La qualità della progettazione

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La qualità della progettazione
La qualità della progettazione
Mario Maviglia
Ispettore Tecnico M.I.U.R.
Intorno al tema della programmazione educativa e didattica si è sviluppato negli ultimi decenni in Italia un
ampio dibattito che ha coinvolto in maniera considerevole anche la scuola dell’infanzia. Anzi, proprio la scuola
dell’infanzia – almeno nelle sue espressioni più avanzate e innovative – ha offerto numerosi spunti ed esempi di
forme programmatorie “aperte e flessibili, da costruirsi in progressione e lontane da schematismi ... coerenti con
la plasticità ed il dinamismo dello sviluppo infantile” (cfr. Orientamenti ’91).
I caratteri peculiari di questo nuovo modo di intendere la programmazione possono essere ricondotti ai seguenti
aspetti che nel loro insieme danno il senso della distanza rispetto al passato prossimo e ci aiutano a individuare
alcuni indicatori di qualità riguardo alla progettazione:
• La flessibilità: il principio della flessibilità implica la capacità di operare in una dimensione in cui non tutto può
essere predefinito a priori, ma – sulla base di linee d’azione generali – il percorso didattico viene costruito in
itinere anche in relazione alle risposte e alle sollecitazioni dei bambini. “Si tratta (…) di un «curriculum script»,
cioè una sorta di copione che diventerà poi la sceneggiatura (…), nell’attività didattica vera e propria”.(1) Tale
principio vuole segnare la distanza rispetto ad una concezione programmazione troppo connotata in senso
meccanicistico; in tale dimensione “una definizione aprioristica di obiettivi sarebbe incoerente e contraddittoria.
È più opportuno parlare di ricerca degli obiettivi o, meglio di elaborazione di ipotesi sulle situazioni che via via
vengono a determinarsi”.(2)
Non va poi trascurato che esso sta alla base della stessa autonomia scolastica, soprattutto nella sua dimensione
didattica e organizzativa.
• L’attenzione riservata al contesto: nel corso di questi ultimi anni è stata attribuita una sempre più grande
attenzione all’analisi del ruolo esercitato dal contesto nei processi di apprendimento e di socializzazione del
bambino. E il contesto, in questa accezione, viene concepito non solo come luogo fisico ma anche psicologico.
“L’individuo vive nello spazio non solo perchè ha a disposizione dei materiali, delle possibilità, delle dimensioni
(…) ma anche perché è in grado di utilizzare questo spazio e di muoversi in esso secondo un progetto. Si
costruisce in esso atteggiamenti di autonomia, impara che cosa può o non può fare; sa che può farlo da solo o
con altri bambini; sa che può muoversi e impara a muoversi secondo una sua autonomia personale”.(3)
La conseguenza più immediata di queste considerazioni è stata la nascita di una maggiore consapevolezza in
ordine al ruolo giocato dal contesto nella crescita del bambino e una rivalutazione dello stesso non solo per ciò
che riguarda i suoi elementi organizzativi (articolazione del tempo, organizzazione dello spazio, scelta dei
materiali, ecc.) ma anche quelli socio-relazionali e affettivi (organizzazione dei gruppi, modalità di gestione
della sezione, ecc.). In alcune proposte metodologiche, anzi, (come nello “sfondo istituzionale”) la costruzione
del contesto appare come un aspetto fondamentale del modo di concepire e fare scuola. E Loris Malaguzzi(4)
non trascurava di sottolineare l’attenzione riservata anche al senso estetico delle scuole dell’infanzia reggiane,
attraverso “la cura degli ambienti, degli arredi, degli oggetti, dei luoghi di attività e di ascolto, delle
documentazioni dei processi e dei prodotti dei bambini come dei “golfi di raccoglimento” e di libertà che
cerchiamo di preservare: qualcosa che va ben oltre la sola funzione. é nostro convincimento che esista anche
un’estetica del conoscere, prima ancora del conoscere estetico”.
L’attenzione riservata al contesto ci porta a considerare il forte intreccio tra aspetti cognitivi e relazionali. Che
gli aspetti emotivi e relazionali condizionino – ed anzi stiano alla base di quelli cognitivi – è cosa che si sa da
lungo tempo, e suonerebbe ovvio ricordarlo qui. Si ha però l’impressione che il più delle volte queste
acquisizioni siano affatto teoriche e poca rispondenza trovino nel fare scuola quotidiano, dove sembrano
prevalere preoccupazioni più direttamente legate allo sviluppo di aspetti contenutistici o al “governo” dei
bambini entro regole di buona convivenza.
D’altro canto, ci si può accorgere di tale situazione se si considera la scarsa attenzione riservata dai docenti – in
fase progettuale – ai momenti meno connotati in senso cognitivo, come, per esempio, quelli di routine. Si tratta
in realtà di importanti spazi che, orientando il bambino dal punto di vista temporale, scandendo i passaggi della
giornata scolastica, collegando il vissuto precedente con quello presente e quello prevedibile, lo rassicurano e
contengono emotivamente. Ribadire l’intreccio tra cognitivo e relazionale significa considerare le influenze
reciproche che queste due dimensioni esercitano tra di loro. “Infatti, il cognitivo incide fortemente sul
relazionale e sull’affettivo (esempio: controllo delle reazioni impulsive, determinazione degli stati affettivi e del
livello motivazionale, ampliamento delle risposte relazionali, ecc.); cos“ come il relazionale incide
significativamente e strutturalmente sul cognitivo (esempio: il linguaggio nasce e si sviluppa solo attraverso
l’interazione con l’adulto, la genesi dei concetti è determinata dalla conoscenza di eventi quotidiani condivisa e
costruita con l’adulto, ecc.)”.(5)
Le eccessive preoccupazioni cognitive e intellettualistiche, che talora traspaiono nel pensare e nel fare dei
docenti, possono generare degli approcci educativi e didattici fortemente segnati in senso disciplinaristico e
formalistico, dove il bambino appare più il destinatario passivo che il protagonista attivo dell’azione educativa.
E, d’altro canto, l’enfatizzazione degli aspetti emotivi e relazionali, al di fuori di una dimensione di apprendimento, rischia di abbandonare il bambino in una dimensione che non lo porta a rielaborare il proprio
vissuto.
• L’accoglimento delle proposte del bambino e delle sue esperienze di vita: ogni volta che si analizza la
programmazione di una scuola è interessante verificare dove viene collocato il bambino e se e come trovano
posto le sue esperienze di vita. In definitiva questo è un problema relativamente recente, nel senso che in
un’accezione classica di programmazione (e di scuola) è l’adulto che sceglie e predispone le occasioni e i contenuti di apprendimento dell’allievo, dando loro un’organizzazione razionale e ordinata (dal semplice al
complesso, dal vicino al lontano, ecc.). L’insegnante – in questo modello – si pone come colui che agisce sul
bambino per provocarne dei cambiamenti. “A questo livello, lo studente verrà visto come una specie di “scatola
nera” in cui degli input particolari, provenienti dall’insegnante (stimoli), provocheranno degli output
(comportamenti) in risposta (...) é l’azione dell’insegnante che causa lo sviluppo intellettuale del bambino; il
bambino non può controllare l’organizzazione dei propri modi di apprendimento (il controllo è sempre esterno,
sempre dalla parte dell’insegnante); deve solo imparare modalità di risposta giuste”.(6)
In un’accezione diversa del processo educativo l’insegnante si lascia “segnare” dal bambino, ponendosi in
ascolto delle sue richieste e assegnando pieno diritto di cittadinanza agli stimoli da lui provenienti. Di più :
l’insegnante, attraverso l’allestimento di un contesto pregnante e significativo, offre continuamente l’occasione
al bambino di esprimere le proprie dimensioni di sviluppo, valorizzando e dando significato alle sue risposte. La
programmazione, in questa dimensione, diventa un tentativo di incontro tra le ipotesi dell’adulto e i bisogni del
bambino, attraverso un continuo confronto ed equilibramento tra queste due istanze.
Strettamente connesso a questo aspetto è l’altro riguardante lo spazio riservato al bambino. Non poche
programmazioni presentano una struttura ed un’esposizione formalmente ineccepibili e magari sono ispirate alle
più moderne acquisizioni in campo didattico-metodologico (mappe concettuali – sfondo integratore – ecc.).
Eppure, dalla loro attenta lettura non sempre si riesce a cogliere il ruolo giocato dal bambino, un ruolo spesso
sfocato, dai margini confusi. Il tratto caratteristico di tali programmazioni una sorta di anonimato, ossia
l’impossibilità di individuare un preciso destinatario: le proposte ivi contenute, infatti, sembrano andar bene per
qualsiasi realtà, come un vestito adattabile ad ogni situazione e taglia.
Vi sono almeno due aspetti che possono dare l’idea di quanto una programmazione possa essere costruita
tenendo presente la realtà dei bambini “in carne ed ossa”:(7)
– da una parte lo spazio riservato alla conoscenza di questi bambini e di come la scuola si organizza per acquisire
ed utilizzare tale conoscenza. Ci riferiamo, in particolare, alle forme e agli strumenti di osservazione e analisi
che una scuola utilizza per raccogliere informazioni sui bambini;
– dall’altra lo spazio riservato alle “proposte” del bambino nella definizione delle attività educative. In altre
parole: come vengono “confezionati” i progetti didattici della scuola? Quale spazio di operatività – esplicito o
implicito, diretto o indiretto – viene assicurato al bambino nella predisposizione di tali progetti? Si tratta quindi
di chiarire se le proposte educative della scuola si riversano unidirezionalmente dall’elaborazione magistrale al
fare infantile, oppure se il bambino influenza – e in che misura – il progettare dei docenti. Zanelli ha utilizzato
l’espressione di processo coevolutivo per significare la relazione insegnante/bambino, una relazione in cui
“l’istruzione non avviene più a senso unico; non è vero solamente che l’insegnante causa dei cambiamenti
(apprendimento) nel bambino, è vero anche il contrario; anche l’insegnante cambia (apprende) stimolato dal
bambino. Bambino e insegnante costituiscono una totalità ecologica (circuitale) e l’insegnante non può
controllare unilateralmente il processo. Può partecipare al controllo, ma non controllare unilateralmente. La
retroazione che calibra i singoli comportamenti, infatti, spetta all’intero sistema insegnante-allievo”.(8)
Conviene rammentare, infine, che il bambino stesso è fonte di cultura e di sapere, una sorta di “campo di
esperienza” con un proprio statuto e una propria epistemologia: decodificare e sviluppare questo “campo di
esperienza” è compito di una seria programmazione.
• L’intreccio tra i vari ambiti di esperienza: c’è stata una stagione (che per la verità sopravvive tuttora in molte
realtà) in cui l’attività didattica della scuola dell’infanzia si dipanava attraverso un’articolazione molto rigida,
ancorché “ordinata” e organizzata, dei vari ambiti del fare e dell’agire del bambino (le aree disciplinari). Questo
modello – mutuato dalla scuola elementare – prevedeva la suddivisione del curricolo in ambiti ben definiti (area
linguistico-espressiva, area logico-matematica, area psicomotoria, ecc.) e la conseguente suddivisione dei
compiti all’interno del gruppo docente. Generalmente i bambini – nel corso della settimana – transitavano da
un’area disciplinare all’altra entrando in contatto anticipatamente con l’organizzazione didattica tipica della
scuola primaria, caratterizzata – quest’ultima – dalla suddivisione del curricolo in ambiti disciplinari e
dall’assegnazione di questi ai docenti del team.
Un modello così concepito presenta indubbiamente un elevato livello di leggibilità (almeno per gli adulti) e
un’organizzazione ben scandita in tappe, procedure, momenti per l’apprendimento; ma trasferito alla scuola
dell’infanzia rischia di “spezzettare” il curricolo in tanti frammenti difficilmente intelligibili al bambino. E non a
caso, negli ultimi anni, sono stati sperimentati approcci progettuali più integrati in cui non vi è una distinzione
così artificiosa tra i vari campi di esperienza del bambino e dove, anzi, si cerca di non trascurare l’aspetto
motivazionale che sta alla base dell’elaborazione e dello sviluppo di un progetto. Il progetto rappresenta il
tentativo di conoscere la realtà utilizzando i linguaggi e le procedure dei vari saperi; può succedere che venga
privilegiato, volta per volta, un particolare ambito, ma sempre all’interno di una visione integrata dei saperi,
dove il corpo non è scisso dalla mente o la relazione dalla cognizione.(9) Questo modo di procedere si presenta
apparentemente più caotico e meno ordinato di quello illustrato sopra, ma in realtà restituisce tutta la
complessità del conoscere e dell’apprendere.
Si tratta anche di chiarire il ruolo svolto dai campi di esperienza. Dire che i campi di esperienza costituiscono
l’ossatura “curricolare” della scuola dell’infanzia, è una ovvietà; ritenere che gli stessi campi esauriscano il
lavoro educativo e didattico dei docenti è una sciocchezza. In realtà i campi di esperienza definiscono – come
recitano gli Orientamenti del 1991 – “gli ambiti del fare e dell’agire del bambino e quindi i settori specifici ed
individuabili di competenza nei quali il bambino conferisce significato alle sue molteplici attività”. Ma i campi
di esperienza, come ha messo in luce P. Bertolini,(10) nascono dall’intreccio di tre distinte e specifiche valenze:
una valenza valoriale (finalità), ossia le “finalità che si ritiene di dover perseguire sia da un punto di vista generale che da un punto di vista culturalmente più determinato”(11); una valenza psicologica (dimensioni di
sviluppo), ossia la conoscenza delle “caratteristiche, peraltro dinamiche, dei “soggetti in carne ed ossa””(12);
una valenza culturale (sistemi simbolico-culturali), ossia il “sapere codificato e la sua rilevanza nel determinare
o comunque nel caratterizzare l’organizzazione stessa di ogni comunità”.(13)
Non cogliere la stretta interrelazione tra queste tre valenze significa non comprendere appieno la collocazione
dei campi di esperienza e, cosa ancor più grave, considerare sotto una luce precocemente disciplinaristica il
ruolo giocato dagli stessi nella codificazione del sapere.(14) Non va peraltro dimenticato che vi sono momenti
della vita scolastica che, pur sfuggendo ad una immediata collocazione all’interno dei campi di esperienza,
contribuiscono in maniera non irrilevante al perseguimento delle tre grandi finalità assegnate alla scuola
dell’infanzia (maturazione dell’identità – conquista dell’autonomia – sviluppo della competenza). Così, ad
esempio, i momenti di routine, di accoglienza e di distacco assumono un grande valore all’interno del progetto di
una scuola.
L’analisi delle programmazioni secondo questo angolo di lettura può rimandare una visione più accurata delle
concezioni che le scuole esprimono proprio in ordine ai campi di esperienza. Esistono infatti fondate ragioni per
supporre che in molte realtà scolastiche questo non sia stato del tutto chiarito dai docenti e che si persista a
considerarlo secondo un’accezione più vicina all’idea di “attività educative” degli Orientamenti del 1969. Ed
infatti, la C.M. 4666 del 22/7/96, nel riportare i risultati di un’indagine condotta presso le scuole dell’infanzia
statali in merito al tema della valutazione, ha messo in luce un certo “sbilanciamento” di questi ambiti verso
obiettivi di tipo funzionale piuttosto che come conferimento di significato alle esperienze del bambino. In altre
parole, sembra emergere un’idea di campo contrassegnato più da abilità specifiche e parcellizzate o settoriali
che finalizzato all’acquisizione di condotte complesse. La riprova di tutto ciò ci viene spesso offerta da quelle
programmazioni minuziosamente articolate e strutturate in obiettivi specifici da conseguire senza altre
indicazioni in merito alla collocazione di questi apprendimenti in un contesto motivazionale e organizzativo.(15)
• La funzione di “regia educativa”
é difficile oggi trovare un insegnante di scuola dell’infanzia che non affermi di ispirarsi alla metafora della
“regia” per definire il proprio ruolo educativo. Una metafora suggestiva, indubbiamente, ma anche pregna di
equivoci, se non adeguatamente chiarita ed esplicitata. é fuor di dubbio che gli Orientamenti quando parlano di
regia educativa non abbracciano tesi lassiste, tutt’altro. Il testo programmatico – a ben vedere – disegna un
profilo docente “di alta complessità e di grande responsabilità”, comunque lontano da suggestioni
spontaneistiche. Tre appaiono, in particolare, gli elementi di connotazione di tale profilo:
– l’intenzionalità, come capacità di investire di senso educativo le attività che si svolgono a scuola. Da questo
punto di vista, è lecito aspettarsi che tutte le proposte della scuola rivestano carattere educativo e non solo quelle
più contrassegnate in senso cognitivo. In ogni caso, va evitata – a nostro avviso – ogni pericolosa distinzione (e
gerarchia) tra attività “forti” e attività “deboli”: in realtà i bambini apprendono sia nelle situazioni più
formalizzate sul piano didattico che in quelle informali;
– la responsabilità, intesa come la capacità di costruire un progetto educativo adeguato alla realtà dei bambini
“in carne ed ossa” che si hanno davanti. Operare in una dimensione di responsabilità significa non proiettare sui
bambini aspettative o esigenze degli adulti, come quando si predispongono itinerari pretenziosi o lontani dalle
possibilità dei bambini o come quando non vengono adeguatamente sostenuti e sollecitati i bisogni di crescita dei
bambino, predisponendo ad esempio itinerari educativi ridondanti o piattamente statici. Per evitare che
l’insegnante – come gli Argonauti – non rimanga schiacciato dalle “pietre contrastanti” del volare troppo alto o
del rimanere troppo fermo, può essere utile richiamare la nozione vygotskjiana di “zona prossimale di sviluppo”
che ben dà l’idea della collocazione del docente rispetto alla situazione del bambino;
– la professionalità, intesa come l’insieme delle competenze e capacità (di tipo relazionale, organizzativo,
psicopedagogico, metodologico, ecc.) che, nel loro dispiegarsi in azione, definiscono la natura dell’essere
docente. La professionalità è, in altre parole, la messa in atto, la rappresentazione operativa delle competenze
possedute; e non a caso il termine – nel suo etimo – rimanda al significato di “dichiarare apertamente,
manifestare”.(16)
Da quanto detto, si può cogliere la complessità del concetto di regia educativa e i rischi che una sua
banalizzazione può comportare, perchè se è vero che l’azione educativa può essere immaginata “come una sorta
di rappresentazione teatrale”(17) è anche vero che l’elaborazione e la gestione di tale rappresentazione richiede
plurime e diverse competenze. E dunque, “l’insegnante è regista quando diviene capace di costruire quadri
connettivi, contenitori, in cui possono acquisire significati costruttivi le tracce e i segnali dei bambini”.(18)
NOTE
Ajello A.M., Per un impianto curricolare nuovo della scuola dell’infanzia, in Pontecorvo C., Una scuola per i bambini, Firenze, La
Nuova Italia, 1990.
(2) Mammarella E., Apprendimento: i percorsi, bambini n. 7 settembre 1989 pp. 20-23.
(3) Pontecorvo C., Scuola dell’infanzia: un ambiente per l’apprendimento, in AA.VV., Cominciare da tre, Milano, Franco Angeli, 1991, p.
74.
(4) Malaguzzi L., “La storia, le idee, la cultura”, in C. Edwards, L. Gandini, G. Forman, I cento linguaggi dei bambini, Bergamo, Edizioni
Junior, 1995, p. 81.
(5) Comune di Milano, Linee psico-pedagogiche nei servizi educativi per l’infanzia, Bergamo, Juvenilia, 1991, p. 8.
(6) Zanelli P., “Per un’ecologia dell’educazione”, in V. Severi, P. Zanelli, Educazione, complessitˆ e autonomia dei bambini, Scandicci, La
Nuova Italia, 1990, p. 36.
(7) Bertolini P., “Le idee chiave del curricolo nella scuola dell’infanzia”, in Infanzia, anno X, 1991, n. 1, settembre, p. 7.
(1)
(8)
Zanelli P, “Per un’ecologia dell’educazione”, op. cit., 1990, p. 37.
Per un approfondimento si rinvia a Pujol M. Mongay I. Roca N. Cunill I., Lavorare per progetti nella scuola materna, Firenze, La
Nuova Italia, 1995; Katz L. G., Chard S. C. , “La progettualitˆ come approccio educativo”, in Bambini, anno XII 1996, n. 7, settembre,
pp. 11-17; Collina P., Mazzoli F. , Progetti, Milano, Nicola Milano 1987.
(10) Bertolini P., “Dal bambino al curricolo, dal curricolo al bambino”, in Rivista dell’istruzione, anno VII 1991, n. 2, marzo-aprile, pp.
229-238.
(11) Ibidem, p. 233.
(12) Ibidem, p. 233.
(13) Ibidem, p. 233.
(9)
(14) Ibidem,
p. 234.
Bondioli A., (1993), “Uno strumento per l’analisi della giornata alla scuola materna”, in Insegnamenti pedagogici del Dipartimento di
Filosofia dell’Universitˆ di Pavia (a cura di), La giornata educativa nella scuola dell’infanzia, Bergamo, Edizioni Junior, p. 5.
(16) Cortelazzo M., Zolli P., Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1985, vol. 4, p. 984.
(17) Zanelli P., “La pratica della programmazione”, in Severi V., Zanelli P., (1990), Educazione, complessitˆ e autonomia dei bambini, op.
cit., p. 103.
(18) Lippi G., (1988), “PerchŽ la rana non si lessi; ovvero: alcune questioni connesse con il controllo del sistema didattico”, in Canevaro
A., Lippi G., Zanelli P., Una scuola, uno sfondo, Milano, Nicola Milano, 1985
(15)