La matematica classica

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La matematica classica
La matematica classica
Antonio Maida
1
Breve storia della matematica classica
Una delle prime attività umane fu la pastorizia. Il pastore primitivo trovandosi nella
necessità di contare i capi di bestiame incise su di un tronco d’albero un segno per ogni
capo; era così in grado, non tanto di contare, quanto di verificare se vi fossero capi
mancanti. La prima intuizione fu dunque la equinumerosità piuttosto che il numero. È poi
plausibile supporre che le prime intuizioni geometriche siano scaturite da osservazioni di
fatti naturali e dall’esigenza di risolvere problemi legati all’attività agricola.
Il più antico documento scritto che c’informa circa le conoscenze matematiche degli
antichi Egizi è il papiro di Rhind risalente al 2000 a.C. Il sistema di numerazione egizio
usava simboli diversi per le prime potenze del dieci era basato sul principio additivo e non
era noto lo zero. La somma ed inizialmente la moltiplicazione erano eseguite con l’abaco.
Successivamente per quest’ultima si costruirono apposite tavole. La divisione era
considerata come operazione inversa della moltiplicazione e nel caso di divisioni non esatte
s’introducevano frazioni a numeratore unitario. In Geometria gli egizi conoscevano un
modo per determinare l’area del rettangolo e del quadrato e probabilmente la misura di altre
superfici era determinata per decomposizione in poligoni elementari. Nella costruzione di
angoli retti si servivano di una fune chiusa divisa in parti uguali da dodici nodi disposti su
di un triangolo i cui lati erano 3, 4 e 5 volte la distanza fra due nodi. Era quindi nota la terna
pitagorica <3,4,5>. Consideravano π=(16/9)2=3,16… . Vi sono infine documenti nei quali è
descritto un modo per determinare il volume di un tronco di piramide a base quadrata ed
altri volumi.
Ai Sumeri, stabilitisi in Mesopotamia intorno al 4000 a.C., è attribuita l’invenzione della
scrittura. Agli stessi succedettero i Babilonesi la cui civiltà raggiunse l’apice sotto
Nabucodonosor (600 a.C.) e tramontò con l’invasione della Mesopotamia da parte di Ciro il
Grande. È documentato che già prima del 1800 a.C. i babilonesi avevano acquisito dai
sumeri nozioni di aritmetica ed algebra. Usavano il sistema di numerazione posizionale
(che si differenzia da quello additivo per il fatto che il valore di una cifra dipende dal posto
occupato) in base 60, poiché mediato dalla misurazione degli angoli. Rappresentavano con
simboli cuneiformi le prime potenze del dieci, conoscevano il significato e l’uso dello zero.
L’equivocità in tale sistema di numerazione era probabilmente risolta in riferimento al
contesto. Nell’indicare le frazioni ne omettevano i denominatori anticipando in tal modo i
numeri decimali. Conoscevano il significato delle radici quadrate e cubiche per il cui
calcolo si servivano di apposite tabelle. Si occuparono di figure geometriche elementari e si
servivano probabilmente di rudimenti trigonometrici nello studio dei fenomeni celesti.
Usavano la terna pitagorica <3,4,5>. Attribuivano a π il valore 3.
Agli Indiani si deve l’invenzione del sistema di numerazione posizionale in base dieci
portato in occidente dagli arabi. Abili calcolatori, manipolavano numeri molto grandi.
Adoperarono quei numeri irrazionali che i greci tratteranno con diffidenza. Operavano su
radici quadrate e cubiche. Inventarono lo zero ed i numeri relativi. Utilizzavano la terna
pitagorica <5,12,13>.
I Maya avevano un sistema di numerazione abbastanza collaudato e tali conoscenze
scientifiche da rendere possibile l’organizzazione di un calendario e la costruzione di opere
ingegneristiche che ancora oggi stupiscono.
Fra i primi matematici dell’antichità vi è sicuramente Talete (624-547, Mileto, Turchia).
Nei suoi viaggi in Mesopotamia apprese dagli astronomi di quel paese gli studi sui
fenomeni celesti e fu il primo ad intuirne il carattere scientifico, nel senso che i
procedimenti geometrici utilizzati erano astraibili e generalizzabili. La geometria iniziava a
divenire una teoria astratta. Talete non lasciò nulla di scritto ed è tuttavia considerato il
fondatore della geometria intesa come lo studio delle figure private di ogni riferimento
materiale. A lui si devono i primi studi sulla similitudine motivati comunque da esigenze
pratiche. Infatti proprio applicando i suoi metodi Talete sbalordì i contemporanei con la
previsione di una eclisse visibile nel 585 in Mileto, con la determinazione dell’altezza delle
piramidi egizie e della distanza di una nave dalla costa.
Quasi contemporaneo è Pitagora (569-475, Samo, Grecia) che operò a Crotone. Il nome
di Pitagora e della sua scuola è rimasto legato alla prova dell’omonimo teorema ed alle sue
conseguenze. Lo studio delle terne pitagoriche spinse i pitagorici ad affrontare una
trattazione sistematica dell’aritmetica e dei suoi legami con la geometria. È in particolare
dei pitagorici lo studio sulla commensurabilità e la scoperta, sconcertante per gli stessi, di
segmenti incommensurabili, quali ad esempio il lato e la diagonale del quadrato. Si osservi
a riguardo che nella concezione pitagorica il punto era un ente che, pur se piccolissimo,
aveva una dimensione. Tale immagine granulare di punto portava alla convinzione che due
segmenti, in quanto insiemi finiti di punti, fossero sempre commensurabili. La succitata
scoperta mise in crisi i pitagorici che si videro costretti ad ammettere a malincuore che il
punto è privo di dimensioni. I conseguenti concetti di infinitesimo, infinito e numero
irrazionale non furono però trattati dai matematici greci bloccati a riguardo dai paradossi
dell’infinito del tipo del paradosso di Zenone (490-425, Elea, Italia) di Achille e la
tartaruga, fondato sulla erronea convinzione che la somma di infiniti termini fosse
necessariamente infinita. Solo Anassagora di Clazomene (499-428, Turchia) si era
espresso a riguardo asserendo che rispetto al piccolo v’è un ancor più piccolo e rispetto al
grande v’è un ancor più grande. Successivamente Eudosso ed Archimede daranno un
valido contributo alla comprensione dei concetti di infinitesimo ed infinito.
Un’altra conseguenza della incommensurabilità fu la falsità del principio pitagorico,
ripreso poi da Euclide, secondo il quale il tutto è maggiore della parte. G. Galilei (15641642, Pisa), sollecitato dal Cavalieri (1598-1647, Milano), costruì per primo una
corrispondenza biunivoca tra gli interi positivi e i quadrati perfetti; J. Bolzano costruì una
corrispondenza biunivoca tra gli interi positivi e i numeri pari; ed infine Richard Dedekind
(1831-1916, Braunschweig, Germania) formulò come definizione di insieme infinito
proprio la proprietà di essere equinumeroso ad una sua parte, cioè la negazione del
principio pitagorico.
Nell’ambito della matematica precristiana fiorente nel V secolo a.C. ad Atene e ad
Alessandria in Egitto sono ancora da citare Ippocrate di Chio, Platone, Eudosso di Cnido,
Euclide che insegnava ad Alessandria, Apollonio della scuola euclidea, Archimede che
operò a Siracusa intorno al 250 a.C., Eratostene direttore della biblioteca di Alessandria ai
tempi di Archimede, ed Aristotele.
Ippocrate (470-410, Chios, Grecia) raccolse negli Elementi di geometria le conoscenze
matematiche del tempo e si occupò del calcolo delle aree di figure a contorno curvilineo.
Già in Talete v’era in embrione l’idea che le figure geometriche dovessero pensarsi come
enti astratti. E la prima definizione di figura è di Platone (427-347, Atene) secondo il
quale sono perfette solo quelle figure costruibili elementarmente, o con riga e compasso,
ottenute cioè solo congiungendo punti e riportando segmenti uguali.
Ad Eudosso (408-355, Cnido, Turchia) si deve il metodo di esaustione fondato sulla
possibilità di suddividere all’infinito un segmento. Si osservi che in Eudosso, come nei
greci eccezion fatta per i platonisti, l’infinito era inteso come potenziale, come cioè la
possibilità di aggiungere un elemento per volta, e non piuttosto attuale.
Nei tredici volumi degli Elementi, Euclide (325-265, Alessandria, Egitto) presenta, caso
unico nella matematica premoderna, la prima versione semiassiomatica, la geometria
euclidea GE, della geometria fondata su definizioni, nozioni comuni e postulati, e sulla
deduzione delle proprietà geometriche (i teoremi) dai postulati. I primi tre postulati euclidei
privilegiano l’uso di strumenti elementari, riga e compasso, come già stabilito da Platone.
Puó interessare una prova dovuta ad Euclide dell’infinità dei numeri primi: se fossero in
numero finito p0, p1, …, pn, allora sicuramente il numero (p0p1 …pn)+1, non essendo primo
poiché è più grande di pn, dovrà essere divisibile per qualche pi; ciò non è possibile essendo
1 il resto di una tale divisione.
Di Apollonio (262-190, Perga, Turchia) è il Trattato sulle coniche nel quale vi sono
sorprendenti anticipazioni del calcolo infinitesimale e della geometria analitica. È di
Keplero la scoperta delle orbite ellittiche dei pianeti!
Archimede (287-212, Siracusa) affronta con parziale successo vari problemi fra i quali
quello della rettificazione e della determinazione di π. Perviene inoltre al calcolo di aree e
volumi con un metodo (quello meccanico), per lungo tempo ignoto poiché i suoi scritti
andarono dispersi nella biblioteca di Costantinopoli, posto nel 1635 dal Cavalieri a base del
calcolo infinitesimale. Sorprende la facilità con la quale Archimede tratta gli infiniti e gli
infinitesimi.
Ad Eratostene (276-194, Cyrene, Libia) si deve l’invenzione di un metodo geniale per la
misurazione del diametro terrestre, con un errore di appena 100 km per difetto.
Aristotele (384-322, Stagira, Grecia) è giustamente considerato il fondatore della logica.
Il suo sillogismo esamina quattro tipi di enunciati e cioè gli: universali affermativi (tutti
gli uomini sono mortali), universali negativi (nessun uomo è mortale), particolari
affermativi (qualche uomo è mortale) e particolari negativi (qualche uomo non è
mortale). Il problema del sillogismo era quello di stabilire, appunto, i sillogismi, le terne
cioè di enunciati l’ultimo dei quali fosse vero non appena lo fossero i primi due, aventi
questi ultimi un termine in comune. Ad esempio, da tutti gli U sono M e A non è M
consegue A non è U. Aristotele, spingendosi oltre il sillogismo, si pose il problema di
indagare non solo sulla connessione fra premesse e conclusione di un sillogismo, ma anche
sulla verità delle premesse. A riguardo, non definì il concetto di enunciato vero, ma stabilì
che gli enunciati veri posti alla base del sillogismo fossero quelli corrispondenti ad un dato
di fatto. La sintesi di tale concezione classica della verità è espressa dall’equivalenza fra i
due enunciati “P è vero” e “P”. Non v’è dubbio infatti che, ad esempio, piove è vero se e
solo se piove. Ancora, per Aristotele una teoria doveva essere costruita derivando da
enunciati veri (gli assiomi), tramite l’applicazione intuitiva di regole deduttive, gli altri
enunciati veri (i teoremi). L’unica teoria matematica organizzata su basi aristoteliche era la
geometria di Euclide. Le ricerche logiche aristoteliche trassero spunto da vari problemi di
natura logico-matematica, fra i quali l’antinomia del mentitore, ai quali comunque
Aristotele non era in grado di dare una risposta esauriente.
Il periodo di Roma è caratterizzato dalla decadenza degli studi matematici. Un primo
accenno di ripresa si avrà col disfacimento di Roma e l’affermarsi della cultura araba. Nel
641 d.C. gli arabi distrussero Alessandria ma salvarono le opere della famosa biblioteca
che, portate a Baghdad, furono tradotte e divulgate attraverso le scuole. Nei primi libri in
arabo di al’Khwarizmi (790-840, Baghdad) è esposto in modo completo il sistema di
numerazione posizionale su base qualunque. Agli arabi si fa risalire l’algebra e la teoria
degli algoritmi.
In Europa, gli studi matematici riprendono con Fibonacci (1170-1250, Pisa) del quale
hanno rilevanza gli studi sulle successioni. Un’altra data importante è segnata dalla nascita,
con Cartesio (1596-1650, Descartes, Francia) e Fermat (1601-1665, Francia), della
geometria analitica intesa come metodo di algebrizzazione della geometria.
Contemporaneamente, con Cavalieri allievo di Galileo, e col contributo di Torricelli
(1608-1647, Faenza) e degli stessi Cartesio e Fermat, nasce il calcolo infinitesimale. La
geometria degli indivisibili di Cavalieri compare nel 1635. La sistemazione definitiva del
calcolo infinitesimale è dovuta a Newton (1643-1727, Inghilterra) e Leibniz (1646-1716,
Sassonia).
Le ricerche trigonometriche iniziano probabilmente con Talete e proseguono con Ipparco
(180-125, Turchia) e coi matematici indiani ed arabi. Le prime trattazioni in Europa datano
attorno al 1300, si perfezionano con Nepero e trovano una sistemazione definitiva con
Eulero (1707-1783, Basilea, Svizzera).
Le ricerche di Eulero e Moebius sono alla base della topologia. Proprietà topologiche sono
quelle invarianti per deformazioni che non separino parti connesse e non sovrappongano
punti distinti. Una di esse è ad esempio quella di stare dentro o stare fuori una linea chiusa.
È dovuto a Jordan un teorema che stabilisce quando un punto sia interno od esterno una
linea chiusa. Problemi topologici risolti in epoca relativamente recente sono quelli dei
quattro colori e dei ponti di Könisberg.
Nella storia della logica matematica sono da citare Leibniz, Boole (1815-1864) e Frege.
Leibniz ha anticipato molti dei risultati di Boole, anche se non si sa quanto Boole avesse
letto di Leibniz, e per primo intuì la possibilità di fare calcoli non solo con numeri, ma
anche con simboli. Le osservazioni di Leibniz passarono inosservate. I manuali di logica
del '700 e degli inizi dell'800 rimasero così semplici rielaborazioni della sillogistica
aristotelica, con qualche cenno alla logica proposizionale degli stoici. Kant stesso riteneva
che la logica formale avesse avuto la sua formulazione definitiva in Aristotele. Non è
dunque dall'ambiente filosofico che vengono innovazioni nella logica, ma da quello dei
matematici, e in particolare degli algebristi inglesi del primo 800. Negli anni '30, si
sviluppò una grossa disputa tra il matematico Augustus De Morgan e il filosofo William
Hamilton. La disputa mostrava un primo intrecciarsi di interessi comuni tra filosofi e
matematici, e portava l'attenzione sulla logica. Anche se i filosofi criticavano aspramente
l'irruzione della matematica nella logica, insistendo sul primato della filosofia sulla
matematica e sull'idea che la logica è parte della filosofia e non della matematica.
Nel 1847 Boole, con L'analisi matematica della logica, sostiene che la logica non deve
associarsi alla metafisica, ma alla matematica. L'opera di Boole presenta per la prima volta
una vera e propria algebra della logica, un calcolo cioè interpretato sia come calcolo delle
classi (o logica dei termini aristotelica) sia come calcolo delle proposizioni (o logica
stoica). Le formulazioni originarie furono sottoposte ad analisi e revisione da tutta una
scuola di pensiero i cui principali rappresentanti sono Schröder e Peirce.
2.
L’“infinito” e il “continuo” dei greci
Aristotele (384-322) cercò per primo di mettere ordine nell’uso dell’infinito nella
matematica greca. Egli farà una chiara distinzione fra l’infinito in atto, cioè l’accettazione
dell’esistenza di insiemi infiniti, e l’infinito in potenza, cioè qualcosa che è sempre
divisibile in parti più piccole, ma che non è pensabile nella sua interezza. Nella matematica
greca, e tutto sommato fino al diciannovesimo secolo, l’infinito fu sempre concepito come
infinito potenziale. Il primo ad usare il termine infinito (l’apeiron) fu Anassimandro di
Mileto (610-545).
La continuità degli enti geometrici, in base alla quale, ad esempio, una retta è un qualcosa
di compatto, privo di interruzioni o buchi, fu sempre assunta dai greci come primitiva. Si
userà il termine continuo geometrico al posto dei termini retta o segmento.
L’atomismo pitagorico aveva posto a base della geometria la concezione granulare del
punto: il punto era un ente che, pur se piccolissimo, aveva comunque una dimensione. Ne
conseguiva che
Un segmento era costituito da un numero finito di atomi indivisibili,
e che quindi il rapporto di due segmenti, in quanto rapporto di naturali, doveva essere un
numero razionale.
Furono proprio i pitagorici, però, che scoprirono l’esistenza di segmenti incommensurabili:
la diagonale e il lato di un quadrato infatti, hanno come rapporto rad2; e tale rapporto non è
un numero razionale. Se fosse infatti rad2=m/n, allora 2n2=m2; ma ciò non è possibile
perché nel primo membro il 2 figurerebbe un numero dispari di volte, mentre nel secondo
membro figurerebbe un numero pari di volte.
Tale scoperta inficiava la dottrina pitagorica, e segnò per lungo tempo un distacco fra
geometria e numeri (si ricordi che non esistevano ancora i numeri reali), poiché il finito
non era in grado di esprimere il continuo geometrico.
Una alternativa al pitagoricismo non poteva essere quella di descrivere il continuo
geometrico nel seguente modo:
Un segmento è costituito da un numero infinito di atomi indivisibili.
Infatti ciò avrebbe comportato, contro gli insegnamenti di Aristotele, l’esistenza di un
infinito attuale (il segmento). E d’altronde, poiché gli atomi indivisibili dovevano avere
comunque la stessa dimensione, ne derivava che un segmento doveva avere lunghezza
infinita.
Anassagora di Clazomene (499-428), seguace di Eraclito di Efeso (540-480, il divenire) e
convinto sostenitore dell’infinità potenziale, caratterizzò il continuo geometrico nel modo
seguente:
Dato un segmento, ne esiste sempre uno più piccolo.
Un segmento veniva così ad essere un insieme potenzialmente infinito di punti che si
ottenevano con il principio della infinita divisibilità in parti più piccole.
Zenone di Elea (490-425) fu seguace di Parmenide di Elea (500; l’essere). Contestò, coi
famosi paradossi, ogni possibilità di descrivere il continuo, sia esso geometrico, o spaziotemporale come molteplicità di parti discrete. Contro l’infinità attuale Zenone fornì il già
visto paradosso della lunghezza infinita di un segmento. Contro invece l’infinità
potenziale, Zenone fornì invece i cosiddetti (paradossi dell’infinito potenziale); e cioè,
Il paradosso di Achille e la tartaruga, (o dell’impossibilità del moto). Il piè veloce Achille
non potrà mai raggiungere la lenta tartaruga partita in vantaggio, poiché dovrebbe operare,
per l’infinita divisibilità, infiniti passi. Anzi, Achille non potrebbe neanche muoversi! Solo
nell’ottocento, in seguito all’introduzione ad opera di Weierstrass del concetto di limite,
tale paradosso viene risolto: infatti, la somma di infiniti termini può benissimo essere finita.
Il paradosso derivante dalla scoperta di segmenti incommensurabili. In un quadrato di lato
1, mentre la misura rad2 della diagonale può solo approssimarsi per passi successivi, con
un insieme cioè potenzialmente infinito di passi, la diagonale stessa però, in quanto esiste,
ha un tipo di esistenza attuale. L’accettazione quindi del solo infinito potenziale sarebbe
abbastanza problematica.
Il paradosso, infine, derivante dalla determinazione della lunghezza della circonferenza,
che sarà esaminato nel seguito.
I paradossi di Zenone sono stati considerati come puri sofismi; con essi però Zenone
voleva solo contestare il punto di vista secondo il quale fosse in qualche modo descrivibile
il continuo spazio-temporale.
Eudosso di Cnido (408-355) formulò una nuova caratterizzazione, il postulato di Eudosso,
del continuo geometrico. Precisamente:
Eu)
Dati due segmenti a<b, esiste un multiplo di a che supera b.
È facile verificare che tale postulato implica la caratterizzazione di Anassagora. In più,
anche una retta diviene un insieme potenzialmente infinito di punti; quindi il continuo
(cioè, la retta ed il segmento) era sufficientemente espresso dall’infinita potenzialità nel
senso di Eudosso.
Il postulato di Eudosso rende anche conto dell’incommensurabilità. Si considerino infatti
due segmenti a<b; esisterà un naturale n tale che na<b<(n+1)a; e dunque b/ a=n,…;
ripetendo il ragionamento per (a/10) e (b−(n−1)a), si trova b/ a=n,n1…; si reitera il
procedimento.
È facile poi verificare che il postulato di Eudosso è equivalente al seguente assioma di
Archimede:
Ar) Dati due segmenti a<b, se da b si toglie almeno la sua metà, dalla residua si toglie
almeno la metà, e così via, dopo un numero finito di siffatte operazioni si deve giungere
ad una parte residua più piccola di a.
L’assioma fu enunciato esplicitamente da Archimede (287-212 a.C.) e da lui attribuito ad
Eudosso; anche se oggi è comunemente noto come assioma di Archimede.
Eudosso fornì anche un metodo dimostrativo, il metodo di esaustione, ampiamente
utilizzato negli Elementi di Euclide e da Archimede. Il metodo si utilizzava nel provare, per
assurdo, una eguaglianza a=b. Con l'esaustione i geometri greci erano riusciti ad evitare,
secondo i dettami aristotelici, l’infinito, e a non usarlo mai nelle dimostrazioni. Si osservi
infine che l'esaustione è rigorosa ma non fertile: i risultati che permette di dimostrare
devono essere intuiti per altre vie.
Un primo riesame dei concetti di infinito e continuo lo si deve probabilmente a Galilei.
Egli affermò, con sant’Agostino, la possibilità di ridurre un continuo in infiniti elementi
senza estensione, e di considerare dunque il continuo come una somma infinita di inestesi.
L’infinito in atto dunque, checché ne pensi Aristotele, non può non essere pensato ed il
segmento non è altro che una sua manifestazione. Galilei si rese subito conto però di nuovi
paradossi dell’infinito attuale, consistenti nel fatto che si esibivano infiniti attuali uguali a
rispettive parti proprie (si ricordi che costruì una bigezione fra naturali e loro quadrati). Tali
paradossi inficiavano il principio pitagorico, poi presente come nozione comune negli
elementi di Euclide, in base al quale il tutto è maggiore della parte. Per tale motivo,
Galilei fu abbastanza cauto sul piano matematico.
Galilei pensò poi, con Leibniz, di caratterizzare la continuità dei punti della retta in base
alla densità, nel senso che fra due punti v’è sempre un punto; tuttavia, anche i numeri
razionali hanno siffatta proprietà, ma non formano un continuo; non sono cioè equipotenti
alla retta.
La rivisitazione del concetto di continuità si proponeva anche per altri aspetti; era ormai
invalso infatti l’uso di identificare numeri reali e punti di una retta; e si richiedeva quindi
una definizione di continuità che funzionasse anche per i numeri reali.
Dedekind si richiese cosa caratterizzasse il continuo e stabilì che la continuità non sta tanto
nella densità di Galilei quanto in una proprietà contraria. Stabilì precisamente il postulato
di Dedekind:
D: Se si forma una partizione di un segmento AB in due classi A e B tali che i punti di A
precedano quelli di B,
ed A∈A e B∈B, esiste allora un unico elemento separatore delle due classi.
Diede poi una definizione di numero reale completamente sganciata da ogni eventuale
rappresentazione geometrica e tale che da essa si potesse ricavare l’equipotenza fra retta e
reali, e quindi la continuità dei reali.
Una successiva analisi ha fatto notare che il postulato di Dedekind implica quello di
Eudosso.
Oggi si preferisce definire la continuità con un principio che, assieme al postulato di
Eudosso, non lo implica. Tale è il seguente principio di Cantor:
C: Due insiemi di punti di una retta separati e contigui hanno un unico punto di
separazione.
Si prova infatti che (Eu +C)⇔ D.
Fu merito di Cantor l’aver risolto i paradossi dell’infinito attuale che avevano bloccato
Galilei, e la riscoperta quindi dell’infinito attuale, oggi largamente accettato. La sua grande
intuizione fu il concetto di equipotenza. Ne viene che un insieme può essere uguale ad una
sua parte propria, purchè per uguale si intenda equipotente. Anzi Dedekind stabilì come
definizione di insieme infinito proprio il fatto di essere equipotente ad una sua parte
propria.
Tuttavia, la possibilità di concepire il continuo come un infinito in atto rimane una
questione aperta a causa dei problemi fondazionali che minano l’edificio cantoriano. Per
altri aspetti, l’eliminazione, addirittura, dell’infinito in matematica, operata da Weierstrass,
non sembra essere soddisfacente. A tal proposito, Hilbert ribadisce, in un famoso brano del
1926, che “l'essenza della sistemazione del calcolo infinitesimale operata da Weierstrass
consiste nell'aver eliminato l'infinito, dal momento che con la definizione di limite esso è
stato ridotto ad una pura convenzione verbale. Tuttavia, l'infinito rimane un concetto aperto
indispensabile per il pensiero matematico”.
3.
Le “costruzioni” dei greci
Le costruzioni di cui si parla sono solo quelle elementari, ottenute cioè solo congiungendo
punti (con riga) e riportando segmenti uguali (con compasso).
I matematici greci si posero il problema di stabilire quali fossero le costruzioni possibili.
Platone aveva già risolto il problema della duplicazione del quadrato consistente nella
costruzione di rad2. Utilizzando poi il teorema di Talete, era stato risolto anche il problema
della suddivisione di un segmento in n parti uguali.
Altri problemi rimasero invece aperti fino al XIX secolo allorquando si ebbe la possibilità
di tradurre gli stessi in termini di equazioni algebriche mediante l’uso della geometria
analitica. Fra questi si annoverano quello della ciclotomia, della costruzione cioè dell’n–
esima parte di una circonferenza, della duplicazione del cubo, della costruzione cioè dello
spigolo del cubo di volume doppio di un cubo assegnato, della trisezione di un angolo,
della costruzione cioè della terza parte di un angolo assegnato, e della quadratura del
cerchio, della costruzione cioè del lato del quadrato equiesteso ad un assegnato cerchio.
Il problema della ciclotomia.
I greci costruirono poligoni regolari con 3, 4, 5, 6, 8, 10 e 15 lati, ma non con 7, 9 o 17 lati;
né sapevano per quali n fosse possibile la ciclotomia. Tale problema fu risolto da C.F.
Gauss (1777-1855, Brunswick, Germania) che utilizzò, allo scopo, i numeri di Fermat.
Un numero di Fermat è ogni numero primo della forma 2h+1 con h=0,1,2,… . I soli
numeri di Fermat noti a tutt’oggi sono:
2
3 5 17
257 65537.
n
Fermat congetturò che tutti i numeri della forma Fn=2 +1, essendo n=2h con h=0,1,2,…,
fossero primi, poiché ciò era vero per h=0,1,2,3,4, essendo i relativi Fi rispettivamente
3,5,17,257,65537. Nel 1732 Eulero provò invece che F5=4294967297 non era primo,
utilizzando allo scopo, ironia della sorte, un metodo inventato proprio da Fermat. Oggi si
cerca la dimostrazione della congettura opposta, ovvero che tutti i numeri Fn, con n>4,
sono composti.
Nel 1801, Gauss stabilì che la ciclotomia è possibile, per via elementare, solo per quegli
m
n=2 .p1. p2.….pn,
essendo m≥0, ed i pi distinti numeri di Fermat.
Sono dunque costruibili poligoni regolari di
3 4 5 6 8 10 12 15 16 17 20 24 30 32 34 40 48 51 60 64 96
257 65537
lati, ma non, ad esempio, di 7 o 9 lati. Non è dunque possibile costruire elementarmente
l’ettagono regolare! Esistono oggi almeno cinque tecniche differenti per la costruzione di
un poligono regolare di 17 lati; la prima è stata ideata agli inizi del 1800, l’ultima è stata
proposta recentemente.
I problemi della duplicazione e della trisezione.
Sia rad(n,m) la radice n-esima aritmetica del numero naturale m. Si prova che:
se rad(n,m)=p/q allora p/q è un numero naturale.
Si supponga infatti che p e q siano primi fra loro; allora lo sono anche pn e qn; poiché
pn/qn=m, sarà necessariamente qn=1 e quindi q=1.
Un numero reale è algebrico se è soluzione di una equazione algebrica a coefficienti interi,
è trascendente altrimenti. I razionali sono sicuramente algebrici. Cantor ha provato la non
numerabilità dei trascendenti.
Un numero reale r è costruibile se è possibile costruire un segmento di lunghezza r rispetto
ad un assegnato segmento unitario. I razionali sono costruibili, mentre non lo sono i
trascendenti.
Si prova che i problemi della duplicazione e della trisezione si riconducono alla
costruibilità di due numeri irrazionali
rad(3,2)
α
soluzioni rispettive delle equazioni algebriche irriducibili a coefficienti interi
x3-2=0
x3-3x-1=0.
Nel 1837, P.L. Wantzel dedusse da risultati di Cartesio che
Se un numero costruibile soddisfa un'equazione irriducibile a coefficienti
interi f(x)=0, allora il grado
dell'equazione dev'essere una potenza di due.
Se ne deduce la non costruibilità di rad(3,2) ed α, e quindi
l’impossibilità della duplicazione del cubo e della trisezione di un angolo,
almeno con strumenti elementari.
Metodi empirici approssimati per risolvere i problemi della duplicazione e della trisezione
erano noti ai greci; ma la scienza classica non li considerava più di tanto, in quanto le
costruzioni dovevano essere elementari. I geometri greci inventarono nuove curve per
risolvere i problemi relativi alla costruzioni. Ippia di Elide (V secolo a.C) inventa la
quadratrice, una curva per mezzo della quale egli ottiene la quadratura, come pure la
trisezione. Più tardi, il problema della duplicazione del cubo, sempre per via non
elementare, è risolto da Archita di Taranto (o forse da Menecmo di Proconneso), ambedue
vissuti attorno al 400 a.C., e da Diocle (II sec. a. C.) tramite una nuova curva, la cissoide,
di seguito definita. Su di una circonferenza di raggio unitario (prima figura), si considerino
O, A ed AT. Una retta per O incontri AT in H; sia OP=MH. Il luogo di P al ruotare della
retta per O è la cissoide. La sua equazione canonica è y=±xrad(x/2-x). Si costruisca ora
(seconda figura) AS=4, si congiunga S con B, e si individui U sulla cissoide, e poi il punto
T. Poiché BT=2rad(3,2); allora tale segmento è il lato del cubo doppio del cubo di lato 2.
Il problema della quadratura.
Si consideri una circonferenza di raggio r, di area A e di lunghezza C.
Anassagora aveva già provato la proporzionalità, secondo una certa costante k, fra cerchi
e quadrati dei rispettivi raggi. D’altronde, in Euclide era anche presente la proporzionalità,
secondo una certa costante h, fra circonferenze e diametri.
Si aveva dunque:
A=kr2
C=2hr.
Il problema era allora quello di mettere in relazione le due costanti h e k.
Per determinare A, i greci si basavano sul fatto intuitivo, forse poi assunto da Archimede
come postulato, che la lunghezza di ogni arco minore della semicirconferenza è maggiore
della corda sottesa e minore della somma delle lunghezze dei segmenti tangenti negli
estremi dell’arco; ne avevano dedotto che, all’aumentare del numero n dei lati, il perimetro
pn del poligono regolare inscritto si avvicina sempre di più alla lunghezza della
circonferenza; e che quindi, si poteva pensare il cerchio come un poligono di infiniti lati,
equivalente poi al triangolo avente per base la circonferenza e per altezza il raggio, di area
quindi T= rC/2. Doveva cioè essere:
A=T.
L’accettazione di tale uguaglianza non era però del tutto legittima; pensare infatti il cerchio
come un poligono di infiniti lati (ancora un paradosso dell’infinito potenziale), quindi
come un infinito attuale, andava contro gli insegnamenti di Aristotele.
Il metodo di esaustione di Eudosso permise ad Archimede di provare, senza coinvolgere
l’infinito, che A=T. In sintesi, il metodo eudosseo altro non è se non l’attuale definizione di
limite.
Si considerino i poligoni inscritti nel cerchio; all’aumentare del numero n dei lati l’area Pn
del poligono si avvicina sempre di più all’area del cerchio, e quindi:
E:
per ogni ε, quantunque piccolo, esisterà un poligono inscritto, di area P,
tale che A-P< ε.
La prova di Archimede procede in questo modo:
Si supponga per assurdo che A>T. Posto ε=A−T, per l’esaustione E esisterà un poligono
inscritto di area P, tale che
A-P< ε=A−T;
sarà allora T<P. Ma tale poligono inscritto avrà sicuramente apotema minore del raggio e
perimetro minore della circonferenza; e quindi anche P<T. E ciò è un assurdo.
In modo analogo, prendendo però poligoni circoscritti, si procede se si suppone T>A.
In definitiva, non può essere né A>T né T>A. E quindi A=T.
Dalle tre uguaglianze
A=kr2
C=2hr
A=T=rC/2
deriva h=k. Indicata con π tale costante comune, si avrà
A=πr2
C=2πr.
A questo punto, i problemi della quadratura e della rettificazione erano equivalenti, ed
entrambi condizionati alla determinazione e costruibilità di π.
Il calcolo di π.
Nel calcolo approssimato del numero π, Archimede diede una prova della sua abilità:
partendo dall'esagono regolare inscritto, egli calcolò i perimetri dei poligoni ottenuti
raddoppiando successivamente il numero dei lati fino a raggiungere novantasei lati. Il
calcolo portò a trovare la prime due cifre decimali di π=3,14….
La ricerca delle successive approssimazioni di π ha impegnato non pochi matematici. Il
problema era che si pensava che π, come anche il numero di Nepero e, fossero razionali.
L’indiano Aryabhata nel 450 trova π= 3,1416….. Il francese Viete nel 1590 determina π
con dieci cifre decimali. Nel 1609 Ludolfh ne calcola 35!
Finalmente, nel 1776 il francese Lambert prova l’irrazionalità di π, e nel 1882
Lindemann ne prova la trascendenza. Poiché i trascendenti non sono costruibili, allora,
con soli strumenti elementari,
La quadratura del cerchio non è possibile.
Per completezza, si osservi che, nel 1873, Hermite ha provato la trascendenza del numero
di Nepero.
4.
Problemi logici classici
Gli enunciati sono quelle proposizioni di un linguaggio naturale alle quali abbia senso
attribuire uno solo dei due valori di verità vero, falso.
Un assertore di enunciati è un cavaliere se asserisce sempre il vero, un bugiardo se
asserisce sempre il falso, un normale se alcune volte mente ed altre volte dice il vero, ed un
folle se alterna menzogna e verità non necessariamente in quest’ordine.
Si ricordi ancora che, secondo la concezione aristotelica della verità, l’enunciato “P è vero”
è equivalente all’enunciato “P”.
È facile verificare che l’enunciato io sono un bugiardo è falso, e che l’assertore di un tale
enunciato non è né cavaliere né bugiardo. È altresì facile convincersi che l’asserzione io sto
mentendo è vera e falsa, è cioè un non-enunciato; e dunque, nessuno puó asserire io sto
mentendo.
Il più classico dei paradossi logici, l’antinomia del mentitore, ha avuto varie formulazioni.
Esse risalgono ad Eubulide, logico greco dell’antichità, che attribuisce al cretese
Epimenide le tre asserzioni:
a). Tutti i cretesi sono bugiardi.
b). Io sono un bugiardo.
c). Io sto mentendo.
La a) non puó essere vera poiché se lo fosse allora, per Aristotele, tutti i cretesi e quindi
anche Epimenide sarebbero bugiardi; ma se Epimenide è un bugiardo allora la a) è falsa.
Dunque la a) è falsa, cioè esiste almeno un cretese che non è bugiardo, ed Epimenide non è
un cavaliere. In questo caso dunque l’antinomia è solo apparente. La b) è già stata
esaminata e prospetta ancora una antinomia solo apparente.
La c) è invece, per quanto visto, la vera e propria antinomia del mentitore. Essa, punto di
partenza della logica moderna poiché le ricerche di Cantor, Frege, Hilbert, Russell, Gödel,
Tarski ed altri motivano essenzialmente da essa, ha resistito per oltre duemila anni ad ogni
tentativo di soluzione; e l’unica analisi soddisfacente sembra essere quella operata da
Tarski (1902-1983, Varsavia) nel 1936 dentro il linguaggio dell’aritmetica formale.
L’analisi tarskiana porta ad escludere una possibile formulazione della nozione di verità
dentro una teoria, pena l’insorgere di antinomie linguistiche del tipo di quella del
mentitore. In altri termini, l’antinomia sembra derivare da una peculiarità del linguaggio
naturale, e cioè dalla sua universalità semantica, nel senso che asserzioni, o
metaenunciati, riguardanti i suoi termini, quali ad esempio “mare è bisillaba”, “uccidere è
sinonimo di ammazzare”, “Giuseppe è un nome proprio”, sono ancora suoi enunciati. In
particolare, supposto di aver in qualche modo introdotto per ogni enunciato P del
linguaggio naturale la nozione di verità, le espressioni “P è vero” e “⎤P è vero”, o
equivalentemente “P è falso”, sarebbero ancora enunciati (semantici) del linguaggio
naturale. Il linguaggio naturale è dunque semanticamente universale in quanto include il
suo metalinguaggio semantico. In altri termini, a causa di siffatta universalità è possibile
formulare nel linguaggio naturale, e enunciati autofalsi, che si attribuiscono cioè la falsità,
del tipo io sto mentendo oppure questo enunciato è falso, e enunciati autoveri, che si
attribuiscono cioè la verità, del tipo io sto dicendo la verità oppure questo enunciato è
vero.
Si considerino infatti gli enunciati:
P≈R è vero
R≈P è falso
Q≈S è vero
S≈Q è vero.
Per la concezione aristotelica della verità dovrà aversi:
P≈(R è vero)⇔R≈(P è falso)
Q≈(S è vero)⇔S≈(Q è vero).
E dunque l’enunciato P è autofalso, mentre Q è autovero.
Infine, è proprio l’esistenza di enunciati dei tipi P o Q ad essere problematica. Infatti,
dovendosi avere (Pvero)⇔P⇔(Pfalso) e Q⇔(Q è vero), mentre l’enunciato P riproponente
l’antinomia sarebbe vero e falso, l’enunciato Q sarebbe privo di senso, essendo circolare.
Occorre in definitiva escludere dal linguaggio naturale e enunciati autoveri e enunciati
autofalsi.
Alcuni dei seguenti problemi logici, poiché coinvolgono formulazioni equivalenti
dell’antinomia del mentitore, sono in effetti dei paradossi logici.
Æ. Nei seguenti problemi nessuno degli assertori A, B e C è un folle. Nei vari casi occorre
decidere sulla verità-falsità delle asserzioni, e sulla categoria di appartenenza degli
assertori.
a). A asserisce io sono un bugiardo o B è un cavaliere.
b). A e B asseriscono rispettivamente B è un cavaliere, A è un bugiardo.
c). A e B asseriscono rispettivamente siamo tutti e tre dei bugiardi, solo uno di noi tre è
un cavaliere.
d). A e B sono cavalieri o bugiardi. Chiedo ad A: sei un cavaliere o lo è B? La sua
risposta mi permette di decidere. Cosa risponde?
e). A asserisce io sono un bugiardo ma B non lo è.
f). Mi trovo ad un incrocio e non so se devo andare a destra o a sinistra. All’incrocio vi è
A e so che non è un normale. Quale domanda devo fare ad A in modo da poter decidere
in base alla risposta quale strada prendere?
g). A asserisce se sono un cavaliere allora P, essendo P un enunciato. Si provi che se A
non è normale, allora è un cavaliere e P è vero.
Æ. L’enunciato P:
gli enunciati P e Q sono falsi
dove Q è un enunciato, non puó essere vero poiché, altrimenti, sarebbe falso. Esso è allora
falso, e dunque ogni enunciato Q è vero!
L’enunciato P:
l’enunciato (P e Q) è falso
non puó essere falso poiché, altrimenti, lo sarebbe allora anche (P e Q), e ciò, per
Aristotele, non puó essere. Esso è allora vero, e cioè (P e Q) è falso, e dunque ogni
enunciato Q è falso.
Le due anomalie derivano evidentemente dal fatto che P è autofalso. Per cogliere poi la
differenza fra i due casi, basta osservare che se due enunciati P e Q sono falsi lo è allora
anche l’enunciato (P e Q), ma che non vale ovviamente il viceversa.
Æ. Un matematico ed un fisico siedono ad un tavolo di una pizzeria. Io sono un
matematico dice uno dei due; io sono un fisico dice l'altro. Sapendo che almeno uno dei
due mente, quale dei due uomini dice la verità? Se una delle due frasi fosse vera, lo sarebbe
allora anche l’altra. Dunque, le due frasi sono false
Æ. L’enunciato questa frase ha sei parole è chiaramente falso. Quindi il suo contrario
questa frase non ha sei parole dovrebbe essere vero. L’ultimo enunciato ha invece
esattamente sei parole.
Æ. Rispondete si o no a questa domanda: la prossima parola che direte è NO?
Æ. Rispondete con una sola parola: da quante lettere è composta la risposta a questa
domanda?
Æ. Due cartoncini, su cui vengono scritti due numeri interi successivi maggiori di 0,
vengono posti sulla fronte di due logici A e B seduti di fronte in modo che ciascuno possa
vedere solo il cartoncino dell'altro. I due logici devono dedurre il numero scritto sul proprio
cartoncino rispondendo a turno. Al primo turno rispondono entrambi non lo so; e così fino
al quinto turno. Al sesto turno A risponde ancora non lo so; e B risponde lo so. Come ha
fatto B?
Æ. Un catalogo C cita tutti i cataloghi che non citano se stessi. Quale catalogo cita C?
Æ. Il paradosso di Protagora. Il filosofo greco Protagora accettò di dare lezione di diritto
allo studente povero ma ricco di talento Euatlo; a condizione però che lo studente, dopo
aver vinto la prima causa, gli pagasse una certa somma. Lo studente accettò, completò gli
studi, ma rifiutò ogni causa. Dopo un po’ di tempo Protagora lo citò in giudizio per ottenere
quanto pattuito. Si omettono le ovvie tesi, in giudizio, dei contendenti. Come si
comportarono i giudici?
Æ. Il paradosso del barbiere. Se il barbiere di un villaggio fa la barba solo a chi non se la
fa da sé, chi fa la barba al barbiere?. I dati sono contraddittori; sicuramente, non puó
esistere un tale barbiere!
Æ.La palla irresistibile. Che cosa succede se una palla irresistibile (che demolisce tutto)
colpisce un pilastro indistruttibile (che non puó essere mai demolito)? Anche in questo
caso i dati sono contraddittori; non possono infatti coesistere una palla irresistibile ed un
pilastro indistruttibile.
Æ. Il problema dei tre cappelli. Vi sono tre condannati a morte A, B e C. Il giudice
mostra loro tre cappelli bianchi e due neri. Poi li benda e mette in testa a ciascuno un
cappello bianco. Successivamente li sbenda. Ogni condannato vede i cappelli bianchi degli
altri due, ma non vede il colore del suo cappello. Il giudice è disposto a graziare quel
condannato che sia in grado di dimostrare di avere in testa il cappello di un dato colore. I
condannati A e B, non avendo alternative, si ammazzano. Il condannato C si salva. Come
fa?
Æ. Un filosofo si finse sconcertato quando Russell gli disse che un enunciato falso implica
qualunque enunciato. Russell argomentò: se 2=1, poiché io e il Papa siamo due, allora io e
il Papa siamo uno; dunque, io sono il Papa. Il filosofo gli rispose: la tua argomentazione
non è valida, poiché tu non esisti; infatti, se 1=0, poiché tu sei uno, allora tu sei zero.
Æ. Chiedo ad un amico: quanti anni hanno i tuoi tre figli? Mi risponde: considerando le
loro età come numeri interi, il loro prodotto è 36, e la somma è il numero civico di questa
casa qui davanti. Inoltre, il maggiore ha gli occhi azzurri. Quali sono le età?
Æ. Qual’è il termine successivo nella successione 1,11,21,1211,111221.. ?. Qual’è il
termine successivo nella 1,11,21,1112,3112,211213,...?
Æ. In un paese di logici perfetti ci sono dei cornuti. Nessuno sa di esserlo, ma ognuno
conosce tutti i cornuti del paese (tranne eventualmente se stesso). Il sindaco un pomeriggio
convoca tutti i cittadini e dice "So che ci sono dei cornuti in paese. Voglio che non appena
qualcuno sa di esserlo, questi venga la mattina dopo in municipio". Dopo 15 giorni tutti i
cornuti si radunarono. Quanti erano?
Æ. Si completino, con una sola parola, i cartelli:
Quante "Erre" ci sono su questo cartello? Quante "Erre" ci sono su questo cartello?
......................
......................
(in lettere)
Æ. Il condannato a morte. In un certo paese si presentano alla corte di sua maestà un
gendarme e il più illustre matematico del paese. Il gendarme accusa il matematico di essere
stato colto sul fatto, e il matematico ammette le sue colpe. La pena prevista è la condanna a
morte. Tuttavia il tiranno non vuole perdere una delle mente più brillanti del paese e così gli
concede un modo per salvarsi la vita, esprimendo così la sua sentenza di condanna: "sarai
rinchiuso oggi nelle prigioni del castello e verrai ghigliottinato un giorno qualsiasi a partire
da oggi nell'arco di una settimana, ma la cosa più terribile è che non potrai mai prevedere
con certezza il giorno della tua morte". Il matematico riuscì con facilità a dimostrare
l'inapplicabilità della condanna ed ebbe così salva la vita.
Æ. Il dilemma di Monty Hall. Abbiamo davanti a noi tre porte: dietro una di queste c'è
un'auto, nelle altre due una capra. Dobbiamo scegliere una porta, e vinceremo quello che
troviamo la dietro. Fatta la scelta, il presentatore ci dice "Ne sei proprio sicuro? Puoi ancora
cambiare la scelta: anzi, ti voglio aiutare e riduco le scelte a due. Ecco: dietro questa porta,
c'è una capra". Così dicendo, apre una delle porte che noi non abbiamo scelto, mostrando
una capra. Ammesso che vogliamo vincere l'auto, ci conviene cambiare porta, o la cosa è
indifferente? La risposta è: sì! Anche se ciò sembra strano.
Æ. Una “applicazione” del principio di induzione. Si vuol provare che tutti gli esseri
viventi hanno lo stesso numero di zampe. Sia X un insieme di n esseri viventi. Se n=1
allora la tesi è chiaramente vera. Si supponga ora vera la tesi per n , e la si provi per n+1.
Infatti, se X ha n+1 elementi allora, tolto il penultimo elemento, si avrà un insieme di n
esseri viventi aventi lo stesso numero di zampe!
Æ. Ad un congresso si riuniscono cento uomini politici. Ognuno di loro è corrotto o onesto.
Vi è tra loro almeno un onesto, e presi due politici qualsiasi, almeno uno dei due è corrotto.
Quanti sono gli onesti?.
Æ. Ci sono tre case, ciascuna delle quali deve venire connessa a tre utenze, Luce, Gas e
Acqua. Come si puó fare senza che nessuna riga delle connessioni si intersechi? Non si
puó.
Æ.Ancora Achille e la tartaruga. È una variante del noto paradosso: puó Achille
percorrere una semiretta in un tempo finito, supponendo che esso possa aumentare
sempre la sua velocità? Se si rappresentano il tempo e lo spazio in modo usuale allora la
risposta è SI. Infatti Achille puó percorrere il primo metro in un secondo, il secondo in
mezzo secondo, il terzo in un quarto di secondo, ecc. In due secondi avrà percorso la
semiretta!