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Acqua e vino, giovani e vecchi
/ 06.02.2017
di Franco Zambelloni
La letteratura di tutti i tempi abbonda di entusiastici elogi del vino, di inni di lode al dio Bacco – il
Dioniso dei Greci – per avere inventato la prodigiosa bevanda. Quasi sempre però, in questi grandi
elogi, si avverte il rovescio della medaglia: il lato oscuro della vita, la malinconia e la tristezza che il
succo d’uva fermentato aiuta a mitigare. Nel V secolo a. C. il poeta greco Anacreonte cantava: «Se
non ci fosse il succo dell’uva / chi rimarrebbe qui più a lungo? [...] Su fratelli, beviamo, / per
dimenticare questa triste terra». Il poeta barocco Francesco Redi, nel suo poemetto Bacco in
Toscana, ne raccomandava caldamente l’uso: «Se dell’uve il sangue amabile / Non rinfranca ognor le
vene, / Questa vita è troppo labile, / Troppo breve e sempre in pene». Il Redi era un medico; e la
medicina di tutti i tempi, fino all’avvento dei farmaci moderni, prescriveva il vino come terapia per
molti mali e, naturalmente, per quella patologia dell’umore che un tempo si chiamava «malinconia»
e che oggi è nota come «depressione». E così, gli inviti a spazzar via la malinconia si susseguono,
almeno fino a Baudelaire che in uno dei suoi poemetti in prosa raccomandava: «Enivrez-vous».
Peraltro lo stesso Baudelaire era già passato all’oppio e all’hashish e ne cantava i pregi nei Paradisi
artificiali.
Questi reiterati inviti al vino e all’ebbrezza sono dunque un modo, indiretto e però pur sempre
drammatico, per cogliere il lato d’ombra che accompagna la vita umana: i suoi dolori, le sue
angosce. Ma, confrontando le condizioni di vita dei secoli passati con quelle d’oggi, ci si può stupire
che tanti debbano ancora ricorrere ai «rimedi» della tradizione passata. La fame, la guerra, le
malattie, la fatica disumana sono cose in gran parte scomparse dalla vita attuale nei Paesi europei:
eppure, l’evasione nell’ebbrezza del vino o delle droghe psichedeliche sono sempre presenti; e, quel
che più stupisce, è che a lanciarsi in queste fughe dalla realtà siano in gran parte i giovani.
Quando mi capita di vedere nuovi graffiti aggiunti a quelli vecchi sui muri di edifici pubblici (specie
le scuole); o di leggere di danni causati volontariamente a vetrine, bacheche, specchi sulle strade e
altri congegni vulnerabili; mi chiedo ovviamente quanto alcol abbia scatenato la rabbiosa allegria di
quelle bravate; e quanti giovani, passando d’eccesso in eccesso, alla fine si troveranno impantanati
nella dipendenza fino al punto da non poterne più uscire se non dopo un lungo e incerto percorso di
riabilitazione.
I dati che appaiono di tanto in tanto sono inquietanti: un paio di anni fa i giornali segnalavano il
sovraccarico di lavoro per medici e infermieri nei fine-settimana, quando troppi giovani arrivano al
pronto-soccorso ospedaliero così ubriachi da non reggersi in piedi. A livello nazionale, si aggiungeva,
un giovane su tre al di sotto dei vent’anni incappa almeno una volta in una simile situazione
d’emergenza per aver esagerato nel consumo di birre, vino, liquori. E poi, naturalmente, ci sono i
consumi di sostanze stupefacenti. In base alle conoscenze attuali, sappiamo con certezza che l’alcol
inibisce le funzioni della corteccia prefrontale, ossia la regione cerebrale preposta al disciplinato
controllo del comportamento: si comprende, dunque, come uno «sballo» serale possa portare ad atti
di violenza improvvisi e insensati. E questo nei giovani è tanto più facile in quanto in loro non è
ancora avvenuta la piena maturazione della corteccia, che si compie solo tra i 23 e i 25 anni.
Pur senza queste conoscenze medico-scientifiche, gli antichi erano ben consapevoli che i giovani
sono più facilmente soggetti a turbe mentali sotto l’effetto del vino. Platone, sognando la sua città
ideale, stabiliva che ai giovani, considerata la loro maggiore eccitabilità, non si dovesse dare vino
fino ai 18 anni, perché «non si deve mettere fuoco sul fuoco sia nel corpo che nell’anima». Varcata
questa soglia, era concesso un uso moderato del vino; poi, una volta raggiunti i quarant’anni (che in
passato segnavano l’inizio della vecchiaia), ogni freno cadeva e diveniva lecito il consumo smodato
della bevanda che Dioniso «donò agli uomini come soccorso dell’amarezza senile». E qui la saggezza
antica, che accortamente decretava l’astinenza dei giovani, ricade nel pessimismo tipico dei Greci,
che detestavano la vecchiaia.
Oggi, in un mondo migliore, possiamo avere una serena vecchiaia anche senza abusare del vino, che
invece, stranamente, sembra necessario a tanti giovani.