aLeXandra ConUnoVa violino JULIen QUentIn pianoforte

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aLeXandra ConUnoVa violino JULIen QUentIn pianoforte
SALA FILARMONICA
MARTEDì 25 NOVEMBRE 2014 - ORE 20.45
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aLeXandra ConUnoVa violino
JULIen QUentIn pianoforte
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Franz SCHUBERT
(1797-1828)
Sonata in la maggiore D 574 (op. 162)
Allegro moderato
Scherzo. Presto
Andantino
Allegro vivace
Francis POULENC
(1899-1963)
Sonate pour violon et piano
(À la mémoire de Federico Garcia Lorca)
Allegro con fuoco
Intermezzo: Très lent et calme
Presto tragico
Richard STRAUSS
(1864-1949)
Sonata in mi bemolle maggiore op. 18
Allegro ma non troppo
Improvisation: Andante cantabile
Finale: Andante – Allegro con fuoco
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Violinista di origine moldava, nata nel 1988, alexandra Conunova ha studiato con K.
Wegrzyn all’Università della Musica di Hannover. In precedenza aveva seguito master
class con I. Oistrakh, M. Martin, I. Gitlis, B. Kuschnir..
Alexandra Conunova è stata premiata ai Concorsi George Enescu di Bucarest nel 2011,
al Tibor Varga di Sion nel 2010, Ion Voicu (2009) ed Henri Marteau (2008). Solista di
Münchener Kammerorchester, NDR
Radiophilarmonie, l’Orchestra di Stato della Bielorussia, la Norddeutsche Philarmonie
di Rostok, l’Orchestra dell’Hermitage di San Pietroburgo, Orchestra da Camera del Festival di Verbier; con i direttori G. T. Nagy, H. Lintu, P. Strub, J. Wildner, J. Numminenm, N. Willen. Molteplici sono gli interessi dell’artista anche nell’ambito della musica
da camera, dove ha inciso nel 2009 il suo primo CD con musiche di Brahms e Mozart
con il primo clarinetto della Staatskapelle di Berlino, con il Conunova Quartet, di cui è
primo violino e con l’Arts Global String Quartet.
La violinista ha focalizzato su di sé le attenzioni della critica musicale e del pubblico
a seguito della vittoria del Primo premio al Concorso Internazionale di violino Joseph
Joachim di Hannover nell’autunno 2012. La giuria del concorso in quell’occasione ne
elogiò il calore del suono e l’arte altamente drammatica del suo virtuosismo; l’Hannover Allgemeine Zeitung ha rilevato altresì con quale splendore di suono l’interprete è in
grado di far vivere il suo modo di interpretare il pensiero musicale. Il successo ottenuto
in questo concorso, che è universalmente considerato come uno dei più importanti de-
disposizione dalla Deutsche Stiftung Musikleben.
Nato a Parigi, Julien Quentin ha iniziato i suoi studi al Conservatorio di Ginevra, si è
perfezionato a Bloomington (USA) con E. Naoumoff; nel 2003 si diploma alla Julliard
School di New York dopo aver studiato con G. Sandor. Ha lavorato altresì con altri eminenti interpreti della tastiera: N. Magaloff, E. Wild, Badura - Skoda e G. Sebök.
Pianista dal talento poliedrico, Julien Quentin è artista di notevole profondità e maturità
interpretative, dalla tecnica infallibile, molto richiesto sia come solista che camerista.
Come solista si è esibito con le orchestre del Quatar, di Wroclav (Polonia) e di Cordoba
(Spagna); è stato ospite dei Festival di Verbier, Schwentzingen, Radio France a Montpellier, Beethoven Fest di Bonn, Lucerna, Ravinia, Virginia Arts. Nell’ambito della musica
da camera collabora con artisti quali L. Bathiashvili, S. Gabetta, G. Capuçon, N. Goerner,
G. Hoffman, A. Kirchschlager, S. Shoji e T. Vassiljeva. Si esibisce anche con il clavicembalo assieme a Sarah Chang e all’Orchestra del Festival di Verbier, con T. Quasthoff e
la direzione di L. Kavakos. Le sue tournées internazionali lo hanno condotto in Australia, Stati Uniti, Giappone, Medio Oriente, ospite delle più prestigiose sale da concerto.
Ha inciso dischi per Sony ed EMI Classics.
Con artisti pittori quali E. Lucaci, K. Mourad e N. Perryman, l’interprete ama esplorare
nuovi orizzonti artistici attraverso l’accostamento di forme d’arte di varia natura, così
come la frequentazione di percorsi musicali particolari - l’improvvisazione e produzione di musica elettronica ad esempio - frutto delle sue collaborazioni con compositori e
pianisti quali J. Messina, R. Khalifé, F. Tristano.
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note aL PrograMMa
SCHUBERT –
no riserva alla produzione violinistica pochi
blocchi distinti: uno risalente al biennio 181617, l’altro al 1826-27, che sarebbe indebita
forzatura catalogatoria assegnare rispettivamente alla fase giovanile e a quella matura.
Più corretto è ragionare sugli esiti artistici di
quei pezzi, riconoscendo alle opere del primo
periodo, e in ispecie alle garbate Tre Sonate
(o Sonatine) dell’op. 137, una felice attitudine
melodica ma una consapevolezza non ancora
raggiunta per quanto riguarda il problema
stilistico-formale, riservando invece ai pezzi
tardi – il Rondò brillante op. 70 e ancor più la
Fantasia in do maggiore op. 159 – lo status di
capolavori.
Tra gli uni e gli altri si colloca la Sonata in
la maggiore op. 162 (D 574), che si eseguirà
stasera. Scritta da uno Schubert ventenne e
distanziata di appena un anno dal suddetto
gruppo delle Sonatine, essa si presenta già
come un notevole passo avanti nel trattamento
della scrittura concertante, che ne risulta così
assai più dominata ed equilibrata. Le evidenze
testabili, e del resto le dieci Sonate per violino
scritte dal maestro di Bonn erano ancora assai
recenti e praticate; ugualmente scoperta appare la derivazione in più parti dalla lezione
mozartiana. Ciò malgrado, il peculiare stile di
Schubert riuscì a imporsi con spontaneità su
zione personale.
L’inizio della Sonata in la maggiore, con l’incedere dinoccolato del pianoforte e l’affettuoso, accattivante motivo melodico introdotto
dal violino, è tutto di marca sua ed evidenzia
mento ad arco punti a primeggiare sull’altro,
nate per pianoforte “con accompagnamento
passato e ancora in qualche misura resisteva.
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La concisione inabituale del pezzo giova alla
sua tenuta complessiva, così che i quattro
movimenti si susseguono con buona logica
costruttiva e una felicità espressiva senza cedimenti.
Occhieggiante al Beethoven corrusco è sicuramente lo Scherzo, vero pezzo di bravura, che
Schubert pone in seconda posizione; mentre la
sosta lirica è riservata all’Andantino che segue. Qui come altrove nel corso della Sonata
vocalistico. Il Finale, invece, ritrova lo slancio
dello Scherzo e porta a compimento la Sonata
in modo brillante.
L’op. 162 poteva costituire per Schubert l’inizio di una fase produttiva interessante nel
campo della formazione violino-pianoforte,
ma la mancanza di sbocchi editoriali lo convinse ad abbandonare l’idea, e così dovettero
passare nove anni prima che l’occasione si ripresentasse con i lavori dell’ultima stagione.
POULENC – Ci si chiede a quale modello storico potesse ispirarsi un autore francesissimo
come Poulenc all’atto di misurarsi in una sonata per violino e pianoforte negli anni Quaranta del Novecento. Gli esempi di Debussy e
di Ravel avevano lasciato un segno durevole
ma non era pensabile restaurare quelle estetiche ormai superate; né meno rischioso sarebbe
stato attingere ai modelli della stagione ancora precedente dei Fauré, dei Saint-Saëns e dei
Franck che un ruolo importante avevano pur
giocato. Ciò che Poulenc condivideva sicuramente con alcuni di costoro erano gli ideali di
uno strumentalismo spiccatamente francese
di impronta neoclassica, da contrapporre al
vincolante modello austro-tedesco. Si trattava
dunque per lui di trovare il modo di soddisfare
una linea modernista e nazionale per forma,
linea, colore, tratto elegante, e di applicarla
nella fattispecie alla peculiarità violinistica,
cioè alle esigenze di uno strumento verso cui
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non sentiva un particolare trasporto perché lo
sentiva troppo legato agli abbandoni romantici. Di fatto, la sua ridotta produzione per archi non rientrava tra i pezzi di cui si vantasse,
gli autori normalmente riservano ai peccati di
gioventù (cosa che però questa Sonata non è).
L’inizio brusco, quasi sgarbato, può già essere
un’indicazione di principio: il tratto nervoso,
inquieto, teso che percorre tutta la composizione evitando indugi, sviluppi e abbandoni è
sintomatico di un tratto umorale che ha qualcosa dello scatto nevrotico.
Certamente poi l’automatismo a melodizzare
pateticamente subentra irresistibile e si dipamente distesi e rivelatori di spirito rasserenato
o appassionato: si tratta per lo più di proposte
melodiche brevi, talora venate di nostalgia,
altre volte più nerborute, e sempre lasciate cadere ben prima che le loro intime potenzialità
siano esaurite.
Nessuna preoccupazione formale si riscontra
nei termini tradizionali di esposizione-sviluppo, ma al contrario si imposta un regime rapsodico ove svariati eventi si accumulano man
mano che la fantasia li crea e li sostiene, e
come tali vengono superati da altre situazioni.
ma a quella che può sembrare un’attenuazione
dello slancio per puro esaurimento delle forze o delle idee: nessuna visione conclusiva o
appagata dunque ce ne viene, ma un senso di
casualità che rende le ultime battute piuttosto
sbrigative e sconcertanti.
STRAUSS – È inevitabile che la considerazione riposta in un qualsiasi autore tenga conto
dei settori in cui questi ha dato il meglio di sé
e passi in secondo piano gli altri ritenuti più
occasionali o di puro mestiere. Ora, non è
propriamente nel genere del camerismo strumentale che si trova lo Strauss più autentico
poiché la sua stessa natura esuberante e attratta dalle forme rappresentative ad effetto
lo portava piuttosto a sboccare nel grande
sinfonismo dei poemi sinfonici o nelle magiche
attrattive dell’opera. Le limitazioni formali e
sonore che il camerismo impone, gli equilibri
più delicati che lo regolano, erano all’opposto della sua natura incline alle grandi proporzioni e talvolta alla dismisura plateale.
Questo spiega la circolazione relativamente
ristretta di opere come la presente Sonata in
mi bemolle maggiore per violino e pianoforte
(1887) che appartiene, al pari delle altre omologhe, al periodo giovanile, quasi come una
forma di obbligatorio apprendistato. Essa è
anzi l’ultima composta da Strauss prima che
questi abbandonasse il campo per darsi alle
grandi opere orchestrali.
Un autore tedesco della sua generazione non
mancava certo di modelli cui attingere, e
dunque non stupisce ritrovare in questo suo
componimento delle analogie con certi tratti
schumanniani o brahmsiani su cui, tra gli altri, aveva fondato la sua formazione: i modelli
sempre assimilati con estrema consapevolezza e da essi mostra di saper estrarre gli ultimi succhi tanto sul terreno espressivo quanto
su quello armonico e su quello attinente alle
componenti formali e costruttive: questo ci fa
dire che di fronte a un autore come Strauss i
co’ hanno sempre un valore relativo. Il trattamento armonico, soprattutto, spicca per la sua
innegabile audacia, ma questa è contemperata
dalla chiarezza del disegno complessivo, così
che il discorso non ne risulta oscuro o involuto
ma anzi appare volto ad una franca comunicazione.
La scansione dei tempi passa dalla foga giovanile del primo Allegro al lirismo dell’Andante
solo nell’effetto di libertà di eloquio, poiché di
fatto è costruito secondo un regolare schema
tripartito in cui vengono presentati temi estesi
ed elaborati che si equilibrano tra la pacatezza e lo scatto esuberante.
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si palesa maggiormente la richiesta implicita
di mezzi più cospicui di quanti possa offrirne
il duo violino-pianoforte. E difatti qualcuno
ha rilevato in questa Sonata la presenza costante e pressante del pianoforte per tener
viva una materia già ricca di suo, come pure
il ricorso a calcolate soluzioni ad effetto che
denotano la scaltrezza già maturata dal ventitreenne compositore e che come tali troveranno impiego più consono all’interno della
grande orchestra. L’ascolto odierno, anche in
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virtù della sua rarità, può costituire una felice
sorpresa: la Sonata op. 18 di Strauss si pone
come autorevole esempio di sonatismo tardoottocentesco, consapevole di tutto il processo
stoico che è alle spalle. Un geniale ibrido, se
vogliamo, che dispensa momenti di eccentricità, abile effettistica, carattere esuberante,
ma che testimonia pur sempre l’apporto di una
fantasia fervida e di una mano maestra.
ASSOCIAZIONE FILARMONICA DI ROVERETO
Diego Cescotti