5. L`io romantico - Società Editrice Fiorentina

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5. L`io romantico - Società Editrice Fiorentina
5. L’io romantico
Forse dovrei pronunciare questo titolo, così pretenzioso, così démodé,
in forma interrogativa, o addirittura scettica. Di certo non arriverei a
sottintendere quel che ebbe a scrivere il cognominato Arnaldo in Firenze, nel fatidico 1817, sul «Giornale di letteratura e belle arti». Ecco come
si immagina una neonata Accademia romantica: «È in libertà dei soci
di scegliere un ruscello per loro seggio od un rottame di torre, un tronco di quercia […]. Ogni socio è tenuto a provvedersi di un liuto, sopra
cui canterà un’ode alla malinconia, un inno alla luna, ecc.; ma dovrà
fare uso di tuoni minori. […] Per essere annoverati fra gli accademici
romantici, sarà d’uopo: per gli uomini subire prima un esame dinanzi a
dei sindici eletti a bella posta, sopra la metafisica di Kant», e dopo parimenti subire «un esperimento sul magnetismo, e spiegare i fatti morali
e fisici colle teorie del dualismo», mentre per le donne occorrerà avere
«o finta o vera, un Air languissant» donde l’invito esplicito loro rivolto:
«non facciano uso di belletto, e posseggano l’arte di svenirsi tre volte
il giorno almeno»; quanto al «loro esame si aggirerà sopra l’Esprit des
esprits, i romanzi di madama Ratecliffe, ecc., e – aggiungasi – dovranno
altresì saper toccare passabilmente un paesaggio in croquis». Tralascio le
prevedibili ironie su Madame de Staël, mentre merita maggior attenzione Ossian, la cui «immagine», in «medaglia», recherà il motto: «Nature sensibilité», ed il cui cenotafio «sarà eretto a spese della società» in
«bianchissimo ghiaccio di Scandinavia»1. Chi sono i parodiati, ovvia1
Arnaldo, Parodia dello statuto d’una immaginaria accademia romantica,
in Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), a cura di Egidio Bellorini,
Bari, Laterza, 1943, i, pp. 208-211.
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mente milanesi o milanesizzati? Breme, Borsieri, Berchet, o addirittura
l’occulto Manzoni. Non c’entra Pellico, che deve ancora riscrivere al
negativo l’esperienza sua di questi amici, allocandola nel piano religioso della salvezza della sua anima (libro agostiniano il suo, sorta di
ortodossa «confession d’un enfant du siècle», e quindi bisognosa di
misure critiche qui non esperite). Mancano le conseguenti repliche,
apologie, invettive, tipiche di quel periodo per eccellenza di «discussioni e polemiche», e la cosa non meraviglia, neppure troppo, alla
fin fine: trattasi di spiritosaggini poco più che pedantesche. Ma se
l’interlocutore era degno, o comunque pericoloso, non si rimaneva
sulle proprie. Borsieri e Berchet godevano di penna agile e acuminata, e si presero sul mucchio dei loro avversari (non è questione di
Arnaldo, parodista) le opportune rivincite: l’uno nelle giornalistiche
e brillanti (dicesi del «Caffè») Avventure letterarie di un giorno, l’altro
in una celeberrima Lettera semiseria grecamente intestata, (con tanto
di finta palinodia, cioè). Breme era incapace di rispondere siffattamente, anche perché, e soprattutto nel ’16, era stato fatto oggetto
in Parigi di una voce biografica, ad hominem, che prescindeva quasi
dall’essere romantico. Estensore ne era l’abate Aimé Guillon, ben
noto agli studiosi dei Sepolcri, e fin dalla presentazione generale si
proponeva di squalificarlo come poeta, facendo di lui un cortigiano,
ben destreggiatosi fra Francesi ed Austriaci; solo in ultimo si accennava all’uscita d’«un livre, dont la majeure partie est dirigée avec une
sorte de passion contre les rédacteurs du journal littéraire de Florence, intitulé: Novelle letterarie»2. Trattavasi dell’opuscolo Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, indirizzato al padre (pure
lui biografato senza sconti) in difesa di Madame de Staël, e della sua
celebre, affidata alla «Biblioteca Italiana», Sulla maniera e sull’utilità
delle traduzioni: difesa perché l’autrice era stata scortesemente definita «la pitonessa» sulle «Novelle letterarie»3. A bordate così pesanti, la
2
Biographie des hommes vivants, ou histoire par ordre alphabétique de la vie
publique de tous les hommes qui se sont fait remarquer par leurs actions ou leurs écrits.
Ouvrage entièrement neuf, rédigé par une société de gens de lettres et de savants, I,
Paris, L. G. Michaud, i, 1816, p. 476.
3
L’articolo, anonimo, si può leggere in Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), cit., i, pp. 10-15.
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seconda non interamente esplicitata, ma ben intesa dal malcapitato,
reagisce l’anno appresso, nel ’17, la stampa in francese, a Ginevra, di
quel Grand Commentaire sur un petit article, Par un Vivant remarquable sans le savoir ou Réflections et notices générales et particulières
à propos d’un article qui le concerne dans la «Biographie des vivants».
Dico subito che, come si legge dopo il chilometrico, risentito ed impacciato titolo, è tutto fuorché un libro ispirato da Montaigne, pur
citato in epigrafe: «Le parler que j’aime est un parler, tel sur le papier
qu’à sur le bouche», aveva letto Breme e copiato dagli Essais: «un parler – ancora –, suculent et nerveux: non tant délicat et peigné comme
véhément; décousu et hardi: non pédantesque, non fratesque, mais
plaideresque, mais plutôt soldatesque»4. Breme, se pur aborriva i pedanti nuovi (leggi: i classicisti), aveva scelto non le armi, ma il sacerdozio, e non sdegnava prediche sulla natura e i suoi costumi, anche
quando trattava di letteratura nuova. Non meraviglia affatto, se così è,
la scarsa simpatia da lui dimostrata per lettera su un altro testo cardine
nella scrittura di sé, modernissimo: l’Adolphe di Constant, sì, certo, un
libro senile, ma non più «répugnante» del suo, a ben vedere, perché
a sua volta non proprio e sempre immune da «petitesse d’âme» e da
«lâcheté», com’è in tutta questa generazione, d’intellettuali controllati
dal potere, o meglio travolti dal succedersi dei poteri5. L’istituzione
dell’esilio, per dirla con un luogo celeberrimo di Cattaneo, fu la sola in
grado di troncare prima del ’20-21, simili slittamenti.
L’insegnamento di Alfieri, attinto attraverso Valperga di Caluso,
è forte solo nella premessa teorica del Grand Commentaire: quando
Breme prende atto che la biografia dei viventi è operazione rischiosa,
sino al punto da dover richiedere l’intervento autobiografico del biografato. Alfieri, introducendo la Vita, anticipa il rischio della biografia
prezzolata: Foscolo, grazie a Guillon, che lavora per il grande editore
parigino di biografie universali che si chiamava Michaud, corse per
intero questo rischio, ma in poesia cercò di provvedervi, a cose fatte,
coi Sepolcri. Entrambi, comunque, illustrano un momento fondamentale nella storia di due generi pertinenti: quello in cui la biografia
4
Ludovico Di Breme, Grand commentaire, a cura di Giovanni Amoretti,
Milano, Marzorati, 1970, p. 49.
5
Id., Lettere, a cura di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1966, p. 351.
88 i. l’autobiografia
determina l’autobiografia per ragioni di autenticità, d’immagine e di
mercato. Breme, con dolore, venuto come terzo e costretto addirittura a rispondere nella lingua del biografo ostile, il francese, non solo
così può discorrere col pubblico europeo che vuole essere informato
sulle vicende dei protagonisti, grandi e piccoli, della storia contemporanea, tanto più in un momento di grandi vicissitudini, e, perché
no, ribaltoni. Inoltre «réduit à nier des faits qu’on a témérairement
avancés contre moi, à en rétablir d’autres dans leur exactitude», insomma ridotto «en un mot à parler de moi en plein», Breme sa di
dover risorgere dalla morte, a cui l’ha condotto il suo «biographe
assassin». Vivrà nella luce delle sue azioni, inattaccabili:
j’ai agi à la face de la lumière, tandis que l’homme qui m’attaque à
présent, rampoit peut-être alors dans l’ombre, et s’y désoloit qu’on ne
songeât pas même à l’écraser.
Sono metafore esistenziali di palese matrice settecentesca, queste, e forse non potrebbe essere diversamente, anche se nel prosieguo
delle giustificazioni, raccontando del padre, della propria formazione sacerdotale, dell’alternanza fra le corti di Torino (pochissimo
frequentata, e non amata) e di Milano (diletta ed ospitale, grazie
in specie alla duchessa Amalia), trapelano talora echi di una condizione personale egualmente riconducibile a momenti per eccellenza
romantici, per esempio quest’esclamazione:
Pourquoi ceux qui me supposent des vues ambitieuses et qui peut-être
n’en conçoivent pas de plus nobles, ne peuvent-ils pas voir dans le fond
de mon coeur!6
Ma non è su questo pedale che Breme insiste, quando racconta
della sua vocazione filosofica (quella che lo ha reso, alla francese, un
«idéologue») e letteraria (quella che ne ha fatto un «romantico», o
meglio un «romantico-milanese», alla stregua, si parva licet, di chi
allora di lui cavò un ritratto memorabile, Stendhal intendo). Oltre a
Id., Grand commentaire, cit., pp. 108-109.
6
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dirsi, implicitamente «scudiero» dei teorici romantici europei allora
circolanti in Lombardia (Madame de Staël, in primo luogo, ma anche Augusto Guglielmo Schlegel e Sismondo de’ Sismondi), Breme
non va. Volendo, potrebbe sostenersi il paradosso che il suo romanticismo non liberò il suo io, e non ne favorì le relative scritture.
Conseguenze temerarie? Davvero non credo, e spero di portare
altre conferme. Per l’intanto, va detto per inciso, quel Kant, buttato
là poco prima, in luogo di Madame de Staël, non conduce da alcuna
parte, nemmeno quando il suo nome ritorna negli Scritti sul sublime,
di Ermes Visconti, l’altro portavoce dell’occulto Manzoni riportato
bellamente a galla da Mutterle. E così pure dicasi dei non pochi nomi
di romantici dichiarati che trapelano in seguito alle Memorie poetiche
del Tommaseo, tutto affannato (siamo ormai nel ’38) a dichiarare ripetutamente, quando ne riprende tematiche più o meno peculiari, che
«non sapeva» di Rousseau, di Chateaubriand, della Staël, e meno che
mai del Caino del Byron, oltreché di quello dell’Alfieri, quando pur se
ne «innamorò»7: tutt’al più gli si può concedere d’ignorare il Werner
caro a Mazzini in quel lasso di tempo8. Ammise di conoscere Werther
ed Ortis, ma non come operanti nell’autobiografico Fede e bellezza
(1840), quando ne discorse nel Testamento letterario del ’52, dove, tra
l’altro, lasciò celato il Diario intimo, tenuto dal ’21 al ’71, con intervalli
e sbalzi forti di scrittura. Tornando alle Memorie, si ha la netta sensazione che Tommaseo abbia voluto essenzialmente testimoniare il suo
apprendistato lirico, e che questo fosse per larga parte d’ispirazione biblica: qui probabilmente fondava l’ambizione di riuscire una sorta di
Chateaubriand italiano, il cui Génie du Christianisme voleva superare,
pensando così a collocarsi nella linea della poesia sacra di Manzoni9.
7
Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche, in Opere, ii, a cura di Mario Puppo, Firenze, Sansoni, 1968, p. 139.
8
Cfr. i Cenni su Werner, nell’Edizione nazionale degli scritti di G. Mazzini, ii,
Imola, Coop. Editrice Paolo Galeati, 1910, pp. 203-236.
9
«Lessi allora le opere del Manzoni, con ammirazione uguale all’affetto. Da
quella fede affettuosa e sapiente, da quella potente e pensata semplicità, da quella
verità di natura non soffocata dai molti accorgimenti dell’arte, sentii spirare uno
spirito nuovo di gioventù nell’ingegno: e a me vagante di sperimento in isperimento, parve posare il piede su fermo terreno», Niccolò Tommaseo, Memorie
poetiche, cit., p. 159.
90 i. l’autobiografia
La divisione fra classicisti e romantici sembra per Tommaseo un fatto
ormai compiuto, oggetto di qualche puntata giornalistica, e comunque da serbarsi, senza adesioni fideistiche verso l’uno o verso l’altro
gruppo. Nulla trapela che conduca a partire di lì per dirlo, a propria
volta, romantico. È sufficiente, al riguardo, attendere a questa nota di
lettura vergata in margine al poeta per eccellenza del Romanticismo:
«dal xxviii al xxxiii – l’anno in numeri arabi è il 1832, Tommaseo era
del 1802 – due sole rivelazioni poetiche ebbi, la lettura di Shakespeare,
già intravveduto un po’, o traveduto, di diciannov’anni nella traduzione italiana – quella del Leoni, credo – e il senso dell’arte toscana,
sola che con la sua spiritualità e leggiadria, e schiettezza meditata, e
purità e varietà, e forza semplice, e animosa modestia convenisse alla
natura mia»10. Il disfacimento degli opposti, ovvero l’impossibilità di
ridurre Shakespeare e arte toscana entro classicismo e romanticismo,
quello degli anni ’16-’17 e poco oltre, sembra ormai consumato. L’io
romantico, se mai vi fu, e come tale capace di una scrittura in proprio,
non solo non è nato in quel biennio, ma neppure può fingersi nato
nei decenni successivi, spostando in avanti le lancette dell’orologio.
Né le cose mutano sostanzialmente spostandosi più avanti.
Chiamo ancora in causa le note del ’47, che si leggono nelle memorie del ventunenne desanctisiano Luigi La Vista, di Verona, edite
dopo il ’61 da un suo illustre amico, Pasquale Villari. Immaginandosi le ragioni, per cui non suscitano interessi femminili, il La Vista
si fa sì dare del «romantico» da una delle donne avvicinate, ed alla
quale ha parlato, suppongo concitatamente prima «del suo cuore,
del tormento del suo cuore», e poi «degli studii» cui si era dedicato,
una «specie nuova di febbre gialla», aggiungendo che «l’avea veduta
nel sole, sul mare, in un libro». Ma se lo fa dare in questo modo: «È
romantico costui, ha detto una marchesina che aveva letto i romanzi della Cottin». Poco meno di una malattia, insomma, alla pari
di quell’«ipocondriaco» affibbiatogli da «una giovanetta di fresco
uscita dai Miracoli» ovvero da un convitto femminile di Napoli,
per non dire dell’epiteto di «pessimo marito» di cui lo gratifica, e fa
tre, «una divota libertina». La reazione del malcapitato fa appello
Ivi, p. 295.
10
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a ben altro romanticismo, di cultura e di vita, ma senza definirlo
tale, voglio dire senza caricarlo di qualcuna delle implicazioni anticlassicistiche della polemica degli anni ’16-’17. Non a caso si fa il
nome di chi allora vide neppure pubblicata la sua opposizione al
Breme:
Parto, come per l’esilio; porto con me Leopardi, e vado a trovar mio
padre; l’esilio mi si rende men duro… Sono stanco di sentirmi stanco;
sono annoiato di essere annoiato…11.
Se implicito è Foscolo (l’esilio), esplicito è il Leopardi dei Canti
e delle Operette, l’edizione del ’45 magari, condotto anche oltre il
suo ragionar consueto, circa la «noia», intendo. Villari preferì non
soffermarsi in queste zone, preferì abbandonarsi alla propria memoria e lasciare del La Vista un ritratto non alonato da alcuna macula nigra, pur appartenendo egli alla generazione dei byroniani:
A vedere quel giovane di venti anni, che già aveva l’aspetto di uomo
maturo, pallido e scarno; ma pur d’un colore accensibile e mutabile per
mille gradazioni, a seconda delle idee o degli affetti che lo agitavano; l’occhio azzurro illuminato quasi di luce elettrica; la biondissima capellatura che
circondava il suo volto come un’aureola di luce; noi restavamo estatici.
Il profilo potrebbe mutare nel giorno della sua morte (il La
Vista fu trucidato in Napoli dagli Svizzeri il 15 maggio del ’48 antiborbonico). Ma il Villari insiste: «l’uniforme – settecentescamente
al maschile – della Guardia Nazionale» che il giovane si accingeva
a indossare:
venuto allora dal sarto, brillava coi suoi vivi colori sopra una sedia; il fucile
era appoggiato al muro. I suoi lunghi biondissimi capelli cadevano, lentamente ondeggiando, innanzi alla sua fronte; la mano pallida e scarna percorreva rapidissimamente sulla carta, e s’affrettava a compiere la prima bibliografia dei martiri napoletani, quasi temesse di non essere più in tempo.
11
Luigi La Vista, Memorie e scritti, raccolti e pubblicati da Pasquale Villari,
Firenze, Le Monnier, 1863, pp. 158-159.
92 i. l’autobiografia
Un nazareno più che un byroniano il La Vista quasi oleografico di Villari, e non basta perché subito appresso delineato in un
movimento d’occhi che ricorda addirittura maniere agiografiche e
controriformistiche ad un tempo:
Di tanto in tanto, volgeva lo sguardo alle mostre rosse dell’uniforme,
che ferivano il suo occhio; alla canna del fucile che rifletteva i raggi del
sole già alto12.
Mi sono diffuso in questa citazione, non solo per il gusto di
cogliere quel che non è frequente nella prosa di tanto storico della metodologia ormai positivista, ma perché mi par di capire che
un’iscrizione eventuale al romanticismo doveva, se mai usciva dal
pettegolezzo, comunque escludere il «nero» outré, alla Caino per
restare in circuito. Eppure, non c’è dubbio, basta la lettura del testo
di queste Memorie, frammenti per lo più di un probabile progetto
di ricordanze familiari, ad intendere che il La Vista era un angelo
decaduto pure lui, preda del male romantico. Era, in specie, ossessionato dalla morte, soggetto a furie che il mare rifletteva o placava;
e qualcosa di simile gli accadeva cavalcando, in accordo (non cercato di proposito) con Alfieri, l’Alfieri di Foscolo, ed il Foscolo del
Werther, beninteso:
Corro per mezz’ora a cavallo; e m’inebbrio di luce e di aria; indi mi
fermo, e guardo intorno, e paragonando i palpiti del mio cuore colla quiete della natura, mi sento preso da sì profonda e dolorosa malinconia, che
prorompo in pianto, e sono tentato di gittarmi per terra, e di farmi stritolare dal mio cavallo. Eterna natura, a che bene questa terribile contraddizione tra il volere e l’essere, tra il cuore e l’universo?13.
Domande siffatte, frantumanti, non impediscono ad autobiografi di tutto e riconosciuto rispetto di cimentarsi in racconti di sé
dove la parola romantico manca, ma quasi sarebbe d’obbligo. Caino
12
Pasquale Villari, Prefazione, a Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., pp.
xxiv-xxv.
13
Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. 159.
5. l’io romantico 93
m’intriga ancora, e mi porta dritto dritto a Guerrazzi, alle Note autobiografiche del ’33, scritte nel carcere di Portoferraio. Byroniano lo è,
lo sanno anche i manuali sempre ostili a lui ed alla sua enfasi, ma le
migliori fra le Note, perché «autobiografiche», conducono piuttosto
indietro: a Cellini; e non a quello di Goethe, ma a quello che favoleggiava sugli avi suoi, che s’occupava assai del fratello, e via di seguito14. Del «Byron», in questa sede, Guerrazzi scrive che «usava portare
pantaloni ampi, e lunghissimi per nascondere certa imperfezione nei
piedi» (non si specifica se edipiche o diaboliche), concludendo che
se tale studio pongono gli uomini quantunque grandi a celare i difetti
fisici non deve recare meraviglia se uno maggiore ne mettano a dissimulare
gli spirituali, che il più delle volte sono opera di loro medesimi.
«Tenterò di non imitarli»15 promette Guerrazzi, e mantiene a suo
modo la promessa, lasciando a noi la responsabilità di interpretare le
indimenticabili pagine che narrano di commerci col cimitero e la bara
in epoca adolescenziale, che rappresentano al vivo risse con coetanei
israeliti, che descrivono gli strumenti di torture inflitte agli scolari da
maestri di fronte ai quali il «plagosus Orbilius» sembra un brav’uomo, che incidono il profilo della rabbiosa madre siciliana («“Prenderei
Cristo per la barba!” questa era la sua frase eletta»)16. «Caino», sì, e
per voluta identificazione, e forse qualcosa di più, se si pon mente alla
confessione più famosa del libro. Riguardo un altro mannello di testi,
piccolo ma denso scomparto di una biblioteca del terrore, e se si vuole
del gotico e del nero. L’autrice è già stata incontrata in Firenze, col cognome storpiato. Guerrazzi la presenta in coppia con l’Ariosto:
insieme con l’Ariosto – comincia sornione –, e senza di lui mi sarebbero riusciti fatali, mi caddero tra mano i romanzi della Radcliffe. I misteri
di Udolfo, Il castello dei Pirenei, La Badia di Granville, scossero altamente
la mia anima; sopra ogni altro poi il Confessionario dei Penitenti neri; io da
14
Rimando ai capitoli vi.2 e vi.3 del mio libro Memoria e scrittura, l’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977, pp. 309-386.
15
Francesco Domenico Guerrazzi, Note autobiografiche e Poema, prefazione di Rosolino Guastalla, Firenze, Successori Le Monnier, 1899, p. 30.
16
Ivi, pp. 77-78, 93-95, 39-40, 22.
94 i. l’autobiografia
quella epoca in seguito non li ho più tocchi, e pure mi sembra averli sempre davanti agli occhi; ciò non poteva accadere senza che in sommo grado
contenessero materia di commuovere, ed atterrire; né mi si dica come per
un bambino quale in quel tempo era io anche un ceffo di carbone mette
spavento, e non per questo si avrà il ceffo per cosa bella nel suo genere.
Si sarà notato, en passant, la ripresa del doppio effetto riconosciuto da Aristotele alla tragedia (éleos kaì fóbos), ma la successiva
esemplificazione la dice lunga sul nuovo, vero, grande e grandguignolesco modo tragico dell’età che non può solo dirsi romantica, e
per di più alla maniera, mi sia concesso in questa sede, “milanese”:
Nel Confessionario del Penitenti neri con quanta tremenda ansietà segue il
lettore – solo bambino? – quel padre che s’incammina senza saperlo ad assassinare la figlia, e la figlia bellissima dorme un sonno tranquillo, e sorride alle
immagini che le pone davanti la fantasia; sicché il padre si arresta a contemplarla, e suo malgrado sente un miscuglio di affetti non mai provati; nessuna
vittima ebbe tanta potenza su di lui; ma si asciuga la fronte, e vergognando dei
suoi terrori cava il pugnale e va per ferirla. Cosa è questo mai? Non gli riesce.
Si riprova; è inutile. Mentre il lettore sospende i palpiti per contemplare la
fine della contesa tra la voce arcana della natura e la coscienza dell’assassino,
per condurre al grado estremo il terrore, traversa la scena un grido orribile,
e lo manda il compagno dell’assassino il quale, rimasto in fondo alla scala,
s’impazienta dell’indugio e bestemmiando sollecita a finire. Siffatti mezzi per
commuovere sono tragici davvero, né voglionsi paragonare ai mascheroni17.
Ma non si creda che Guerrazzi sia rimasto a letture d’infanzia o
poco più; se nella sua Livorno la cultura inglese per ragioni storiche
era di casa (conobbe Scott dopo la Radcliffe, e non gli perdonò
d’averla presentata ignorante dei «luoghi da lei tanto potentemente
descritti» e «madre di famiglia studiosissima delle faccende domestiche»), non vi difettava la francese: Rousseau e la Staël, ma anche
Cousin e Guizot sono citati nelle Note autobiografiche. Quanto alla
tedesca, Goethe è posto con Voltaire e Byron tra quanti suscitarono
in lui, dopo Ariosto e la Radcliffe, quel «mal saprei se possa chia Ivi, pp. 51, 56, 57.
17
5. l’io romantico 95
marsi sentimento», che definisce l’«amaro scetticismo». Di contro
appare il non ovvio Schelling, che «in molti volumi s’ingegnò di
provare l’uomo nascere incredulo, la scienza in prima renderlo scettico», sì, ma poi «alla fine condurlo alla fede», sì da doversi chiedere
un po’ troppo sbrigativamente il Guerrazzi: «sortimmo la facoltà
di pensare per consumarla in questi giuochi dello spirito?»18. Domanda, comunque, da memorarsi quando si registrano le difficoltà incontrate dall’idealismo romantico ad acclimatarsi in Italia
(l’Hegel di De Sanctis è ancor lontano, e comunque concerne il
pensiero estetico). Ai filosofi Guerrazzi preferiva i poeti tedeschi, i
post-goethiani, però: poiché, se Goethe, «mago potentissimo aveva
descritto un cerchio e contendeva agli spiriti affollati di varcarlo»,
se aveva «cessato di gravitare sopra il suo secolo con la sua gloria
come un vampiro», alla fine «il circolo si era – pur – rotto, il braccio
della tirannide era diventato paralitico». Tra «gli ingegni tedeschi
lanciatisi come gladiatori nel concreto», spicca Heine, il suo voler
«muover guerra di distruzione agli edifizi del feudalesimo»19. Detto
per inciso: sta per nascere, in Toscana, il più heiniano dei nostri
poeti, Carducci, che dovrà attendere il 1899 perché Rosolino Guastalla pubblicasse in Firenze, presso i «Successori Le Monnier», il
testo recuperato delle Note autobiografiche di Guerrazzi. Al quale
spettano ancora delle Memorie quarantottine, e poi un’Apologia,
ancora dal carcere, che inizia mescolando Plutarco e Shakespeare,
Focione e Macbeth (alla Testori), e tanto basti.
Milano, Firenze, e altrove? Nello Stato pontificio, ad esempio,
da Recanati a Roma, la pronuncia e la scrittura dell’io in chiave
romantica, è evidente, non possono darsi. Recanati, perché lì si colloca l’Autobiografia di Monaldo Leopardi, (quando fu scritta, non
è dato sapere nell’edizione secondo il manoscritto), Roma, perché
lì nasce la lettera autobiografica del Belli (Giuseppe Gioachino, va
da sé) a F. Ricci dell’11. L’Autobiografia di Monaldo è cautamente
ristretta alla famiglia: i «figli miei», sì, ma anche «chiunque altro
leggerà queste memorie» sono i destinatari del libro, mai edito in
vita dell’autore. E del suo «umore casareccio» si compiace partico Ivi, pp. 58, 181, 169, 164.
Ivi, pp. 166-167.
18
19
96 i. l’autobiografia
larmente Monaldo: «io nel vivere in casa mia ho trovato tutto il
mio gusto, e mi è sembrato di avere acquistate cognizioni bastanti
del mondo studiandolo sui libri»20. Quasi quasi dimentica di averci
raccontato di una Recanati invasa dai Francesi, di aver avuto parte
grande nel governarla dopo la loro cacciata provocata dalla reazione
delle truppe del Suvarov, e (ma questo è ovvio) di aver avuto qualche eco nel Discorso per la liberazione del Piceno del figlio Giacomo:
il grande assente di questo libro, anche perché il racconto termina
quando Giacomo ha poco più di due anni. La casa gentilizia, se
esclude il mondo, comporta però matrimoni e dote, e Monaldo
lascia una cronaca abbastanza triste del conseguente grigiore degli
affetti lì consumati. Quando si legge a proposito del primo e non
compiuto matrimonio: «caddi dunque nella più tetra malinconia e
quasi nella disperazione», la specificazione non ha da intendersi in
senso wertheriano, e meno che mai ortisiano: «perché – spiega Monaldo – se conoscevo la necessità d’interrompere questo trattato,
sentivo pure la difficoltà di farlo senza sdegno del parentado – della
sposa mancata – e senza disdoro mio, e mi cuoceva l’offesa della
giovane, e soprattutto delicatissimo in punto d’onore, sarei morto
piuttosto che meritare il nome di mancatore». E quando sembra
consolarsi (è la volta di Adelaide Antici, non ben vista subito in
casa Leopardi) non scrive e reagisce diversamente: «vissi alquanti
giorni una vita di morte, senza cibo, senza sonno, straziato, lacerato dall’amore e dalla disperazione»21. La ragione del nuovo dolore
sta nell’avere, i cari «congiunti» messo in atto procedure legali, per
impedirgli di disporre liberamente dei denari che gli spettavano e
gli servivano nella circostanza. Spremere di più sarebbe far violenza
a questo gentiluomo dell’Ancient Régime e contribuire alla rovina
dell’immagine che senza imbarazzo aveva desiderato lasciare di sé:
perché ricordando che «era sano senza essere robusto, né alto né
basso, non bello, ma senza alcuna bruttezza rimarcata e in somma
era un uomo come gli altri», aveva però aggiunto questo segno di
20
Monaldo Leopardi, Autobiografia, in Autobiografia e dialoghetti, introduzione di Carlo Grabher, a cura di Alessandra Briganti, Bologna, Cappelli, 1972, pp.
202, 207.
21
Ivi, pp. 95-96, 131.
5. l’io romantico 97
distinzione, balordamente sottrattogli dall’avvento dei nuovi tempi:
Portai la spada ogni giorno come i cavalieri antichi, e fui probabilmente l’ultimo spadifero dell’Italia, finché nel 1798 sotto il Governo repubblicano questo costume nobile e dignitoso decadde affatto22.
Belli, di quindici anni più giovane, tracciando a venti la historia
calamitatum della sua orfanezza o orfanità (li garantisce entrambi il
De Mauro 2000), censura ben altro tipo di genitori papalini: «mio
padre era divenuto l’idolo de’ parasiti; e mia Madre, per se stessa
anche bella, l’oggetto degli incensi della galante adulazione». Poi, nel
momento della morte, li aveva riscattati entrambi. E così, se prima si
apparta da loro in maniera quasi alfieriana, ma l’Alfieri di Marsiglia,
quello che Russo volle pre-leopardiano, («scendeva, particolarmente nelle prime ore notturne, a sedermi tutto soletto sulla silenziosa
spiaggia del mare»: si tratta della Civitavecchia poi stendhaliana), infine però lascia di sé un profilo d’apprendista don Giovanni:
Alle veglie, alle cene ed ai notturni vagamenti, io consacrava le più
tarde ore del riposo: dopo aver consumato le prime ore affaticandomi fra
scene gratuite in comiche declamazioni. Quindi il familiare commercio
con donne per lo più capricciose, e sempre avide di piacere, m’invescarono
successivamente in molte inclinazioni amorose, leggiere però siccome i
loro oggetti, e tanto fragili quanto lo erano i sentimenti che dopo averle
accese e fatte ardere di fuoco fatuo, non le sapevano poi alimentare di
quell’esca durevole, propria soltanto di una reciproca stima23.
O che non sia una parodia del linguaggio schifiltoso di qualche
sacro oratore, quella memoria che sto forzando, perché si collochi
fra romanticismo non milanese e classicismo neppure fiorentino?
Ricordo che nel ’36 la sezione delle sventure finanziarie e maritti Ivi, p. 89.
Giuseppe Gioacchino Belli, Lettere autobiografiche, in Lettere Giornali
Zibaldone, introduzione di Carlo Muscetta, a cura di Giovanni Orioli, Torino,
Einaudi, 1962, pp. 12, 22.
22
23
98 i. l’autobiografia
me del padre di Belli sarà trasferita, capovolta, in un divertimento
mitologico che s’intitola Vita di Polifemo. Non propriamente un
Caino, ecco, ma insomma neppure Belli sfugge al fascino di rappresentarsi sotto segno negativo.