Rassegna stampa del 4 febbraio 2015

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Rassegna stampa del 4 febbraio 2015
RASSEGNA STAMPA
mercoledì 4 febbraio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
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IL FATTO
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L’ESPRESSO
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LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Vita.it del 03/02/15
Terzo Settore: Mattarella sarà il nostro
presidente
di Lorenzo Maria Alvaro
Tutte le reazioni delle associazioni italiane all'elezione del Presidente
della Repubblica e al suo discorso alla nazione, tenutosi oggi per il suo
insediamento che dà il via al settennato. Dal Forum del Terzo Settore ad
Avis passando per Acli, Arci, Csvnet, Cittadinanzattiva, Comunità
Sant'Egidio e Legautonomie
«Siamo certi», ha detto il portavoce del Forum terzo settore, Pietro Barbieri, «che il
presidente Mattarella vorrà porre al centro del suo mandato la giusta attenzione per le
tematiche sociali e i valori in esse racchiusi, la solidarietà, la lotta alla mafia e alla
legalità».
Questa è solo una delle tante voci del Terzo Settore italiano che hanno commentato
l'elezione di Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica italiana e il suo discorso
di insediamento.
Di «personalità forte, garante della legalità» ha parlato anche il presidente nazionale di
Legautonomie, Marco Filippeschi. Per Avis il discorso di apertura del settennato è stato
molto bello, «Ci hanno fatto molto piacere i passaggi dedicati al ruolo delle formazioni
sociali e dei legami sociali, come fondamento di partecipazione alla vita pubblica.
Altrettanto rilevante è stato l’accenno, nella spiegazione di che cosa significhi in concreto
garantire la Costituzione, ai diritti dei malati».
«Temi come dignità del lavoro, contrasto alla povertà, impegno per la riduzione delle
disuguaglianze, legalità, pace e ripudio della guerra costituiscono delle parole irrinunciabili.
Siamo certi che saranno anche quelle che più caratterizzeranno questo nuovo settennato
al Quirinale”, fanno sapere le Acli per voce del proprio presidente nazionale, Gianni
Bottalico a cui fa eco la Comunità Sant'Egidio secondo cui, «il Presidente saprà far
crescere il valore della solidarietà nella società italiana e a livello internazionale».
Francesca Chiavacci presidente nazionale di Arci non ha dubbi, «saprà interpretare e
sostenere le ragioni della laicità e dei diritti civili. Renderà più forte un rilancio delle
politiche dell’Unione Europea fondato su maggiore giustizia ed equità. Il nostro augurio è
che il suo mandato contribuisca all’apertura di una stagione nuova della vita delle nostre
istituzioni democratiche, delle forze politiche che si ispirano ai valori del campo
progressista».
«La persona di Sergio Mattarella ci racconta di un senso autentico della politica. Verrebbe
naturale, ora, immaginarlo primo garante della legalità: noi ci auguriamo un settennato
garante della giustizia, di cui la legalità è il presupposto. È un augurio per lui e, ad un
tempo, per tutti noi e per il volontariato che saprà continuare ad essere protagonista in
questa direzione», è il commento di Stefano Tabò, presidente di CSVnet.
«Il discorso del neo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella porta in sé fortissimi
elementi di innovazione e modernità, perché guarda non solo ai problemi ma anche alle
opportunità e alle risorse del nostro Paese, richiamando tutti alle propria responsabilità e
attribuendo un ruolo centrale al tema dei diritti e della partecipazione come risorsa per il
futuro», è invece il commento di Antonio Gaudioso, segretario generale di
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Cittadinanzattiva, «Come cittadini attivi, ci siamo sentiti chiamati in causa e riconosciuti nel
nostro ruolo, garantito dalla Costituzione e dall’art.118, di attori fondamentali della
democrazia».
http://www.vita.it/it/article/2015/02/03/terzo-settore-mattarella-sara-il-nostropresidente/129259/
Da Repubblica.it (Roma) del 03/02/15
Oscar degli indipendenti, live di Sinigallia e
Virginiana Miller
La manifestazione dal 6 all'8 all'interno della Factory Pelanda del Macro
di FELICE LIPERI
Le luci della Centrale Elettrica, Bud Spencer Blues Explosion, Riccardo Sinigallia per
festeggiare i 20 anni del MEI (Meeting delle Etichette Indipendenti) da venerdì a domenica
alla Factory Pelanda del Macro con il "Premio degli Indipendenti - Roma Caput Indie".
Grande manifestazione che presenta il PIMI: Premio Italiano Musica Indipendente e il
PIVI: Premio Italiano Videoclip Indipendente in tre giorni di musica, incontri, presentazioni,
anteprime ed esposizioni.
Sul podio per le migliori produzioni indipendenti italiane dell'anno: Virginiana Miller, Le Luci
della Centrale Elettrica, Bud Spencer Blues Explosion, Riccardo Sinigallia, Soviet Soviet e
Foxhound, invece per i migliori videoclip indipendenti vincono Marta sui Tubi con Franco
Battiato ex-aequo con Zen Circus, Salmo, Paolo Benvegnù, Mannarino, Fast Animals and
Slow Kids e Be Forest. Ideata da Giordano Sangiorgi e realizzata con il sostegno di Roma
Capitale e dell'Assessorato alla Cultura, la manifestazione prenderà avvio venerdì alle 16
nel palco centrale della Factory Pelanda con, fra gli altri, i live di Pivirama, Metrò, Makay,
Durden, Morgan con la i, Babalot, Lo Zoo di Berlino, Luminal. Poi alle 18 presso la libreria
IBS di via Nazionale presentazione del volume "I MEI Vent'Anni", quindi ancora alla
Pelanda le "Stanze della Musica" mini live di Costantino Vetere, Vera di Lecce, Alepà, Leo
Folgori, Calcutta, Linfante. Dalle 22 La Grande Onda presenta: "Troppo Avanti Show" con
artisti emergenti del panorama rap e reggae prodotti dall'etichetta di Piotta.
Sabato alle 17 premiazione PIVI, poi i Camillas in concerto, alle 19 presentazione in
anteprima del nuovo disco dei Gang. Alle 20 premiazione PIMI con i concerti dei vincitori
Virginiana Miller, Riccardo Sinigallia, Soviet Soviet, Foxhound. Domenica, dalle 10,
workshop sulle opportunità che YouTube offre agli artisti e alle indies con Chiara Santoro
e Arianna Guerriero, partner Manager di YouTube. Quindi FormazioneLIVE e MArteLabel
parlano di "Dove sta andando e come si muove il mondo della musica oggi?" Nella pausa
un omaggio a Gabriella Ferri di Giulia Anania e Valerio Rodelli. Dalle 17 Stati Generali
della Nuova Musica con tavoli di lavoro, fra cui: Il futuro della produzione indipendente,
coordinato da Giampiero Bigazzi (Materiali Sonori) e Stefano Saletti, La Musica e la Città
coordinato da Carlo Testini dell'ARCI e Lorenzo Siviero con Vincenzo Santoro. Chiusura
alle 18 con i Plenaria.
Factory Pelanda, Macro Testaccio, piazza Giustiniani 8, da venerdì a domenica 8.
Ingresso gratuito
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/02/04/news/oscar_degli_indipendenti-106469532/
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Del 4/02/2015, pag. XI RM
Macro Testaccio
La manifestazione dal 6 all’8 all’interno della Factory Pelanda Live di
Sinigallia e Virginiana Miller
Oscar degli indipendenti
FELICE LIPERI
LELUCIdella Centrale Elettrica, Bud Spencer Blues Explosion, Riccardo Sinigallia per
festeggiare i 20 anni del MEI (Meeting delle Etichette Indipendenti) da venerdì a domenica
alla Factory Pelanda del Macro con il “Premio degli Indipendenti - Roma Caput Indie”.
Grande manifestazione che presenta il PIMI: Premio Italiano Musica Indipendente e il
PIVI: Premio Italiano Videoclip Indipendente in tre giorni di musica, incontri, presentazioni,
anteprime ed esposizioni.
Sul podio per le migliori produzioni indipendenti italiane dell’anno: Virginiana Miller, Le Luci
della Centrale Elettrica, Bud Spencer Blues Explosion, Riccardo Sinigallia, Soviet Soviet e
Foxhound, invece per i migliori videoclip indipendenti vincono Marta sui Tubi con Franco
Battiato ex-aequo con Zen Circus, Salmo, Paolo Benvegnù, Mannarino, Fast Animals and
Slow Kids e Be Forest. Ideata da Giordano Sangiorgi e realizzata con il sostegno di Roma
Capitale e dell’Assessorato alla Cultura, la manifestazione prenderà avvio venerdì alle 16
nel palco centrale della Factory Pelanda con, fra gli altri, i live di Pivirama, Metrò, Makay,
Durden, Morgan con la i, Babalot, Lo Zoo di Berlino, Luminal. Poi alle 18 presso la libreria
IBS di via Nazionale presentazione del volume “I MEI Vent’Anni”, quindi ancora alla
Pelanda le “Stanze della Musica” mini live di Costantino Vetere, Vera di Lecce, Alepà, Leo
Folgori, Calcutta, Linfante. Dalle 22 La Grande Onda presenta: “Troppo Avanti Show” con
artisti emergenti del panorama rap e reggae prodotti dall’etichetta di Piotta.
Sabato alle 17 premiazione PIVI, poi i Camillas in concerto, alle 19 presentazione in
anteprima del nuovo disco dei Gang. Alle 20 premiazione PIMI con i concerti dei vincitori
Virginiana Miller, Riccardo Sinigallia, Soviet Soviet, Foxhound. Domenica, dalle 10,
workshop sulle opportunità che YouTube offre agli artisti e alle indies con Chiara Santoro
e Arianna Guerriero, partner Manager di YouTube. Quindi FormazioneLIVE e MArteLabel
parlano di “Dove sta andando e come si muove il mondo della musica oggi?” Nella pausa
un omaggio a Gabriella Ferri di Giulia Anania e Valerio Rodelli. Dalle 17 Stati Generali
della Nuova Musica con tavoli di lavoro, fra cui: Il futuro della produzione indipendente,
coordinato da Giampiero Bigazzi (Materiali Sonori) e Stefano Saletti, La Musica e la Città
coordinato da Carlo Testini dell’ARCI e Lorenzo Siviero con Vincenzo Santoro. Chiusura
alle 18 con i Plenaria.
Factory Pelanda, Macro Testaccio, piazza Giustiniani 8, da venerdì a domenica 8.
Ingresso gratuito
Da La Nazione.it del 04/02/15
Rights now - musica e letteratura per i diritti
in programma ad Arezzo venerdì 6 febbraio
Al Karemaski in concerto la cantante pugliese Una
Arezzo, 4 febbraio 2015 - La musica dal vivo della cantautrice Una e della rapper McNill, il
dj set di Debs e la presentazione dei libri “Love song” e “Le cose cambiano” sono il cuore
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del programma di “Rights now - musica e letteratura i diritti” in programma ad Arezzo
venerdì 6 febbraio. Evento promosso da Arcigay Arezzo “Chimera Arcobaleno”, Indie
Pride – Indipendenti contro l’omofobia, Le Cose Cambiano e circolo Arci Karemaski, per
combattere ogni forma di omofobia attraverso lo strumento della musica e delle arti.
Alle 17.45 all’InformaGiovani del comune di Arezzo (piazza Sant’Agostino) Chiara Reali,
curatrice del progetto LeCoseCambiano, che ha lo scopo di ricordare ai teenager LGBT
che non sono soli e che le cose per loro cambieranno in positivo, e lo scrittore Federico
Novaro presentano il libro “Love Song – storia di un matrimonio” che racconta cosa vuol
dire essere una coppia gay in Italia oggi. L’evento è a ingresso libero.
Alle 22,30 nel locale Karemaski (via T. Edison, 37) scatterà l’ora dei concerti con la rapper
umbra Mc Nill, freestyler finalista del programma MTV Spit e la cantautrice UNA, al secolo
Marzia Stano, in una tappa del suo “Come in cielo così in terra” tour. La serata continuerà
con il dj set di Debs DJ e gli interventi sul palco di Antonia Peressoni per IndiePride e
Chiara Reali.
Indie Pride - Indipendenti contro l'omofobia è l'iniziativa che unisce musicisti e addetti ai
lavori dell'ambiente musicale per dire insieme NO all'omofobia e a sostegno dei diritti
LGBT, nasce a Bologna nel 2012 in occasione del Pride nazionale continuando negli anni
successivi consapevole che l'omofobia in Italia, come in molti paesi europei, è ancora un
grande problema e che solo con l'unione, la consapevolezza e la cultura, musicale e non,
si può vincere!
Indie Pride insieme a Le Cose Cambiano hanno deciso di unirsi e metterci la faccia e di
farla mettere a tutti coloro che sostengono e sosterranno la lotta all'omofobia,
collaborando con Arcigay Arezzo alla realizzazione di Rights Now, primo evento di una
rassegna culturale a 360 gradi, finalizzata al raggiungimento di pari diritti e dignità delle
persone gay, lesbiche, bisex, transgender e intersessuali.
L’ingresso al locale Karemaski è riservato ai soci Arcigay, Arci o affiliate, è comunque
possibile tesserarsi in loco
http://www.lanazione.it/arezzo/rights-now-musica-e-letteratura-i-diritti-in-programma-adarezzo-venerd%C3%AC-6-febbraio-1.635800
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Redattore Sociale del 03/02/15
Reti pacifiste scrivono a Mattarella:
"Riconoscimento istituzionale alle nuove
forme di difesa civile"
La campagna per una Difesa civile e nonviolenta e le reti promotrici
augurano buon lavoro al nuovo Presidente della Repubblica chiedendo
attenzione alle forme di difesa non armata e nonviolenta della Patria.
ROMA - Una lettera di augurio per l’inizio del Settennato: in questo modo le sei reti
promotrici di “Un’altra difesa è possibile” hanno deciso di rivolgersi al nuovo Presidente
della Repubblica Sergio Mattarella. Un’occasione per far sentire vicinanza all’inizio di
questo importante e gravoso compito e per ricordare come “le Reti e le Associazioni
pacifiste, nonviolente, per il disarmo, della cooperazione internazionale e del servizio civile
che hanno dato vita alla Campagna "Un'altra difesa è possibile” hanno già dato vita al
percorso per “promuovere una legge di iniziativa popolare per l'istituzione presso la
Presidenza del Consiglio del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta”.
La Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile, il Forum Nazionale Servizio Civile, la Rete
della Pace, la Rete Italiana per il Disarmo, la Campagna Sbilanciamoci e il Tavolo
Interventi Civili di Pace hanno voluto rivolgersi al nuovo Capo dello Stato e garante della
Costituzione per ricordare l’importanza del lavoro condotto quotidianamente dagli
organismi che hanno dato vita alla Campagna per una difesa civile.
Nella missiva si legge: “Siamo coscienti che la Costituzione Le affida il comando delle
Forze armate e la presidenza del Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge,
ma siamo altresì convinti che Lei saprà tenere in considerazione le nostre proposte che
mirano ad ottenere un riconoscimento politico, giuridico, finanziario e dunque istituzionale
per le nuove forme di difesa civile e nonviolenta della Patria che sono previste dalla nostra
Costituzione e confermate da due sentenze della Corte Costituzionale e tre leggi dello
Stato”. L’intenzione è quindi quella di ricordare al Presidente Mattarella la rilevanza di
approcci innovativi e nonviolenti al dovere costituzionale di difesa della Patria. Ricordando
come proprio Mattarella, nel suo ruolo di Ministro della Difesa del Governo che decise di
sospendere la leva obbligatoria, ebbe parole importanti a riguardo del Servizio Civile come
forma non armata di difesa: “Qualsiasi giovane potrà comunque concorrere alla difesa
della patria con mezzi ed attività non militari. I futuri volontari potranno continuare a
favorire e promuovere la solidarietà e la cooperazione”.
L’Obiettivo della Campagna “Un’altra difesa è possibile” è quello di dare, proprio attraverso
l’iniziativa popolare, uno strumento ai cittadini per chiedere allo Stato l’istituzione della
Difesa civile, non armata e nonviolenta ovvero per la difesa della Costituzione e dei diritti
civili e sociali che in essa sono affermati. I promotori hanno quindi ricordato al Presidente
Mattarella che “lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un
confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa e sicurezza dando centralità alla
Costituzione che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11), che afferma la difesa
dei diritti di cittadinanza ed affida ad ogni cittadino il “sacro dovere della difesa della patria”
(art. 52)”.
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ESTERI
Del 4/02/2015, pag. 1-15
Le immagini
Ventidue minuti, un copione pensato per colpire un pubblico ritenuto
assuefatto alle decapitazioni
Quelle morti sempre più shock nel videogioco
medioevale dei registi dello Stato islamico
GAD LERNER
IL VIDEOGIOCO del nostro medioevo contemporaneo si avvale di sceneggiatori
maniacali. Scienziati dell’efferatezza, psicologi di un terrore con cui pretenderebbero di
santificare il baratro irreparabile che li separa dal resto dell’umanità. La lingua di fuoco che
serpeggia fino a circondare una gabbia in cui hanno rinchiuso il pilota giordano Moaz al
Kaseasbeh, arso vivo e carbonizzato, dopo avercene mostrato il volto tumefatto dalle
percosse, è un film studiato nel minimo dettaglio. Dura ventidue interminabili minuti.
Esordisce con l’umiliazione del prigioniero inerme che recita un monologo di contrizione,
coreograficamente circondato da guerrieri mascherati. Segue l’orribile scena madre.
Infine, sui resti del pilota una ruspa scarica detriti, mentre compaiono sullo schermo le
fotografie degli altri piloti giordani, commilitoni della vittima, sui quali viene posta una
taglia, minacciandoli di fare la stessa fine.
Barbarie che, puntuale, genera simmetrica barbarie: il regno hashemita replica al delitto
perpetrato dal sedicente Califfato annunciando la decisione di giustiziare la terrorista
Sajida al-Rishawi — di cui era stato chiesto il rilascio — insieme a cinque altri detenuti
jihadisti. La pena di morte, su cui per anni la Giordania aveva disposto una moratoria,
ricompare come strumento di rappresaglia.
Da quando, il 24 dicembre scorso, l’F16 di Moaz fu abbattuto nei dintorni di Raqqa, e lui si
era salvato lanciandosi con il paracadute, una sapiente regia ha documentato il supplizio
del malcapitato. Lo abbiamo visto denudato, fradicio e stordito, mentre due miliziani lo
trascinavano sulla riva di un fiume. Ci è stata trasmessa in seguito un’intervista surreale,
nel corso della quale Moaz Kaseasbeh annunciava di essere destinato alla morte. Certo
non poteva immaginare il copione accurato, inedito, mostruoso, di cui l’avrebbero reso
protagonista quei geni del male assoluto. La gabbia in cui lo avrebbero introdotto vestito
con la tuta arancione, attorniato da belve consenzienti.
Si ritiene che lo spettacolo sia stato eseguito a favore di telecamere un mese fa, il 3
gennaio, per poi essere divulgato solo ieri. Forse gli sceneggiatori di questo nuovo genere
cinematografico hanno calcolato che il loro pubblico si fosse ormai assuefatto alle
decapitazioni — ultime quelle dei due ostaggi giapponesi — e dunque hanno voluto
propinarci una ulteriore caduta agli inferi. Per dirci che cosa? Che la crudeltà è una virtù
superiore all’onore. Che la vita di un uomo può diventare spettacolo da circo quando ne
viene annichilito il valore. Senza neanche bisogno di credere che esista poi una vita eterna
prolungata nell’aldilà, perché l’ottuso, blasfemo monoteismo di questi vigliacchi contempla
nient’altro che sottomissione e annientamento. Non promettono nulla, i sicari di Al
Baghdadi. Non credono in Allah, credono solo in se stessi come superuomini esenti da
pietà.
Il regno di Giordania, che si legittima come discendente diretto del Profeta, è un baluardo
pericolante della coalizione anti-Is. Da quando è scoppiata la guerra in Siria, i profughi
hanno quasi raddoppiato la popolazione della Giordania, uno dei paesi più poveri d’acqua
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al mondo. Estendere fino a Amman la guerra di conquista, trascinando dalla sua parte la
componente islamista finora egemonizzata dalla Fratellanza musulmana, rientra fra gli
obiettivi immediati del sedicente Califfato. Questo spiega lo speciale, crudele accanimento
di cui è rimasto vittima il pilota giordano.
Ma la macchina della propaganda macabra segue logiche che prescindono da calcoli di
natura militare. Vuole affermare una visione terroristica della legge islamica come
dominazione purista, capace di disintegrare ogni contaminazione del paganesimo
occidentale. Sempre ieri, i registi della morte hanno diffuso un altro video nel quale si
mostra la plateale esecuzione a Raqqa di un pover’uomo accusato di omosessualità.
Trascinato, legato a una sedia di plastica, fin sul tetto di un palazzo di sette piani, da lassù
è stato scaraventato al suolo. E siccome non era morto sul colpo, la folla è stata chiamata
a finirlo con la lapidazione. Analoghe spettacolari condanne a morte erano state compiute
nei giorni precedenti. Pretesi musulmani che ammazzano altri musulmani: la nozione di
infedele, l’accusa di empietà, viene dilatata come un elastico a piacimento. In precedenza
avevamo assistito alla crocifissione dei cristiani. E ancora, di recente a Mosul, alla replica
della ben nota cerimonia, prima inquisitoria e poi nazista, dei libri bruciati in piazza.
Rituali che vorrebbero descrivere i jihadisti 2015 come guerrieri riemersi da secoli
addietro, interpreti contemporanei del tempo delle crociate, quando nei castelli assediati
con la catapulta venivano fatte piovere le teste mozzate dei prigionieri. Ma nel disegnare la
propria immagine di “persone del passato”, i tagliagole agghindati con tuniche e turbanti
non disdegnano certo di utilizzare tecniche hollywoodiane, rivelando la falsità di un Islam
posticcio ricostruito attingendo al serbatoio dei luoghi comuni del nemico occidentale.
Sono maschere assassine, figli della degenerazione del tempo presente, replicanti di un
videogioco che moltiplica il suo effetto spruzzando sangue vero. Assassini in costume di
scena, come l’automa Anders Breivik, lo sterminatore norvegese di Utoya.
Maledettamente vera, però, è la guerra che ha consentito al fanatismo tecnologico di
occupare un vasto territorio, da cui non solo l’islam, ma tutto il mondo civile, è chiamato ad
estirparlo. Il rogo in cui è stato incenerito Moaz al-Kaseasbeh lambisce ormai le nostre
case. Non possiamo voltarci dall’altra parte, ne avvertiamo l’odore e l’incandescenza.
Del 4/02/2015, pag. 14
Il rogo, poi la ruspa sui resti l’Is brucia vivo il
pilota Amman: “Giustiziamo Sajida”
I giordani: “Ucciso il 3 gennaio. Un bluff la trattativa per liberarlo” Oggi
l’esecuzione della terrorista per cui era stato chiesto lo scambio
ALBERTO STABILE
BEIRUT .
Hanno voluto infliggergli una fine atroce, se possibile più cruenta dello sgozzamento
riservato agli ostaggi giapponesi e americani uccisi precedentemente. Moaz al
Kaseasbeh, il pilota giordano catturato lo scorso 25 dicembre dagli jihadisti dello Stato
Islamico, è stato arso vivo dopo essere stato rinchiuso in un gabbia di ferro.
Un’esecuzione agghiacciante, cui la Giordana ha risposto mandando subito a morte Sajida
al Rishawi, la terrorista affiliata al gruppo di Al Zarqawi, condannata alla pena capitale per
aver partecipato agli attentati del novembre 2005 ad Amman, che i governanti del regno
hashemita s’erano detti pronti a liberare in cambio Al Kaseasbeh.
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Raramente la Giordania nella sua storia ha dato seguito a condanne a morte emesse
contro estremisti islamici. Ma stavolta è prevalso il timore di non poter reggere, agli occhi
dell’opinione pubblica, la sfida lanciata dai jihadisti. I quali, non soltanto, secondo i servizi
giordani, avrebbero ucciso il giovane pilota già lo scorso 3 gennaio, quando ne
annunciarono la morte senza tuttavia mostrare alcuna immagine, ma lo hanno ucciso,
come documenta il filmato diffuso ieri, al di là dell’orrore che suscita, anche per lanciare un
avvertimento a tutta la Giordania.
Se così è, la presenta trattativa a tre (Giappone, Giordania e Stato Islamico) che a un
certo punto sembrava aver legato allo stesso destino il giornalista giapponese Kenji Goto,
Al Kaseasbeh e Sajida, era sin dall’inizio basata su un bluff da parte dei jihadisti. Un bluff
che è stato smascherato dalla richiesta delle autorità giordane ai jihadisti di fornire la prova
che il pilota era ancora in vita. Così, sabato scorso, il Califfato ha decapitato l’ostaggio
giapponese e ieri ha mostrato l’orrenda fine del giovane pilota.
Lo stesso desertico scenario utilizzato in altre occasioni fa da sfondo al filmato
dell’esecuzione. Ma qui non c’è l’uomo in nero torreggiante sulla vittima designata, muta e
rassegnata. Prima che l’auto da fé cominci, scorrono le immagini di un bombardamento
degli aerei della coali- zione guidata dagli Stati Uniti e di cui fa parte anche la Giordania,
con dei civili che scavano a mani nude per tirare fuori dei feriti intrappolati fra le macerie.
L’allusione, esplicita, è che quello sia stato il risultato della missione in cui era impegnato
Al Kaseasbeh quando il suo caccia F16 venne abbattuto nei cieli di Raqqa, e lui fu
ripescato dai suoi carnefici nelle acque dell’Eufrate.
Avvolto nella tunica arancione dei condannati a morte del-l’Is, l’occhio destro tumefatto, il
giovane pilota parla della sua missione. Recita il suo inutile “mea culpa”. Ma subito la
scena cambia. Un uomo spruzza del liquido infiammabile sulla tunica di Al Kaseasbeh, al
centro della gabbia. Anche il terreno è impregnato di benzina. Un rivolo di liquido s’allunga
per alcuni metri. Appare un uomo mascherato con una torcia in mano. Parte una lingua di
fuoco che s’avvicina rapidamente alla gabbia. Si potrebbe pensare a una messinscena, a
una ricostruzione cinematografica. Invece è realtà. Il medioevo che ritorna. Non è finita.
Alcuni uomini s’avvicinano al quadrato di terra su cui ora giacciono i resti carbonizzati della
vittima e della gabbia per ricoprire il tutto con materiale di riporto preso da chissà quali
rovine. Un bulldozer avanza a scatti e appiattisce il tutto. Neanche una dignitosa sepoltura.
Il video suscita razioni di prevedibile indignazione. Obama condanna la «la barbarie dei
jihadisti». Il sovrano hashemita, re Abdallah II, dopo aver incontrato il presidente Usa, ha
condannato l’atto di «terrore codardo » e troncato la sua visita negli Usa per rientrare ad
Amman. Sin dall’inizio, la cattura del pilota aveva provocato critiche contro la corona,
accusata di aver voluto unirsi troppo frettolosamente alla coalizione contro lo Stato
Islamico. Il sacrificio di Al Kaseasbeh riaccenderà gli animi. Nel filmato sulla sua morte, i
jihadisti hanno incluso un elenco con nomi, cognomi e città di provenienza dei 50 piloti
giordani che partecipano alla guerra aerea contro lo Stato Islamico.
del 04/02/15, pag. 8
Dopo la guerra, a Gaza si muore di freddo
Michele Giorgio
Gaza City
Palestina. A cinque mesi dall'offensiva israeliana "Margine Protettivo"
Gaza sprofonda nel baratro, tra una ricostruzione che ancora non parte
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e i contrasti perenni tra il governo di Ramallah e il movimento islamico
Hamas. Il dramma delle vedove dei palestinesi uccisi dai
bombardamenti della scorsa estate: sopravvivono sposando i parenti
dei mariti morti
Amr e Ahmed, 29 e 34 anni, si svegliano alle prime luci del giorno. Ed escono in strada
poco dopo. Il primo con una vecchia automobile va alla ricerca di oggetti di metallo o di
plastica che potrebbero essere riciclati. Il secondo lava tazze e bicchieri nel minuscolo
caffè di proprietà di uno zio della moglie, a Tel el Hawa, a Gaza city. Entrambi non portano
a casa più di 500 shekel al mese, circa 100 euro, ed entrambi fino ad un anno fa erano
dipendenti del governo del premier di Hamas, Ismail Haniyeh. Per Amr e Ahmed la
riconciliazione tra l’Anp di Ramallah e il movimento islamico a Gaza dopo la gioia iniziale
si è rivelata devastante. Sono senza stipendio da quando, lo scorso giugno, è stato
formato il governo di consenso nazionale palestinese ed è stato sciolto l’esecutivo di
Haniyeh. Nelle stesse condizioni si trovano tra 40 e 50 mila abitanti di Gaza, “esodati”
palestinesi lasciati al loro destino, assieme alle famiglie, da un governo che non è mai
realmente entrato in carica e che non ha mai esteso alla Striscia la sua autorità.
«Ero impiegato al ministero della sanità, la vita non è mai stata facile perchè lo stipendio
non arrivava mai puntuale – racconta Ahmed – però sapevo che presto o tardi quei soldi
me li avrebbero dati. Non tanti, 1500 shekel (circa 300 euro, ndr) ma almeno potevo
assicurare il pane ai miei figli». Soldi che varie parti arabe e islamiche donavano al
governo di Hamas, Qatar in testa. Poi quell’aiuto è sensibilmente diminuito, sotto l’urto
delle alleanze ballerine in Medio Oriente e del colpo di stato in Egitto che ha isolato Gaza.
Amr ha una storia simile a quella di Ahmed. Pochi mesi fa faceva parte nella segreteria di
un ufficio periferico del ministero dell’interno. Oggi passa ore ed ore a rovistare tra cumuli
di detriti. «Ma non nelle rovine delle case (private) distrutte da Israele, lì solo coloro che ci
vivevano hanno il diritto di recuperare qualcosa», ci tiene a precisare Amr, ricordando il
rispetto per coloro che hanno perso tutto, spesso anche la vita, nei bombardamenti
israeliani della scorsa estate su Gaza.
La condizione a dir poco precaria di queste decine di migliaia di ex dipendenti pubblici
abbandonati dal nuovo governo, è uno dei motivi di maggiore tensione tra Hamas e l’Anp
a Ramallah. Il movimento islamico lancia accuse pesanti all’esecutivo del premier Rami
Hamdallah, che a Gaza è stato soltanto una volta e per poche ore. «Trovo assurdo che
l’Autorità nazionale palestinese da quasi 8 anni continui a pagare lo stipendio a oltre
20mila dipendenti pubblici (dell’esecutivo precedente alla presa del potere di Hamas nella
Striscia nel 2007, ndr) ai quali chiede di non lavorare e allo stesso tempo neghi il salario a
chi invece lavorava e vorrebbe continuare a farlo», ci dice Mahmoud Zahar, uno dei
fondatori di Hamas ed ex ministro degli esteri, accogliendoci nel suo ufficio a Gaza city.
«Hamdallah e (il presidente) Abu Mazen – aggiunge — trattano questi lavoratori di Gaza
rimasti senza alcun reddito come se fossero militanti di Hamas e non come dei semplici
cittadini impiegati nei servizi pubblici. Eppure stiamo parlando di padri di famiglia, spesso
di giovani appena sposati, di essere umani». Ritorna, irrisolta, la questione dei cosiddetti
“Dayton” (dal cognome del generale Usa Keith Dayton che tra il 2005 e il 2010
supervisionò l’addestramento delle forze di sicurezza dell’Anp). A Gaza identificano così le
migliaia di dipendenti pubblici ai quali Abu Mazen e l’allora premier dell’Anp Salam Fayyad
ordinarono di cessare ogni attività lavorativa all’indomani della presa del potere di Hamas.
Da allora tutti i mesi, o almeno quelli in cui da Ramallah riescono a mandare i fondi alla
Palestine Bank di Gaza, migliaia di palestinesi che, ufficialmente, non lavorano da quasi 8
anni ricevono lo stipendio mentre altre decine di migliaia impiegati fino a pochi mesi fa
sono diventati invisibili, come se non esistessero.
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È un paradosso che aggrava la condizione di Gaza, rapidamente dimenticata dal mondo,
come con ogni probabilità aveva previsto il governo israeliano al termine dell’offensiva
“Margine Protettivo” della scorsa estate. 2200 morti palestinesi, 11 mila feriti, 96 mila case
in macerie. Vite umane e distruzioni che non interessano più a nessuno, a cominciare dai
“fratelli arabi” e dalle democratiche nazioni occidentali. Le promesse di aiuto fatte lo scorso
ottobre alla conferenza del Cairo — 5,4 miliardi di dollari — non sono state mantenute.
L’Unrwa, l’agenzia che assiste i profughi palestinesi, che attendeva una porzione
importante di questi fondi per garantire gli aiuti umanitari e la ricostruzione, ha già
terminato i 77 milioni di dollari che inizialmente aveva avuto a disposizione per aiutare
66mila famiglie a riparare le loro case danneggiate. «Nelle nostre casse non ci sono più
fondi. Decine di migliaia di palestinesi non hanno un tetto e noi non possiamo assisterli.
Erano stati assicurati 5,4 miliardi dollari alla conferenza del Cairo ma praticamente nulla
ha raggiunto Gaza sino ad oggi. Questo è doloroso e inaccettabile», ha avvertito un
portavoce dell’Unrwa. La ricostruzione non è mai cominciata e la vita di 100 mila sfollati
palestinesi resta un inferno, anche per la mancanza di energia. Occorreranno ancora mesi
per poter rimettere in funzione l’unica centrale della Striscia colpita dall’esercito israeliano.
Al momento la maggior parte della gente di Gaza ha elettricità per non più di 4–5 ore al
giorno. E nelle scorse settimane il freddo ha ucciso almeno tre bambini e un adulto.
Le Nazioni Unite peraltro fanno i conti con l’asfissiante sistema di controlli che hanno
avallato per garantire l’ingresso dei materiali a Gaza sulla base delle restrizioni dettate da
Israele. Da settembre a oggi rari convogli di autocarri carichi di cemento hanno fatto
ingresso nella Striscia. E la mancanza dei materiali non potrà certo essere risolta con il
sostituto del cemento che ha ideato l’ingegnere Imad al Khalidi di Gaza, anche per
abbattere i costi. Un sacco di cemento, quando disponibile, costa 150 skekel (34 euro),
quello ideato da al Khalidi – di fatto il terreno stesso della Striscia con potassio, magnesio,
ossidi metallici, calcare e sabbia, più calce macinata e una piccola quantità di gesso — 27
shekel (6 euro). Pochi però si fidano di questi “mattoni organici”, come li chiama
l’inventore.
A Gaza di fatto non girano più soldi. E’ fermo quasi tutto dalla scorsa estate. I pochi
apparati produttivi esistenti sono stati distrutti o danneggiati in gran parte dagli attacchi
aerei e dall’artiglieria israeliana. E rimetterli in moto non sarà impresa facile. “Margine
Produttivo” ha trascinato l’economia palestinese in recessione per la prima volta dal 2006.
Mentre nel 2014 la Cisgiordania ha visto un’espansione del 4,5%, Gaza al contrario ha
fatto segnare un –15%, secondo gli ultimi dati del Fondo Monetario Internazionale. Nel
2015 si prevede una lieve ripresa ma molto dipenderà dalla capacità dell’Anp di potere
versare gli stipendi ai suoi dipendenti e, naturalmente, anche agli “esodati” di Gaza. E se
in Cisgiordania la disoccupazione ufficiale si aggirerà intorno al 19%, nella Striscia sarà
del 41%, tenendo ben presente che la percentuale reale di chi non ha un lavoro è molto
più alta.
In questo contesto i più deboli – ossia le donne e i bambini già tra le vittime principali della
guerra — sono tra i più esposti alla precarietà estrema. A cominciare dalle vedove, donne
rimaste sole a prendersi cura dei figli, spesso piccoli. Per molte di esse, senza soldi e
senza casa, l’unica soluzione è seguire la tradizione, ossia sposare un fratello o un cugino
del marito ucciso dai bombardamenti. Ibtisan, 22 anni di Shujayea, il sobborgo orientale di
Gaza city martellato per settimane dalle forze armate israeliane, vive con i due figli
superstiti e il padre anziano tra le macerie, in ciò che resta della casa dove hanno trovato
la morte il marito e un figlio di 8 anni. «Hassan e Tareq (il marito e il figlio,ndr) non fecero
in tempo a lasciare la casa quando cominciarono a cadere le bombe» ricorda la giovane
donna «abbiamo vissuto per settimane in una scuola, ora siamo tornati qui, nella nostra
casa, anche se è in parte distrutta. La notte con mio padre e i bambini andiamo ancora in
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quella scuola, per ripararci dal freddo». Nel futuro di Ibtisam c’è una sola certezza,
un’unica garanzia. «Sposerò mio cognato» ci dice «ha già una moglie ma si è detto
disposto ad accogliermi assieme ai bambini e a mio padre. Per me è la salvezza».
del 04/02/15, pag. 19
Critiche all’emiro, oscurata in 24 ore la nuova
tv araba
Stop all’emittente finanziata da Al Waleed dopo l’intervista che
accusava il sovrano del Bahrein
«Si sente il bisogno di una tv indipendente e imparziale», aveva dichiarato Jamal
Khashoggi, noto giornalista saudita progressista. «Saremo a sinistra di Al Arabiya e a
destra di Al Jazeera »: disse al Corriere due anni fa, a proposito del lancio imminente della
nuova rete Al Arab pensata soprattutto per un pubblico saudita. E il lancio c’è stato,
domenica scorsa, grazie ai soldi del principe Al Waleed bin Talal (uno degli uomini più
ricchi del mondo, con investimenti in Citigroup, Twitter, Apple, Time Warner, News Corp).
Come quartier generale è stato scelto il Bahrein, proprio per avere maggiore libertà
rispetto all’Arabia Saudita.
Il risultato però è stato imbarazzante. Dopo nemmeno 24 ore, Al Arab è stata già costretta
a sospendere le trasmissioni. Lo stop è arrivato poco dopo un’intervista con un membro
dell’opposizione sciita in Bahrein, Khalil Al Marzooq, il quale ha criticato in diretta la
monarchia sunnita dello staterello del Golfo per avere appena strappato la cittadinanza a
72 persone accusandole di terrorismo: una ventina, a suo dire, si sono davvero unite
all’Isis in Iraq e in Siria, ma gli altri 50 sarebbero giornalisti, religiosi, medici, attivisti. «Ci
sono dei tribunali? C’è una magistratura? Oppure ci sono solo decisioni politiche?»,
lamentava il politico sciita in tv.
Dopo quelle parole, Al Arab non ha più trasmesso altro che spot pubblicitari. «Problemi
tecnici e amministrativi»: la spiegazione ufficiale. «Torneremo presto, inshallah». Ma il
giornale locale Akhbar Al-Khaleej scrive che Al Arab ha «violato le norme comuni ai Paesi
del Golfo»: un editorialista si definisce «attonito» per la decisione di dare spazio ad un
politico «estremista». Insomma, ha toccato un tasto dolente per il Bahrein (e la regione): il
rapporto sunniti-sciiti. Il Paese, alleato degli Stati Uniti (ospita la Quinta Flotta), ha una
popolazione per lo più sciita ma è governato dalla dinastia sunnita degli Al Khalifa ed è in
subbuglio sin dalle proteste del 2011. La rivolta è stata soffocata con l’aiuto dei sauditi,
che mandarono i carri armati, ma la spaccatura interna non ha fatto che aumentare. Anche
il partito Al Wefaq che, a differenza di altri gruppi sciiti non chiede il rovesciamento degli Al
Khalifa ma vuole una monarchia costituzionale, è stato accusato di complicità con l’Iran. Il
suo leader, lo sceicco Ali Salman, è in carcere in attesa di processo per tentato colpo di
Stato.
Impossibile che Al Waleed, amico degli Al Khalifa, non fosse al corrente della prima
intervista. E dunque c’è chi crede che la stessa famiglia reale del Bahrein sia divisa sui
limiti da imporre alla libertà di espressione, mentre intanto gli oppositori sauditi ipotizzano
che le pressioni siano venute da Riad (il che indicherebbe una posizione più dura del
nuovo re). Comunque sia, Al Arab ha appena sperimentato che i conservatori, temendo
che la minima libertà dei media porterà a sovvertire l’ordine, non sono disposti a stare a
guardare.
Viviana Mazza
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del 04/02/15, pag. 20
Francia, assalto al centro ebraico
Due soldati feriti a colpi di coltello
E un’azienda di Parigi mette un annuncio per la ricerca di personale
«non ebreo»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Il colonnello Jean-Pierre Bedu ha potuto
rivedere con calma le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza e ha raccontato
nei dettagli l’aggressione all’Afp: intorno alle 14 di ieri, nel pieno centro di Nizza,
all’ingresso del palazzo che ospita il concistoro ebraico e Radio Chalom, «un individuo si è
avvicinato ai militari lasciando cadere un sacchetto di plastica davanti a loro, per
distogliere l’attenzione. Ha estratto dalla manica un coltello e ha puntato direttamente al
volto del primo soldato, forse perché si è accorto che era protetto da un giubbotto
antiproiettili. Il militare è rimasto ferito al viso in modo piuttosto grave, ha un taglio molto
profondo a livello dello zigomo. Il secondo soldato ha schivato molti colpi ed è stato ferito
abbastanza gravemente a un braccio. Il terzo militare ha immobilizzato l’individuo
gettandolo a terra nei secondi immediatamente successivi».
L’individuo, racconta ancora il colonnello, aveva con sé due coltelli, e quello che ha usato
aveva una lama di almeno 20 centimetri. Così si è svolto il nuovo attacco, sul quale indaga
la Procura antiterrorismo, a quasi un mese dagli attentati di Parigi. L’autore ha trent’anni,
ha origini maliane e si chiama Moussa Coulibaly. Il cognome è lo stesso di Amédy
Coulibaly, il terrorista islamico che il 9 gennaio ha ucciso quattro ebrei nell’assalto al
supermercato kosher di Vincennes. Sembra che tra i due non ci sia legame di parentela
(Coulibaly è un nome comune in Mali). Secondo la radio Europe 1 , l’uomo avrebbe
gridato «Je suis 100% Coulibaly», ma manca una conferma ufficiale.
Come nel caso dei terroristi di Parigi, anche Moussa Coulibaly era controllato dai servizi
segreti. Pregiudicato per furto e violenze, nel dicembre scorso è stato notato fare del
proselitismo islamico nella sua palestra a Mantes-la-Ville, alla periferia di Parigi. Alla fine di
gennaio ha lasciato la capitale, il 28 gennaio si è presentato all’aeroporto di Ajaccio, in
Corsica, e ha preso un volo solo andata per Istanbul, in Turchia, abituale porta di ingresso
dei jihadisti diretti in Siria. La polizia di frontiera francese ha avvertito i servizi che hanno
avvisato le autorità turche: all’arrivo a Istanbul Moussa Coulibaly è stato rimesso subito su
un aereo verso la Francia. Qui è stato interrogato e lasciato libero. Ieri l’aggressione.
I tre militari attaccati fanno parte dei circa 10 mila soldati che dopo i fatti di Parigi sono stati
dispiegati su tutto il territorio nazionale a difesa dei «siti sensibili». Appartenenti al 54°
reggimento di Hyères, avevano il compito di proteggere il concistoro di Nizza e la radio
della comunità ebraica. Poco prima di attaccarli, Moussa Coulibaly è stato fermato da un
controllore sul tram di Nizza, e multato perché senza biglietto. Era in compagnia di un
uomo originario del Ciad e con passaporto canadese, che più tardi è stato arrestato e che
potrebbe essere un complice.
Secondo il presidente del concistoro di Francia, Joël Mergui, «è evidente che gli ultimi
attentati non sono serviti di lezione e ancora meno di avvertimento agli estremisti, che
continuano a prendersela con la comunità ebraica». Pochi giorni fa il Crif (Consiglio delle
istituzioni ebraiche di Francia) ha diffuso cifre inquietanti: 851 atti antisemiti registrati nel
2014 contro 423 nel 2013, ossia il doppio. Ieri Sos Racisme ha presentato denuncia contro
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un’azienda di Parigi che nell’annuncio di ricerca personale ha messo tra i requisiti «se
possibile non ebreo».
Stefano Montefiori
Del 4/02/2015, pag. 11
L’intervista
Parla il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis “Non chiediamo
favori, ma soltanto di mettere sul tavolo le esigenze di ognuno e di
sederci tutti dalla stessa parte”
“La Grecia è già fallita dal 2010 e oggi non c’è
alcuna ripresa non serve a nessuno
affondarci”
ETTORE LIVINI
EUGENIO OCCORSIO
Eccolo, Yanis Varoufakis, l’uomo che terrorizza la Germania, l’Europa, addirittura il mondo
a sentire il cancelliere dello Scacchiere George Osborne. Sorridente, meno scarmigliato
del solito, il ministro delle Finanze di Tsipras si siede in una saletta dell’ambasciata greca
ed espone con calma il piano per liberare Atene dal giogo del debito. Non senza una
premessa: «Ragazzi, non vi dimenticate che siamo al governo da dieci giorni, non
abbiamo neanche ancora giurato. Volete darci un po’ di tempo per prendere le misure? Io,
poi, sono in politica da tre settimane, finora ho fatto il professore».
Ministro, cosa chiedete all’Europa?
«Prima di tutto, non abbiamo intrapreso questo tour di capitali (Varofuakis incontra oggi
Draghi e domani Schauble, ndr) per chiedere favori a nessuno, ma per stabilire un
programma di lavoro comune sereno e razionale, in cui le esigenze di tutti i protagonisti
sono correttamente sul tavolo. Dobbiamo tutti sedere dallo stesso lato del tavolo, non
schierati uno contro un altro. Lo dirò anche a Schauble, che non conosco personalmente
ma di cui ho apprezzato molte pubblicazioni, pervase di spirito costruttivo e genuinamente
europeista ».
Chiederete la cancellazione del debito, anche parziale?
«No. Dividiamo il debito, 300 miliardi, in tre parti. Quella verso la Bce sarà saldata per
intero e nei termini, ma la prima scadenza di 3,5 miliardi è il 20 luglio. Per le altre tranche,
Fmi e Paesi, proponiamo la sostituzione con nuovi bond a interessi di mercato, oggi molto
bassi, con una clausola: cominceremo la restituzione per intero quando si sarà riavviata in
Grecia una solida crescita. Possiamo farlo senza mancare il pareggio di bilancio e
finanziando al contempo iniziative di sviluppo purché ci si liberi dall’onere degli interessi.
Anche con l’Fmi abbiamo avviato il negoziato: non vedo perché non debba accettare una
dilazione come fa sempre in casi del genere, almeno a fine anno (i primi prestiti scadono il
15 marzo per 1,9 miliardi e il 15 giugno per altrettanti, ndr). Guardate che il link
restituzione- crescita era previsto già negli accordi del 2010, solo che si basava su
presupposti sballati. È vero che la congiuntura è andata in modo imprevisto: come diceva
Galbraith “le previsioni economiche servono per rivalutare gli astrologi”».
Qual è la vostra roadmap?
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«Quattro capitoli: 1. Profonde riforme interne per rendere la nostra economia sostenibile;
2. Ristrutturazione del debito come dicevo nel presupposto che oggi l’indebitamento è
insostenibile malgrado ci sia chi mette in giro voci contrarie; 3. Fissazione di una serie di
obiettivi realistici da non mancare assolutamente; 4. Riforma del metodo di governo
dell’Europa perché il problema non è la Grecia ma la gestione complessiva dell’eurozona,
che è concepita male e non potrà mai funzionare. Si è visto come tutto è franato di fronte
alla crisi finanziaria importata dall’America nel 2008. Il governo Tsipras è stato eletto con
un mandato semplice: sollevate in Europa il problema della sostenibilità delle attuali
politiche dell’euro. Cosa fa una banca quando un cliente va in difficoltà? Si siede al tavolo,
discute e il più delle volte gli assegna qualche ulteriore fondo, con raziocinio, perché
questo completi i suoi progetti e torni in bonis. Si chiama incentive compatibility . Un
fallimento totale non è nell’interesse di nessuno».
Da questo viaggio per capitali, al momento ha riportato sensazioni che autorizzano
all’ottimismo?
«Sì, io sono ottimista che il problema sarà risolto. Anche l’altro giorno nella comunità
finanziaria britannica ho trovato riscontri favorevoli, a parte che hanno capito benissimo
quali erano i nostri problemi pur essendo così distanti. Erano stupiti che un radicale di
sinistra avesse stilato un piano degno di un bankrupt lawyer. Ma la Grecia, diciamolo
chiaro, è fallita dal 2010. Non c’è nessuna ripresa, chi vuole farlo intendere dice il falso.
Proprio per questo c’è bisogno di misure eccezionali».
Fra pochi giorni sarebbe in calendario l’ultima tranche di finanziamenti della
vituperata Troika. Li accetterete?
«No, sui 7 miliardi previsti ne prenderemo solo 1,9 perché sono soldi nostri, i profitti che la
Bce ha incassato da certi bond acquistati nel soccorso del 2010. Per favore, le diciamo,
restituiteli. Per il resto la nostra richiesta è: sospendiamo qualsiasi operazione fino a
giugno. Chiamiamolo periodo ponte. Intanto riflettiamo sulle misure da prendere per una
soluzione stabile. È interesse non solo nostro ma di Italia, Francia, l’Olanda che ha un
problema di debito privato, e così via».
Per elaborare le strategie con un nuovo spirito è sempre valida la vostra proposta
per una conferenza sul debiti?
«Certo, ma mi sembra che abbia poco seguito. Eppure ci vorrebbe una nuova Bretton
Woods: del resto i disastri che quella conferenza affrontò non sono diversi dalla crisi
attuale».
Del 4/02/2015, pag. 13
Il caso
La Banca centrale europea sarebbe la prima ad abbandonare ma
secondo l’Handelsblatt anche il Fondo monetario ritiene ormai conclusa
l’esperienza a tre. Resterebbe solo la Ue. Ecco gli errori del loro capo ad
Atene, Poul Thomsen
Addio Troika, Bce e Fmi pronti a sfilarsi
Juncker: “Criteri e uomini più democratici”
ETTORE LIVINI
ROMA .
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Il trio dell’Apocalisse (copyright dell’ex ministro delle finanze Giorgos Papacostantinou) e il
suo leader indiscusso — Mr. Blue Eye, al secolo il danese Poul Thomsen, targato Fmi —
sono arrivati forse al capolinea. «Gli uomini della Troika non dovranno più mettere piede
ad Atene — li ha minacciati la sera della vittoria alle elezioni il premier greco Alexis
Tsipras — Sono un organo non democratico e non eletto con cui non vogliamo più
trattare». Sembrava una boutade. Una minaccia da buttare sul tavolo dei negoziati per
alzare il prezzo con i falchi del nord. Invece no: dopo essere sfuggiti alla furia di 50 disabili
in carrozzella che protestavano per i tagli al welfare nascondendosi in una palestra in
piazza Syntagma e dopo aver affrontato a testa alta la pioggia di monetine dei disoccupati
ellenici, gli odiatissimi (sotto il Partenone) funzionari di Ue, Bce e Fmi stanno per cadere
sotto i colpi del fuoco amico. «Dobbiamo ripensare il modello delle ispezioni in Grecia —
aveva buttato lì a luglio il presidente della Commissione Jean Claude Juncker —
Riorganizzandole con criteri e uomini più democratici e legittimi». E ieri Juncker si è detto
“sorpreso” dalle reazioni alla sua proposta di superamento della Troika. «La Troika non è
prevista dai trattati europei» gli ha fatto eco lunedì scorso il ministro alle finanze
transalpino Michel Sapin. Wolfgang Schauble ha provato a tracciare la linea Maginot:
«Atene non ci può ricattare — ha minacciato — La triade Bce-Ue-Fmi fa parte delle intese
firmate dalla Grecia». Nemmeno il muro di Berlino però tiene più. E l’epitaffio per gli
ispettori planati sull’Egeo nel 2010 per monitorare le riforme del paese e dare l’ok alle
tranche di prestiti è arrivato direttamente dalla Germania con l’ Handelsblatt che ha scritto
ieri quello che, in fondo, pensano in molti: «La Troika nella sua versione attuale non
funziona più, la Bce studia la possibilità di uscirne e anche l’Fmi vorrebbe farlo». É l’ora di
mandarla in pensione. Regalando ad Alexis Tsipras il primo punto nella lunga e difficile
battaglia per salvare il suo paese dal crac.
Parlare di Thomsen e dei suoi due soci (il tedesco Mathias Morse e l’austriaco Klaus
Masuch) a un greco è come sventolare un drappo rosso sotto il naso di un toro di pessimo
umore. “Professorini”, li ha etichettati ironico un uomo mite come l’ex-premier George
Papandreou. «Tecnici arroganti e irresponsabili che non ne hanno azzeccata una», ha
detto tranchant l’ex ministro del Lavoro Louka Kasteli, protagonista di una memorabile
scena isterica con tanto di piatti e bicchieri in frantumi quando i tre hanno fatto le pulci a
una sua presentazione in power point. Opinione condivisa (in peggio) dai cittadini comuni.
Per un motivo semplice: i tre “supercommissari” hanno fatto il bello e cattivo tempo per
cinque anni. Distribuendo voti (quasi sempre insufficienze) a destra e manca, affidando ai
ministri compiti a casa sempre più complicati. E accendendo il semaforo rosso o verde alle
tranche di aiuti con criteri spesso poco comprensibili ai più.
L’unico problema è che la loro medicina fatta di rigore e tagli lacrime e sangue ha
ammazzato il cavallo. Come ha ammesso nel 2014, dopo un lustro di lezioni ex cathedra
dalla sua suite di lusso all’hotel Grande Bretagne, lo stesso Thomsen: «Scusate — ha
detto in una tesissima conferenza stampa — i nostri calcoli erano sbagliati. Abbiamo usato
moltiplicatori scorretti. Non avevamo previsto che l’austerità avrebbe abbattuto i consumi e
mandato a picco il Pil. E avremmo dovuto ristrutturare i debiti molto prima (quando a
pagare sarebbero state le banche, ndr)». Un mea culpa durato poco, visto che il giorno
dopo il cerbero danese («guadagna 240mila euro l’anno, 15 volte un operaio greco», si
lamenta la stampa locale) ha ripreso a distribuire bacchettate urbi et orbi.
Nessuno si stupisce dunque se la Troika ad Atene è diventata una sorta di feticcio del
male. Il primo scalpo che pretende da Tsipras la gente per strada. Gli occhi cerulei e i
capelli scarmigliati di Thomsen — promosso ora a responsabile europeo dell’Fmi — sono
l’incubo di mezzo paese. Le addette delle pulizie del ministero delle finanze, appena
raggiunte da una lettera di licenziamento benedetta dall’algido tecnocrate del Fondo,
l’hanno inseguito per i corridoi del dicastero, obbligandolo a darsi alla fuga alla chetichella
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dalle cantine. Una sera — vuole la vulgata — è stato salvato dalla polizia quando un
gruppetto di disoccupati l’ha sorpreso in un ristorante due stelle Michelin della capitale
mentre gustava un piatto di foie gras, accompagnato da altri manicaretti di “cucina
molecolare”. La rabbia della pancia della Grecia ha dettato la linea. E ora politica ed
economisti pentiti si accodano. «I programmi sbagliati della Troika sono i veri responsabili
della situazione in cui è precipitato il paese» sostiene Joseph Stigliz. A Bruxelles,
sottotraccia per non irritare Schauble, il dopo-Troika è già iniziato, sotto forma di una
commissione di esperti Ue da inviare sotto l’Acropoli con frequenze (e atteggiamenti)
meno invasivi. La Grecia di Tsipras volta pagina. Gli ultimi dei “Troikani”, come li chiamano
qui, devono fare le valigie. Nel nuovo capitolo, si spera a lieto fine, non c’è più posto per
Thomsen & C.
Del 4/02/2015, pag. 17
Serbia-Croazia
Il Tribunale Onu che giudica le controversie tra Stati
si è pronunciato sugli eccidi e la pulizia etnica del ’91 e del ’95, dopo un
processo durato 15 anni. Belgrado e Zagabria si augurano
reciprocamente un nuovo inizio
“Vukovar e Krajina non fu genocidio” la Corte
dell’Aja archivia la guerra
ADRIANO SOFRI
LA CORTE Internazionale di Giustizia ha pronunciato ieri, dopo un processo durato oltre
quindici anni, il suo verdetto: né la Serbia né la Croazia hanno commesso, l’una ai danni
dell’altra, nel corso della guerra tra il 1991 e il 1995, il crimine di genocidio. L’accusa era
stata mossa nel 1999 dal governo croato, avendo per oggetto soprattutto la distruzione di
Vukovar; la Serbia aveva a sua volta denunciato la Croazia nel 2010, evocando la
cacciata dei serbi della Krajina nella cosiddetta “Operazione Tempesta” che mise fine alla
guerra. La sentenza dà un’interpretazione decisamente restrittiva del crimine di genocidio:
nelle parole del presidente slovacco Peter Tomka, «atti di pulizia etnica possono far parte
di un piano genocida, ma solo se c’è l’intenzione di distruggere fisicamente il gruppo che
ne è bersaglio». La decisione è stata presa con una maggioranza di 15 voti a 2 per la
denuncia croata; all’unanimità (dunque anche il giudice serbo) per quella di Belgrado.
Prima di valutare la sentenza, è bene districarsi in un ingorgo istituzionale. All’Aja hanno
sede ben tre tribunali internazionali. La Corte di Giustizia esiste dal 1945, è il tribunale
mondiale delle Nazioni Unite, ed è competente per le vertenze fra gli Stati: perciò ha
giudicato del caso fra Croazia e Serbia. La Corte Penale, in funzione dal 2002, è incaricata
di giudicare gli individui colpevoli di gravi crimini internazionali che gli Stati non sanno o
non vogliono perseguire (non vi aderiscono, fra altri, Stati Uniti, Russia e Cina). Il
Tribunale Penale per l’ex-Jugoslavia, istituito dall’Onu nel 1993, è competente per
genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, commessi da persone nei conflitti di
Croazia, Bosnia Erzegovina, Kosovo e Macedonia. Quest’ultima ha raggiunto la sua
scadenza, salvo completare i processi a Ratko Mladic e Radovan Karadzic, per cui è
attesa la sentenza a mesi. Questa corte ha emesso nel 2004 condanne per genocidio
contro imputati serbo-bosniaci del massacro di Srebrenica, luglio 1995: alcune di queste
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condanne (all’ergastolo, che è il massimo della pena) sono state confermate in appello
venerdì scorso.
Dunque la sentenza di ieri non riguarda Srebrenica (8 mila assassinati in quella che l’Onu
aveva dichiarato Zona protetta, ammucchiati in fosse comuni per cancellarne le tracce: fu
genocidio). La Serbia, secondo la Corte, fu colpevole “solo” per non aver impedito che si
compisse.
La sentenza di ieri — salomonica? Ma di un Salomone che ha tagliato in due il bambino —
era probabilmente inevitabile di fronte a una fattispecie di reato come il genocidio che,
sempre più evocato nel linguaggio comune a descrivere gli orrori, è sempre meno definito
tecnicamente, e ancor meno osservato. Infatti il problema col genocidio non è solo la
definizione sfuggente, nella qualità e nella quantità, ma anche l’obbligo per la comunità
internazionale di intervenire ad arrestarlo. Srebrenica, dove i caschi blu olandesi che
dovevano garantire la sicurezza dei rifugiati furono complici o inerti, fu un esempio
domestico, europeo, sulla scala delle migliaia, di quello che un anno prima era avvenuto in
Ruanda sulla scala del milione. Nel caso della vertenza Croazia-Serbia, è trascorso quasi
un quarto di secolo dai fatti, e quindici anni di processo, e il tempo ha lavorato a rendere
quasi imbarazzante la sentenza cui i denuncianti avevano puntato.
La Croazia è membro dell’Ue dal 2013, la Serbia è in coda per essere ammessa. Il mese
scorso sono ricomincia- ti i voli tra Zagabria e Belgrado. I rispettivi governi hanno
commentato ieri augurandosi reciprocamente, e sia pure a denti ancora stretti, la ratifica di
un nuovo inizio. Non so se una benintenzionata convenienza politica abbia ispirato i giudici
dell’Aja nel negare che si fosse trattato di genocidio, pur ribadendo la gravità dei crimini
mutuamente commessi. Da un tribunale internazionale ci si deve aspettare che renda
giustizia, prima degli inviti al risarcimento e alla riconciliazione che pure ha voluto
esprimere. Soprattutto perché ogni volta che si maneggia il reato di genocidio, a posteriori,
com’è inevitabile per i tribunali, si influisce sul modo in cui i genocidi vengono maneggiati
da altre autorità nel momento in cui di nuovo avvengono. Nel nord dell’Iraq la
persecuzione degli yazidi da parte del cosiddetto Stato Islamico è un caso di genocidio
come nessun manuale potrebbe più esattamente descrivere, e oggi a Dohuk, muovendo
dai racconti dei rifugiati e delle ragazze sfuggite fortunosamente al rapimento e alle
violenze, un tribunale ad hoc curdo composto di un procuratore e un giudice si è insediato
in un ufficetto immaginando che all’Aja qualcuno li aiuti a non dissipare memoria e
documenti di un’atrocità tuttora in corso — ne riparleremo.
Resta un’osservazione: il termine di genocidio risale al 1944, coniato da Raphael Lemkin,
giurista ebreo polacco che si ricordava dell’Armenia 1915 e aveva davanti l’abisso
spalancato della Shoah. Occorreva una parola nuova che almeno alludesse al di più che
era chiamata a nominare. Nel corso del tempo, la disputa sul genocidio — in Cambogia, in
Sudan... — ha via via, per un involontario paradosso, ottenuto di attenuare la gravità degli
eventi di cui si tratta: Vukovar incenerita, i malati braccati nell’ospedale, le pulizie etniche,
gli stupri etnici, le torture, le deportazioni di milioni, gli almeno centomila morti
ammazzati... ma non è stato genocidio, grazie al cielo.
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INTERNI
del 04/02/15, pag. 1/15
La scommessa del Colle
Norma Rangeri
Chi vorrebbe un Presidente dai caratteri forti è rimasto deluso. Chi auspica un Capo dello
stato interventista non si faccia illusioni. Chi crede che possa far ombra a Renzi si può
mettere l’anima in pace. Ma chi voleva ascoltare un perfetto interprete del ruolo di garante
della Costituzione come chi sperava di ritrovare una lettura fedele del carattere sociale
della nostra Carta fondamentale è stato accontentato. E hanno avuto soddisfazione quanti
scommettevano di avere sul Colle più alto un politico sensibile alla natura parlamentare
della nostra democrazia, contro le scorciatoie populiste e decisioniste dei premier passati
e presenti.
Tra i tanti aspetti che l’ingresso improvviso sulla scena politica di Sergio Mattarella ci
presenta, uno è forse predominante: la chiarezza. Perché, con una biografia che ne fa
fede, lui crede che la via maestra per difendere la nostra Costituzione significhi
innanzitutto applicarla nei suoi principi fondamentali. E benvengano le riforme di cui c’è
bisogno, ma solo se, e solo quelle, capaci di guarire le ferite che «la crisi ha inferto al
tessuto sociale», «aumentando le «ingiustizie», creando «nuove povertà», producendo
«emarginazione e solitudine». Una crisi che ha acutizzato le divisioni e reso «l’unità
difficile, fragile, lontana», una crisi che non rispetta il cuore, i fondamenti della nostra
repubblica: il diritto allo studio, al lavoro, a essere curati, a ripudiare la guerra e
promuovere la pace, a godere di un’informazione autonoma e plurale, a tutelare la libertà
e la sicurezza delle donne.
E’ un elenco lungo, insistito, preciso, ineludibile di quelle “speranze” e “difficoltà” del paese
che già il nuovo Presidente della Repubblica aveva indicato nella breve frase di saluto
pronunciata nel salone della Consulta subito dopo la sua elezione.
Quelle speranze e difficoltà che Sergio Mattarella, davanti al parlamento, è tornato a
indicare con parole molto semplici e dunque inequivocabili. Come quelle riferite al dovere
di ciascuno di concorrere «con lealtà» alle spese della comunità nazionale. Un passaggio,
tuttavia, stridente se accostato con la presenza del grande evasore Berlusconi nei saloni
del Quirinale, ospite di una giornata solenne, felice di aver così riconquistato una
immeritata onorabilità. Perché se il Patto del Nazareno era stato affossato proprio
dall’elezione di Mattarella, ieri ha ripreso vigore con l’apparire del pregiudicato: una
presenza indigesta per quei milioni di cittadini che pagano le tasse, specialmente alla luce
del provvedimento, noto come il “decreto del 3%”, a favore degli evasori che il governo si
accinge a riproporre. Mentre il Presidente della Repubblica annoverava con parole
appunto semplici e inequivocabili, tutti i problemi sociali e politici che abbiamo di fronte,
non ultimo il terrorismo internazionale, la platea gremita applaudiva ripetutamente,
irrefrenabilmente come se gli ammonimenti pronunciati da Mattarella non fossero
principalmente rivolti proprio a tutti i parlamentari. Per certi versi sembrava di assistere alla
replica della rielezione di Napolitano, quando alle sue parole sferzanti rispondeva l’isterico
applausometro di deputati e senatori principale oggetto della durissima reprimenda. Del
resto lo sappiamo, in politica, rifugio dell’ipocrisia, si fa buon viso a cattivo gioco.
Ma la traduzione della Costituzione nella vita quotidiana, l’accento messo sulle priorità
sociali non ha affatto significato eludere i temi politici e istituzionali più spinosi. Il ruolo di
arbitro del Presidente nel processo delle riforme istituzionali gli piace, «è un’immagine
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efficace», però sappia, il premier Renzi, che un garante, un arbitro non potrà accettare la
«deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo». In altre parole basta con il
governo che fa le leggi con i decreti e basta con il parlamento ridotto a ruolo di passacarte.
E «i giocatori lo aiutino con la loro correttezza».
Naturalmente per accorciare le distanze, per colmare il profondo fossato che divide gli
eletti dagli elettori bisogna nominare la crisi della rappresentanza, la debolezza dei corpi
intermedi che Renzi si è fatto vanto di aver «spianato» a cominciare dai sindacati. Né
Mattarella sottovaluta la necessità di un cambiamento della politica, che in parte, dice, è
già avvenuto. Non li nomina ma tutti capiscono che si riferisce ai giovani dei 5Stelle che
applaudono e apprezzano. Così come è stato apprezzato dai leghisti il riferimento alla
Resistenza.
Un particolare in più va annotato. Molte volte abbiamo sentito roboanti frasi di circostanza
su mafia e corruzione. Questa volta le parole hanno avuto un sapore diverso, di verità
perché ascoltate da un uomo che mentre le pronunciava probabilmente aveva davanti
l’immagine del fratello ucciso dai sicari di Cosa Nostra agli ordini dei grandi boss di
Palermo. E ogni tanto un po’ di verità basta a respirare un’aria migliore. Non penso che il
nuovo Presidente sia un cavaliere senza macchia e senza paura. E altri commenti che
pubblichiamo offrono diversi spunti di riflessione sulle posizioni di Mattarella. Ma il discorso
inaugurale del neopresidente merita rispetto e attenzione. Se le nobili parole pronunciate
ieri si trasformeranno in azioni mirate a sostenere i diritti sociali e civili dei cittadini, se
riuscirà a interpretare le difficoltà di milioni di italiani lo vedremo presto.
del 04/02/15, pag. 1/15
Presidente, l’articolo 11
Tommaso Di Francesco
Mattarella. Il rifiuto della guerra non resti lettera morta
Davvero quello di ieri in Parlamento del presidente Sergio Mattarella è stato un discorso
non retorico d’investitura. Così come del resto, il giorno prima, il gesto di straordinaria
rilevanza: appena nominato presidente, «c’è Stato» a rendere omaggio alle Fosse
ardeatine, il luogo testimone della violenza dell’occupazione nazista, della vergogna del
fascismo, della volontà di ribellione e riscatto della Resistenza. E soprattutto simbolo nella
capitale d’Italia della tragedia sanguinosa rappresentata dalla guerra.
Che, nella Seconda guerra mondiale, ha prodotto un cimitero di 50milioni di morti, lo
sterminio della Shoah, e che si è conclusa con le «pacifiste» atomiche di Hiroshima e
Nagasaki.
Nell’asciutto e preciso intervento rivolto dal Parlamento agli italiani, una affermazione è
apparsa subito chiara risuonando come un monito: la garanzia più forte della nostra
Costituzione consiste nella sua applicazione, «nel viverla ogni giorno». E garantire la
Costituzione, significa tra l’altro «ripudiare la guerra e promuovere la pace»: eccolo
l’articolo 11 nel suo primo enunciato. Dichiarazione che, nello stile di chi dichiara di essere
attento al quotidiano, alle difficoltà reali dei «concittadini», è sembrato tutt’altro che
retorica. Soprattutto rivendicata nella sede istituzionale più alta, dopo tanti silenzi e
ipocrisie.
Ma nel seguito delle sue parole e nell’accoglienza tra i parlamentari, molte ambiguità sulla
questione della guerra rimangono. Sia nell’affermazione: «…A livello internazionale la
meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri
militari in tante missioni, deve consolidarsi con un’azione di ricostruzione politica, sociale e
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culturale senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi». Sia nel ringraziamento
«…alle forze armate, sempre più strumento di pace ed elemento essensiale della nostra
politica estera e di sicurezza…». In quale crisi — nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan o in
Libia -, l’uso della forza e della guerra «umanitaria» con la presenza interventista dei nostri
soldati ha aiutato a risolvere quei conflitti e non ha invece incancrenito la situazione, anche
con la co-responsabilità in stragi con tante, troppe vittime civili e fughe di milioni di
disperati?
Perché tutto, nel discorso del Presidente Mattarella — sia quello in Parlamento che dopo
la visita alle Fosse ardeatine -, viene inscritto comunque nella necessità di rispondere al
«terrorismo internazionale» e ai «predicatori di odio» che insidiano la nostra sicurezza e i
nostri valori. Senza interrogarsi mai se l’uso della forza militare, vale a dire della guerra,
abbia fin qui aiutato a fermare il terrorismo e non piuttosto a seminare maggiore odio. Non
è forse l’uso della guerra a pregiudicare la pace e perfino gli sforzi di pace degli organismi
internazionali? Visto il modo in cui è stata presa la decisione di partecipare a molti conflitti,
contro e oltre la volontà dell’Onu. E ancora, come si rifiuta la guerra se le Forze armate
vengono promosse al rango di «elemento essenziale della politica estera» che invece
dovrebbe essere propria della diplomazia, di fatto inesistente in Italia e nell’Unione
europea? Se dopo l’89 e la Guerra fredda, si è aperta ricorda Mattarella, una stagione
nuova in Europa, che ci stanno a fare 100 piloti italiani di cacciabombardieri nei Paesi
baltici al seguito della strategia di allargamento a est della Nato, pericolosamente al
confine della Russia? Davvero questo aiuterà la conclusione della crisi ucraina o al
contrario l’approfondirà verso un confronto pre-’89?
E tutto questo quanto ci costa, visti i magri bilanci tagliati per via della crisi? Perché, se
proprio non vogliamo ripetere la frase a noi cara del Presidente Sandro Pertini, «Si aprano
i granai si chiudano gli arsenali di armi», almeno osserviamo che dai dati ufficiali di Nato e
Sipri, l’attuale spesa militare dell’Italia si aggira tra 50 e 70 milioni di euro al giorno. Al
giorno. Senza dimenticare che gli F-35 dal costo miliardario, sono strumento d’offesa non
di difesa.
Eppure l’articolo 11 della Costituzione italiana rifiuta la guerra proprio «come mezzo di
risoluzione delle crisi internazionali». Senza malinterpretare il secondo comma dell’articolo
(che mette a disposizione risorse per soddisfare le richieste degli organismi internazionali
come l’Onu), come fosse un’autorizzazione a fare la guerra, magari aggettivata con
«umanitaria». Ma come può la seconda parte di un articolato costituzionale fondativo
contraddire e negare la prima parte? Altrimenti, che costituzione sarebbe. Pensate se l’
articolo 1 che fonda l’Italia sul lavoro, dichiarasse nella sua seconda riga invece fondativa
la disoccupazione. La guerra è esplicitamente «rifiutata». Purtroppo di questo rifiuto si è
fatto uso e abuso, e vale la pena ricordare che l’avvio della fine della leva militare
promosso dal ministro della difesa Mattarella, non ha decretato la fine della partecipazione
italiana alle guerre ma il contrario: a partire dal 1999, quando Mattarella era vice-premier,
è cominciata una nuova stagione della Nato che, con la guerra di raid aerei sulla ex
Jugoslavia, si è trasformata da patto di difesa in trattato offensivo, pronto all’intervento
militare. Quel conflitto è diventato il modello di altre avventure belliche come in Iraq,
Afghanistan, Libia, Siria» e via dicendo.
Così, alla fine davvero è suonata appropriata la standing ovation di tutto il Parlamento
appena Mattarella ha nominato i «due marò». Certo, concordiamo anche noi che due anni
e mezzo di detenzione senza processo sono insopportabili, in India e sotto ogni
giurisdizione. Ma come dimenticare che questa drammatica vicenda è nella scia della
scellerata decisione bipartisan del Parlamento che ha autorizzato i militari dello Stato
italiano a fare da scorta a navigli privati in difesa dei «pirati»; così indiscriminata e poco
mirata che abbiamo sparato, uccidendo due dimenticati pescatori indiani, in un’area, le
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coste del Kerala, dove la pirateria non c’è. Soprattutto Mattarella ha fatto bene a
ringraziare i tanti militari morti nell’adempimento del loro dovere. Quei tanti marò di cui
nessuno parla, malati terminali o morti per l’uranio impoverito.
Ora se la presidenza Mattarella «promuoverà la pace», sarà anche il Presidente dei
pacifisti. E ci aiuterà a tirare fuori lo scheletro della guerra dall’armadio delle democrazie
occidentali.
Del 4/02/2015, pag. 2
LE TAPPE
Il nuovo stile di Mattarella la politica della
voce bassa “Sarò un arbitro imparziale”
I richiami alle riforme, alla Resistenza e alla crisi economica Gli applausi
bipartisan, anche dal M5S. In tribuna la famiglia
CONCITA DE GREGORIO
AL PRINCIPIO quasi non si sente, tanto bassa è la voce. Dopo anni di urla l’orecchio della
politica non è più tarato ai sussurri. Bisogna fare ancora più silenzio per sentire Sergio
Mattarella che giura da Presidente. Un silenzio senza brusio, senza fruscio di fogli né
frugare di borse, senza ticchettio di tastiere. I deputati si fanno cenno l’un l’altro, in aula,
con le mani: piano, fate più piano. Ci sono ancora molti banchi vuoti tra i seggi di Forza
Italia e del Movimento Cinque stelle quando alle 9.59, con un minuto di anticipo, sotto un
gran pavese di bandiere tricolore il neo Presidente rivolge il suo “rispettoso saluto”
all’assemblea. Sarà un discorso di 30 minuti esatti. Semplice sottovoce limpido. Scritto, sui
nove fogli che tiene in mano, quasi come fosse non un testo ma un indice. Una frase di
quattro parole, a capo. Una riga, a capo. Riga bianca. Un sommario, un elenco. Un
abbecedario di compiti, indicazioni, persone e temi: l’Italia, in sintesi. La sua Italia. «Non
hai dimenticato nessuno», gli dirà all’orecchio la presidente della Camera Laura Boldrini
mentre ancora corre l’applauso finale.
Questo deve fare, in effetti, un presidente della Repubblica nel discorso di insediamento:
correre nel solco dei suoi predecessori e però dare un’impronta, un’indicazione personale,
un carattere. Non bisogna dimenticare nulla - il Sud, la crisi, le forze armate, le donne, la
salute, i giovani, i disabili – ma intanto aggiungere qualcosa di proprio.
In Mattarella è il tono mormorato, da principio, poi subito l’uso di vocaboli desueti – la
democrazia che si deve “inverare”, farsi vera – poi i ricordi privati e il pantheon degli eroi Falcone e Borsellino insieme al bambino di due anni, Stefano Tachè, morto nell’attacco
alla Sinagoga di Roma dell’82. Nell’insieme l’uso ricorrente del noi, prima persona plurale.
L’unità, la comunità, la condivisione. Noi, una parola «così fragile», dice, e tanto spesso –
negli anni del fracasso - derisa. Poi la richiesta di aiuto: io sarò arbitro imparziale ma voi, i
giocatori, dovete aiutarmi. Non giocare: con la vostra correttezza aiutare. Cambio di clima,
cambio di passo. Anche Maroni e Zaia smettono di ridere, lassù in tribuna. Persino Ignazio
La Russa un paio di volte almeno si alza in piedi. Anche i Cinque stelle, che nel frattempo
hanno riempito i banchi, applaudono intermittenti per quanto non sempre all’unisono: non
avendo il tempo di consultare la base on line devono, qui, decidere da soli come regolarsi.
Prove di libero arbitrio, un’esperienza. La fenomenologia degli applausi non ha paragoni
con i precedenti discorsi presidenziali per numero e frequenza. Quarantadue applausi in
30 minuti, nove dei quali in piedi, sono una ginnastica indefessa, quasi un rito liberatorio.
Si direbbero, al principio, applausi a prescindere. Il primo scatta sui diritti e servizi sociali
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fondamentali, il tema è l’emarginazione e la solitudine. A partire da qui non gli lasciano
finire una frase. Comunità straniere, applauso, perde il terzo foglio e non sa come
continuare, applauso di incoraggiamento, giovani e donne applauso, riforme imminenti,
applauso Nazareno, dialettica parlamentare, applauso, legalità, più breve applauso, libertà
di diritti nella sfera affettiva, applauso a braccia tese di Ivan Scalfarotto seduto proprio
sotto di lui. Imparzialità dell’arbitro, applauso in piedi, come di chi avvezzo a vedersi
rubare la palla senta, in campo, una specie di commozione nuova. Sulla Resistenza, sul
Papa, sulla mafia e sui suoi eroi, sul bambino ebreo «bambino italiano» si alzano in piedi
tutti. Sui marò solo la destra al principio – poi la sinistra, infine anche il governo. Minaccia
globale del terrorismo internazionale, passaggio lungo e assai insistito, applauso
preoccupato di chi teme di non sapere tutto ciò che altri in alto sanno. Sui volti, infine, la
galleria di volti della “vita di tutti i giorni”: i bambini i giovani gli anziani gli imprenditori i
giovani le donne, chi dona chi non si arrende chi lotta. La comunità. Noi. Applauso finale
lungo, con Bossi che va a congratularsi di persona con Renzi ed Alfano nel frattempo già
tornati amici, già visti in aula ridere e scherzare. Orizzonte 2018, niente paura. Tutti
scendono dai palchi molto di buonumo- re. Due cardinali in porpora, il vicario di Roma
Agostino Vallini assai ridente. La famiglia Mattarella coi nipoti che postano le foto di casa
su Facebook. Franco Marini, la volta scorsa presidente mancato, di grande buonumore:
«Le cose sono cambiate molto in questi due anni eh?, si sono fatte più fluide. Sono molto
felice, ringrazio Iddio per la mia sorte e per quella del Paese». La tradizione cattolico
democratica è salva comunque. Sono appena le dieci e mezza del mattino. Scatta adesso
il rituale scenografico fitto di una selva di simboli: la Flaminia decappottabile i 36 corazzieri
a cavallo i 21 colpi di cannone, l’Altare della Patria il Milite ignoto, frecce in cielo uniformi di
ogni genere a terra lungo il cammino fino al Quirinale. Le 1200 stanze che attendono
l’inquilino Mattarella e il suo nuovo più breve discorso, qui. Con Berlusconi venuto, da lui
invitato, a battere sulle spalle di Nichi Vendola a trattare da uomo Rosi Bindi e a dire con
mimica inequivoca che tutto quel che è successo a centrodestra è successo perché lui
non c’era, era a Cesano Boscone costretto ai lavori sociali e si sa che «quando il gatto non
c’è», eccetera. Salvini ha lasciato la sedia vuota, dice che non sapeva di essere stato
invitato. Bersani non è stato invitato affatto, invece: «Ero incaricato prima, scaricato ora»,
ride ma si vede che gli dispiace. Pietro Grasso presidente del Senato può ricordare qui
quando 35 anni fa a Palermo conobbe Mattarella, era il 1980 anno dell’omicidio di
Piersanti, «eravamo ragazzi, chi avrebbe immaginato che ci saremmo ritrovati in questi
ruoli in questo salone». Commozione breve, sicilianità, antiche intese. La sosta al buffet è
di pochi minuti. Tra poche ore Renzi vede Alexis Tsipras, il vento greco è già qui. Si parla,
lungo il brindisi, di imminenti sostituzioni al governo. Maurizio Lupi, ministro di Cielle non in
simpatia col nuovo Presidente, non era seduto oggi ai banchi con Renzi: forse un indizio.
Non ci sarà un rimpasto, solo qualche reintegro. Anna Finocchiaro forse: certo una donna,
o più d’una. Poca cosa, comunque. Dettagli, d’ora in poi. Il più è fatto.
Del 4/02/2015, pag. 4
“Contro crisi e sfiducia dobbiamo riavvicinare
i cittadini alla politica”
Nel discorso di Mattarella forte richiamo alla Costituzione e al “volto
della Repubblica” visto dal popolo Poi la lotta al terrorismo e l’unità
UMBERTO ROSSO
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Troppe ferite sociali, perché la crisi ha «aumentato le ingiustizie», generato «nuove
povertà ». Ma vanno affrontate «confermando» il «patto sociale» con i cittadini sancito
dalla Costituzione. La Carta «deve vivere giorno per giorno», ovvero dare a tutti «pari
dignità sociale ». Il suo ruolo da presidente della Repubblica? «Arbitro che deve essere e
sarà imparziale, ma i giocatori aiutino con la loro correttezza». Le riforme sono da portare
a compimento «per rendere più adeguata la nostra democrazia». La lotta contro la mafia e
la corruzione. La difesa dell’Europa. E infine il «volto della Repubblica», come lo chiama: è
quello che la gente si ritrova davanti quotidianamente negli ospedali, nei municipi, nelle
scuole, o nei musei. Con un augurio: che nelle istituzioni si possano riflettere con fiducia
«il volto spensierato dei bambini, degli anziani soli o quello di chi ha dovuto chiudere
l’impresa ». Trenta minuti di discorso, interrotto da 42 applausi, ai quali si sono anche uniti
settori dei grillini e di Forza Italia. Un solo filo conduttore: ridare speranza al Paese, per
rendere più credibili le istituzioni. Sergio Mattarella si è presentato così in Parlamento e
agli italiani.
L’UNITA’
«Avverto pienamente — dichiara subito il nuovo capo dello Stato — la responsabilità del
compito che mi è stato affidato». La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale
innanzitutto. Che non è soltanto quella territoriale ma anche quella costituita «dall’insieme
delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini». Questa unità «rischia di essere
difficile, fragile, lontana».
LE FERITE SOCIALI
La lunga crisi, «prolungatasi oltre ogni limite », ha inferto colpi duri al tessuto sociale e ha
messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Le angosce si annidano in tante
famiglie. Il lavoro che manca, specialmente nel Mezzogiorno, l’esclusione, le difficoltà che
si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali. «Sono questi i punti
dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo».
LA CRESCITA
Mattarella chiede un’inversione di tendenza. «Al consolidamento finanziario si accompagni
una robusta iniziativa di crescita». Nel corso del semestre di presidenza italiana della Ue il
go- verno «ha opportunamente perseguito questa strategia». Nel nostro paese, dai
giovani, alle imprese, alla pubblica amministrazione «esistono energie che attendono
soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente».
LE NOVITA’ IN PARLAMENTO
La crisi di rappresentanza, riconosce il capo dello Stato, ha reso «deboli o inefficaci» gli
strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza,
nuove modalità di espressione. «Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e
di cambiamento. La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari». Che
portano in aula «le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la
capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare». Parole molto
applaudite, soprattutto dai grillini. Ma Mattarella avverte: «Non dimenticare mai che in
queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari».
LE RIFORME
È «significativo», nota il presidente della Repubblica, che il suo giuramento avvenga
proprio mentre «sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della
seconda parte della Costituzione. Pur «senza entrare nel merito delle singole soluzioni che
competono al Parlamento », esprime l’auspicio che «questo percorso sia portato a
compimento». Poi, arriva il richiamo: «Vi è la necessità di superare la logica della deroga
costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo
con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare».
Attenzione insomma a troppi decreti legge e provvedimenti omnibus che scavalcano le
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Camere. Altra priorità: l’approvazione di una nuova legge elettorale, «tema sul quale è
impegnato il Parlamento».
FAR VIVERE LA COSTITUZIONE
Mattarella sarà un arbitro nella «puntuale applicazione delle regole» sancite dalla Carta.
Ma la garanzia più forte per la nostra Costituzione «consiste nella sua applicazione, nel
viverla giorno per giorno». E spiega come, punto per punto. Garantire la Costituzione
significa garantire il diritto allo studio. Significa riconoscere il diritto al lavoro. Significa
promuovere la cultura. Significa amare i nostri tesori artistici. Significa ripudiare la guerra.
Vuol dire garantire i diritti dei malati. Non evadere le tasse. Garantire la Costituzione
significa ottenere giustizia in tempi rapidi. Fare in modo che le donne non debbano avere
paura di violenze. Una lunga lista. E su ogni punto, standing ovation.
LOTTA AL TERRORISMO
Un nome per tutti, quasi dimenticato: Stefano Taché, il bambino di due anni ucciso
nell’attacco alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. «Era un nostro bambino, un
bambino italiano». Quella contro il terrorismo fondamentalista è una sfida terribile,
affrontarla nell’ottica dello scontro tra religioni «sarebbe un grave errore».
del 04/02/15, pag. 7
Processo legislativo. «Superare la logica
delle deroghe»
Il monito sui decreti, che oggi pesano sul 42% delle leggi
Ha impiegato parole eleganti e toni soft, com’è nel suo stile: «Vi è anche la necessità di
superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo,
bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta
dialettica parlamentare». Professore di diritto parlamentare e due volte ministro per i
rapporti col Parlamento, Sergio Mattarella ben conosce sia il lato costituzionale che quello
politico di formazione delle leggi. E sa bene come da tempo la Carta, in particolare in
questi anni di emergenza, sia stata spesso bypassata. Così ieri ha richiamato all’ordine,
con un riferimento inequivocabile all’uso dei decreti legge. Cavallo di battaglia del resto dei
due suoi predecessori, Ciampi e soprattutto Napolitano.
Proprio Napolitano non ha mancato negli ultimi anni di mettere in guardia dall’uso fuori
ordinanza dei decreti. Lo ha fatto nei confronti dei Governi per il ricorso eccessivo ai Dl,
ma con risultati modesti, anche perché l’emergenza dei conti pubblici ha rappresentato
una ragione per la deroga dall’art. 77 della Costituzione. Rilievi e ammonizioni in piena
regola rivolte anche verso le Camere per l’approvazione di emendamenti a valanga,
spesso non omogenei col testo originario, vagoncini aggiunti anche per favori ad hoc.
Ammonizione che valevano anche per i Governi di circostanza, a loro volta tentati di
aggiungere cammin facendo necessità o presunte necessità sopraggiunte. L’ultimo e più
clamoroso caso, a fine 2013, il cosiddetto “salva Roma”. Un risultato intanto è che in
Parlamento c'è più attenzione sull’omogeneità dei Dl approvati. Anche perché la Consulta
– con Mattarella – ha detto che le norme non omogenee sono in fumus di
incostituzionalità.
Necessità e urgenza prima di tutto, insomma, devono valere per i decreti. Mentre il
richiamo di Mattarella al rispetto delle garanzie procedurali e alla corretta dialettica
parlamentare, sono un invito esplicito a lasciare il tempo alle due Camere, dunque a
deputati e senatori, di poter esaminare i decreti possibilmente entrambe per 30 giorni. E
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non di essere soltanto notai, visto che da tempo l’approvazione avviene sempre più col
ricorso al voto di fiducia. Il peso dei decreti su tutte le leggi approvate del resto è in
crescita: in questa legislatura sono il 42%, quasi 2 al mese. Contro il 27% della legislatura
con Berlusconi prima e poi Monti premier, e il 28,6 di quella del Prodi bis.
A proposito di rispetto del dettato costituzionale, c'è poi un altro aspetto sui decreti legge
che il Quirinale potrebbe non trascurare. Dice infatti la Carta che i decreti vanno trasmessi
dal Governo al Parlamento lo stesso giorno del loro varo in Consiglio dei ministri. Prassi
ormai da tropo tempo desueta. Anche con Matteo Renzi: solo in un caso la Costituzione è
stata rispettata. La media del ritardo di invio alle Camere è di 9 giorni, con due casi
(terremoto in Emilia e commissari per le opere pubbliche) da record: il Parlamento ha
pazientato prima 24, poi 42 giorni. E il testo dei decreti chissà quante volte intanto è
cambiato. Altro che necessità e urgenza.
Del 4/02/2015, pag. 6
Renzi: “Non mi faccio ricattare l’Italicum non
si tocca più” Berlusconi: “Sì se ci
convincono”
Il premier avanti fino al 2018: niente verifiche o richieste dai partitini
L’Ncd? Nessuno lo conosce. La riforma del Senato slitta di una
settimana
GIOVANNA CASADIO
Non si rimette in discussione nulla di quanto pattuito. Quindi il Patto del Nazareno, che ha
portato all’approvazione dell’Italicum 2, la nuova legge elettorale, al Senato (che ora deve
passare in terza lettura alla Camera, essendo stata modificata) non ha margini di
cambiamento. È il messaggio di Renzi alla sinistra dem, ma soprattutto a Berlusconi. «La
legge elettorale non cambia più, abbiamo discusso, ora anche basta», premette il premier.
L’ex Cavaliere in un siparietto al Quirinale nel salone delle Feste dopo l’insediamento di
Mattarella, aveva dato a Renzi del «birichino», prima di avvertire: «Noi siamo sempre gli
stessi, abbiamo votato sì per amore di riforme ma da oggi voteremo sì solo a ciò che ci
convince». «Sei io sono un birichino, lui è un biricone...», replica il premier.
È lo sciame del malumore forzista, secondo il vice segretario Lorenzo Guerini, tessitore
per indole e per ruolo, che invita il centrodestra a «riannodare il filo del confronto e del
ragionamento, del dialogo con tutte le forze di maggioranza e di opposizione ». Ma Renzi
suona un’altra musica. Se qualcuno pensa a ricatti o a imboscate, sappia che quel tempo
è finito. «Voglio dire con forza - precisa in tv a “ Porta a porta” - che è finito il potere di
veto, in cui un singolo partito si metteva di traverso. Quella stagione è finita per tutti:
partitini, partitoni e partitucci». Con gli italiani si parla di cose concrete, non di sigle di
partito Ncd, o Sc, «esiste ancora Scelta civica? Io non trovo un cittadino che mi dice: scusi
presidente cosa farà Alleanza Popolare in Campania? Primo perché il 99% dei cittadini
non sa cos’è Alleanza Popolare». Su Passera che ha fatto un partito: «Gli italiani non ne
possono più di partiti che spuntano come funghi...». Bacchetta forte, il premier, gli stessi
alleati di governo. Ma si dice convinto che l’alleanza con Alfano andrà avanti fino al 2018,
senza verifiche di governo: «Le verifiche si fanno a scuola o si facevano nella Prima
Repubblica». Torna sul Patto per assicurare: «Berlusconi dovrebbe mettere il cappello
sulle riforme, perché a me non mi ricattano, con me sono cascati male. FI decida se le
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riforme sono una cosa buona o una schifezza, come dice Brunetta. Non sono un
contentino che danno a me, non ci sono clausole segrete nel Patto del Nazareno». E
tende la mano al M5Stelle. «Spero che questa volta si possa aprire un dialogo con i
5Stelle, che non dicano sempre di no, hanno applaudito...». Avanti sulla riforma
costituzionale, che slitta alla prossima settimana, su banche popolari, delega fiscale e
prestissimo anche sulle unioni civili. Infine un rospo di cui liberarsi: «Non è stato nessun
tradimento di un patto andare a Palazzo Chigi, se Letta fosse stato sereno sarebbe
rimasto presidente del Consiglio».
del 04/02/15, pag. 6
Rivalità e vecchi rancori Così la «ditta» degli
ex Ds si è tagliata fuori dai giochi
Maria Teresa Meli
ROMA Questa volta hanno fatto tutto da soli. È vero che erano giorni che il premier
andava dicendo: «Proporre un ex segretario dei Ds significherebbe aprire delle divisioni
nei gruppi parlamentari del Pd. Dobbiamo scansare queste lotte fratricide, li conosco bene
io... D’Alema contro Veltroni, Bersani contro Fassino...».
Ma Renzi non ha dovuto insistere più di tanto per non mandare un esponente della sinistra
al Quirinale e porre così fine a un’egemonia che era durata anni. È bastato un solo
colloquio. Quello che ha avuto proprio con un ex Ds, ovverosia Bersani. Il suo
predecessore alla segreteria pd non gli ha fatto nessun nome della ditta per il Quirinale.
Non quello di Veltroni, che pure, alla fine, avrebbe potuto avere il via libera da Berlusconi
grazie ai buoni uffici di Gianni Letta, e neanche quello di Piero Fassino. Ma nemmeno
quello di Anna Finocchiaro, alla quale l’ex Cavaliere ieri si è rivolto con queste parole:
«Facevamo il tifo per lei». Nessun nome di ex Ds è uscito dalla bocca di Bersani, che agli
ex compagni del partito che fu ha preferito Giuliano Amato e Sergio Mattarella, dando, di
fatto, il via libera definitivo all’operazione che Matteo Renzi aveva già in mente da qualche
tempo e che, in questo modo, ha potuto mandare in porto senza lacerazioni nel Pd.
È la prima volta da decenni che gli ex Ds perdono tutti i posti chiave. Non hanno più la
segreteria del partito, non la presidenza del Consiglio. E ora che Napolitano se ne è
andato e al suo posto è stato eletto Sergio Mattarella non hanno più nemmeno il Quirinale.
E mentre prima mantenevano almeno un ruolo dietro le quinte ormai non hanno neppure
quello. Il D’Alema «deus ex machina» è un ricordo di altri tempi. Per dirla con Franco
Marini, che ultimamente ama spesso ripetere questa frase: «Da quando non ci sono più i
Ds di un tempo non c’è più partita tra personalità come Renzi e, che ne so, un Cuperlo».
Secondo l’ex presidente del Senato la «cultura classica della sinistra avrebbe bisogno di
una rivisitazione, come minimo». Lo ha detto al «Messaggero» l’altro ieri. E non è l’unico a
pensarlo.
Già, perché a leccarsi le ferite per l’esito della partita quirinalizia non ci sono solo Alfano e
Berlusconi. Loro sono gli sconfitti conclamati. Gli ex Ds, invece, formalmente, hanno vinto
questa partita, ma, in realtà, hanno perso altro terreno e arrancano a fatica dietro un
segretario-premier la cui cultura è anni luce lontana dalla loro.
L’altro giorno, nell’aula di Montecitorio, mentre si votava per il capo dello Stato, i
democratici di rito ds venivano bonariamente presi in giro dai colleghi degli altri gruppi per
questa ragione. Ed Enzo Amendola, ex dalemiano, membro della segreteria dotato di una
buona dose di autoironia partenopea, commentava: «Tra un po’ in quanto ex ds mi
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metteranno in una teca». Sorridente anche lui, per una volta tanto, Enrico Letta, uno che
del premier ormai ha capito le mosse e le contromosse, scherzando si rivolgeva così ai
compagni di partito: «Eppure lo conoscevate». Come a dire: di che vi lamentate?
E in effetti gli ex Ds hanno ben poco da lamentarsi. Bastava che Bersani, Fassino,
D’Alema e Veltroni si vedessero tutti e quattro insieme per non far fallire (forse) la ditta. Ma
le avversioni reciproche hanno avuto la meglio. E ora, invece di assistere, come da
inossidabile copione, agli scontri tra ex Ds, si vedono guerreggiare gli ex Ppi: i fautori di
Mattarella, come Delrio, Guerini, Rughetti e Fioroni contro Franceschini e tutti gli altri ex
popolari che sostenevano invece Amato. I tempi sono veramente cambiati.
Del 4/02/2015, pag. 5
Ncd squassato, l’ira di Lupi
E metà partito vuole rompere
Andare col Pd o col centrodestra versione Salvini?
Ilario Lombardo
Scena di ieri. In capigruppo si sta definendo il calendario della Camera, quando Nunzia De
Girolamo chiede di dare priorità alla responsabilità civile dei magistrati. Il ministro Maria
Elena Boschi risponde: «Non c’è una scadenza e c’è la riforma costituzionale in sospeso».
Tradotto, la responsabilità civile dei magistrati può attendere. «Così non va» chiosa De
Girolamo. Gli alleati di governo sono in disaccordo su tutto, ultimamente.
Ncd è davanti a un bivio esistenziale: morire renziano o strappare. Sono ore complicate, e
i neocentristi tentano di uscire dall’angolo dove li ha costretti la mossa di Matteo Renzi sul
Quirinale. Niente veti o vertici di maggioranza vecchia maniera: ribadisce il premier, ben
consapevole che da qui in avanti ogni ddl, ogni decreto potrebbe trasformarsi in una mina.
Basta sentire i senatori di Ncd, agguerritissimi sulla legge che trasforma le banche
popolari in Spa. «Se non cambia non la votiamo»: Pippo Pagano, uno di quelli che acceso
dall’orgoglio siciliano aveva spinto per Mattarella sin dall’inizio, lo ha messo per iscritto in
un comunicato. Spedito direttamente a Renzi. «Corre, corre, ma ‘ndo corre senza voti…»
fa velenoso al premier Carlo Giovanardi che, come memento, stila l’elenco delle cose di
cui disfarsi: «Legge sulle banche, indottrinamento gender nelle scuole, riforma del lavoro».
Ecco il terreno minato. Vogliono un segnale, i neocentristi. Da Renzi, ma anche da
Angelino Alfano. Il leader resta dov’è, ma avrà un mandato condizionato per il governo.
Roberto Formigoni la mette così: «Facciamo una verifica. Renzi e Alfano annuncino il
programma della seconda fase della legislatura. Punto per punto». Il tagliando non
dovrebbe risparmiare nemmeno la compagine governativa di Ncd, secondo Formigoni:
«Sono gli stessi ministri scelti da Berlusconi. Ci farebbe bene cambiare un po’, forse». Ma
toccare Alfano potrebbe essere controproducente, lo indebolirebbe ulteriormente, dopo il
pasticcio del Quirinale. A nessuno è sfuggito che Maurizio Lupi ieri fosse l’unico ministro
non seduto tra i banchi del governo, mentre Alfano se la rideva con Renzi. In vista delle
regionali è al ministro dei Trasporti che starebbero pensando in tanti per guidare il partito.
Gaetano Quagliariello gli lascerebbe il posto di coordinatore, per coprire il ruolo di
capogruppo in Senato lasciato vacante da Maurizio Sacconi, che potrà così dedicarsi a
riempire di spine i decreti attuativi sul Jobs act.
C’è solo un’incognita: il premier guarderà a sinistra? Nell’agenda ha rimesso ius soli, diritti
civili, e quant’altro possa essere indigesto ai cattolici di Area Popolare. Mentre dagli ex 5
Stelle a Sel, dopo l’asse su Mattarella, si aspetta solo di essere lusingati ancora. Alfano
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deve imparare da Renzi, e giocare su più tavoli. Perché è tempo di fare i conti con se
stessi, e con la maturazione di un progetto che rischia di evaporare nell’irrilevanza.
Eppure ancora ieri, alla riunione dei coordinatori di Ncd, non è stata data la risposta alla
grande domanda che coinvolge le sette regioni prossime al voto: andare con il Pd o con il
centrodestra tendenza Salvini?
Del 4/02/2015, pag. 10
Renzi apre con cautela al progetto di Tsipras
“Insieme per la crescita” “Creditori, niente
paura”
Impegno di Atene: “Non creeremo più deficit”. Su le Borse Il premier
italiano: “Nessuna ristrutturazione del nostro debito”
ALBERTO D’ARGENIO
Aiuto e comprensione, non un appoggio incondizionato alla Grecia. La campagna europea
di Alexis Tsipras parte da Roma, prima capitale scelta dopo l’approdo a palazzo Maximos.
Il neo primo ministro greco, impegnato a risolvere il colossale problema del debito pubblico
di Atene, si presenta a Matteo Renzi. I due si prendono le misure, si studiano. Tsipras è
garbato, Renzi è cordiale ma cauto. C’è sintonia politica sulla necessità di cambiare
l’Europa, ma sulla questione greca l’Italia - terzo creditore di Atene - non si sbilancia. Pur
promettendo sostegno, rimanda a un negoziato collettivo a Bruxelles.
Renzi fa gli onori di casa, riconosce che «il risultato delle elezioni greche è un messaggio
di speranza». Il premier vede un alleato in Tsipras: «Anche se veniamo da esperienze e
famiglie politiche diverse, crediamo entrambi che si debba restituire alla politica la
possibilità di cambiare le cose », anche in Europa per svoltare dall’austerity a crescita e
solidarietà. Ma poi rimarca che non vanno d’accordo su tutto. Quindi promette «il massimo
supporto a Tsipras in tutte le sedi» e si dice certo «che ci siano le condizioni per trovare un
punto di intesa tra le autorità greche e le istituzioni europee ».
Tuttavia Renzi ricorda la necessità di mettere mano alle riforme e nel faccia a faccia con
Tsipras non scende nei dettagli del piano che la Grecia sta studiando per smantellare la
troika e rinegoziare gli impegni con l’Europa, che in questi anni ha salvato Atene versando
240 miliardi di euro. Renzi, anche in pubblico, non commenta il piano messo a punto dal
leader di Syriza e per trovare una soluzione al dramma ellenico rimanda al tavolo europeo:
«Facciamo il tifo e diamo il nostro supporto perché questa emergenza sia affrontata nelle
sedi proprie europee, serve un segnale di intelligenza da parte di tutti verso un diverso
approccio per le politiche economiche e uno sforzo di tutti per fare le riforme».
La posizione del premier italiano è questa dunque, «vi diamo una mano ma non vi diamo
ragione », riassumerà con i collaboratori in serata. Un atteggiamento studiato anche
durante la telefonata di domenica scorsa con Angela Merkel. D’Altra parte la Grecia deve
all’Italia 40 miliardi. «Non c’è nessun asse del Mediterraneo - rimarca il premier con i suoi la Grecia ha un problema specifico che deve risolvere in Europa ». Se poi Roma potrà
dare una mano per chiudere un accordo non si tirerà indietro, ma non parte da alleata o da
mediatrice tra Atene e Berlino.
Tsipras cerca di essere rassicurante, garantisce che «con il nuovo governo greco i cittadini
e i creditori europei non devono avere paura». Come dire, Atene non ha più velleità di
cancellare il debito e lasciare a bocca asciutta chi le ha prestato soldi per salvarla.
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«Vogliamo soluzioni di reciproco vantaggio », spiega, «proponiamo nuove idee senza
creare deficit o dover pagare nuovi prestiti, bensì per coprire i debiti già contratti ».
Atteggiamento morbido - si dice anche pronto ad «idee alternative » dei partner - che
viene premiato dai mercati, con la Borsa di Atene che chiude con un +11% e Milano a
+2,57%. Per il resto Tsipras, che oggi vede Hollande e poi il presidente della
Commissione Ue Jean Claude Juncker, conferma la linea politica che lo avvicina a Renzi:
«Io e Matteo parliamo la stessa lingua, quella della verità, siamo coetanei, entrambi
vogliamo cambiare l’Europa, servono coesione e della crescita al posto di paura e
incertezza». Su questi temi certamente i due lavoreranno a stretto contatto.
Chi scende nel dettaglio del piano greco sono invece Piercarlo Padoan e Yanis
Varoufakis. E anche Padoan è cauto, ascolta, non si sbilancia con il ministro delle finanze
greche che oggi vedrà Draghi, giovedì Schaeuble e infine l’11 febbraio sarà ascoltato dai
colleghi della moneta unica che hanno convocato un Eurogruppo straordinario proprio alla
vigilia del summit dei leader di giovedì prossimo. Il comunicato che Padoan pubblica dopo
il pranzo con Varoufakis è in sintonia con l’atteggiamento di Renzi: «È importante che la
Grecia si collochi su un sentiero di crescita con un programma di riforme, l’Unione è un
luogo dove solidarietà e responsabilità si esercitano congiuntamente, l’Eurogruppo e
l'Ecofin sono le sedi dove ciascuno stato membro può discutere i propri problemi».
Dunque anche al Tesoro, spiegano, la linea è di sostegno ad Atene, «ma non di
disponibilità ad assi, mediazioni o alleanze contro qualcuno». Una cautela che si spiega
anche con quanto Renzi deve affermare in serata nel salotto di Porta a Porta: «Il nostro
debito è sostenibile, rispettiamo gli impegni senza pensare ad alcuna manovra di
ristrutturazione del debito». Non solo Atene, così pensa il nostro governo, è un debitore,
ma fare alleanze troppo strette potrebbe gettare sospetti sulla nostra capacità di finanziare
il debito italiano.
del 04/02/15, pag. 4
Renzi tifa Tsipras (senza impegno)
Daniela Preziosi
Incontro a Palazzo Chigi. «Parliamo la stessa lingua», «Abbiamo la
stessa speranza». I due premier si intendono. Il greco rassicura: no a
nuove fratture nella Ue. L’italiano: le regole si rispettano. Oggi il leader
di Syriza vola a Bruxelles, domani a Parigi
«Alexis, il tuo arrivo per me è una benedizione. In Europa smetteranno di considerarmi un
pericoloso uomo di sinistra, in Italia smetteranno di considerami un pericoloso uomo di
destra. Forse». Quando arriva davanti ai cronisti — Palazzo Chigi, sala gremita, stampa
internazionale, schieramento di telecamere da grande evento — Matteo Renzi è in gran
forma, si piazza nel suo podio e ci scherza su («Vedete?, sono alla sinistra di Tsipras»),
chiede il Rocci (il vocabolario-istituzione per chi ha fatto il liceo classico), autoironizza sul
suo greco («So dire kalokagathòs», bello e buono) insomma renzeggia da grande
occasione. Ma anche Alexis Tsipras sfodera grandi sorrisi. L’incontro fra il presidente del
consiglio italiano e il primo ministro greco dura poco più di un’ora. Tsipras ha scelto di
iniziare dall’Italia il suo tour europeo che lo porta oggi a Bruxelles da Jean Claude Junker
e domani a Parigi da Francoise Holland per istruire la delicatissima trattativa del nuovo
governo greco con la commissione europea. Obiettivo: preparare il tavolo del consiglio del
12 febbraio– lì per la prima volta incontrerà Angela Merkel — poi quello dell’Eurogruppo il
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16 e l’Ecofin il 17. Il primo ministro greco deve rassicurare i paesi creditori e provare a
tirare quelli socialisti dalla sua parte. In questa prima missione si gioca tutto: a Atene deve
arrivare un messaggio di fiducia per chi ha appena messo il suo destino nelle mani di
questo quasi quarantenne — è di sei mesi più giovane di Renzi — e a Berlino e Bruxelles
deve arrivare l’immagine di un leader affidabile cui accordare la possibilità di non strozzare
il suo paese.
All’Italia, terzo creditore della Grecia, il successo di Tsipras porterebbe un dividendo di
flessibilità e una rinfrescata all’immagine interna dell’ex presidente dell’Unione che non ha
cambiato di una virgola i trattati. Per questo il tono fra i due è cordiale e il match finisce
win-win. Con reciproca soddisfazione.
Renzi lusinga il collega e lo iscrive al club dei telemachi vincenti: «Apparteniamo alla
stessa generazione di persone che fanno fatica a trovare lavoro», e nonostante le
provenienze politiche diverse, un ex popolare e un comunista, «abbiamo in comune l’idea
di restituire alla politica la possibilità di cambiare le cose». Gemella i due paesi: «L’Italia e
la Grecia sono le due superpotenze culturali del passato che devono diventare il
laboratorio per il futuro», sorvolando sulle ricette di segno opposto scritte nei programmi
dei due governi. Schiera — ma siamo sempre alle parole — l’Italia «a supporto della
«stessa grande speranza». L’incontro fra i due, conclude, «non è che l’inizio».
Tsipras gli risponde con lo stesso tono, anche lui la sa lunga: «Non è formale dire che
questo incontro è stato costruttivo. Non ho imparato l’italiano ma posso dire che parliamo
la stessa lingua, quella della verità». Ammette Renzi nel club del cambiamento: «I nostri
popoli hanno sofferto ingiustamente, c’è bisogno di una svolta per la crescita». Poi entra
nel merito. Il governo greco è «aperto ai suggerimenti dei partner europei su strade
alternative, purché si punti alla crescita», sottolinea. «L’Europa si trova davanti un crocevia
e la Grecia vuole contribuire al cambiamento politico». Il tono è rassicurante, il greco punta
a trovare un accordo perché «la rovinosa politica di austerità ha creato numerose
spaccature e noi non vogliamo crearne un altra tra nord e sud». E illustra i titoli della
proposte, che però sono state affrontate un’ora prima dai ministri economici Paoan e
Varoufakis: «Ci serve il tempo necessario a elaborare un progetto di ripresa economica a
medio termine che conterrà le necessarie riforme», invita «i cittadini e i creditori europei a
non aver paura», quelle di Syriza sono «nuove idee per trovare soluzioni di reciproco
vantaggio», semmai — ecco il messaggio — «ci sarebbe da avere paura se si persistesse
in questo vicolo cieco che ha portato a questo ingigantimento del debito con la necessità
di finanziarlo attraverso nuovi prestiti europei». Le politiche della troika hanno fatto
aumentare il debito greco «hanno fatto scappare investimenti invece di attirarli e creato
drammi sociali».
A questo punto Renzi, senza perdere il sorriso, precisa che però «non abbiamo discusso
nel merito delle singole proposte, che saranno portate nei tavoli delle decisioni». Di fondo
l’Italia conferma che «è necessario rispettare le regole». Ma «l’Italia sarà sempre
desiderosa di ascoltare, confrontarsi e condividere». Le regole vanno rispettate, insomma.
Ma Tsipras ha già risposto: «Noi proponiamo idee diverse proprio per rispettare gli obblighi
assunti, senza creare nuovo deficit e senza obbligare ad infinitum i contribuenti europei a
pagare per nuovi prestiti che servono a coprire i prestiti precedentemente contratti dalla
Grecia». Insomma le proposte greche convengono a tutti, creditori in cima. È un
linguaggio cifrato, ma ha ragione Tsipras a dire che i due leader parlano lo stesso
linguaggio.
Finale con doni, prima che il leader greco vada a incontrare la presidente della canera
Laura Boldrini e poi i ’suoi’ italiani della Brigata Kalimera: il leader greco ha giurato di non
mettersi la cravatta fino alla vittoria, Renzi gli regala una cravatta italiana, buon auspicio.
Da una busta griffata Feltrinelli a sua volta Tsipras tira fuori un cd di pizzica e taranta,
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musica pugliese, «musica della Magna Grecia», come dire: attenzione, c’è Grecia anche
in Italia.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 4/02/2015, pag. 23
Caso Magherini, carabinieri a processo
Firenze, per la morte dell’ex calciatore rinviati a giudizio quattro militari
e tre volontari della Croce rossa: “Omicidio colposo” Urla e lacrime in
aula. Il legale dell’Arma: “Ma non ci fu pestaggio”. Ilaria Cucchi:
“Commossa come se riguardasse me”
MICHELE BOCCI
«Via la divisa, in galera!». Le grida rimbombano nel corridoio seminterrato davanti all’aula
12 del palazzo di giustizia. Sono le 15.20 e il giudice Fabio Frangini ha appena deciso che
sette persone devono essere processate per la fine di Riccardo Magherini, morto la notte
tra il 2 e 3 marzo 2014. I rinviati a giudizio sono quattro carabinieri e tre volontari della
Croce Rossa, l’accusa è omicidio colposo. Per alcuni degli amici di “Riky” quella di ieri
pomeriggio è già una prima conquista, così sfogano la tensione urlando contro gli imputati
principali, cioè i militari. Non dura molto, giusto il tempo che finisca l’udienza e esca il
padre di Magherini, Guido. È in lacrime: «Calma, calma — dice mentre con la mano invita
tutti ad abbassare la voce — qui non c’è nessuna vittoria. Abbiamo perso Riccardo, non
sarà mai una vittoria».
Riccardo Magherini aveva quasi 40 anni quando è morto sul selciato di Borgo San
Frediano, nel quartiere dell’Oltrarno. Era un uomo forte, un ex calciatore, ha smesso di
respirare all’improvviso mentre veniva tenuto fermo dai carabinieri, con le mani sul torace
bloccate dalle manette, la faccia e il petto schiacciati a terra. «Aiuto, sto morendo...
muoio», sono state le sue ultime parole, registrate con il cellulare da alcuni testimoni
dell’arresto. Era fuori di sé, urlava, diceva che qualcuno voleva ucciderlo, entrava nei locali
in preda ad una crisi legata verosimilmente all’assunzione di cocaina. Secondo le accuse
la sua morte è stata causata proprio dall’intossicazione acuta di quella sostanza ma anche
da un “meccanismo asfittico”, come viene definito dal capo di imputazione. Secondo il
pubblico ministero Luigi Bocciolini l’arresto in strada con le manette è stato legittimo
perché Magherini appariva “violento e incontrollabile”. Ma i carabinieri sbagliarono a
tenerlo a terra per 20-25 minuti, schiacciandogli le scapole e le gambe. In quel mondo si
sarebbe creata una «situazione idonea a ridurre la dinamica respiratoria». Il 31 gennaio
dell’anno scorso il comando generale dell’Arma aveva inviato le istruzioni sugli arresti di
persone in stato di agitazione psicofisica per abuso di alcol e droga, ed escludevano
proprio di bloccare in quel modo i fermati. Ai volontari della Croce Rossa viene invece
contestato di non aver fatto valutazioni dei parametri vitali del fermato e di non aver in
qualche modo facilitato la sua respirazione. La difesa sostiene che i volontari furono tenuti
a distanza dai carabinieri.
I quattro militari che verranno processati l’11 giugno sono Stefano Castellano, 54 anni,
Davide Ascenzi, Agostino Della Porta e Vincenzo Corni, tutti di 37 anni. Solo l’ultimo è
anche accusato di percosse, per i calci che avrebbe sferrato a Riccardo quando era già a
terra. I tre volontari sono Maurizio Perini, Claudia Matta e Janeta Mitrea, di 49, 33 e 42
anni. «È cristallizzata la responsabilità colposa, quindi non ci sono stati pestaggi né
comportamenti dolosi — commenta Francesco Maresca, avvocato dei carabinieri —
Siamo sereni, gli imputati erano in aula e hanno accettato il rinvio a giudizio». Commossi i
parenti di Riccardo Magherini, anche loro all’udienza. «Faccio appello al presidente della
Repubblica perché lo Stato non si sporchi mai più le mani di sangue — dice il fratello
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Andrea — Speriamo che la legge si riveli davvero uguale per tutti». La moglie, Rosangela
Galdino, aggiunge: «Era un padre e un marito perfetto, ogni giorno il nostro bambino
chiede di lui. Questo processo lo facciamo per il nostro Brando». L’avvocato dei
Magherini, Fabio Anselmo, dice che il processo sarà molto difficile. È lo stesso legale di
parte civile delle famiglie di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e Stefano Cucchi. E fuori
dall’aula ieri c’era anche Ilaria Cucchi che è diventata amica dei Magherini. «Devono
essere forti — dice, anche lei commossa — Quello che si sente nelle aule giudiziarie può
essere duro. Durante il processo ascolteranno cose sbagliate, non vere su Riccardo. Sono
emozionata e commossa come se questa vicenda riguardasse me. Senza l’attenzione
mediatica questi casi finirebbero nel nulla. A noi sarebbe accaduto se non avessimo fatto
la scelta dolorosissima di pubblicare la foto del corpo martoriato di mio fratello». E alla fine
dell’udienza di ieri Andrea Magherini ha srotolato due grandi foto del volto del fratello da
morto, pieno di sangue.
Del 4/02/2015, pag. II RM
Tangenti, l’appello di Libera “Non lasciate
spolpare Roma denunciate corrotti e mafiosi”
LA GIORNATA
L’associazione di don Ciotti si rivolge ai dipendenti del Comune Gli impiegati:
“L’indagine è all’inizio, speriamo che non coinvolga innocenti ”
LORENZO D’ALBERGO
ALL’INDOMANI dell’operazione delle fiamme gialle arriva anche l’appello di Libera.
L’associazione antimafia di don Ciotti si rivolge direttamente ai cittadini, agli amministratori
e ai funzionari pubblici. «Mafie e corruzione stanno spolpando Roma — si legge nel
manifesto — non lasciamola finire così. Dobbiamo reagire subito. Ogni cittadino può fare
la propria parte. In tanti hanno visto. In pochi hanno parlato. Per costruire giustizia sociale
dobbiamo abbattere insieme il muro delle complicità e del silenzio. Ne va del futuro di
milioni di cittadini onesti che pagheranno per tutti. Aiutaci a liberare Roma dalle mafie e
dalla corruzione».
Quindi, l’invito a farsi avanti. «Scegli da che parte stare, anche solo come persona
informata dei fatti. L’ultima parola sia la nostra, non dei mafiosi, non dei corrotti.
Garantiamo riservatezza e accompagnamento per chi avrà il coraggio della denuncia»,
conclude l’appello Libera. L’associazione ha anche messo a disposizione un indirizzo mail
(romaliberaroma @gmail. com) per inviare segnalazioni o richieste di incontro. «Cittadini,
amministratori e imprenditori possono aiutare a far luce sul malaffare romano e avviare il
cambiamento scegliendo da che parte stare».
Intanto, nella sede dell’Eur del dipartimento all’Urbanistica a due passi dal Colosseo
quadrato, gli 82 dipendenti dell’unità sistemano i documenti nei faldoni da consegnare ai
finanzieri. «Da un lato — spiega uno dei colleghi degli arrestati — spero che sia tutto vero,
perché altrimenti quei due starebbero vivendo tutto quest’inferno da innocenti. Se poi
hanno sbagliato, vanno condannati. A patto che abbiano fatto veramente quello che si
legge sui giornali». Già, i giornali: «Li abbiamo letti — si accoda un altro dipendente — e
siamo rimasti schifati. È stato messo in cattiva luce un intero dipartimento, 700 impiegati e
la loro professionalità. Per un corrotto ci vanno di mezzo centinaia di onesti». «Qui ogni
anno rilasciamo più di 500 concessioni — spiega un’altra dipendente — senza contare gli
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accessi agli atti e le continue richieste della procura. Per un lavoro così complesso
servono serenità, certezze e garanzie».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 04/02/15, pag. 6
Le carceri italiane sempre più piene di
migranti
Eleonora Martini
Il rapporto Antigone. Mancano i servizi più elementari per una
popolazione variegata per culture e religioni: non solo i mediatori, ma
anche i luoghi di culto e gli alimenti adatti
Qualche settimana fa il tribunale di Asti ha condannato due agenti del carcere di Quarto
per aver picchiato un detenuto brasiliano convertito all’Islam perché aveva reagito agli
insulti rivolti da uno di loro a Maometto. Nessuna attenuante generica per la piccola
squadretta violenta perché, spiega il giudice nelle motivazioni, i due si sarebbero macchiati
di «vilipendio al Profeta della religione islamica» e di violazione dei diritti costituzionali. È
solo un episodio e per verificarne la veridicità dovremo attendere la sentenza definitiva.
Ma che in Italia la criminalizzazione dell’immigrato, soprattutto musulmano, abbia alterato
in modo significativo le percentuali etniche della popolazione penitenziaria e poi, una volta
riempite le carceri per un terzo di detenuti stranieri, si è finito per discriminarli in modo
strutturale con un sistema di regole penitenziarie nate negli anni ’70 per un modello a
misura di italiano, appare evidente scorrendo i dati e le denunce contenute nel rapporto
«Detenuti stranieri in Italia» presentato ieri a Roma dall’associazione Antigone e realizzato
con il sostegno di Open society foundation.
Se in media nelle carceri europee la percentuale di stranieri si ferma al 21% del milione e
737 mila detenuti, l’Italia si attesta quarta nella classifica con il suo 32,56% (circa 17.500
stranieri su 53.800), subito dopo la Svizzera (74,2% è straniero), l’Austria (46,75%) e il
Belgio (42,3%). Spiega Patrizio Gonnella presentando il volume, che «fino al 1996 la
quota di detenuti stranieri si mantiene piuttosto bassa», ma dopo l’entrata in vigore del
Trattato Unico sull’immigrazione e soprattutto dal 2002, con la legge Bossi-Fini,«si porta a
compimento il processo di etnicizzazione del diritto penale».
Dietro le sbarre ci sono soprattutto marocchini (16,9%), rumeni (16,2%), albanesi (14%) e
tunisini (11%); a fronte di 30.794 cattolici, 2.290 sono ortodossi e 5.786 musulmani. Il
livello di alfabetizzazione è molto basso, ma il dato accomuna italiani e stranieri. Nel
complesso, la maggior parte dei migranti è in carcere per reati minori, con condanne fino a
un anno per la metà di loro, mentre tra i condannati a oltre 20 anni gli stranieri sono “solo”
il 12%, contro l’88% dei nostri connazionali. Più alto invece è il tasso di immigrati in
custodia cautelare: il 28% di tutti coloro che subiscono la carcerazione preventiva. Anche i
dati sulle misure alternative al carcere dimostrano la minore fiducia sia dei magistrati di
sorveglianza che dei servizi sociali verso gli stranieri: questi rappresentano il 17% delle
persone che fruiscono di una misura alternativa, con una percentuale molto più bassa (14
punti in meno) rispetto agli stranieri che scontano la loro pena dietro le sbarre.
Una popolazione, quella dei detenuti stranieri che viene considerata una comunità
indifferenziata. Fa notare Gonnella che, malgrado dal 1975, anno della riforma
penitenziaria, la situazione sia profondamente cambiata, «oggi abbiamo ancora un
sistema di norme e un’organizzazione penitenziaria pensata per un detenuto italiano di
altri tempi, un detenuto che ormai non esiste più».
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Si pensi solo al fatto che i mediatori culturali che in carcere dovrebbero fungere da
traduttori sono talmente pochi (solo 379 in tutti i penitenziari italiani, ovvero 1,73 ogni 100
detenuti stranieri, molti dei quali lavorano come volontari; a Regina Coeli, per esempio,
sono quattro per 450 carcerati) da dover ricorrere, nella normale vita quotidiana e per le
pratiche burocratiche, al servizio on-line di Google.
E poi la mancanza di luoghi di culto per tutti, l’alimentazione indifferenziata, i colloqui
previsti solo de visu anziché per esempio via Skype, i corsi di formazione e l’avviamento al
lavoro pensati solo e soltanto a misura di cittadino italiano, e altro ancora.
«Tutta questa situazione comporta disagio — denuncia Antigone — e il disagio genera
conflitti e litigiosità. Il detenuto quindi per questo suo comportamento starà più giorni in
carcere, e ciò comporterà un conseguente aumento dei costi». La prevenzione del reato
parte da qui. «In questo — conclude Gonnella — lo Stato deve essere un esempio di
legalità». Peccato però che il nuovo presidente della Repubblica, a differenza del suo
predecessore, non abbia voluto ricordare, ieri nel suo discorso di insediamento, che la
civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri.
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SOCIETA’
del 04/02/15, pag. 1/27
Una nuova Città Studi nell’area Expo
Milano, il progetto della Statale: un polo per la scienza e la ricerca con
18 mila studenti
di Giangiacomo Schiavi
Una cittadella universitaria, un polo della ricerca avanzata e dell’informatica potrebbe
occupare l’area lasciata libera dall’Expo, con 18 mila studenti. Il progetto è allo studio del
consiglio di amministrazione della Statale. La nuova Città Studi prenderebbe il posto di
quella esistente nella parte est di Milano, dove si trovano le palazzine delle facoltà di
Fisica, Veterinaria, Agraria, Chimica, Scienze e Informatica.
C’è una novità sui terreni dell’Expo ed è una suggestione per Milano: una città
universitaria, un campus, un polo della ricerca avanzata e dell’informatica, potrebbe
occupare l’area lasciata libera dall’esposizione universale. Il progetto di fattibilità è allo
studio del consiglio di amministrazione della Statale: si parla in queste ore di una nuova
Città Studi, che prenderebbe il posto di quella esistente nella parte est di Milano, dove si
trovano le vecchie palazzine delle facoltà di Fisica, Veterinaria, Agraria, Chimica, Scienze
e Informatica.
Può essere una svolta per il dopo Expo, la prima concreta manifestazione di interesse per
un’area che terminato l’evento, se non si prende una decisione, rischia di diventare terreno
per topi. L’Università con il nuovo campus e il trasferimento di oltre 18 mila persone tra
studenti e professori, potrebbe creare un formidabile aggregato di scienza e ricerca, con
impianti sportivi, auditorium e residenze: una superficie complessiva di 200 mila metri
quadrati che lascerebbe lo spazio per altri interventi, come quello annunciato dal
presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca, che aveva parlato di creare sugli stessi
terreni una Silicon Valley per favorire lo sviluppo della piccola e media impresa e non
intaccherebbe il verde pubblico al quale è vincolata una parte consistente dell’area.
I costi dell’operazione devono ancora essere definiti, ma si valutano intorno ai
quattrocento milioni, una cifra sostenibile solo in parte con la vendita degli immobili di
proprietà dell’ateneo, che manterrebbe la sede storica di via Festa del Perdono. Una quota
consistente potrebbe essere chiesta alla Cassa Depositi e Prestiti e un altro anticipo alla
Bei, la Banca europea d’investimenti. Operazioni non facili che però hanno una solida
garanzia: gli studenti, la ricerca, i laboratori del futuro. C’è un altro scoglio da superare: il
costo d’ingresso fissato da Arexpo, la società che ha ricevuto l’incarico da Regione e
Comune di trovare uno sviluppatore. Oggi è fermo a 340 milioni. Decisamente alto, come
ha sostenuto uno degli ex proprietari di quei terreni, Marco Cabassi: «Li hanno pagati poco
più di centoventi milioni e hanno triplicato il prezzo di vendita, neanche il privato più scaltro
riuscirebbe a fare tanto...». Bisognerebbe passare per una svalutazione dell’investimento
fatto dalla Regione, in nome di un vantaggio futuro per Milano e la collettività, per rendere
meno ostico l’approccio all’area Expo. Così com’è, con quel «chip» d’ingresso, nessun
gruppo ha azzardato finora una qualche manifestazione d’interesse.
L’orientamento dell’Università sembra quello di procedere su una strada delineata in alcuni
incontri riservati: il campus è un’idea affascinante che svecchia di colpo l’immagine della
Statale e dei suoi ricercatori confinati in edifici vecchi e fatiscenti. A questo punto il rettore
dell’Università, Gianluca Vago, dovrà rinunciare al ruolo di consulente delle istituzioni
pubbliche per il dopo Expo: non si può essere proponenti e valutatori. Il suo ateneo gioca
una partita in proprio che impatta sui piani urbanistici della città e mette alla prova il
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delicato equilibrio fra le aree urbane e lo sviluppo di Milano, dentro e fuori dalle mura
cittadine, nella cosiddetta Area metropolitana.
L’idea di una nuova Città Studi, come valore aggiunto per Milano, si soppesa con più pro
che contro nei corridoi della Statale. A favore giocano i giovani, componente fondamentale
della voce di Expo 2015, «energia per la vita». I giovani che danno speranza e innescano
l’idea di futuro. Che sia un’università statale poi, solitamente bloccata da veti e burocrazia,
a dirci che Milano può pensare in grande, si può considerare un buon segno.
Del 4/02/2015, pag. 1-20
Gran Bretagna, voto storico via libera del
Parlamento ai bambini con tre genitori
La Chiesa: “Inaccettabile”
Si potrà integrare il Dna materno con quello di un’altra donna per
prevenire la trasmissione di malattie congenite
ENRICO FRANCESCHINI
Lui, la moglie e l’altra. Ma non c’entrano le relazioni extra-coniugali: si tratta di una
rivoluzione della medicina e dell’etica. La Gran Bretagna ha infatti imboccato la strada per
diventare il primo Paese al mondo che permette la creazione di bambini con tre genitori
biologici: il padre, la madre e — appunto — un’altra donna, una donatrice che offre una
porzione di Dna con cui sostituire quello, difettoso, della madre. L’obiettivo è prevenire una
varietà di malattie mitocondriali che possono avere effetti letali sul nascituro. E il materiale
di Dna sostituito rappresenta soltanto lo 0,1 per cento del totale. Ciononostante la
decisione ha già scatenato polemiche e proteste da parte di associazioni religiose
secondo cui viola principi morali, introducendo il concetto di bebè con un papà e due
mamme o più in generale di designer baby, bambini fatti su misura, sebbene in questo
caso soltanto per ragioni di salute. Come che sia, dopo un intenso dibattito politico e
scientifico, ieri la Camera dei Comuni ha approvato la nuova legge a grande maggioranza,
con 382 voti a favore provenienti da tutti i partiti e solo 128 contrari. Perché diventi
operativo, il provvedimento dovrà passare entro qualche mese anche alla Camera dei
Lord: in tal caso, probabilmente a partire dall’anno prossimo, nel Regno Unito potrebbe
nascere il primo bambino con tre genitori. Il metodo, sviluppato da una clinica di
Newcastle, permetterebbe a Sharon Bernardi, un’inglese di Sunderland che ha perso sette
figli a causa del disturbo mitocondriale, di avere finalmente un bambino sano, che a sua
volta trasmetterebbe ai propri figli un Dna privo di questo grave difetto congenito. «Sono
commossa, è un grande progresso medico», ha dichiarato la donna. Si calcola che
inizialmente circa 150 coppie all’anno potranno beneficiare della nuova tecnica, che
prevede l’unione in laboratorio dei gameti di padre e madre con l’apporto extra di Dna
mitocondriale ricavato da un’altra donna. In tutto, in questo Paese la donazione dei
mitocondri potrebbe aiutare in teoria circa 2.500 donne che presentano difetti genetici e
che possono trasmettere malattie quali diabete o distrofia muscolare.
«È un passo coraggioso, ma informato, prudente e sotto pieno controllo», ha detto durante
la discussione ai Comuni il ministro della Sanità Jane Ellison, «per molte coppie questa è
una luce alla fine di un lungo tunnel di dolore». Ma la parlamentare conservatrice Fiona
Bruce ammonisce che si tratta di un «passo senza ritorno, le cui conseguenze sono difficili
da prevedere». I proponenti dell’iniziativa hanno ripetutamente insistito che non si tratta di
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creare «bambini geneticamente modificati». Ma gruppi come Human Genetics Alert
sostengono che è l’inizio delle modifiche genetiche per bebè creati in laboratorio, in un
futuro in cui non si cercherà più soltanto di metterli al riparo da difetti genetici ereditari ma
li si potrà “disegnare” in laboratorio come vogliono i genitori. La Chiesa anglicana e
cattolica d’Inghilterra si oppongono alla legge, giudicandola pericolosa oltre che
inaccettabile dal punto di vista etico, perché comporta la distruzione dell’embrione della
donatrice. E qualcuno si domanda se i bambini nati con il nuovo metodo vorranno
conoscere, da grandi, la loro “seconda mamma”. Ma la maggior parte del Parlamento e
dell’opinione pubblica britannica appare favorevole.
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INFORMAZIONE
del 04/02/15, pag. 19
Travaglio direttore del «Fatto Quotidiano»
Marco Travaglio è il nuovo direttore del «Fatto Quotidiano». Lo ha reso noto con un
comunicato la Società Editoriale Il Fatto subito dopo la delibera di nomina del consiglio di
amministrazione. Marco Travaglio, 50 anni, giornalista e scrittore, già da un anno
condirettore del giornale, succede ad Antonio Padellaro alla guida del giornale dopo 5 anni
dalla sua nascita. L’assemblea degli azionisti ha inoltre nominato Antonio Padellaro,
all’unanimità, presidente della Società Editoriale il Fatto. Padellaro resta anche editorialista
del quotidiano.
Il comunicato dell’azienda sottolinea che l’amministratore delegato Cinzia Monteverdi,
insieme ai consiglieri Luca D'Aprile, Peter Gomez, Lucia Calvosa, Layla Pavone, Marco
Tarò, e alla presenza del collegio sindacale presieduto da Niccolò Abriani, hanno accolto
la proposta di nomina di Marco Travaglio presentata da Antonio Padellaro «che, con
grande forza e spirito propositivo per il futuro, resterà in forza al giornale non solo come
fondatore ma anche, e soprattutto, come editorialista».
I soci hanno ringraziato Antonio Padellaro «per l’insostituibile apporto che ha dato alla
nascita e allo sviluppo del giornale e per il prestigio e l'equilibrio con cui ha diretto la
testata in questi anni. Apporto fondamentale che proseguirà da oggi in poi nella sua nuova
veste». Il Fatto ha anche ringraziato Travaglio per aver accettato la direzione del giornale,
formulandogli i migliori auguri di buon lavoro.
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CULTURA E SCUOLA
del 04/02/15, pag. 12
Una e mille Berlinale
Cristina Piccino
Cinema. Inaugurazione domani con Nobody Wants the Night di Isabel
Coixet, ma il vero evento si preannuncia Une jeunesse allemande, il film
sulla Raf
Dei film italiani si è già detto: tre anni dopo (era il 2012) l’Orso d’oro ai fratelli Taviani per
Cesare deve morire, la Berlinale ha scommesso su una esordiente,Laura
Bispuri,scegliendo per il concorso il suo primo lungometraggio, La vergine giurata,
protagonista Alba Rohrwacher. Fuori concorso verrà proposto al pubblico internazionale il
capolavoro di Olmi Torneranno i prati (sezione Gala) mentre un altro giovane regista,
Francesco Clerici, fa parte della selezione del Forum con Il gesto delle mani. Non solo: ci
sono Cloro di Lamberto Sanfelice e Short Skin di Duccio Chiarini (entrambi in Generation)
ma anche Il segreto di Otello di Francesco Martinotti, «ritratto» affettuoso della vecchia
trattoria romana la cui storia si intreccia a quella del cinema italiano. Lì infatti si sono
seduti Scola, Maselli, Visconti, Antonioni e tanti altri che di Otello hanno fatto il loro punto
di incontro, scontro, chiacchierate e progetti per anni.
Con le sue decine di sale e l’imponente mercato il Festival tedesco che si apre domani
(fino al 15) è divenuto uno degli appuntamenti più importanti per l’industria cinematografica
mondiale. Non si tratta solo dei film in selezione ma, appunto, il mercato internazionale è il
luogo in cui tutti i festival, anche quelli più grandi, cominciano a tessere la trama di rapporti
indispensabili per le selezioni a venire — il che spiega l’assurdità che un festival come
quello di Roma, al quale tra l’altro è stato stanziato un ulteriore milione di euro di
finanziamento pubblico, arrivi a questa data senza una direzione (si dice che il nuovo
direttore verrà nominato la prossima settimana). Ovviamente il mercato è anche
fondamentale per coproduzioni, distribuzioni e quant’altro, e funziona perfettamente — è
quanto manca a Venezia come si sa, e che finora a Roma non si è realizzato.
Fin qui gli addetti ai lavori. Ma la Berlinale è anche, anzi soprattutto un festival che vive
nella città con le code interminabili di gente che aspetta pazientemente di ritirare i biglietti,
i sold out delle proiezioni (specie quelle serali di Forum e Panorama), le sale stracolme
nonostante un’offerta che a ogni edizione diventa sempre più ampia.
La direzione di Dieter Kosslick, confermata fino al 2019, prova che l’indirizzo dato al
festival trova l’accordo istituzionale, ha spinto nella crescita numerica dei film rendendo la
Berlinale quasi un contenitore (molto postmoderno) multifestivaliero di cui però come tutti i
festival l’identità prevalente coincide con il concorso (e non sempre lì ci sono le cose
migliori…). Forum e Panorama, le sezioni «parallele» alla gara (dotate di equipe
organizzative e artistiche autonome) si sono infatti moltiplicate, il primo con la parte
crossover del Forum Expanded, il secondo con le sezioni Dokumenta dedicate al
documentario, Speciale e quant’altro. A tutto questo si aggiunge la Berlinale special, Gala,
la sezione Cinema&cucina, gli omaggi, la Retrospettiva, il focus sulla produzione
nazionale, Generation, ovvero i film per i ragazzi, la nuova sezione di serie tv. Che la
quantità poi corrisponda sempre a un livello qualitativo reale è tutto da vedere ma di certo
la Berlinale ha scelto senza esitazione questa formula espansa accentuata dopo lo
spostamento nella parte est della città, con le nuove sale e gli spazi recuperati, e che ora
dallo scorso anno ha ritrovato anche la storica sala a Ovest vicino allo Zoo.
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I riflettori illumineranno sul tappeto rosso dell’apertura (piuttosto freddo annuncia la meteo)
Isabel Coixet, Juliette Binoche, Riuko Kikuchi, e Gabriel Byrne, regista e protagonisti di
Nobody Wants the Night, il nuovo film della regista catalana, una storia d’amore e
l’avventura di un viaggio incredibile per l’epoca. Quello della protagonista, Josephine
Peary (Binoche) che nel 1908 decide di partire per il Polo Nord, nonostante tutti cerchino
di fermarla, alla ricerca del marito, un esploratore.
Ma la temperatura più alta del Festival ci sembra altrove, nelle sale di Panorama che per
l’inaugurazione della sezione Dokumenta ha scelto un titolo che si annuncia già come tra
gli imperdibili: Une jeunesse allemande di Jean Gabriel Périot, la storia della Raf, la Rote
Armee Fraktion, ripercorsa attraverso le immagini di archivio in cui il regista mette a fuoco i
protagonisti di quella Storia, Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Holger
Meins, ma soprattutto gli anni sessanta, prima del sessantotto, in un paese come la
Germania, uscito dalla guerra e dal nazismo senza però affrontare tutto questo fino in
fondo. Dove i figli dei genitori nazisti devono rompere il silenzio per esistere denunciando
una continuità inquietante. Sono antagonisti, legati alla scena alternativa, alcuni
frequentano la scuola di cinema di Berlino, scendono in piazza contro il Vietnam e contro
lo Scià di Persia.
Dice il regista: «Une jeunesse allemande è una storia vera di sconfitte e di paura. Una
storia narrata attraverso degli archivi potenti. Nel corso delle mie ricerche sulla Raf ho
guardato centinaia di ore di materiali, e l’aspetto che più mi ha colpito, e anche affascinato
è il legame strettissimo che ho visto tra Storia e immagini».
In Italia sarebbe impossibile se si pensa agli schiamazzi che ogni volta si scatenano
quando si toccano gli anni Settanta e la lotta armata — per citare un esempio recente le
polemiche accese su Sangue, il film di Pippo Delbono (nemmeno presentato qui ma allo
svizzero festival di Locarno) per la presenza dell’ex leader delle Br Giovanni Senzani, o su
Il sol dell’avvenire di Gianfranco Pannone dove si parlava delle Br. Cosa che del resto
causa il vuoto di rielaborazione — o la sua rilettura manipolata di quegli anni nel nostro
immaginario.
In fondo il cinema tedesco ci si è confrontato in diretta, pensiamo al film collettivo
Germania in autunno, e in particolare all’episodio di R.W.Fassbinder, disperato e
terribilmente lucido. Al regista è dedicato uno dei molti biopic (da Sundance arrivano
quello su Nina Simone, What Happened, Miss Simone? e su Kurt Cobain, Cobain:
Montage of Heck, senza dimenticare il ritratto di Yvonne Rainer) presenti alla Berlinale —
lo è anche il film di Herzog in gara, Queen of the Desert:Fassbinder – Lieben ohne zu
fordern di Christian Braad Thomsen, (e speriamo che non sia un « santino»).
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ECONOMIA E LAVORO
del 04/02/15, pag. 17
È deflazione, prezzi mai così giù da 56 anni
A gennaio l’indice del carovita cala dello 0,6%. Carburanti meno 15%.
Salgono però gli alimentari Cambia il paniere: entrano il «car sharing» e
il caffè al ginseng, escono il dvd e il navigatore
ROMA Dal settembre 1959 i prezzi al consumo non erano mai scesi così tanto e l’Italia
torna in deflazione: dopo la variazione nulla di dicembre, l’Istat rivela che a gennaio l’indice
diminuisce dello 0,6% rispetto allo stesso mese del 2014, toccando il livello più basso da
56 anni (-1,1%). Su base mensile il calo è dello 0,4%.
Nelle stime preliminari emerge tuttavia una inversione di tendenza per il «carrello della
spesa», che contiene gli oggetti acquistati con maggiore frequenza: a gennaio i prezzi dei
beni alimentari, per la cura della casa e della persona aumentano dello 0,1% su base
annua, dalla flessione dello 0,2% di dicembre. Su base mensile i prezzi crescono dello
0,6%.
A pesare sulla deflazione registrata a gennaio 2015 (come già ad agosto e settembre
2014), è soprattutto la componente energetica: la flessione su base annua dell’indice (0,6%), spiega l’Istat, è dovuta in larga misura all’accentuarsi della caduta tendenziale dei
prezzi dei beni energetici e in particolare non regolamentati (-14,1%, da -8% di dicembre).
In particolare i carburanti segnano una flessione del 15,2% annuo (da -8,6% di dicembre),
arrivando in questo modo al livello più basso dal luglio 2009 (-19,2%).
La flessione su base annua dell’indice generale dei prezzi al consumo è dovuta anche al
rallentamento della crescita annua dei prezzi dei servizi, con particolare riferimento a quelli
relativi ai trasporti (+0,2% dopo che il dato di dicembre aveva fatto registrare un +2%). A
contenere in parte il calo è l’aumento dei prezzi dei vegetali freschi (+7,1%), anch’essi
influenzati da fattori stagionali. Rispetto a gennaio 2014, i prezzi dei beni diminuiscono
dell’1,5% (-0,8% a dicembre) e il tasso di crescita dei prezzi dei servizi si dimezza (+0,5%
da +1% del mese precedente). Di conseguenza rispetto a dicembre 2014 il differenziale
inflazionistico tra servizi e beni si amplia di due decimi di punto percentuale.
Per misurare l’inflazione l’Istat decide di cambiare il paniere: tra i 1.441 prodotti (erano
1.447 nel 2014) i nuovi consumi delle famiglie si arricchiscono di «pasta e biscotti senza
glutine, birra analcolica, bevande al distributore automatico, caffè al ginseng al bar, car e
bike sharing , e assistenza fiscale per il calcolo delle imposte sulla casa». Escono dagli
acquisti più frequenti «registratore dvd, navigatore satellitare, impianto hi-fi e corso di
informatica», oggetti e abitudini che ormai fanno parte del passato, spazzati via soprattutto
da smartphone e table t.
Analizzando i dati dell’Istat, Adusbef e Federconsumatori vedono «una stagnazione
dell’economia» e la Confcommercio ipotizza «una uscita dalla deflazione più difficile del
previsto». Previsioni negative anche per Nomisma: «I prezzi sono in deflazione e lo
saranno ancora nei prossimi mesi per l’impatto del petrolio: per questo è essenziale che il
“quantitative easing” (acquisto di titoli di Stato ndr ) della Bce abbia successo».
Francesco Di Frischia
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