Paola Gho e Carlo Petrini su Slow Food 42
Transcript
Paola Gho e Carlo Petrini su Slow Food 42
110 0 osterie d’italia osterie d’italia 96 sì, viaggiare… 90 il racconto 42 quale cibo, quale agricoltura? 18 editoriali Osterie d’Italia Dialogo per un compleanno di Paola Gho e Carlo Petrini Foto Marcello Marengo Paola (Gho) Anche i libri festeggiano i compleanni. Con l’edizione 2010, che stiamo preparando, Osterie d’Italia compie vent’anni. Ricordo molto bene la prima riunione operativa. Ci trovammo a Samboseto da Cantarelli, che in quel momento lessi come simbolo di un luogo che ci sarebbe piaciuto enfatizzare: una “trattoria-tinellodicasa”, una compagnia di amici, un fantastico culatello, non troppi piatti ma di quelli che si ricordano… Ma come nacque l’idea di una guida delle osterie? Carlo (Petrini) Fu il bresciano Marino Marini a portare la proposta a uno dei primi consigli dei governatori di Arcigola. Marino, appassionato studioso della cultura materiale del cibo (la sua raccolta di libri e pubblicazioni sul tema era già allora sterminata), la pensava come segno distintivo dell’associazione, come forte elemento identitario e “ideologico”: non dimentichiamo che quelli erano i tempi della nouvelle cuisine e dell’arrivo da noi del fast food di McDonald’s. L’associazione accolse con entusiasmo l’idea, sia perché proponeva la salvaguardia di un patrimonio gastronomico a rischio sia perché la giovane Arcigola ci si riconobbe immediatamente, politicamente e direi “antropologicamente”. Noi, promotori dell’associazione, appartenevamo a una generazione che aveva fatto in tempo a vivere le ultime osterie storiche e, pur consapevoli che quei luoghi erano finiti insieme ai tempi che li avevano generati, ne sentivamo il valore sociale e umano. Nostalgia del passato? Niente affatto. Ciò che rimpiangevamo e che cercavamo di riproporre era quello che l’osteria aveva rappresentato in termini di socialità, di identità, di convivialità. Molto meno per quanto riguardava l’aspetto enogastronomico, che certo nelle osterie di un tempo non era la dimensione più significativa. Passato e presente… Ogni tanto spunta fuori chi ci dipinge come gente che conduce battaglie di retroguardia. Intravedi una sorta di passatismo nei nostri progetti che proprio in Osterie d’Italia, con il prepotente richiamo alla tradizione, hanno avuto una significativa espressione ? Se “passatismo” vuol dire non azzerare ciò che ci sta alle spalle, non dimenticare né le radici né le peculiarità dei nostri territori – tutti i territori – e amarne le differenze, se vuol dire contestare una globalizzazione che uccide la diversità (vegetale, animale, artigiana, antropologica) e contrapporre un modello di sviluppo e di vita diversi, che contemplano anche il piacere di una polenta 112 Slowfood «In gran parte il ruolo della guida è stato positivo, ma non bisogna nascondersi il fatto che il successo della guida ha pure contribuito a esasperare certe tendenze che non condivido, come quella di diventare esclusivamente luoghi di ristorazione, con relativa enfasi sulla preparazione e soprattutto sulla presentazione dei piatti. Io credo che, al di là di legittimi alleggerimenti e ammodernamenti, un piatto debba sempre essere riconoscibile» Ovviamente sono d’accordo. Tanto più che, via via che la filosofia di Slow Food si è approfondita e arricchita di nuovi progetti, la guida stessa ha in qualche modo registrato queste nuove sensibilità, invitando la ristorazione a essere più attenta all’elimi- 212 fogli di un bacco minore 184 i baroni rossi 162 icone 148 inchiesta cacao 126 il verbo del cuoco concia con gli amici o di un piatto di sarde a beccafico davanti a un mare non spogliato della sua vita, allora l’etichetta che qualcuno mi ha appioppato non mi inquieta per niente. «Alle osterie del terzo millennio chiedo di ricrearsi come luogo di socialità, cosa che non sono più. Un esempio. Negli anni Sessanta a Genova erano vive e attive 100 squadre di cantori di trallallero, ognuna con sede in un’osteria; oggi ne sono rimaste appena quattro, e non hanno una sede. Credo che oggi ci sia un grande bisogno di socialità e che le osterie debbano assumersi questo compito. A cominciare dal recupero della musica e del canto, con il coinvolgimento dei giovani, delle compagnie di amici» ottobre 2009 113 110 0 osterie d’italia osterie d’italia 96 sì, viaggiare… 90 il racconto 42 quale cibo, quale agricoltura? 18 editoriali Osterie d’Italia nazione delle barriere architettoniche, alle materie prime reperite in loco, ai prodotti e alle specie che necessitano di tutela perché rischiano l’estinzione, ai formaggi di qualità per dare slancio alle piccole produzioni casearie. Ma torniamo allo spirito originario di Osterie d’Italia. Pensi che questo lavoro abbia effettivamente svolto la funzione che i suoi ideatori si proponevano? La nostra guida (o meglio il nostro sussidiario, come volle chiamarlo Folco Portinari che fu uno dei padri dell’opera) ha contribuito in modo decisivo, oltre che ai temi che ricordavi, alla salvaguardia di una fascia di ristorazione – tradizionale e popolare – stimolandone il miglioramento, specie per quanto riguarda l’offerta di vino. E ha fatto partecipare le sue migliaia di utenti a questo processo, salvaguardando la “biodiversità” dei locali (le osterie classiche, le trattorie, i ristoranti familiari…) e rinsaldando la loro fisionomia. Posso aggiungere, avendo davanti 20 edizioni della guida, la serie storica di migliaia di locali, centinaia di visite dirette, la vitalità di molti posti “storici” e quella di nuove imprese, che molti ristoratori – a ragione o a torto – hanno introiettato una sorta di “osteria modello” cui hanno cercato di uniformarsi; altri, in procinto di aprire un nuovo locale, ci hanno chiesto quali caratteristiche a nostro avviso avrebbe dovuto avere (abbiamo risposto che occorre prima di tutto “essere se stessi” e puntare sulla semplicità). E poi insegne che sono cambiate, adottando la parola “osteria” come se fosse un passepartout… Tu che ne pensi, il ruolo della guida è stato positivo? In gran parte sì, ma non bisogna nascondersi il fatto che il successo della guida ha pure contribuito a esasperare certe tendenze che non condivido, come quella di diventare esclusivamente luoghi di ristorazione, con relativa enfasi sulla preparazione e soprattutto sulla presentazione dei piatti. Io credo che, al di là di legittimi alleggerimenti e ammodernamenti, un piatto debba sempre essere riconoscibile: un merluzzo al verde deve essere un merluzzo al verde, con le sue componenti ben presenti e amalgamate, come da tradizione. Un altro rischio è di trovarsi in ambienti eccessivamente “ingessati”, e magari alle prese con apparecchiature e servizi che ricordano più l’alta ristorazione che i ritrovi popolari. Che, detto fra noi, sono quelli dove io vado più volentieri e dove mi trovo meglio, per l’ambiente, il clima, i sapori. Altri suggerimenti per la guida di domani? Dare molta enfasi ai piatti meglio riusciti di un locale. Per esempio sottolineando che da Toni a Treviso si mangiano i migliori risi e bisi che possiate trovare. Un’altra cosa che mi piacerebbe reinserire è una rubrica che era presente nelle prime edizioni: si chiamava “ho voglia di, lo trovo a” e segnalava appunto i migliori posti dove mangiare un certo piatto. Penso a una ventina di preparazioni fondamentali (che so, pasta e fagioli, trippa, baccalà ecc.), con l’indicazione delle osterie che le eseguono al meglio. Se vent’anni fa Osterie d’Italia si propose di salvare certi ambienti, certe ricette, un certo stile di accoglienza, che cosa chiedi alle osterie del terzo millennio? Senza dubbio di ricreare le osterie come luogo di socialità, cosa che non sono più. Un esempio. Negli anni Sessanta a Genova erano vive e attive 100 squadre di cantori di trallallero, ognuna con sede in un’osteria; oggi ne sono rimaste appena quattro, e non hanno una sede. Credo che oggi ci sia un grande bisogno di socialità e che le osterie debbano assumersi questo compito. A cominciare dal recupero della musica e del canto, con il coinvol- I giovani cuochi, lo sai bene, sono ambiziosi e spesso arrivano da scuole o esperienze di altro tipo che hanno incentivato la creatività (e anche giustamente, se applicata in modo sensato). Ma forse si possono mettere alla prova le proprie competenze anche cucinando un piatto di risi e bisi, per ricordare il tuo esempio. Oppure si possono percorrere entrambe le vie, mantenendo accanto alle “sperimentazioni” un menù di piatti della tradizione. Poi ci sono le mode… Tu quali consigli daresti a un giovane che volesse aprire un nuovo locale? Anzitutto di mantenere nell’ambientazione e nella tipologia del lo- 114 Slowfood Paola Gho, curatrice della guida Osterie d’Italia. gimento dei giovani, delle compagnie di amici. Mi piacerebbe, nei locali che amiamo, trovare queste disponibilità. Meno carte di cibi, vini, oli, acque… ma magari una chitarra. Stai dettando dei criteri per l’assegnazione della chiocciola? La chiocciola è un segno identitario della nostra associazione e un grande valore aggiunto per un’osteria. Io la assegnerei tenendo conto non solo dell’eccellenza enogastronomica ma anche di parametri che definirei etici, come quelli cui accennavo prima. Del resto un tempo l’aspetto estetico era molto secondario in questi locali. Le prrefazioni regionali «Ogni regione avrà il suo testimonial». Così sentenziò Petrini allora. E l’idea, una delle sue tante vincenti, fu messa in pratica con belle letterine di richiesta, fax di conferma, telefonate accorate dei redattori ai tanti personaggi – della cultura, del giornalismo, dello sport, dello spettacolo – per ottenere una prefazione che introducesse, regione per regione, le osterie segnalate. Memorie personali e collettive, vissuti a volte nostalgici, riti e consuetudini del territorio, paesaggi umani, sopravvivenze e sparizioni, e ancora vignette e vere e proprie pagine di antropologia culturale. Per il ventennale abbiamo voluto riproporre quell’esperienza trovando, spesso, adesioni entusiaste. Ora come allora, quando la notorietà e la credibilità di Slow Food (Arcigola) erano agli albori. Miracolo delle idee? Hanno scritto per Osterie d’Italia 1990: Valle d’Aosta: Franco Vai Piemonte: Gina Lagorio Cantone Ticino: Giovanni Orelli Lombardia: Gianni Brera Trentino: Francesco Moser Alto Adige: Reinhold Messner Veneto: Ulderico Bernardi Friuli: Bruno Pizzul Venezia Giulia: Ottavio Missoni Liguria: Ivano Fossati Emilia: Francesco Guccini Romagna: Massimo Montanari Toscana: Sergio Staino Umbria: Gaio Fratini Lazio: Ermete Realacci Marche: Joyce Lussu Abruzzo e Molise: Ottaviano Del Turco Puglia: Luigi Sada Campania: Michele Prisco Basilicata: Raffaele Nigro Calabria: Luigi Lombardi Satriani Sicilia: Vincenzo Consolo Sardegna: Fulvia Serra cale un aggancio al territorio, poi di conservare con rigore i piatti di tradizione e di utilizzare prodotti della sua zona. Oggi in certe aree del nostro paese si mangia ancora bene in casa, ma presto non sarà più così: per questo ha senso salvaguardare le preparazioni tradizionali, non solo per chi viaggia e, arrivando in un luogo, vuole assaggiarne la cucina tipica. Ancora. Prendere sempre più in considerazione – e mi sembra che alcuni osti già lo facciano – la possibilità di preparare in proprio certe materie prime (verdura, frutta) e certi prodotti, come i salumi, tenere un orto, affinare formaggi…. 116 Slowfood Scriveranno per Osterie d’Italia 2010 Valle d’Aosta: Marco Albarello Piemonte: Folco Portinari Cantone Ticino: Pietro Bianchi Lombardia: Lella Costa Trentino: Francesca Neri Alto Adige: Klaus Dibiasi Veneto: Alberto Sinigaglia Friuli Venezia Giulia: Tullio Avoledo Liguria: Maurizio Maggiani Emilia Romagna: Tonino Guerra Toscana: Massimo Cirri Umbria: Enrico Vaime Lazio: Giovanna Marini Marche: Neri Marcoré Abruzzo: Raffaele Colapietra Molise: Antonietta Caccia Puglia: Alessandro e Giuseppe Laterza Campania: Marino Niola Basilicata: Gaetano Cappelli Calabria: Vito Teti Sicilia: Roy Paci Sardegna: Gavino Sanna 110 0 osterie d’italia osterie d’italia 96 sì, viaggiare… 90 il racconto 42 quale cibo, quale agricoltura? 18 editoriali Osterie d’Italia