Dizionario essenziale

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Dizionario essenziale
Estratto dal libro
Il dio Grabo, il divino Augusto e le Tavole Iguvine
di Carlo D’Adamo
dal sito www.tavoleiguvine.com
DIZIONARIO ESSENZIALE
fameřia pumpeřia: fameřia (IIb), equivalente al latino “familia”, è termine utilizzato nelle T.I.
nella accezione tecnica di “confraternita”; pumpeřia, femm. sing. di un agg. (pumpeřie) della
prima classe, derivato probabilmente da *pumpa, va interpretato come “addetta alla processione
solenne”, cioè all’organizzazione del corteo rituale previsto dalle prescrizioni liturgiche. Per le
motivazioni che sconsigliano il ricorso a *pumte (= cinque), vedi qui di seguito.
Il brano oscuro, proprio all’inizio di IIb, è il seguente:
semenies tekuries sim kaprum upetu tekvias
fameřias pumpeřias XII atiieřiate etre atiieřiate
klaverniie etre klaverniie kureiate etre kureiate
satanes etre satane peieřiate etre peieřiate talenate
etre talenate museiate etre museiate iuieskane
etre iuieskanes kaselate etre kaselate tertie kaselate
peraznaie teitu ařmune iuve patre fetu si pera
kne sevakne upetu eveietu sevakne naratu …..
Nelle prime due righe l’interpretazione e l’interpunzione variano in quasi tutti i traduttori.
Devoto (1974, 63) interpreta: “Al tempo delle assemblee decuviali si prenda un maiale e un capretto
di ciascuna decuvia, di ciascuna famiglia. Nella festa dei cinque giorni del mese XII…”
Bottiglioni (1954, 277) suggerisce: “Semoniis decuriis suem, caprum deligito. Cecuuiae et familiae
quincuriae XII sunt…”
Prosdocimi (1978, 721) traduce: “Alle riunioni dei tributi si scelga un porco e un capro per il tributo
della famiglia (Atiedia). Alle Pumperia XII….”
Ancillotti e Cerri propongono (1996, 311): “Alle riunioni tributarie cerchi un porco e un capro come
decima a carico della confraternita. Al dodicesimo giorno del mese Quintile dica….”
Il nodo da sciogliere consiste soprattutto in fameřias pumpeřias XII. Mentre Bottiglioni lega i tre
termini, Prosdocimi, Devoto e Ancillotti attuano una separazione tra fameřias (genitivo singolare
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femminile del sostantivo fameřia) e pumpeřias XII (genitivo singolare femminile dell’aggettivo
pumpeřie, più il numerale desenduf), interpretando questa clausola come l’indicazione di una data;
ma mentre per Devoto e Prosdocimi il mese è dato dal numerale XII, per Ancillotti e Cerri XII
indica il giorno, ed il mese è dato da pumpeřias. Per tutti questi autori, Bottiglioni compreso,
pumpeřias va ricondotto al numerale *pumte, “cinque” (in greco penta), di cui costituirebbe
l’ordinale. Tuttavia se si sottopongono ad un esame serrato queste differenti interpretazioni,
affiorano vari dubbi per diversi ordini di motivi, a diversi livelli.
Un primo ordine di motivi è strettamente formale.
Nei documenti oschi pumperiais, fiisiais pumperiais torna più volte, in iscrizioni oggi custodite nei
musei di Napoli, Capua, Santa Maria Capua Vetere. Nella Tavola Bantina troviamo pomtis, che
viene considerato equivalente al latino quinquies e tradotto quindi “cinque volte”; in altri testi oschi
troviamo pumpe.
Nelle T.I. (Tavola III) troviamo anche puntes, che (del tutto congetturalmente: vedi qui la voce
puntes) viene reso con “cinquine”, nel senso di “gruppi di cinque persone”. Ma perché dallo stesso
numerale *pumte si hanno sia puntes, (e in osco pomtis) con il mantenimento della t di penta, sia
pumpe e pumpeřie, in cui la t di penta si è trasformata in p? Non che ciò non sia possibile in un testo
stratificato come quello delle T.I., ma la voce attesa sarebbe piuttosto “punteřie”, in linea con
puntes e coerente con *pumte.
Un secondo ordine di motivi è linguistico.
Infatti l’aggettivo pumpeřie non può indicare al tempo stesso il mese e le feste del mese: come in
latino da quintus si ha quintilis, e da quintilis si ha poi quintilianus, dovremmo attenderci, dopo
*pumte e pumpeřie, “pumpeřiane”. Invece, chi traduce fiisiais pumperiais “nelle feste pomperie”,
intendendo con quel termine le feste del mese quinto, rinuncia ad un passaggio logico, quello
necessario a postulare un aggettivo derivato dall’aggettivo pumpeřie.
Un terzo ordine di motivi è quello relativo all’onomastica.
Numa Pompilio (Pompilius latino corrisponde a pumpeřie umbro) era il re che aveva introdotto a
Roma la “pompa”, il corteo religioso, i riti sacri e i collegi sacerdotali. E in greco τά ποµπεια,
neutro plurale, ha il senso di “vasi e arredi sacri”, mentre ποµπεία femminile singolare ha il senso
di “sfilata”. Anche se si ricorre all’aiuto delle iscrizioni etrusche si trovano dei pumpus: a Tarquinia
per esempio (ET Ta 5.6) c’è un pumpus nell’iscrizione eith fanu sathec lautn pumpus – e poiché
cinque in etrusco è mach, il gentilizio pumpus non ha nessuna relazione con il numerale cinque.
Se si pensa che in una bilingue etruscolatina al latino Quintus corrisponde il prenome etrusco
cuinte, l’ipotesi che pumpus non abbia nessuna relazione con Quintus e con il numerale “cinque” si
rafforza. Oltretutto Quintus (e cuinte) sono prenomi, non nomi gentilizi, mentre pumpus, per la sua
posizione dopo lautn, non è un prenome, ma il nome della gens.
Andando alla ricerca di un prenome che possa essere collegato in qualche modo con l’umbro
pumpeřie ci si imbatte in Pompeo, che nessuno ha mai collegato al numerale “cinque”, e che infatti
etimologicamente ha il senso di “colui che scorta, che conduce”, derivando da “pompa” (in greco
ποµπή). Si può aggiungere a questo quadro anche l’iscrizione che percorre il supporto laterale di
sinistra, dal basso verso l’alto, del cosiddetto “Guerriero di Capestrano”: ma kupri koram opsut
aninis raki nevii pomp[uled]ii, che viene resa con “me bella immagine fece Aninis per il re Nevio
Pompuledio”. La integrazione di “pomp….ii” in “pompuledii” è giustificata dalla esistenza, nello
stesso luogo, di una dedica in latino a Silvano posta da P. Ponpuledius, gentilizio latino che
deriverà, probabilmente, da un piceno *Pumperietie, che va reso, a mio parere, come “condottiero”,
e non certo come “Quintiliano”. Basta vedere la statuastele di Capestrano per cogliere tutti i simboli
del potere del “re” Nevio: elmo da parata, pettorale con tracolla e anella posteriore e anteriore (il
krenkatru), spada, bracciali, collana, piccola ascia rituale e lancia. Il suo gentilizio, in origine, era
senza dubbio significativo, e alludeva al ruolo che egli o qualche suo antenato, come guida della sua
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gente, aveva avuto. Un ruolo che va definito piuttosto con un termine che va correlato al greco
πέµπω o alla ποµπή e non al greco πέντα e ad un aggettivo numerale ordinale.
In questo contesto possiamo collocare anche Quinto Pompedio Silone, capo dei Marsi che dettero
inizio al bellum sociale (90 o 89 a.C.), comandante dell’esercito che si scontrò con quello di Mario.
Il suo prenome era forse un ordinale, ma il suo gentilizio no: questo, in marsico, equivale a
pumpeřie umbro, e non significa né quinto né quintile, ma “conduttore”, capo di un esercito o di un
corteo.
Un quarto ordine di motivi è quello calendariale.
Attribuire a pumpeřias XII il senso di una datazione presenta alcuni rischi: sono infatti attestati con
tutta evidenza nelle iovile campane eiduis e eiduis mamerttiais (cioè “alle idi” e “alle idi di
Marzo”), segno evidente che l’individuazione del giorno nell’ambito del mese seguiva normalmente
il sistema tradizionale delle idi, legato alle fasi della luna. Non pare mai attestato in altre fonti osche
o umbre un diverso computo, sul tipo di quello ipotizzato da alcuni traduttori, come Ancillotti e
Cerri: “nel dodicesimo giorno del mese di Quintile”.
Collegare la formula fiisiais pumperiais alle analoghe fiisiais vesulliais non autorizza ad attribuire a
“pumpeřie” il senso di un aggettivo derivato dal nome di un mese, dato che nemmeno vesulliais,
fino a prova contraria, rimanda al nome di un mese, mentre indica certamente una festività.
Nemmeno la formula fiisiais. pumperiais. pra i. mame. rtiis (che potrebbe valere “le feste con
processioni solenni prima delle idi di marzo”) autorizza ad attribuire al nostro termine il nome di un
mese – né, tantomeno, di un mese “quintilis” che precede il mese di marzo o i festeggiamenti in
onore di Marte. Ecco allora che alcuni interpreti ricorrono all’ipotesi delle “feste di cinque giorni”
che precedono le idi di marzo.
Infine, quando è presente l’indicazione della data in cui ricorre un avvenimento liturgico, nel
calendario degli adempimenti rituali essa compare sempre all’inizio della frase, come accade, ad
esempio, nella Tabula Capuana e nel Liber Linteus. Per questo coloro che interpretano pumpeřias
XII come una data devono staccare queste due parole da ciò che precede e considerarle come
l’inizio di un nuovo periodo. Ma la naturale posizione dell’aggettivo pumpeřias, concordante in
caso, genere e numero con fameřias, di cui con tutta evidenza è attributo, sconsiglia la separazione
dei due termini.
Un quinto ordine di motivi è legato alla formula atiieřiate etre atiieřiate klaverniie etre klaverniie
…. fetu, che riprende analoghe e ricorrenti formule presenti nelle Tavole Iguvine, nelle quali i
beneficiari del rito (coloro per i quali si compie il sacrificio) sono elencati, in dativo, prima della
voce verbale fetu: se tutto il blocco da atiieřiate a fetu deve essere rispettato, è probabile che tutto
ciò che lo precede faccia parte di un’altra sequenza logica, quella che individua gli attori della
liturgia.
Un sesto ordine di motivi è legato alla straordinaria corrispondenza dei diversi ambiti in cui
compare l’aggettivo pumpeřie.
Sia nelle iovile campane che nelle Tavole Iguvine il termine, variamente declinato (fiisiais
pumperiais, fameřias pumpeřias), è inserito in contesti in cui si tratta di feste religiose solenni. Se
ammettiamo che l’aggettivo pumpeřie (di cui pumpeřias è il genitivo femminile singolare) sia da
collegare al greco ποµπή e al latino pompa, voci indicanti genericamente la scorta d’onore o il
corteo onorifico – e quindi utilizzate, a seconda dei casi, per indicare il funerale o la processione o il
trionfo – si soddisfano sia i brani delle iovile che il passo delle Tavole Iguvine di cui parliamo, sia i
testi oschi che il testo umbro. L’ipotesi è più economica di quella che fa ricorso alla etimologia da
*pumpte (latino “quinque”), perché non obbliga a ipotizzare collegi di cinque sacerdoti, quincurie,
mesi quintili, feste di cinque giorni, né spinge l’aggettivo “pumpeřie” al di fuori della sua naturale
concordanza con “fameřia”. E l’ordinale XII si trova proprio nella posizione che ci attendevamo,
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cioè subito dopo il genitivo cui si riferisce, e si può sciogliere così: i dodici della fratellanza della
processione solenne.
Nella iovila del museo di Napoli (PL 131) ha senso tradurre “per la festa e la processione solenne
che sono in onore di Marte, effettuati sotto la magistratura di Lucio Petteio”; e nelle Tavole Iguvine
ha senso individuare nei fameřias pumpeřias XII “i dodici della fratellanza addetta alla pompè”.
Anche nella formula “arsfertur pisi pumpe fust …” (Va 3, 10) ha senso tradurre: “l’officiante,
chiunque ci sia (a soprintendere) al corteo…”, mentre l’interpretazione corrente è che pumpe sia, in
questo caso, equivalente del latino “cumque”. Ma in tutti gli altri dodici passi in cui il pronome pisi
compare da solo, senza pumpe, viene sempre tradotto con “chiunque”. E’ lecito allora liberare
questo pumpe, che risulterebbe pleonastico, per renderlo disponibile ad una diversa lettura: può
essere dativo singolare femminile (o locativo sing. femm.) di un normale sostantivo della prima
declinazione, il cui nominativo è regolarmente l’atteso pumpa.
Oltretutto l’ipotesi di ricondurre questo pumpa italico e l’aggettivo da esso derivato, pumpeřie, ad
un termine indicante, come in latino e in greco, la processione solenne, concorre a rafforzare il
quadro che si sta delineando, di una cerimonia sacra incentrata su una processione nella quale
vengono portate in giro le statue degli dei, ai quali si offre il banchetto sacro e per i quali si
compiono sacrifici diversi nelle diverse stazioni del percorso rituale.
Il settimo ordine di motivi, quello bilinguistico, si fonda sulla iscrizione di Rossano di Vaglio
(riportata qui sotto), nella quale il termine pomfok, che designa la carica del dedicante, ha molte
probabilità, in un ambiente profondamente grecizzato, di essere correlato a ποµπή, e non ha
sicuramente nessuna probabilità di essere in rapporto con πέντα.
L’ottavo ordine di motivi, quello grammaticale, è il più stringente: la clausola fameřias pumpeřias
XII è con estrema chiarezza decodificabile in una sequenza formata da SOSTANTIVO +
ATTRIBUTO + NUMERALE sostantivato. Spezzare la formula porta a dover collegare fameřias
con tekvias (“prendi un maiale e un capretto della curia della confraternita”), e pumpeřias con XII,
in quella ridda di ipotesi calendariali già discusse.
In conclusione, anche se in documenti liturgici greci ed etruschi (per esempio nel Liber Linteus e
nel calendario dei culti di Atene – IG I, 840) è attestato anche il computo dei giorni a prescindere
dalle idi e dalle none, nessuna iscrizione osca od umbra attesta con sicurezza questo diverso sistema
di datazione.
Si può concludere quindi che le prime righe del testo della Tavola IIb prescrivono semplicemente
che le vittime da sacrificare nelle riunioni delle curie siano a carico della curia a cui appartengono i
dodici fratelli Attiggiani, cioè la curia di Attiggio.
Allora il quadro frammentario delle informazioni sulla confraternita degli Attiggiani può essere così
ricomposto: la fratellanza prende il nome dalla località di Attiggio, che dà il nome anche ad una
delle 10 curie nominali (ma venti effettive); distribuisce ritualmente a tutte le curie 5 libbre di
maiale e 2 ½ di capra per ogni distretto; riceve da ogni distretto, come tributo per il santuario (vedi
qui alla voce nuřpenu) una quota prefissata di farro (pari a due libbre) da impiegare negli usi
rituali; è suddivisa in due natins, la Petronia, di auspici (vedi la voce petrunia), e la Lucia, di
officianti (vedi la voce vuçiia); è definita con una perifrasi “i 12 della fratellanza addetta alla
pompè”; si riunisce per celebrare periodicamente un banchetto sacro; è presieduta da un fratrico che
deve provvedere anche a procurare le 12 vitelle tra cui saranno prese le tre da sacrificare nella
cerimonia di purificazione dell’esercito; la sua sede nuova è nella città romana, forse nello stesso
luogo in cui si tenevano le assemblee delle curie; la sua sede storica è l’eku sul monte Ingino; la
sede da cui inizia molti dei suoi riti è la rocca: così almeno possono essere intesi i locativi
kumnahkle atiieřie, eikvasese atiieřier ed ukre presenti in Va.
Il dio Grabo, il divino Augusto e le Tavole Iguvine, di Carlo D’Adamo
In questa iscrizione di Rossano di Vaglio scritta in alfabeto greco-lucano Ireno Pomponio figlio di
Ireno, durante il censorato di Lucio Pocidio figlio di Va(..?), nella sua veste di “ποµfοκ” ordina la
realizzazione e la erezione delle statue di bronzo dei Sovrani (forse i Dioscuri o comunque una
coppia divina). Il termine ποµfοκ (ultima parola della terza riga, in cui compare il segno epicorico S
che viene traslitterato con “f”) va correlato probabilmente, in ambiente permeato di cultura greca,
con ποµπή e la sua area semantica, e non certo con πέντα: la presenza di “f” per π interno greco,
fenomeno consueto di lenizione, costituisce infatti indizio in questo senso. Ireno Pomponio era
insomma preposto alla cura della ποµπή, e in questa veste ordina le statue degli dei.
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