FESTA DELLA MADONNA DI TERMINE

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FESTA DELLA MADONNA DI TERMINE
FESTA DELLA MADONNA DI TERMINE
‘tratto dal libro SEQUESTRATARTOLA di Guido Capilupi’
Sul finire dell’Estate i nostri cuori s’ intristivano, sulle colline incombenti su Pentone
i castagneti andavano lentamente indossando una livrea d’oro bizantini, la luce
accecante delle belle giornate mediterranee s’ affievoliva improvvisamente, come
smorzata da una gigantesca mano dispettosa. Gli emigranti ritornavano a fare gli
emigranti, nelle regioni dell’Italia settentrionale, nel Nord Europa, nelle lontane
Americhe. Il paese, prima di riacquistare gradualmente la propria fisionomia di
sempre, con le stesse facce, gli stessi orari, le stesse abitudini, gli stessi argomenti
dibattuti nelle piazze, le stesse lamentazioni sulle sempiterne avversità figlie del
vivere, gli stessi quarti d’ora segnati dall’orologio del campanile, aveva un sussulto:
le numerose partenze dovute inequivocabilmente alla fine dei periodi di vacanza,
venivano controbilanciate degli arrivi dell’ultima ora di pentonesi che facevano
coincidere le proprie ferie con gli orami secolari festeggiamenti in onore di Maria
Santissima delle Grazie, previsti per la seconda domenica del mese di settembre di
ogni anno. Serafini Lamanna G iuseppe, ci teneva puntualmente aggiornati sulle
nuove presenze femminili, nel senso che, non appena coglieva un movimento
sospetto, della Fiat 600 Multipla del servizio taxi di Orlenzio Merante ( Orlenzo per
l’Ufficio dell’Anagrafe, Orlenzio per i compaesani), carica magari di valigie e scatole
di cartone, si accertava personalmente che tra i turisti giunti non vi fosse per caso
qualche bella ragazzetta proveniente dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Venezuela o
dall’Australia…; svolgeva indagini accurate, il buon Josi, per conoscere i termini di
permanenza, i gradi di parentela, l’abitazione scelta per il soggiorno, l’età presunta,
eventuali legami d’ordine sentimentale, etc. già l’indomani, quindi, predisponeva i
vari tentativi d’approccio, che quasi mai erano diretti, ma si avvalevano della
collaborazione di un amico del cugino di …, oppure della sorella della conoscente di
… . spesso tentavamo di catturare l’attenzione della pentonese d’adozione quando,
radunati come Proci alla corte di Penelope, ci producevamo in schiamazzi,
smargiassate, dimostrazioni di forza,battute a voce alta, sotto il balcone della
Giulietta di turno, sperando in un’occhiata curiosa, od addirittura un sorriso elargito
dalla donzella contesa. L’atmosfera festaiola era palpabile già fin dai giorni
immediatamente precedenti le manifestazioni religose, che culminavano con la
processione della statua Mariana per i monti, sino al Santuario di Termine, luogo
dove, secondo la tradizione locale, la Vergine apparve alla contadinella Maria Madia.
Gli archi di luce elettrica, dalle lampadine colorate, abbellivano il paese a partire dal
giovedì sera e noi piccoli rimanevamo incantati a guardarli, quando non seguivamo le
bambine a passeggio verso “a cona e Serra”, od il concerto bandistico per i vicoli e le
strade di Pentone. Sulle montagne venivano accese le “Luminiere” (Luminarie):
batuffoli di stracci intrisi di nafta erano dati alle fiamme dalla “ Colle chiana” fino al
cocuzzolo di “Furro”, su di una linea aerea di “Filatrappa” (filo di ferro) sostenuta da
alte forcelle di legno, che correva ad incoronare i profili dell’orizzonte di quel
gioiello senza eguali. Le bancarelle di giocattoli degli ambulanti, tanto attese, si
alternavano ai “Ferringhelli”, giochi d’azzardo consistenti in roulette caserecce che
giravano tra i variopinti soggetti delle carte napoletane, ai baracchini del gioco dei
dadi, del tiro al bersaglio, ai venditori di frutta secca e di mostaccioli, tipico dolce
calabrese a base di miele, dalle forme più svariate, dal pesce al cavallo, dal trenino
alla luna. Nello girovagare allegro per Corso de Laurenzi, ci soffermavamo
soprattutto ad ammirare le magiche movenze del “Bombolonaro”, che durante la
preparazione delle leccornie, pareva danzare con la pasta di zucchero filante, dalla
quale, come per incanto, a decine ricavava poi i coloratissimi bomboloni, avvalendosi
d’una precisione quasi chirurgica nel tagliare, con una grossa forbice, quegli
appiccicosi rettangolini. Passavamo e ripassavamo difronte alla sua postazione
preferita, a ridosso del muro del vecchio palazzo di piazza Lombardi, fluttuando
estasiati nell’invitante profum o che si spandeva alla sera, con gli occhi pieni e le
tasche vuote … . lo sfavillante corteo delle Litanie Lauretane, organizzato con
passione e dedizione estrema da Monsignor Diego Mario Talerico, costituiva un punti
d’arrivo agognato dai più. Un riconoscimento pubblico alla propria capacità
interpretativa, un banco di prova della propria maturità e serietà. I figuranti, o meglio,
le figuranti, causa il numero preponderante di personaggi femminili, vestivano
costumi dai ricami sontuosi, con stoffe damascate e profusione, e seta e pizzi ed
organza ed orlature d’or zecchino e strascichi regali. Una serie quasi completa di
Madonne, guadagnava a passo lento, tra due ali di folla rapita, la strada per la Chiesa
Parrocchiale, partendo dal palazzo comunale nei cui locali, la ragazza prescelta ad
impersonare la Maria oggetto dei festeggiamenti veniva accuratamente preparate ed
agghindata. Come Regolari del Genio Guastatori, noi bambini che seguivamo
l’avvenimento, attendevamo pazientemente il passaggio a tiro delle compagne di
classe calate nella rappresentazione,generalmente con il ruolo di damigelle
reggimanto e le facevamo bersaglio dei nostri sberleffi, delle sciocchezze sussurrate,
dei soprannomi estemporanei,dei complimenti esagerati, finchè le poverette, non
potendo più, si abbandonavano ad un sorriso terreno ch’era il segno ultimo della
nostra vittoria e della loro resa.. . l’arrivo ala sabato mattina della banda musicale
forestiera, che fin dalle prime luci dell’alba onorava il contratto stipulato con il
comitato organizzatore, ci riempiva tutti di gioia. Facevano a gara nel riuscire a
contare il numero degli elementi di cui si componeva, consumando con lo sguardo gli
strumenti dell’ottone più luccicanti, azzardando dei raffronti improponibili con
l’omologo complesso pentonese, arrivando perfino a giudicare i musicisti, intenti ad
eseguire una qualsiasi opera sinfonica, più le scarpe sporche, per un bottone
mancante alla giubba, per un ciuffo di capelli ribelle, alla “Pappagone”, per la
braghetta aperta, che per un assolo di tromba egizia, una sincronia di fiati, un
difficoltoso disimpegno al pentagramma. In quello stesso giorno, come consuetudine,
gli uomini indossavano il vestito più bello che potevano permettersi e, vista la moda
strampalata di quei tempi, capitava così di incrociare giacche dai reverse dall’apertura
alare spropositata, ridicoli pantaloni a zampa di Mammuth, abiti inguardabili in tinta
ruggine, verde pistacchio, rosso sangue di piccione, anemia mediterranea od ittero di
neonato. In un lontano Settembre, approfittai della presenza di un ambulante
fornitissimo, antesignano degli attuali onnipresenti Centri Commerciali, e decisi di
fare il mio primo regalo serio ai mie genitori. Rinuncia per una serata, non a
malincuore, ad esercitarmi nel tiro ai “Fru-Fru” (tavolette di wafer), con il fucile ad
aria compressa vomitante cilindretti in plastica colorata, così con i soldi risparmiati
delle varie mance ricevuta da zio Ntonuzzo, zia Lauretta, zia Ninetta, delle signorine
“e Cenzu”, da Vicenzinu u Mericanu, du zzu Cicciu e da zza Gazza, da zza Severina,
potei scegliere un bellissimo mestolo dall’alluminio per mia madre ed una
praticissima cintura color cuoio, di chissà quale materiale, per mio padre. Sulla tavole
imbandite del pranzo domenicale, i pentonesi, tenendo fede ad una consolidata
usanza, non facevano mai mancare la minestra “da Madonna”, composta da verdure
di stagione unita a carne d’agnello sminuzzata; altri piatti abituali per quella giornata
di festa erano le “Melangiane chijine” (melanzane ripiene di carne macinata e mollica
di pane, spezie, pezzettini di scamorza), polpette di carne in tutte le salse e, come
dessert, bisognava accontentarsi di un buon cono gelato comprato da “Cecè di bar”,
preferibilmente al gusto di zuppa inglese e stracciatella. La statua di San Nicola do
Bari per noi impressionabilissima, innocenti fanciulli, rappresentava un vero e
proprio spauracchio, non fosse altro per le innumerevoli dicerie, diffuse ad arte dai
più grandi per tenerci buoni, riguardanti la domestichezza con la quale il vecchi Nick,
maneggiava il suo bastone episcopale sulle teste dei mal capitati peccatori,
nottetempo. “Attentu ca stanotte ti nescia San Nicola cu lu pale e ti jetta na palata alla
capu”…
Quante volte avevamo sentito questa terribile maledizione riecheggiare
per le vie del paese; magari alcune notti avremo anche rischiato di non dormire,
aspettando, con la coda di paglia, da un momento all’altro la poco gradita visita del
Santo giustiziere. Qualche mattina, poi, al risveglio, avremo controllato attentamente
il nostro cranio per sincerarci che non fosse comparso un bitorzolo in corrispondenza
della ipotetica bastonata ricevuta nel buio delle tenebre … a vederlo là, parcheggiato
dalle prime ore della domenica pomeriggio, nella Vinella di Lettizia (vicolo di
Letizia), il Patrono Protettore di Pentone, suscitava un po’ di tenerezza; la pesante
statua di ciliegio attendeva di venire “indossata” sulle spalle dai forzuti volontari
(“Nicolaiano”), che di li a paco l’avrebbero portato all’appuntamento con la sua
celeste ospite da manto stellato, nella seguitissima “Cunfrunta”, manifestazione
coinvolgente che prevedeva l’incontro ravvicinato del Beato e della Madre
Universale nella piazza gremita di fedeli, con un tète a tète mozzafiato ripetuto per tre
volte. Lo spettacolo dei fuochi d’artificio, alla mezzanotte, chiudeva praticamente i
festeggiamenti, lasciando cadere la malinconia nell’animo do molti, soprattutto di chi,
come me, considerava la Festa della Madonna di Termine come ultimo atto, come
sigla finale dell’Estate oramai trascorsa. Si svuotavano rapidamente, col ritmo di
come erano andate riempiendosi, le contrade pentonesi, gli archi di luce venivano
spenti, le mercanzie riposte, i palloncini dagli spicchi colorati sgonfiati, i musicanti
salivano alla spicciolata sul Torpedone che li avrebbe ricondotti a casa, gli esuli del
lavoro, per quanto possibile, riempivano i loro polmoni degli effluvi notturni del
paese natio, per portarli con loro, una volta partiti a raggiera, verso il mondo.