L`aiuto ai perdenti delle sfida globale

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L`aiuto ai perdenti delle sfida globale
la Repubblica venerdì 16 febbraio 2007
L’aiuto ai perdenti delle sfida globale
__________
Nouriel Rubini
E’ ormai evidente che in tutto il mondo la
globalizzazione sta suscitando una
reazione di rigetto. Un fenomeno dovuto
a vari fattori: la crescente disuguaglianza
dei redditi e della ricchezza in molti
paesi, sia avanzati che invia di sviluppo;
la perdita di posti di lavoro non solo
nell'industria, ma anche nei servizi, dove
l'outsourcing sta mettendo sempre più a
rischio l'occupazione; nel ceto medio
crescono le ansie per la sicurezza del
lavoro e l'impatto della globalizzazione
economica. Quest'anno, il tema è stato
ampiamente discusso anche dalle élite
cosmopolite riunite a Davos; e negli Usa,
il presidente della Fed Bernanke e lo
stesso George W. Bush hanno aperto un
confronto di idee sul ruolo della
globalizzazione
nell'aumento
delle
disuguaglianze oggi in atto. La questione
politica chiave è come prevenire il
protezionismo in materia di scambi
commerciali e di assetto patrimoniale (la
resistenza agli investimenti diretti di
capitali esteri), e in senso più generale, la
tendenza a voltare le spalle alla globalizzazione. Nel lungo periodo, la
globalizzazione ha effetti benefici sia
sulle singole realtà nazionali che
sull'economia globale. Nel corso degli
ultimi cinquant'anni, i paesi che si sono
integrati in questo processo hanno
conseguito buoni risultati, mentre chi ha
perso il treno della globalizzazione
tendenzialmente è rimasto indietro.
L'attuale reazione di rigetto deriva dal
fatto che nell'economia globale c'è chi
vince e chi perde; il guadagno netto è un
fatto positivo, ma i perdenti cercano
logicamente
di
resistere
a
un
cambiamento che peggiora la loro
condizione. Tra i vincenti vanno
annoverati i lavoratori qualificati delle
economie avanzate, con mansioni non facilmente delocalizzabili; i lavoratori dei
mercati emergenti quali la Cina o l'India,
i cui redditi aumentano grazie
all'inserimento nell'economia globale; i
possessori di risorse rare, e in particolare
di alcune materie prime, nonché di valori
mobiliari o immobiliari e di beni
finanziari in genere. Ma è lungo anche
l'elenco dei perdenti, che comprende i
lavoratori meno qualificati delle economie avanzate, e in parte anche quelli
qualificati, ma sostituibili attraverso
l'outsourcing.
C’è preoccupazione in molti settori del
ceto medio, le cui remunerazioni non
tengono il passo con l'aumento della
produttività, mentre diminuisce anche la
sicurezza del posto di lavoro. La
competitività dei paesi a livelli di reddito
medi (tra cui il Messico e il Sudafrica) è
messa a repentaglio dall'ascesa di paesi
produttori quali la Cina o altri stati
asiatici con salari più bassi. In Cina, in
India e in altri paesi in via di sviluppo i
coltivatori che già vivono in condizioni di
relativa o assoluta povertà rischiano di
impoverirsi ulteriormente. All'Africa la
globalizzazione non ha apportato finora
alcun beneficio.
A tutto ciò si deve aggiungere la
crescente disuguaglianza della ricchezza e
dei redditi negli Stati Uniti, in Europa, in
Cina, in Giappone, nell'America Latina e
in altri mercati emergenti. Se le
sperequazioni aumentano, è perché la
quota di profitto riservata al capitale
tende a salire, mentre cala la
remunerazione del lavoro; o perché il
reddito reale da lavoro è in crescita per i
gradi di competenza più elevati, mentre
per quelli inferiori si sta riducendo, in
termini sia relativi che assoluti; e infine
perché in ragione degli alti livelli della
remunerazione del capitale, è in atto una
crescente concentrazione della proprietà
mobiliare e immobiliare.
In quale misura questi cambiamenti
vanno ascritti allo sviluppo tecnologico,
piuttosto che alla globalizzazione
economica? Su questo punto il dibattito è
aperto. In realtà l'influenza del progresso
tecnologico, che tradizionalmente ha
sempre premiato la competenza, è stato
finora maggiore di quello degli scambi.
Ma come suggeriscono alcuni studi
recenti, il ruolo di questi ultimi sta
crescendo. Se infatti 2,2 miliardi di
lavoratori cinesi e indiani vengono ad
aggiungersi alla forza lavoro globale, in
prospettiva il risultato non può essere che
un'erosione del salario e/o una riduzione
dei posti di lavoro, non solo nell'industria
ma anche nei servizi per i quali esiste la
possibilità della delocalizzazione o
dell'outsourcing. A questo punto la
distinzione tra gli effetti della tecnologia
e quelli degli scambi appare sempre più
evanescente, dato che sono proprio le
nuove tecnologie a rendere possibile la
globalizzazione dell'approvvigionamento
e delle catene di produzione, cosi come
l'outsourcing nel campo dei servizi (o in
termini più generali, la crescita del "trade
in tasks", ovvero dell’”import-export
delle mansioni"): si tratta effettivamente
di un tipo di scambi internazionali cui la
tecnologia ha dato un fortissimo impulso.
Ed è quindi sempre più difficile distinguere tra le conseguenze della globalizzazione e quelle delle nuove
tecnologie.
In generale, tutti concordano nel
segnalare i pericoli di una grave reazione
di rigetto, con un ritorno al protezionismo
in materia di scambi commerciali e di
investimenti di capitali, che nel lungo
periodo porterebbe a un calo della
crescita e del benessere globale. Il
problema principale è ora quello di
individuare
gli
interventi
politici
necessari ad evitare un'inversione di rotta
della globalizzazione.
Le opzioni politiche in questo senso
potrebbero essere numerose. Il loro
elenco comprende l'adozione di misure
più serie ed efficaci per assistere gli
operatori negli aggiustamenti resi
necessari dagli scambi globali; il
miglioramento della formazione e la
riqualificazione dei lavoratori; uno sforzo
maggiore nel campo dell'istruzione,
affinchè i giovani siano all'altezza delle
esigenze di flessibilità in un mondo del
lavoro che cambia; una copertura
assicurativa per i lavoratori più anziani
cui la dinamica dell'economia globale
impone posti di lavoro meno remunerati
di quelli precedenti; un aumento delle
indennità di disoccupazione, incentivando
al tempo stesso la ricerca di un nuovo impiego; la "flessicurezza", ossia la tutela
del lavoratore anziché del posto di lavoro;
la trasferibilità della copertura sanitaria e
di previdenza sociale; e infine, se del
caso, un'accresciuta progressività nei
sistemi di tassazione, a compensare le
crescenti disuguaglianze e come mezzo di
redistribuzione del reddito a favore dei
più penalizzati.
Il concetto di fondo è che ai lavoratori si
deve chiedere una maggior flessibilità, e
la capacità di cambiare più facilmente
lavoro. Nelle aziende le mansioni
specifiche cambiano con frequenza
crescente; e per di più si assiste al declino
la Repubblica venerdì 16 febbraio 2007
di molte aziende, o anche di interi settori
che sospendono o delocalizzano la
produzione. L'idea di rimanere per tutta la
vita nella stessa azienda è ormai obsoleta.
Ma se i lavoratori devono accettare
l'insicurezza del posto di lavoro e del
reddito, e adeguarsi a una politica
occupazionale più orientata al mercato,
allora — e in qualche modo
paradossalmente — è necessario rendere
più estese e robuste le reti di protezione
sociale fornite dagli Stati. In altri termini,
se ai mercati e ai lavoratori si chiede più
mobilità e flessibilità, l'intervento dello
Stato nell'economia dev'essere maggiore,
o di miglior qualità. C'è infatti bisogno di
un'adeguata rete di ammortizzatori per i
lavoratori esposti ai contraccolpi delle
forze del cambiamento tecnologico e
della globalizzazione.
Il problema di scegliere, tra gli interventi
politici sopra elencati, il mix più idoneo
alle diverse realtà nazionali è assai
complesso. Nei paesi europei i sistemi di
protezione
sociale
hanno
già
un'estensione notevole. Si tratta quindi
non tanto di potenziare il welfare quanto
di renderlo più efficiente e mirato, per
favorire l'adeguamento alla volatilità
dell'economia globale; e di proteggere i
lavoratori, piuttosto che determinati,
specifici posti di lavoro. In altri termini,
se è vero che il mercato del lavoro deve
diventare più flessibile, il solo modo per
evitare una reazione di rigetto alla
globalizzazione è forse quello di mettere
a punto politiche fiscali e di spesa
pubblica appropriate, in grado di placare
le crescenti preoccupazioni dei lavoratori
e del ceto medio per gli effetti della
globalizzazione economica.
Nouriel Roubini è docente di economia
alla Stern School of Business, New York
University, e Presidente di Roubini
Global Economics
www.rgemonitor.com
Traduzione di Elisabetta Horvat