Mennea, la fatica e il senso del dovere Un grande italiano

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Mennea, la fatica e il senso del dovere Un grande italiano
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VENERDÌ 22 MARZO 2013
il ricordo della Simeoni
italia: 51565055545555
di SARA SIMEONI
ietro Mennea è sempre stato veloce nella vita,
ma speravo che volesse fermarsi un attimo. InP
vece ha voluto arrivare primo anche su questo traguardo. Non siamo mai stati davvero amici, ma adesso sento un senso di vuoto, quasi pure una piccola parte di me se ne fosse andata.
Per anni a Formia abbiamo sudato insieme. Ogni tanto, lui in pista ed io in
pedana, ci lanciavamo degli sguardi, quasi a farci coraggio in mezzo
a tanta fatica. Io arrivai al centro
federale nel 1975, lui ci viveva
già da anni e si era allenato anche con mio marito e mio allena-
A MOSCA LO INCONTRAI PRIMA DEI 200
GLI DISSI: ORA SFIDA TE STESSO. E VINSE
di VALERY BORZOV
rima di tutto voglio mandare le mie più profonde e sincere condoglianza ai familiari di
P
Pietro, un amico. Ci siamo conosciuti a Monaco
nel 1972 e per entrambi è stato un momento particolare. Per me l’apogeo della carriera, per lui
l’inizio di una brillantissima storia. Quell’Olimpiade è stata fondamentale. Io poi l’ho incontrato
due anni dopo agli Europei di Roma nel 1974. Il
mio momento d’oro era passato, stavo avvicinandomi al viale del tramonto, ma mi sono presentato alla partenza dei 100 deciso. Non ero proprio
al 100%. Così pensai di distrarre l’attenzione degli avversari, inventando una partenza con un
braccio sollevato all’indietro, come se preparassi
un avvio con una spinta più decisa. Fui fortunato
perché gli altri e, fra questi Mennea, si fecero influenzare dalla mia trovata e vinsi ancora.
Ma il ricordo più vivo che ho di Pietro risale al
1980, durante l’Olimpiade di Mosca. Dopo i 100
metri, che per lui furono disastrosi, fui invitato
ad andarlo a trovare, perché magari qualche mio
consiglio pratico sarebbe stato utile a risollevargli il morale. Così andai a incontrarlo al Villaggio. Gli portai un Misha, l’orsetto che era la mascotte dei Giochi, e una bottiglia di vodka. Lo
trovai un poco spaesato, così affrontai subito il
problema e gli dissi che quello che aveva corso
nei 100 non era lui e che doveva cambiare atteggiamento mentale. Io avevo sempre allentato lo
stress concentrandomi su me stesso e mai sui
mie avversari. Gli ricordai che l’importante era
come correre e non contro chi correre. Era il primatista mondiale, aveva corso molte volte in 20”
e poco più, quindi doveva solo ripetere i gesti
delle altre occasioni. Inoltre gli dissi che era necessario andare in pista non pensando di essere
il «grande Mennea», ma solo un uomo che sfidava se stesso. Onestamente non so se le mie parole ebbero un effetto particolare, ma l’obiettivo fu
centrato perché era il più forte.
UN TIMIDO SENSIBILE E GENEROSO
CHE HA APERTO A TUTTI UNA STRADA
di MAURIZIO DAMILANO
l primo giorno di primavera ce lo aspettiamo
sereno, luminoso, con quel tiepido sole che
Iinizia
a scaldare le ossa e il cuore. Per noi dell’atletica si è presentato come quelle grigie e uggiose giornate autunnali che vorresti evitare: Pietro ci ha preceduto. Quando i vari notiziari mi
hanno trafitto con la triste notizia — l’ultima
che avrei immaginato di ascoltare — tra me e
me m’è scappato: «Ma porca miseria, Pietro, sei
sempre stato rapido, velocissimo, vincente, ma
questa volta hai esagerato!». L’ho conosciuto alla fine degli Anni 70. Gli Europei di Praga, dove
lui trionfò in modo imperiale, furono il primo
grande evento che affrontai con il «capitano».
Ma è l’Olimpiade di Mosca quella che più ci ha
legato. Abbiamo condiviso lo stesso appartamento: io, lui e mio fratello Giorgio. Da allora
abbiamo avuto sempre un rapporto buonissimo. Ultimamente ci eravamo sentiti per una
sua iniziativa benefica. Mi procurai due maglie
da calcio firmate da El Shaarawy e Giaccherini.
Gli servivano per un’asta per raccolta fondi.
Per me, e molti della mia generazione, è stato
un esempio importantissimo. Ha aperto una
strada, nell’idea di interpretare con professionalità il ruolo dell’atleta. Lui, Vittori, la Fidal di
Nebiolo aprirono una nuova via, diedero un indirizzo diverso. Io mi sono sentito un po’ figlio
di quella strada. Scherzavamo, specie in presenza di Pino Dordoni, sulle sue origini da marciatore. Pensate: l’uomo più veloce al mondo, aveva cominciato dalla specialità più lenta. Lui ci
rideva su e diceva: «Cavaliere, l’ho fatta solo
qualche giorno». L’hanno spesso definito scontroso, poco disponibile, polemico. In fondo era
un timido, sensibile e generoso. Mi ero sempre
immaginato che un giorno o l’altro sarebbe tornato ai vertici della famiglia atletica italiana.
Non l’ha fatto, ma sarà come se fosse lì. Del resto non ci può essere atletica senza Pietro.
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il ricordo di Tilli
QUELLA VOGLIA INCREDIBILE DI VINCERE
LA SUA APPLICAZIONE ERA TOTALE
di STEFANO TILLI
rent’anni insieme, di attività agonistica e di
amicizia. Eravamo rimasti legati, dopo le teT
lecronache facevamo lunghe telefonate e Pietro
era critico e attento. Aveva lasciato il mondo dell’atletica preso da altri interessi ma continuava a
seguirla con attenzione. Ci siamo trovati spesso a
cena con le nostre famiglie, gli piaceva rivivere il
passato, ma della malattia non mi aveva detto nulla. Avevo però intuito che qualcosa non andava,
ultimamente era diventato più schivo. Ancora
non molto tempo fa parlavamo di quella medaglia
di bronzo «rubatoci» ai Giochi ’84; noi quarti nella
4x100, alle spalle di quei dopati dei canadesi guidati da Ben Johnson. Forse lui fece anche dei passi ufficiali, ma gli dissero che ormai era tutto prescritto. Lo conobbi nell’82 in un raduno a Formia,
avevo 20 anni. Vittori ci fece fare delle ripetute
insieme e io correvo su una nuvola. Quella sua
tore, Erminio Azzaro, che era a fine carriera e pure lui
era seguito dal professor Vittori.
Non era facile legare con Pietro anche se ambedue
vivevamo praticamente in clausura. Era sempre riservato. Concluso l’allenamento raccoglieva le sue cose e
se ne andava, non rimaneva nel gruppo. Solo dal massaggiatore, Viscusi, si scherzava e Pietro era anche simpatico. Ma sul lavoro
niente da dire. Mai visto uno con la sua
determinazione: sempre il primo a
entrare in campo e l’ultimo a uscire.
Ma sempre insoddisfatto. Tutti noi
quando facevamo un buon allenamento eravamo contenti,
di ROBERTO PELUCCHI
f
E adesso chi ci convincerà
che si può sfidare il vento
senza fare rumore?
fibra pazzesca ci ha schiantati tutti. Io, Pavoni,
Simionato: tutti sotto i ferri per stargli vicino in
allenamento e lui nulla, neppure un crampo. Il
segreto? L’applicazione totale. Le sue giornate
erano allenamento durissimo al mattino, due fette di prosciutto e mozzarella a pranzo, poi dal
massaggiatore per preparare i muscoli per l’allenamento del pomeriggio. Alla sera cena e subito
in camera, a studiare. Un monaco.
Aveva una voglia di vincere incredibile. Nel 1983,
quando con la 4x100 fummo secondi ai Mondiali
con il primato italiano, la sera litigò con Pavoni e
Simionato, che l’avevano accusato di essersi preso tutti i meriti. Una settimana dopo c’era la Coppa Europa a Londra. I tre non si parlavano, si allenavano senza guardarsi in faccia. Alla vigilia della gara Mennea mi disse: «Digli che continuo a
pensare che il principale motore della staffetta sono io, così si arrabbiano di più e andremo ancora
più veloci». Naturalmente a Londra vincemmo.
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Mennea invece usciva corrucciato, quasi avesse il dubbio di non aver fatto tutto il possibile. Era come se
trovasse piacere nel soffrire. Una volta s’infortunò,
una distorsione alla caviglia facendo balzi sugli ostacoli: gli prescrissero 10 giorni di riposo e lui quei dieci
giorni li trascorse in palestra sulla panca a sollevare
pesi oppure a lavorare sugli addominali. Di amici veri
ne aveva pochi. Uno era Geppino, molto più anziano
di lui, con cui si fermava a parlare e si confidava. Forse in Geppino ritrovava la famiglia che non aveva a
Formia. Comunque la sua coppia con Vittori è stata
formidabile, due teste dure che si sono perfettamente
completate per raggiungere risultati incredibili.
Mennea, la fatica
e il senso del dovere
Un grande italiano
di FRANCO ARTURI
di STEFANO FROSINI
uomo che corre. L’agonismo discende da un geL’
sto primordiale. I fenomeni di
questa disciplina naturale sono i precursori dello sport, coloro che raggiungono il top della
fama e della identificazione
universale. Per questo Pietro
Mennea è stato grande fra i
grandi, uno dei punti più alti
toccati dall’Italia negli stadi,
con un riconoscimento globale
che ne fa una pietra miliare nella storia dell’atletica e dell’olimpismo. L’uomo più veloce del
mondo nella sua epoca, non ancora del tutto pervasa dal patto
col diavolo del doping.
TwitTwit
IL CINGUETTIO DEL GIORNO
ROBERTO SAVIANO
Scrittore
Mennea... Che ha fatto
vedere al mondo come
corre un uomo del Sud.
@robertosaviano
ALEX DEL PIERO
Giocatore del Sydney
Quante volte da piccoli
abbiamo detto: "Corro
veloce come #Mennea?".
Addio a un grande
campione. Ale
@delpieroale
MARGHERITA GRANBASSI
Campionessa di scherma
Esiste un solo modo per
scoprire se ci riuscirai o
no:provarci"
#PietroMennea un #record
durato 17anni,un ricordo
che durerà sempre
@marghegranbassi
ENRICO MENTANA
Giornalista
Addio Pietro Mennea,
campione immenso, quella
notte a Città del Messico
resta nella storia dello
sport, un record del mondo
durato una vita
@ementana
LUCA DOTTO
Nuotatore
RIP pietro mennea!! Col tuo
19, 7 avresti detto la tua
ancora oggi! Mito!
@dottolck
CARLO MOLFETTA
Olimpionico di taekwondo
Non solo l' #atletica tutto lo #sport
italiano piange per la scomparsa
del grande #PietroMennea
@MolfettaTkd
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dallaPrima
laVignetta
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il ricordo di Damilano
9
MAI VISTO UNO TANTO DETERMINATO
MA ERA SEMPRE INSODDISFATTO
laPuntura
il ricordo di Borzov
LA GAZZETTA DELLO SPORT
Il nostro Paese aveva già toccato quei vertici con l’impresa di
Livio Berruti a Roma nel 1960,
ma ripeterla vent’anni dopo, in
un contesto tremendamente
più competitivo, e mantenersi
ad alto livello per molti anni fecero diventare Mennea il campione per antonomasia. Incredibile: la freccia del pianeta
Terra era un mediterraneo dal
fisico apparentemente irrilevante, capace di trasformare la
sua carriera in una missione,
perseguita con una tenacia feroce, forse sconosciuta fino ad
allora. Non a caso Berruti spende per chi ne ha ripercorso le
sue gesta l’appellativo di «asceta».
Sud. E’ questa la parola chiave
e l’essenza stessa della parabola di Mennea. Non parliamo
qui di solarità e leggerezza, ma
dell’altra faccia della medaglia: la fatica e la rincorsa quasi
disperata rispetto ai modelli
più fortunati. Lui si sentiva prima di tutto un meridionale.
Più ancora dei neri di origine
africana che certo provenivano
da drammatiche storie lontane
ma che almeno la sorte aveva
ricompensato con fisici statuari e imponenti. Pietro, al contrario, sentiva di portarsi addosso
tutti i freni storici e culturali
che appesantivano la società
da cui nasceva. Come se in
ogni gara dovesse partire con
un metro di handicap. Per recuperarlo, quel metro, Mennea
ha superato ogni limite di volontà ed impegno. Un palombaro negli abissi della sofferenza
sportiva.
C’era qualcosa in lui che lo accomunava a Fausto Coppi, altro grande mito dello sport nazionale. Apparivano entrambi
quasi sgraziati se li osservavi
mentre erano in borghese o
non impegnati nei rispettivi gesti agonistici. Eppure una volta
saliti in bicicletta o in piena velocità sul rettilineo finale si trasformavano nella perfezione
Pietro Mennea a Formia
estetica più compiuta. Riguardate la finale di Mosca: Pietro
entra negli ultimi 100 metri sesto o forse settimo, ma implacabilmente risucchia tutti, come
scaraventato dalla fionda della
gloria. Il paradigma di un’esistenza intera.
Dentro si teneva sempre la rabbia di un’inadeguatezza che viveva come un’ingiustizia ma
sulla quale ha fatto leva per superare gli avversari predestinati, bellissimi e privilegiati. Per
questo Mennea non è mai riuscito a proporsi come un happy
end. Come se lui per primo considerasse esagerato, in termini
umani, il prezzo da pagare per
quei traguardi, per quel successo. Ma ha scelto comunque di
spendersi e di diventare un
esempio per una folla sconfinata di appassionati.
Eppure in qualche modo si sentiva solo perché nessuno poteva avere la consapevolezza piena di che cosa gli fosse costato
quel percorso. Era andato oltre
i confini che la natura gli aveva
assegnato. Per questo spesso
parlava di sé in terza persona,
come se avesse bisogno di vedersi da lontano, di riconoscersi in una narrazione più che in
un vissuto. Era spigoloso e difficile, ma ha sempre detto parole di verità. In questo senso addolora ma stupisce poco che la
sua testimonianza e la sua esperienza siano state quasi subito
accantonate dallo sport ufficiale una volta conclusa la sua carriera di atleta: era troppo carico di etica del lavoro per piegarsi ai compromessi richiesti dalla politica sportiva. Una colossale occasione persa dal nostro
mondo.
Ma la sua voce, per chi l’ha cercata, non ha mai smesso di trasmettere valori, fino all’ultimo.
La sua corsia era il senso del dovere. Agli italiani lascia questo,
un’eredità che vale anche di
più dei suoi record e delle sue
medaglie indimenticabili.
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