima obliteratrice
funzionante pare sia stata vista in una teca di un museo delle ferrovie…). Comunque, questa
decisione aggiunge un altro tassello a questa estate da dimenticare. Infatti, A. deve constatare che
lui si è fatto allegramente fagocitare dalla realtà di provincia, probabilmente si accaserà con una
ragazza del luogo. A. si sente esclusa, quasi superflua nella nuova quotidianità di E., che sembra
amarla per abitudine, per inerzia. Dove è mai finita l’adorazione che aveva per lei? Ogni tanto
qualche complimento viene fuori meccanicamente, come dalla memoria impazzita di un robot che
ha bisogno di essere resettato. Così, dopo alcuni giorni, A. se ne ritorna a casa, consapevole che non
c’è via d’uscita: nella sua testa passato, presente e futuro si stanno ingarbugliando in una pellicola
rotta che continua a sgomitolarsi fuori dal proiettore…Accende il computer ma solo per sentire lo
sciabordio dell’acquario finto. Si guarda allo specchio: non sa che scegliere fra le insenature sul
viso in cui trabocca il sacco lacrimale e quella specie di agrumeto che sono diventate le sue cosce.
Lo sguardo poi si sofferma sulla cicatrice vicino all’ascella (lascito indelebile di una fisioterapista
imbecille in assetto di ionoforesi) e la vede come la rappresentazione, la metafora di tutte quelle che
le sono state inflitte negli anni per debolezza sua e indifferenza degli altri. Nei meandri della mente
s’intrufola il pensiero di F., ma non sa più se lo aveva amato o era stato semplicemente l’oggetto del
suo bisogno di amare. Il pieno di amore era stato mal utilizzato in itinerari inutili, dalle sbandate
adolescenziali agli incontri anomali. Ridendo tra sé, rammenta perfino lo sbruffone sedicente pilota,
salvo poi confessare che un aereo l’aveva visto soltanto dalla sua postazione di facchino o forse
mentre raccattava le dimenticanze dei passeggeri. Prende una scatola colma di foto alla rinfusa e la
rovescia sul tavolo. Come da un mazzo di carte ne sceglie una vecchissima di tutta la famiglia:
aveva sei o sette anni ed era stata ripresa col broncio perché le era appena caduto un dentino. Le
frullano i ricordi del tormento delle trecce che la madre le infliggeva, ma anche della colazione con
caffelatte e brioche nelle belle mattine di quella mai più ripetuta vacanza a Salsomaggiore. C’è un
segnaccio su quella foto: era stata sua madre a scarabocchiare l’immagine del proprio viso perché
non si piaceva. In fondo anche in questo si somigliano.
Serve fare un malinconico consuntivo ? Troppi errori. Alternative inesistenti.
Dire che se la caverà le pare ridicolo perché non c’è più tempo. Vorrebbe prendersi in giro
con il “domani è un altro giorno” della mitica Rossella (la grande abbuffata dei film di una volta
comincia a causarle conati di vomito?).Invece oggi è l’ultimo.Non ha voglia di aspettare la fine
della stagione, non aspetterà nemmeno la prossima. E pazienza se il desiderio che sin da piccola
rincorre, di imparare ad andare in bicicletta, rimarrà insoddisfatto.
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