33 caratteristiche che la distinguono nettamente dalla sua radice
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33 caratteristiche che la distinguono nettamente dalla sua radice
caratteristiche che la distinguono nettamente dalla sua radice giudaica (cfr. 18-19)51. Il sorgere di questa profonda mutazione richiede una spiegazione storica. Ma una spiegazione storica è necessaria anche per dar ragione delle narrazioni pasquali dei Vangeli, nelle quali si descrive la Pasqua in termini di un sepolcro trovato vuoto, e di molteplici apparizioni del Risorto ai suoi discepoli, nelle quali tratti fisici della corporeità di Gesù si mescolano a manifestazioni di un carattere non ordinario. E tali narrazioni non sono artefatti posteriori, prodotti tardivi creati dalla comunità cristiana bensì, sostiene Wright, testimonianze molto primitive, «sebbene siano stati modellati e redatti dagli evangelisti nella loro composizione» (20). Per giungere a questa affermazione, Wright non si basa tanto sulla ricostruzione di una storia della tradizione delle narrazioni pasquali, che richiederebbe, a suo parere, troppe ipotesi a priori52, bensì sul fatto che tali narrazioni possiedono alcune caratteristiche –ne individua quattro presenti in ognuno dei Vangeli–, che ne dimostrano l’antichità. Le quattro caratteristiche in questione sono (cfr. 21): - le narrazioni della risurrezione nei Vangeli sono sorprendentemente prive di citazioni, echi o allusioni alle Scritture; - attribuiscono un posto di primo piano alle donne, che non troveremo in Paolo quando scriverà la prima lettera ai Corinzi (cfr. 1 Cor 15); - non vi si parla della speranza futura dei cristiani, come faranno quasi tutti i successivi testi cristiani sulla risurrezione, e lo stesso Paolo: i Vangeli «non dicono che Gesù è risorto, perciò noi andremo in cielo o perciò noi saremo risuscitati. Essi dicono che Gesù è risorto, perciò la nuova creazione di Dio è cominciata e noi abbiamo un compito da svolgere» (21); - tutti e quattro i racconti presentano un ritratto di Gesù assai strano (odd). Egli non è descritto né come un morto (corpse: cadavere) risuscitato, tornato ad una vita come la precedente, né come un essere che brilla come una stella (secondo l’immagine dei giusti in Dn 12, che è il principale riferimento biblico impiegato nelle dispute dei giudei sulla risurrezione), né come un fantasma o uno spirito non corporeo, e neppure possiede semplicemente lo stesso corpo che possedeva prima. Ogni storia unisce la descrizione di aspetti fisici del Gesù risorto (spezzare il pane, mangiare del Wright insiste sul fatto che secondo la concezione giudaica la risurrezione dei morti non era immaginabile se non in termini corporei, fisici. Tuttavia su altri aspetti le posizioni erano diverse (la stessa prospettiva della risurrezione dei morti non era da tutti condivisa, come è noto). 1) La fede cristiana si presenta molto meno indeterminata, più precisa e compatta riguardo ai diversi aspetti della dottrina della risurrezione e dell’aldilà, 2) ed in particolare riguardo alla forma che avrà il nuovo corpo dei risorti. 3) La risurrezione si colloca inoltre al centro della fede cristiana, mentre nel giudaismo era un tema piuttosto periferico. 4) Assai significativo è il fatto che la visione cristiana scinda in due tempi la risurrezione, vista invece dagli ebrei come un evento unico: essa è già avvenuta per Cristo, e solo alla fine coinvolgerà tutti gli uomini. 5) Cambiano anche i significati metaforici di risurrezione, rispetto a quelli della tradizione giudaica. 6) Infine, «nessuno si aspettava che il Messia dovesse essere risuscitato dai morti, per la semplice ragione che nessuno nel Giudaismo di quel tempo si aspettava un Messia che sarebbe morto» (19). Queste in sintesi, le mutazioni della fede cristiana rispetto alla sua radice giudaica, secondo Wright. 52 Inoltre, soprattutto nei racconti pasquali egli nota che «anche quando raccontano esattamente la stessa storia, gli evangelisti riescono a usare parole notevolmente diverse, rendendo ogni teoria circa le dipendenze (borrowings) letterarie nei racconti della risurrezione, molto difficile» (20-21). 51 33 pesce, invitare a toccarlo, ecc) a manifestazioni non ordinarie (apparire e scomparire a porte chiuse, non essere immediatamente riconosciuto, entrare infine «nello spazio di Dio, cioè in cielo»). A conclusione della sua analisi Wright afferma: «Nessuna di queste quattro caratteristiche può essere spiegata, come io ho sostenuto, se le storie sono nate tardi, anche negli anni 50, per non parlare degli anni 70, 80, o 90, come alcuni continuano a sostenere»53. Ora, i due fatti storici detti –la radicale mutazione avvenuta all’interno del giudaismo, costituita dalla fede cristiana nella risurrezione e l’esistenza delle storie di Pasqua nei Vangeli, con le stranezze e le altre caratteristiche che ne dimostrano l’antichità– si spiegano adeguatamente, secondo Wright, solo ammettendo la realtà storica della tomba vuota e delle apparizioni di Gesù a più testimoni. Nel suo libro, Wright tratta in più punti anche della relazione tra l’insegnamento paolino sulla risurrezione di Gesù e l’immagine che ne offrono i Vangeli, che costituisce uno dei temi più dibattuti nell'ambito delle analisi esegetiche sulla risurrezione. Ebbene, Wright ritiene che la dottrina di Paolo sul corpo risorto non sia affatto in contrasto con le testimonianze evangeliche e la fisicità delle loro descrizioni. Anche per Paolo i risorti, ad immagine di Cristo, possiederanno un corpo, certamente trasformato, spirituale –nel senso di “animato e diretto dallo Spirito” –, incorruttibile e glorioso, ma al tempo stesso fisico, materiale; in altri termini il corpo di risurrezione manifesterà sia continuità che discontinuità rispetto al corpo terreno, così come continuità e discontinuità caratterizzeranno la trasformazione della creazione attuale nella nuova. Paolo è per Wright il più antico testimone della tradizione che riflette sulla risurrezione di Cristo e ne elabora una visione teologica, ma la sua analisi coincide con i dati su Gesù che troviamo, ancora non elaborati, proprio nelle narrazioni evangeliche54. Sono dunque le tradizioni alla base delle narrazioni evangeliche, la cui antichità Wright ritiene di aver dimostrato con gli argomenti su esposti, il dato primitivo in cui è contenuto ciò che i discepoli e la Chiesa delle origini sapevano essere accaduto a Pasqua. Questa è in estrema sintesi la visione di Wright, in cui si combinano la fiducia, storicamente fondata, nella sostanziale attendibilità dei racconti dei Vangeli, con un’interpretazione che non vede la dottrina di Paolo in alternativa rispetto ad essi, bensì come un passo –e certamente di enorme valore– di un coerente sviluppo teologico. Alcuni aspetti del dibattito esegetico e la loro valenza teologico-fondamentale Risurrezione di Gesù e apoteosi del Vincitore Tentativi di spiegare l'origine dell'idea cristiana di risurrezione (e quindi dei racconti pasquali del NT) sono stati formulati nell'ambito degli studi di storia delle religioni. Secondo tali proposte interpretative, la comunità dei discepoli di Gesù avrebbe fatto proprie le categorie presenti nell'ambiente culturale e religioso greco-romano per esprimere la propria convinzione riguardo al Non è facile rendere la forma inglese della frase, che riportiamo qui in originale: «None of these four features can be explained, I’ve argued, if the stories are late in origin, even as the fifties, let alone as the seventies, eighties, or nineties, as some have persisted in arguing». WRIGHT, The Resurrection. Historical Event or Theological Explanation?, 21. 54 Cfr. IDEM, Risurrezione, 764; l’autore qui si riferisce specificamente al confronto tra Paolo e la narrazione di Luca, ma dopo aver affermato il sostanziale accordo di quest’ultimo con gli altri evangelisti. 53 34 Maestro morto sulla croce. L'idea della sua risurrezione sarebbe cioè stata mutuata dalle storie di divinità morte e tornate in vita, di cui era relativamente ricca la mitologia pagana. In merito a tali teorie, la domanda da porsi è duplice: 1) da un lato chiedersi l'annuncio cristiano della risurrezione possa avere mutuato le sue categorie concettuali e linguistiche dalla figura della “apoteosi” (gr. ἀποθέωσις: divinizzare portando verso l’alto), una celebrazione poeticorituale che faceva assurgere al rango divino un eroe, conosciuta in Grecia ma anche in Egitto e in Siria, e successivamente praticata istituzionalmente nella Roma imperiale. In questo modo, ci chiediamo se le categorie letterarie e linguistiche dell’apoteosi siano servite per esprimere ciò che i discepoli già credevano fosse accaduto a Gesù di Nazaret. 2) Una seconda e più radicale domanda, invece, è se la fede stessa dei discepoli nel Risorto non sia stata originata da un processo di esaltazione mitologica. Ci interroghiamo cioè circa la verità di quando è accaduto a Gesù, ponendo in questione la stessa realtà storica della risurrezione. Questa domanda è più corretto inquadrarla fra le “obiezioni” alla risurrezione di Gesù: pertanto meriterà alcune considerazioni di carattere storico e non solo esegetico, che svolgeremo nel prossimo paragrafo. Per quanto riguarda la prima domanda, circa l'eventuale assorbimento di elementi concettuali e linguistici dall'ambito pagano, non è difficile notare che il contenuto dell’annuncio cristiano manifesta una notevole originalità. In ambito greco classico, l’apoteosi si presentava come un’ascesa dell’anima di un mortale al regno degli dèi, quale alternativa gloriosa al mondo dell’Ade, luogo di spiriti e di ombre. La corporeità dell’eroe meritevole di tale ascesa non ha alcuna importanza: essa può continuare tranquillamente a giacere in un sepolcro. Se l’apoteosi di Ercole si realizza mentre il suo corpo è bruciato (e dunque giudicato superfluo) su una pira, la divinizzazione di Teseo è compatibile con la custodia delle sue ceneri o addirittura con il rinvenimento del suo intero corpo in una bara. È vero che gli dèi e coloro che hanno il raro privilegio di accedere al loro mondo si sposano e generano figli (così anche Ercole divinizzato), ma ciò è celebrato come antropomorfizzazione consapevole, una sorta di luogo poetico comune a praticamente tutti i racconti greci, senza alcuna pretesa di realismo fisico: almeno a partire da Platone (se non già prima con Senofane), tanto gli dèi quanto gli umani che si dichiarano essere ascesi al loro Regno, sono e restano, anche per chi li celebrava, mythoi, ovvero favole mitologiche. Se ci riferiamo all’ambito romano, soggetto di apoteosi furono dapprima il mitico fondatore Romolo, e dopo un lungo intervallo i cesari dell’epoca imperiale, abitualmente divinizzati (guadagnando così l’appellativo di divus), se benemeriti, con un apposito rito officiato dal loro successore. Se si riflette sul fatto che il loro “farsi dio”, in vita o dopo la morte, era quasi sempre il motivo che conduceva al martirio i cristiani che si rifiutavano di tributare loro culto, ciò rende del tutto paradossale l’ipotesi che i seguaci di Gesù di Nazaret avessero preso in prestito tali espressioni o figure per parlare del Cristo. Il culto cristiano non viene mai proposto come “sostituzione” del culto all’imperatore, né ad esso paragonato, né visto quale prototipo di come dovrebbe essere il vero culto civile: per i primi cristiani l’imperatore continua ad essere l’imperatore, in vita e in morte, e Dio continua ad essere Dio. Se consideriamo infine i pochi racconti greci che parlano di umani “tornati dal mondo dell’Ade”, come Protesilao ed Alcesti, questi non rispondono certamente ad uno schema di esaltazione, ma piuttosto ad una esigenza di consolazione dei congiunti. L’annuncio del Risorto e le narrazioni evangeliche che ce lo consegnano sono molto differenti, anche letterariamente, da tutti questi contesti: se esse sono debitrici a delle forme linguistiche e concettuali, queste non sono certo quelle della mitologia greco-romana. 35 Fede nel Risorto ed esperienza del sepolcro vuoto Un’altra precisazione esegetica dalle notevoli influenze in ambito teologico-fondamentale è rappresentata dal dibattito attorno al “sepolcro vuoto”, sia in merito al realismo da attribuirgli, sia in merito, al suo collegamento con le apparizioni del Risorto. Seccamente qualificata da Rudolf Bultmann come “leggenda apologetica” e come una narrazione “completamente secondaria”,55 sulla ragionevolezza del racconto del sepolcro vuoto si sono invece schierati, fra gli altri, Brown, von Campenhausen, Fitzmyer, Jeremias, Trilling, Vögtle56. La posizione di Bultmann è stata in parte ripresa da R. Pesch, che interpreta il sepolcro vuoto come "effetto redazionale" delle narrazioni delle apparizioni.57 Secondo questa ipotesi, i racconti delle apparizioni rappresenterebbero il messaggio originario, mentre il racconto del sepolcro aperto e vuoto ne sarebbe una conseguenza tardiva. Di per sé, la notizia del sepolcro vuoto sarebbe inverificabile perché ormai troppo lontana dall’epoca delle prime redazioni evangeliche. Secondo tale interpretazione, in epoca apostolica non sarebbe sorto alcun dibattito attorno al sepolcro vuoto fra i cristiani e i loro avversari, né esso sarebbe la prova del realismo delle apparizioni. Queste ultime avrebbero potuto inizialmente interessare (come in altre numerose prospettive esegetiche) soltanto la sfera soggettiva o spirituale e, solo successivamente, sarebbero state convertite dai redattori in esperienze oggettive di un incontro con Gesù risuscitato, suggerendo così di introdurre l’elemento narrativo della tomba ormai necessariamente vuota. Per affrontare la questione, ci piace chiederci subito, con Giuseppe Ghiberti: «È davvero così probabile che sia esistita molto presto nella prima cristianità una convinzione tanto radicata del collegamento risurrezione-sepolcro vuoto da far sorgere una narrazione così forte da diventare tradizione letteraria e imporsi a tutti i successivi narratori (nonostante l’inverificabilità del fatto), o non è più probabile che la costante accettazione della tradizione sia stata causata dalla conoscenza del fatto originario?».58 In sostanza, potrebbe una testimonianza così diffusa e presente in tutte le fonti essere un effetto redazionale ideato, o comunque conservato, da tutti gli evangelisti? Se è vero che Matteo, Marco e Luca si limitano a menzionare il “sepolcro vuoto”, e che una lettura prima facie delle testimonianze paoline non rileva questo dato, non così Giovanni che offre una cronaca dettagliata della sua ricognizione. Perché questa particolarità del IV vangelo? Quali elementi teologici Giovanni intendeva veicolare? E se si tratta di una costruzione teologicoletteraria, perché essa confluisce in due generi redazionalmente adiacenti e così diversi: una prima narrazione dallo stile sobrio e verosimile avente per protagonisti Pietro e Giovanni, ed una fortemente simbolica, che descrive l’incontro del Risorto con la Maddalena? Un’ultima domanda che l’ipotesi di Bultmann e di Pesch suscita e che resterebbe ancora irrisolta è perché i redattori abbiano collocato in una leggenda apologetica tardiva l’insolita presenza delle donne e dei loro nomi propri come destinatarie del messaggio. Trattandosi di testimoni culturalmente poco autorevoli e giuridicamente non attendibili, la loro presenza non era affatto necessaria anzi, in una costruzione narrativa destinata a riscuotere certa autorità, essa poteva perfino disturbare, essendo Cf. R. BULTMANN, Erforschung der synoptischen Evangelien (1966), tr. it. Storia dei Vangeli sinottici, EDB, Bologna 1969. 56 Per un resoconto, cf. O’ COLLINS, Gesù risorto, cap. 4. 57 Cf. R. PESCH, Il vangelo di Marco, Paideia, Brescia 1982. Conservano, sucessivamente, una analoga prospettiva che colloca il sepolcro vuoto come narrazione secondaria e posteriore: G. THEISSEN, A. MERZ, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 2003; A. TORRES QUEIRUGA, Ripensare la risurrezione. Differenza cristiana fra religioni e cultura, EDB, Bologna 2007. 58 GHIBERTI, La risurrezione di Gesù, 144. 55 36 stato invece preferibile rafforzare il ruolo di testimoni maschili, limitato di fatto ai soli nomi di due apostoli, Pietro e Giovanni in una fonte (Giovanni), e ad un solo apostolo, Pietro, in un’altra (Luca); sorprendentemente, possediamo ben quattro nomi propri di donne accanto al sepolcro vuoto: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, Salome e Giovanna, oltre ad un ulteriore riferimento collettivo ad “altre donne che erano con loro”. La particolareggiata descrizione del ritrovamento del sepolcro aperto e vuoto riportataci da Giovanni non può non sorprendere il lettore. L’episodio dell’ingresso nel sepolcro aperto, in particolare, ha il sapore di una testimonianza, letterariamente innecessaria (poiché l'assenza del corpo di Gesù è sufficientemente mostrata nell'episodio successivo, che ha per protagonista la Maddalena) ma storicamente significativa. Qui l’osservatore è posto dinanzi ad una precisa "direzione" lungo la quale leggere le implicazioni fra sepolcro e risurrezione: dalla esperienza del sepolcro aperto alla fede nel Risorto, e non viceversa: «Vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,8-9). Una fede che, nel suo avvio, sembra prendere spunto proprio da una conoscenza fattuale, storica, quella del sepolcro trovato vuoto, appunto. Non è forse superfluo ricordare che anche il Magistero della Chiesa ha voluto presentare le apparizioni e il sepolcro aperto e vuoto come due dati entrambi originari, le cui mutue implicanze riguardano la reciproca intelligibilità ma non una dipendenza tale per cui il raccontare l'uno richieda necessariamente il dover affermare anche l'altro.59 1.3 Il fondamento della fede dei testimoni è l’esperienza diretta del Risorto: insufficienza di altre spiegazioni L’Apologetica cattolica ha elaborato nel corso del tempo alcune risposte ad importanti obiezioni circa il fatto, e quindi la verità, della Risurrezione. Ci riferiamo qui alle obiezioni che negavano il nudo accadimento che l’uomo Gesù di Nazaret, morto crocifisso a Gerusalemme attorno all’anno 30 sotto l’imperatore Tiberio, fosse tornato in vita e si fosse offerto, vivo e risuscitato, all’esperienza dei suoi discepoli. Inizialmente mosse, secondo diverse prospettive, dal pensiero ebraico e poi da quello greco-romano, con i quali entrarono in precoce e puntuale dibattito rispettivamente il Contra Triphonem di Giustino e il Contra Celsum di Origene, le obiezioni al risuscitamento di Gesù saranno destinate a restare a lungo presenti in epoca moderna, quasi sempre nelle forme elaborate dall’illuminismo e dal razionalismo.60 Alcune di tali critiche mantengono una certa attualità; pertanto, una loro breve rivisitazione può ancora giovare alla contemporanea evangelizzazione61. Cf. CCC 640 e 647. Cf. anche le catechesi sulla Risurrezione, tenute da Giovanni Paolo II nelle Udienze generali del 25 gennaio, 1 febbraio, 22 febbraio, e dal 1° al 29 marzo 1989. Occasionalmente, anche Benedetto XVI: «Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi», BENEDETTO XVI, Udienza Generale, 5.11.2008, «Insegnamenti di Benedetto XVI» IV,2 (2008) 614. 60 Cf. W.L. CRAIG, The Historical Argument for the Resurrection of Jesus during the Deist Controversy, E. Mellen, Lewinston (NY) 1985. 61 Un buon riepilogo, di taglio catechetico, circa le risposte alle obiezioni classiche nei confronti della verità della risurrezione di Gesù è presentato da GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 1.2.1989. 59 37 Possiamo mettere in luce tre di esse, di speciale rilievo; a) la Risurrezione è un mito religioso di derivazione greco-romana, o comunque simile ai culti misterici dell’antico oriente, e dunque frutto della fantasia, senza alcun legame con la realtà; b) è frutto di visioni, allucinazioni, estasi mistiche, o comunque causato da esperienze soggettive senza legame alcuno con il reale accadere dei fatti; c) è un messaggio posto capziosamente in circolazione per fini politico-religiosi, e dunque frutto di menzogna, eventualmente sostenuto dal trafugamento doloso del cadavere di Gesù. Vediamo di affrontare una a una queste obiezioni. La predicazione del Risorto come favola mitologica La critica che razionalismo ed illuminismo diressero al cristianesimo nei secoli XVIII e XIX sostenne l’idea che tutta la dottrina della risurrezione, nel suo insieme, fosse risultato della trasposizione di miti di morte e rinascita, largamente presenti nel linguaggio religioso dell’antichità, spesso in collegamento con i cicli della vegetazione e con l’avvicendarsi delle stagioni, come testimonia la letteratura di praticamente ogni popolo e cultura del bacino mediterraneo e dell’Oriente medio. Tale obiezione viene mossa ancora oggi da autori in auge e da scritti propagandistici, aventi come scopo la diffusione di un ateismo folcloristico e popolare. Tuttavia, i dati riguardanti la storicità di Gesù di Nazaret ed i riferimenti temporali fissati sia dagli eventi di cui egli fu protagonista in Israele, sia dalla datazione delle prime testimonianze scritte riguardanti l’annuncio della sua risurrezione dai morti, impongono alcuni limiti importanti ad una lettura mitica delle narrazioni neotestamentarie. Infatti, osservando il breve lasso di tempo intercorso tra i fatti della vita di Gesù e le prime testimonianze scritte di essa, si può escludere che queste ultime siano frutto di un processo di elaborazione mitica. La costruzione di un nuovo mito, la sua maturazione nella coscienza popolare e nelle sue celebrazioni, richiede un tempo certamente più lungo di due o tre decenni. Troppo forti sono inoltre i legami tra i racconti della passione e morte di Gesù e la storia di Roma e di Israele, e troppo numerosi i riferimenti a testimoni, protagonisti e circostanze, per consentire piena libertà alla “costruzione” o anche solo alla “trasposizione” mitologica di una storia della risurrezione del Re dei Giudei crocifisso. Luoghi, nomi, personaggi, eventi, sono troppo particolareggiati e suscettibili di verifica da parte dei destinatari dell’annuncio per giustificare una loro facile commistione con elementi di carattere mitologico. Una simile commistione, poi, se si potrebbe ipotizzare in ambiente egiziano o assiro, pare assai meno plausibile nell'ambiente palestinese in cui hanno avuto origine le prime tradizioni neotestamentarie. Non abbiamo infatti testimonianze di incontri “creativi” fra i primi cristiani e la cultura religiosa pagana: sappiamo piuttosto che il messaggio cristiano chiedeva ai suoi destinatari un radicale mutamento di categorie e la conversione dei cuori. Tanto le fonti neotestamentarie, si pensi ad Atti (cf. At 8,9-12; 13,6-8; 19,18-19; cf. anche Gal 4,8-11; 1Tm 4,7; 2Tm 4,3-4; 2Pt 1,16), quanto le opere dei Padri della Chiesa, ma anche la storiografia pagana, sono unanimi nel testimoniare che i cristiani non scesero mai a compromessi con la religione e la mitologia pagane, ma si sforzarono di purificarle proprio da quegli elementi che i sostenitori dell'origine mitica dell'annuncio della risurrezione di Gesù affermano essere presenti nella redazione delle narrazioni e delle confessioni neotestamentarie. È significativo osservare come nella confutazione offerta da Origene alle critiche di Celso, mosse da quest’ultimo proprio a riguardo della somiglianza fra le narrazioni della risurrezione di Gesù e alcune diffuse concezioni pagane, le argomentazioni di Origene sottolineino il carattere 38 storico e pubblico dei fatti relativi alla morte di Gesù. I miti di risurrezione o di pseudorisurrezione, come quelli associati al pitagorico Zamolxi, all’egiziano Rampsinito, ai greci Protiselao ed Eracle – osserva Origene – si guardano bene dal fornire un inquadramento storico della loro morte, non fornendo elementi verificabili e determinati ma preferendo invece restare nel vago, per consentire ai poeti una maggiore libertà narrativa. Non è possibile mettere a confronto questi racconti con ciò che viene raccontato di Gesù risorto dai morti. […] Dal momento che Gesù fu crocifisso davanti a tutti i Giudei e il suo corpo fu tirato giù dalla croce sotto gli occhi del loro popolo, come si può dire che egli abbia inventato, come fecero quegli eroi, di cui si racconta che discesero nell’Ade e ne risalirono? […] Se, per ipotesi, Gesù fosse morto di una morte oscura, cosicché la sua morte non fosse evidente all’intero popolo dei Giudei, e poi fosse veramente risorto dai morti, avrebbe un fondamento dire su di lui ciò che si è sospettato degli eroi. Pertanto, non è forse possibile annoverare fra le cause della crocifissione di Gesù anche questa, cioè che egli è morto sulla croce in maniera manifesta, perché nessuno avesse la possibilità di dire che Egli si era sottratto volontariamente alla vista degli uomini ed era morto solo in apparenza, e non realmente, ma, dopo essere ricomparso quando volle, raccontò il prodigio della risurrezione dei morti?62 Sulle differenze con i racconti di Ercole ed Alcesti si è già riferito. Altre storie di immortalità, spesso legate ad un ciclo vegetale con riti primaverili, si muovono anch’esse, in pieno contesto mitico-politeista, con caratteristiche profondamente diverse dalla morte e risurrezione di Gesù.63 Possiamo dire dunque che, su una scala temporale di pochi decenni dagli eventi di Gerusalemme (ossia dalla morte in croce, pubblicamente nota, del Nazareno), mutuare elementi dalla letteratura mitologica greco-romana o da miti arcaici egizi o assiro-babilonesi non sarebbe stato possibile, a motivo della distanza culturale che separava questi ultimi contesti dalla comunità in cui l’annuncio del Risorto era sorto e adesso si sviluppava. Possiamo anche aggiungere che, se i redattori neotestamentari avessero voluto "ideare" delle narrazioni adatte a rappresentare cosa poteva essere accaduto a Gesù di Nazaret, la cosa più logica sarebbe stata rivolgersi ai modelli letterari che l’ambiente giudaico possedeva già: questi erano in primo luogo il genere apocalittico ed in seconda battuta l’epica impiegata in alcuni ambiti del profetismo. In realtà, però, nei racconti sulla risurrezione contenuti negli scritti canonici non troviamo tracce di tali generi. Il genere sobrio dei racconti evangelici canonici ed il genere essenziale e kerygmatico delle confessioni, sia evangeliche che delle lettere degli apostoli, rappresentano in proposito un unicum di difficile spiegazione. Il genere apocalittico farà invece la sua comparsa nei racconti elaborati ben più tardi, quando luoghi, testimoni e circostanze, apparterranno ad un passato non più accessibile, nella letteratura apocrifa. Emblematico, in proposito, il noto racconto della risurrezione di Gesù nel Vangelo di Pietro, che vale la pena riportare per intero, per notarne le differenze rispetto allo stile sobrio dei Vangeli canonici: ORIGENE, Contra Celsum, II, 56, tr. it. a cura di P. Ressa, Morcelliana, Brescia 2000, 208-209. Indugia su queste differenze, WRIGHT, Risurrezione, 61-112, al quale rimandiamo per la puntuale individuazione delle fonti classiche. Per un confronto con altre tradizioni religiose, cf. G.R. HABERMAS, Resurrection Claims in Non-Christian Religions, «Religious Studies» 25 (1989) 167-177. 62 63 39 Di buon mattino, quando il sabato cominciava ad albeggiare, una folla da Gerusalemme e dintorni andò a vedere il sepolcro sigillato. Ma nella notte in cui cominciava ad illuminarsi il giorno del Signore, mentre i soldati facevano la guardia a due a due, risuonò nel cielo un forte grido. Quelli videro i cieli aperti e due uomini scendere di là con grande splendore e accostarsi al sepolcro. La pietra, che era stata gettata all’ingresso, si rotolò da sola e si mise da parte. Il sepolcro così si aprì e i due giovani entrarono. A tal vista i soldati svegliarono il centurione e gli anziani. Anche questi erano là per la custodia. Mentre spiegavano ciò che avevano visto, ecco che vedono nuovamente uscire dalla tomba tre uomini: due sorreggevano il terzo, mentre una croce li seguiva. La testa dei primi due raggiungeva il cielo, mentre quella di colui che era condotto per mano da loro superava i cieli. Quindi udirono una voce dall’alto che diceva: “Hai predicato ai dormienti?”. Poi si sentiva la risposta proveniente dalla croce: “Sì”.64 L’attendibilità dei testimoni ed il dibattito circa il realismo delle apparizioni del Risorto Una classica obiezione che pone in discussione la veridicità della esperienza di Gesù Risorto da parte dei discepoli è quella di ipotizzare che le apparizioni descritte dai vangeli siano state in realtà visioni o allucinazioni di cui furono protagonisti coloro che ne trasmisero notizia. Tali fenomeni, di indole soggettiva, si sarebbero verificati sotto la spinta emotiva derivante dalla scoperta del sepolcro vuoto, anche a motivo della forte impressione che la personalità del Maestro aveva causato nei suoi discepoli. Specie attraverso gli interventi di Pietro, ma anche nei dialoghi degli altri apostoli, i Dodici sono presentati dai libri del NT come uomini semplici, dalla vita sana, la cui psicologia rivela tratti di estremo realismo e concretezza. Buona parte di loro erano pescatori, abituati a formulare giudizi schietti e istintivi, poco inclini, forse tranne rare eccezioni, ad esperienze di natura mistica o intensamente spirituale. Non abbiamo scene che ce li presentino protagonisti di visioni, estasi o esperienze analoghe. Durante la vita pubblica del Maestro, essi manifestano un comportamento di fondo, di stampo realista, che li spinge frequentemente a sincerarsi se quanto accade attorno a loro sia semplice visione soggettiva, fenomeni ingannevoli, o invece realtà65. L’unanimità delle reazioni di incredulità, già elemento di forza dell’Apologetica classica per sottolineare il realismo delle apparizioni, non cessa di sorprendere anche il lettore contemporaneo: non solo le tradizioni dei racconti delle apparizioni non hanno nulla di trionfalistico, ma se escludiamo il moto di gioia, ancora incerto in Luca (cf. Lc 24,41) ed ormai disteso solo in Giovanni (cf. Gv 20,20), ciò che tali racconti sembrano voler trasmettere è un senso di sconcerto che si traduce poi in esortazione alle generazioni successive di non voler ripetere il loro errore, quello di aver offerto resistenza ad uscire dalla delusione e dalla disfatta della croce. Visioni o incontri spirituali con il Risorto non possono essere del tutto esclusi in qualcuna delle apparizioni successive, e sono invece da ritenersi giustificati in altri episodi con cui Gesù, ormai Vangelo di Pietro, 9,34 - 10,42, tr. it. M. ERBETTA (ed.), Gli apocrifi del Nuovo Testamento, Marietti, Casale Monferrato 1975, vol. I/1, 143-144. 65 Si pensi ad esempio all'episodio in cui Gesù si avvicina loro sul lago di Tiberiade, camminando sulle acque. (cf. Mt 14,26; Mc 6,49-50); Pietro non si rassegna all’inspiegabile visione e ne cerca una spiegazione realista: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque» (Mt 14,28). 64 40 glorificato, continua a farsi presente ai suoi apostoli, specie a Paolo (cf. At 8,39; 9,5; 9,10; 10,13; 18,9; 22,17-21; 23,11; cf. anche 2Cor 12,1). Svariati passaggi degli Atti degli Apostoli riportano contesti ed episodi facilmente qualificabili come “visioni”, praticamente tutti introdotti dal medesimo vocabolo (gr. ὅραμα)66. Riveste un certo significato il fatto che in nessuna delle narrazioni riferentisi alla risurrezione di Gesù, il NT abbia mai impiegato questo vocabolo67. Queste ultime vengono descritte dagli evangelisti come esperienze relativamente prolungate e non istantanee, collettive, non legate a stati di coscienza particolari (sogni, estasi, preghiere, ecc.). Esse godono di uno specifico realismo, espresso in modo chiaramente intenzionale dalle azioni di condividere un pasto comune (cf. Lc 24,35; 24,43; Gv 21,12-13; At 10,41) e di sperimentare, mediante il senso esterno del tatto, la realtà del corpo del Risorto (cf. Lc 24,39; Gv 20,27). Si tratta di un’insistenza certamente non casuale per le narrazioni evangeliche. Si potrebbe dire, in sostanza, che l’obiezione delle visioni o delle allucinazioni pare aver accompagnato l’iniziale diffusione del messaggio della risurrezione e che gli stessi redattori del NT abbiano voluto tenerne conto, preoccupandosi di fornire elementi di giudizio, presenti nelle tradizioni orali, finalizzati a controbatterla. Va infine osservato che il fenomeno dell'allucinazione è ben conosciuto in psichiatria e la sua fenomenologia è piuttosto ben delineata: solo alcune persone ne vanno soggette; il fenomeno richiede precise condizioni psicologiche e ambientali e dipende dalle esperienze pregresse dell'individuo; ciò ne fa un fenomeno che accade ai singoli e non di gruppo; le allucinazioni, in un soggetto, non avvengono di norma in un tempo determinato per poi cessare, ma tendono a ripetersi nel tempo. Ebbene, tentare di applicare tale descrizione alle esperienze vissute dai discepoli di Gesù risulta oltremodo difficile, per non dire scientificamente impossibile. La sottrazione del cadavere di Gesù e le attese escatologiche deluse Fra le obiezioni mosse alla verità del risuscitamento di Gesù riveste un ruolo centrale l’ipotesi della sottrazione del suo cadavere dal sepolcro, cui sarebbero poi seguiti, a seconda del movente del trafugamento, l’annuncio doloso di apparizioni fittizie e la diffusione di visioni del Risorto, frutto della concitazione e del fanatismo dei discepoli, una concitazione indotta da motivi politici o religiosi, o anche risultata dalla semplice proiezione della loro speranza. La prima testimonianza circa l’accusa di una sottrazione furtiva del cadavere di Gesù, diffusasi presso gli avversari della comunità cristiana, risale, come è noto, al vangelo di Matteo. L’obiezione di ambiente giudaico al trafugamento del cadavere è menzionata attorno all’anno 150 da Giustino nel suo Dialogo con Trifone ebreo.68 Ripresa in epoca moderna dall’Illuminismo con Ad esempio: Pietro qualifica come "visione" la comparsa del lenzuolo con animali, puri e impuri, da mangiare (cf. At 10,9-19; 11,5); ancora Pietro si chiede se la liberazione miracolosa da parte dell’angelo durante la sua detenzione in carcere sia frutto di una visione (cf. At 12,9); Paolo vede in visione un Macedone che chiede di essere evangelizzato (cf. At 16,9-10); altri casi sono facilmente rintracciabili nel NT. 67 Per quanto riguarda l’impiego dell’aoristo passivo ὤφθη, l’analisi del vocabolario dei LXX segnala che esso è adeguato sia per esprimere visioni soggettive e apparizioni in contesto spirituale, sia per esprimere l’ordinario vedere ed essere visti in situazioni ordinarie. Per un’analisi esegetica, cf. anche S.T. DAVIS, “Seeing” the Risen Jesus, in S.T. DAVIS, S.T. KENDALL, G. O’COLLINS (edd.), The Resurrection. An Interdisciplinary Symposium on the Resurrection of Jesus, Oxford University Press, Oxford 1997, 126-147. 68 Cf. GIUSTINO, Adversus Triphonem, 108, 2. 66 41 Voltaire e dal razionalismo con Reimarus,69 essa continua a svolgere ancor oggi un certo ruolo, perché ha il vantaggio di offrire una risposta immediata all’origine della tradizione circa il sepolto vuoto e la scomparsa del cadavere di Gesù. Tuttavia, per essere ragionevolmente sostenuta, tale obiezione deve confrontarsi con il problema di fornire soluzioni plausibili sia per l’agente, sia per il movente del trafugamento. Sarebbero ovviamente i discepoli di Gesù gli unici agenti imputabili di tale operazione. Va infatti escluso che possa trattarsi dei romani, perché del tutto estranei, e volutamente, alle questioni che riguardavano rivendicazioni e dispute religiose fra ebrei (cf. Mt 27,24; Lc 23,6-7; Gv 18,31 e 19,6; At 18,15); e va anche escluso che gli agenti della sottrazione possano essere stati i farisei, per la semplice assenza di moventi plausibili, essendo loro interesse proprio il contrario, ovvero provare con la morte di Gesù e, se necessario, con la reperibilità del suo cadavere, il fallimento delle pretese divino-messianiche di Gesù o su Gesù. Una delle principali motivazioni avanzate dalla critica razionalista per giustificare la sottrazione del cadavere da parte dei discepoli, fu quella di leggere l’accaduto come il tentativo di restaurare politicamente il regno di Israele contro l’oppressione dell’invasore romano (cf. At 1,6). I discepoli si sarebbero proposti di sfruttare l’onda dei consensi che buona parte della popolazione tributava ancora al movimento creatosi attorno a Gesù di Nazaret, immaginando che l’annuncio di una sua vittoria messianica potesse far nuovamente scattare una protesta, in funzione politicosociale anti romana. I discepoli, in realtà, avrebbero sempre coltivato questo progetto, e in base ad esso avrebbero interpretato la missione del loro Maestro. La “delusione” sopravvenuta con l’esperienza della condanna a morte e della croce li avrebbe spinti a cercare soluzioni alternative, fra le quali, appunto, una rivalsa basata su una fittizia glorificazione del Cristo-Messia. Per essere credibile, il loro appello rivoluzionario avrebbe però richiesto la sottrazione del corpo di Gesù. Tale ipotesi va incontro a una seria difficoltà. La storiografia pagana, che pure ci offre alcune indicazioni, sobrie ma significative, circa il movimento religioso di Gesù di Nazaret e le sue finalità, non ci ha consegnato alcuna informazione di sommosse o atti di intolleranza guidati dai cristiani contro i romani o contro i capi collaborazionisti del popolo ebraico. Né vi sono cenni di protesta, o anche solo allusioni ad essi, nei confronti delle forze di occupazione militare, a Roma o in altri luoghi dell’Impero. I cristiani predicano qualcosa di ben diverso e scelgono di morire per ben altri scopi. I rapporti con l’impero romano e le sue autorità si muovono su binari di rispetto politico, reclamando autonomia e identità solo sul piano dei diritti religiosi. Una variante della precedente lettura politico-rivoluzionaria pone invece l’accento sulla dimensione spirituale-religiosa del movimento sorto attorno al Nazareno e sulla delusione che, questa volta, sarebbe giunta dalle aspettative escatologiche non più realizzate. L’inutile attesa di un ritorno immediato del Cristo avrebbe forzato i discepoli a divulgarne un ritorno “sotto altra forma”, alla cui proclamazione la sottrazione del cadavere di Gesù avrebbe conferito maggiore credibilità. Anche in questo caso, però, esisterebbero delle difficoltà da superare. Va notato, infatti, che il nucleo del kerygma apostolico non contiene in primis una proclamazione del ritorno di un Risorto glorificato, ma piuttosto nell'annuncio della salvezza che in Lui viene offerta a tutti e che richiede una conversione di vita. L’annuncio del Risorto è funzionale per gli apostoli al provare che questa salvezza si è data di fatto, perché colui che è morto Cf. H.S. REIMARUS, I frammenti dell’Anonimo di Wolfenbüttel, tr. it. a cura di F. Parente, Bibliopolis, Napoli 1977, nn. 13-19, 302-318. 69 42 sulla croce è stato il Figlio di Dio. Essi non rivendicano neppure una rivincita rispetto alla classe dirigente del giudaismo o ad altri gruppi religiosi, poiché parlano di una remissione dei peccati ed una salvezza universali, indirizzate addirittura a tutte le genti. Sia l’idea di perseguire finalità politiche, sia quella di condurre forzosamente a compimento una improbabile missione spirituale, non sono neanche in linea con i contenuti delle narrazioni del NT, caratterizzate da uno stile certamente non trionfalistico, e da un'atmosfera piuttosto di sconcerto e di graduale, sofferta, presa di coscienza. È inoltre sempre valida la classica contro-obiezione, che i seguaci del Nazareno non avrebbero potuto sostenere a lungo il loro impegno pubblico, né farlo in modo unanime, fondandolo in toto su un’azione dolosa e su un‘intenzione ingannevole, fino alla testimonianza, non occasionale, del loro martirio non violento; il dolo e la menzogna avrebbero dato presto origine a separazioni e a defezioni, oltre a mostrarsi poco compatibili con lo stile e l’integrità di vita dei discepoli di Gesù, il cui riconoscimento pubblico come persone virtuose e bene accette ci viene trasmesso anche dalla testimonianza di fonti extrabibliche. Non andrebbe infine dimenticato che il progetto del furto di un cadavere non incontrava, in linea di principio, il favore della cultura e della mentalità degli ebrei, i quali, secondo le prescrizioni mosaiche, qualificavano come azione impura entrare in contatto con un cadavere già deposto in un sepolcro,70 e dunque si trattava di qualcosa di psicologicamente difficile da concepire in modo rapido e concordato. Pertanto, in accordo con quanto sottolineato dalle argomentazioni dell’apologetica classica, riteniamo che vi siano fondati motivi per qualificare come non ragionevole l’ipotesi di un furto doloso da parte dei discepoli. 1.4 La Risurrezione, evento e mistero Come avviene per la Rivelazione in generale, anche nella Risurrezione di Cristo risultano intrecciate in modo inseparabile la dimensione storica (di evento) e la dimensione di fede o teologale (di mistero). Nel caso della Risurrezione, trattandosi di un evento del tutto singolare anche rispetto ad altri fatti della vita di Gesù, come giustamente sottolineava Barth, cogliere correttamente il rapporto tra tali dimensioni è un'impresa particolarmente impegnativa. È un fatto che, nell'acceso dibattito intorno al carattere storico dell'evento di Pasqua, si possano trovare posizioni estreme e quasi contrapposte: quella di chi afferma che la Risurrezione sia a tutti gli effetti un evento storico, e quella di chi la ritiene una realtà conoscibile solo attraverso la fede, di cui non si può avere alcuna evidenza empirica. Occorre, per evitare simili estremi, distinguere senza separarle, le dimensioni propriamente teologiche della Risurrezione, da quelle che la situano nello spazio e nel tempo umani, ossia nella storia. Innanzitutto una precisazione utile è quella sul significato del termine "storia": si può infatti In merito alla visita al sepolcro delle donne il primo giorno dopo il sabato, gli aromi e gli unguenti preparati non sarebbero stati applicati sul corpo di Gesù, ma aspersi sulla salma e lasciati in prossimità di essa. La prescrizione legale di non entrare in contatto con un cadavere entrando in un sepolcro, sembra dettare una certa esitazione nel comportamento di Pietro, che si limita ad osservare fuori dell’ingresso o dell’apertura: «corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli» (Lc 24,12); e di Giovanni: «Si chinò, vide i teli posati là ma non entrò» (Gv 20,5). 70 43 dire che è "storico" un avvenimento quando esso è avvenuto realmente, nel mondo, in un determinato tempo; ma si può anche impiegare l'aggettivo "storico" per indicare la reperibilità di notizie o prove che attestano in modo più o meno sicuro un fatto verificatosi nel passato. In base a questa distinzione, si può dare il caso (ed è normalmente così) che sia possibile raggiungere solo una parziale o debole evidenza storica (nel secondo senso) riguardo a un certo evento passato, e tuttavia tale evento può essere in realtà autenticamente "storico" (nel primo senso del termine). Ebbene, per quanto riguarda la risurrezione di Gesù, appartiene certamente alla storia –nel senso che se ne possono fornire prove storiche– il progressivo, rapido aggregarsi della Chiesa nascente attorno all'annuncio del Risorto, un annuncio il cui avvio e la cui ragion d’essere possono trovare una spiegazione soddisfacente solo in qualche avvenimento che oltrepassi la sfera delle esperienze o delle interpretazioni soggettive. Si tratta infatti di un messaggio che si diffonde in modo immediato, estendendosi in pochi anni entro tutto il bacino mediterraneo. La sua prima testimonianza scritta, rintracciabile nella prima Lettera ai Tessalonicesi (cf. 1Ts 1,10; 4,14), risale assai probabilmente all’estate dell’anno 50, mentre più fonti, anche di ambiente pagano, testimoniano la presenza di questo messaggio a Roma, in occasione della persecuzione promossa da Nerone, e in ampie zone dell’impero romano, già attorno all’anno 60 e dunque a circa 30 anni dagli eventi di Gerusalemme. Se poi guardiamo più da vicino il contenuto del messaggio sulla risurrezione, ovvero la speranza che i primi cristiani unanimemente confessavano, perché già anticipata in Gesù Cristo, che il corpo umano era destinato a risorgere quale soggetto di una vera vita corporale, sebbene trasfigurata, appartiene allora alla storia l’integrità con cui tale credenza si è mantenuta e si è diffusa, senza sfilacciamenti, a dispetto delle molteplici visioni sulla “vita dopo la morte” con cui i cristiani entravano quotidianamente in contatto.71 È ugualmente oggetto della storia la consuetudine, praticata ben presto da tutte le comunità cristiane, di celebrare la loro principale riunione cultuale nel giorno detto “del sole” e ribattezzato “giorno del Signore” (dies Domini; dominicus), ovvero il giorno successivo al sabato ebraico. Si trattava di riunioni festive, di ringraziamento (gr. εὐχαριστῖα, gratitudine, riconoscenza), che possedevano però il segno sacramentale di un sacrificio di morte, risultando pertanto comprensibili soltanto se la morte commemorata, quella di Gesù di Nazaret sulla croce nel giorno prima del sabato, non fosse stata l’ultima parola di quanto veniva lì ricordato. Tali contenuti saranno poi esplicitamente confermati dalla strutturazione di quelle formule liturgiche che presentano l’Eucaristia come testimonianza pubblica della fede nella risurrezione.72 Va infine «Una delle caratteristiche più singolari del movimento cristiano delle origini è la sua virtuale unanimità riguardo alla speranza del futuro. Avremmo potuto aspettarci che i primi cristiani sviluppassero ben presto un ampio ventaglio di credenze sulla vita dopo la morte, in rapporto con il gran numero di opinioni che abbiamo constatato nel giudaismo da cui è sorto il cristianesimo, e che abbiamo osservato altresì nel paganesimo, nel quale il cristianesimo si immerse in quanto movimento missionario; ma ciò non è accaduto», WRIGHT, Risurrezione, 253. Sintomatico, al riguardo, il rimprovero di Paolo ai cristiani di Corinto, che l’apostolo riconduce autorevolemente ad un pensiero normativo (cf. 1Cor 15,12-13). 72 L’associazione fra la risurrezione di Gesù e la celebrazione eucaristica è un tema ricorrente della prima patristica: cf. Epistola di Barnaba, XV, 8-9; IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, IV, 18,5; V, 2,2-3. La liturgia eucaristica testimonia la proclamazione del Risorto già nei testi delle anafore primitive; così la Traditio Hippolyti: “Memores igitur mortis et resurrectionis eius”, IPPOLITO DI ROMA, Traditio apostolica, n. 4, a cura di B. Botte, in SCh 11, 52. L’acclamazione giunta fino ai nostri giorni nel Missale Romanum: “Mortem tuam annuntiamus, Domine, et tuam resurrectionem confitemur donec venias” compare già nella Anafora di 71 44 considerato come un dato accessibile alla storia, pur con tutti i limiti associati al metodo storico che investiga sul passato, la tradizione del “sepolcro aperto e vuoto”, ovvero l’assenza di informazioni che trattino il sepolcro di Gesù di Nazaret alla stregua di altri sepolcri di personaggi di rilievo, divenuti luogo di memoria in forza della presenza dei resti mortali di coloro che lì si veneravano. Per gli adepti del movimento religioso sorto attorno a Gesù di Nazaret, non sarà il suo sepolcro, ma la croce, il segno di riconoscimento e di aggregazione. Riguardo alle apparizioni, abbiamo discusso ampiamente la valenza storica che le testimonianze neotestamentarie possiedono. In esse, tuttavia, ci confrontiamo già con la realtà della vita risorta di Cristo: è qui che appare chiaramente la dimensione di mistero che tale realtà possiede e su cui dobbiamo riflettere. La testimonianza storica delle apparizioni del Risorto, come trasmessa dalla tradizione orale e dai documenti redatti dalla comunità credente, non riduce la risurrezione ad un evento circoscrivibile entro i soli canoni della storia: gli apostoli vedono Gesù vivo, ma lo credono risorto. Per loro, che ne furono testimoni, le apparizioni non furono in sé stesse, strictu sensu, oggetto di fede teologale. Ad essere oggetto di fede teologale, per gli apostoli come per noi – e dunque oggetto di una conoscenza che solo la grazia può porre in atto –, è invece la Risurrezione considerata nel suo significato più intimo e profondo, come azione divina mediante la quale la vita umana torna nuovamente ad informare il corpo cadavere di Gesù Cristo restituendogli, nella storia e al di là della storia, un’esistenza trasfigurata, oltre lo spazio e il tempo come li sperimentiamo in questo mondo. Una simile azione può avere per agente solo Dio, «che dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,12). È questo il Dio che l’apostolo Tommaso riconoscerà in Gesù (cf. Gv 20,28). Ed è questo l’oggetto della fede di tutti gli apostoli al momento in cui riconoscono la vera e definitiva identità del Maestro come Figlio dell’Eterno Padre; non più solo esperienza di un corpo risuscitato, ma conoscenza, mediante la fede, di una esaltazione e di una glorificazione che né la carne né il sangue possono rivelare (cf. Mt 16,17). Occorre pertanto concludere che la risurrezione è sì oggetto della storia, ma anche oggetto della fede. Essa riproduce la logica, più volte manifestata dalla Rivelazione cristiana, di presentarsi come mistero e come evento: un evento che interseca la storia, ma la trascende. Negli aspetti che attengono alla dimensione di evento, i fatti che hanno condotto alla fede nel Risorto – la sua morte reale, il sepolcro vuoto, le apparizioni del Risorto che si offre all’esperienza sensoriale dei suoi discepoli, la considerazione sotto una nuova luce delle profezie del Primo Testamento, la diffusione di un annuncio testimoniale, ecc. – sono oggetto della storia, fin dove la loro ricostruzione può ragionevolmente spingersi. Negli aspetti che interessano il mistero – la divinità di Colui che risorge, come sia possibile una continuità esperibile fra il cadavere del crocifisso e il corpo trasfigurato del Risorto, il significato escatologico che la resurrezione ingloba, il suo valore redentivo e i frutti di salvezza che essa anticipa come primizia – il credente esercita il suo atto di fede, e lo compie alla luce della coerenza dell’intera Rivelazione e del valore della testimonianza apostolica. s. Giacomo, Prex 249 e 266: cf. A. HÄNGGI, I. PAHL, Prex Eucharistica, textus e variis liturgiis antiquioribus selecti, Academic Press, Fribourg 1968; B. BOTTE, Mysterium fidei, «Bible et vie chrétienne» 80 (1968) 29-34. 45