Padre e figlio

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Padre e figlio
Padre e figlio
di Sergio Givone
A Salamanca! Giancarlo Balletto aveva appena ricevuto l’invito da parte del
professor Ignacio Reguerra a tenere un corso di storia del pensiero italiano
contemporaneo a Salamanca. Profesor invitado... Il suo primo pensiero («e tu
che non credevi...») fu per suo padre. Non avrebbe osato, se il pover’uomo
fosse ancora stato in vita. Ma per l’appunto era morto, da due mesi. Il secondo invece era una cosa soltanto sua. «Vagliedo, Juan Carlos Vagliedo». Così
lo avrebbero chiamato a Salamanca – e l’irrimediabile pochezza del suo nome
gli pareva di colpo redenta.
Tenne a lungo la lettera in mano, di tanto in tanto rileggendola. Seduto al
suo solito posto, al tavolo di cucina. Di fronte a quello che sarebbe stato il posto di suo padre, se suo padre lo avesse mai occupato. Infatti stava quasi sempre in piedi. A preparare la cena, che era anche il mangiare per l’indomani.
Per lo più uno spezzatino cotto nella conserva di pomodoro. Gli avanzi li
avrebbe messi da parte per sé, nel pentolino a doppio scomparto da portare
in fabbrica, a Mirafiori, ma solo dopo aver servito quel suo ragazzo senza madre finché lui non avesse posato la forchetta con un gesto di sazietà.
E siccome capitava che il figlio, più per distrazione che per fame, inghiottisse tutto quel che il padre gli metteva nel piatto, vale a dire tutto quel
che aveva preparato, l’operaio Balletto allora faceva lessare due patate e due
cipolle, che sarebbero state il suo pasto serale e anche quello del giorno dopo, non certo scontento di ciò, ma al contrario. Ossia felice del fatto che suo
figlio, così magro e smunto, mangiasse, e anche del fatto che patate e cipolle,
diceva, erano «tutta salute». Intanto Giancarlo, mentre mangiava, leggeva.
Ad alta voce. Sempre cadenzando a seconda dell’importanza del passo in
questione. E talvolta, nei punti cruciali, interrompendosi per cercare gli occhi del padre. Il quale allora lasciava il fornello e si voltava verso il figlio. In
silenzio, pensieroso, chiedeva spiegazione a Giancarlo. E Giancarlo dava fondo al suo sapere.
Oggetto di quelle letture intense e severe era per lo più la rivista di Amadeo Bordiga, “Soviet”, di cui i Balletto possedevano quasi tutti i fascicoli. Non
a caso. Padre e figlio erano bordighisti. Anzi membri del Partito comunista
internazionalista, di cui fin dal  quell’appartamentino (camera, tinello e
servizi) fungeva da sede della cellula torinese. Vero è che già da qualche an
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no, a furia di scissioni interne, tale cellula si era ridotta a due soli militanti: i
Balletto. Ma ciò non aveva comportato, faceva notare Giancarlo, alcun calo
della tensione rivoluzionaria.
Con una certa regolarità Giancarlo Balletto scriveva ad Amadeo Bordiga,
per sottoporgli delicate questioni teoriche. Puntuali, da Napoli, dove Bordiga era tornato a fare l’ingegnere, arrivavano le risposte. Erano frasi di repertorio vergate stancamente, ma intinte nell’inchiostro di una specie di disperazione teologica, come di chi sa che ogni speranza è morta, e tuttavia solo dal
fondo della disperazione ha senso sperare. Insomma, suggeriva Bordiga, dannazione e salvezza sono oscuramente intrecciate. L’importante, anche se il Nemico (sia il nemico di classe sia quell’altro) sembrava averla vinta su tutto, era
tenersi pronti. Appunto. Padre e figlio annuivano. Tenersi pronti. Chi più di
loro, del resto?
Le parole del segretario generale non solo li confermavano nella loro fede bordighista. Ma aiutavano a capire. Quelle missive avevano il potere di far
luce in modo infallibile sui punti più oscuri di “Soviet”. E mentre l’operaio si
preoccupava di conservarle in bell’ordine, lo studente si alzava dalla sedia di
scatto, e, come preso da raptus, correva nell’altra stanza, le tirava fuori dall’incartamento, le sfogliava febbrilmente, ed ecco, trovava: lo scioglimento
dell’enigma era nella frase («la contraddizione che governa il processo storico...», per esempio) che ora leggeva e rileggeva ad alta voce incurante della
mela che, sbucciata a metà, intristiva nel piatto.
Poi, la svolta. O non fu piuttosto una naturale evoluzione dello spirito?
Sia come sia, Giancarlo Balletto un giorno fece sapere di essere diventato cataro. «Come sarebbe a dire, cataro?». «Sì, cataro, cataro, perché?». E c’era in
quel perché un certo orgoglio, ma anche sdegno e disprezzo per chi si ostinava a non capire: che cataro e comunista internazionalista non fa nessuna differenza, e infatti il rifiuto per qualsiasi compromesso mondano è lo stesso, la
convinzione che tutte le cose sono preda del maligno è la stessa, la certezza
che una luce di verità brilla nelle tenebre più tenebrose è la stessa... Bisogna
aggiungere altro? No, secondo Balletto figlio.
E secondo Balletto padre? L’operaio Giuseppe Balletto era turbato. Diciamo pure: interiormente diviso. Nel senso che, finché era a casa sua con suo
figlio, i conti tornavano, quei ragionamenti non facevano una grinza, e, per
quel che lo riguardava, poteva benissimo professarsi cataro anche lui. Però, in
fabbrica, era tutta un’altra cosa. Quei pensieri, già solo a farseli venire in mente, lì sul lavoro gli sembravano... eh, sì, gli sembravano... senza offesa, si capisce... che uno se ne vergognava. A Giancarlo non avrebbe osato dirlo, ma è
così: se lui in FIAT dichiarava di essere comunista internazionalista, se ne poteva discutere, ma cataro, be’, che cosa discutevi?
Però si capivano, padre e figlio. Senza trascurare l’esegesi di Bordiga e della sua rivista, o forse un po’ sì (infatti Balletto padre aveva intuito qualcosa),
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per settimane e settimane Giancarlo Balletto si era dedicato alla composizione di un vasto poema metafisico. Era intitolato Arimane. Più di tremila versi
sciolti. La lingua, un impasto escogitato dall’autore, fra l’occitanico e varie
commistioni romanze. Incominciava con i versi: «El mund est toto volto, / con
el culo in sù». E con gli stessi versi finiva.
Una sera ne diede lettura. Giuseppe Balletto, come al solito, preparava da
mangiare. E siccome Giancarlo Balletto, in piedi, declamava, quella volta Giuseppe si sedette. E rimase a sedere. Mangiando. Ascoltando e mangiando. Sì,
mangiando come non gli era capitato da quando era rimasto solo con quel figlio da allevare. La lettura durò fin dopo la mezzanotte – e lui che in fabbrica aveva il primo turno, ma figuriamoci se gl’importava. Intanto aveva continuato a versarsi da bere. Così, quasi un gesto automatico, tutto preso com’era
dal poema. Quando Giancarlo lesse gli ultimi versi, come sappiamo identici
ai primi, Giuseppe Balletto era dolcemente ubriaco. Gli occhi pieni di lacrime dalla commozione. Si alzò dalla sedia. Ma subito si risedette, poiché gli girava la testa. Batté con forza il palmo della mano sul tavolo facendo sobbalzare le stoviglie. Poi, dopo aver ricordato che sì, è proprio così, il mondo è tutto girato con il culo in su: «Ma noi il mondo lo rimettiamo sulla testa», fu il
suo commento finale. «Vuoi dire sulle gambe, papà», lo corresse suo figlio.
«Sì, sì, sulle gambe, è questo che volevo dire», aggiunse lui un po’ confuso.
Poi Giancarlo Balletto si laureò, avventurosamente. Gli era stata data una
tesi su «decadentismo e maledettismo in Piemonte fra Otto e Novecento».
Avrebbe dovuto scavare fra materiali non ancora sufficientemente esplorati,
gli disse il professore, e chissà a cosa si riferiva. «Bene», pensò Balletto, e lui
sì che subito vide chiaro, anche se quel che vide, per la verità, non è facile a
dirsi. Questo vide: la sua anima che s’inabissa e visita le regioni infere dell’essere, e lì, nel cuore di tenebra, trova la perla purissima, l’essenza luminosa e
divina, la memoria dello spirito fra le rovine di un mondo reietto. «Però!», sibilò perfido l’assistente del professore a cui Balletto si era rivolto per comunicargli i primi risultati delle sue ricerche. «Dove ha trovato tutto questo?»,
incalzò quello. «In me stesso!», avrebbe voluto rispondergli lui. Ma preferì il
basso profilo: «Nella cerchia di Arturo Graf», si limitò a dire. L’assistente lo
gelò. «Arturo Graf era un poseur!». Balletto restò senza parole. Il labbro inferiore prese a tremargli, la bocca semiaperta. E intanto sentiva montare dal
profondo un odio sconfinato per quella bestia ignorante. Gli avrebbe dato volentieri un pugno sui denti.
Trovava “illuminati” e “puri” e insomma catari non solo nella cerchia di
Arturo Graf, ma ovunque dirigesse la sua attenzione nella Torino tardo-ottocentesca ormai eletta a sua patria spirituale. Cataro, ad esempio, era a suo giudizio il Cottolengo, che abbracciò la miseria umana senza riserva. E cataro
Nietzsche, che abbracciò un cavallo. Ne trasse spunto per un articolo: Un incontro mancato nella Torino umbertina. Cottolengo e Nietzsche. La sua idea era
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che il Cottolengo e Nietzsche la pensavano allo stesso modo. Infatti entrambi sostenevano, secondo Giancarlo Balletto, che il mondo non dovesse essere
redento dal dolore, ma nel dolore. E questa era la chiave d’un pensiero ancora tutto da pensare, diceva. «Ma non era già stato pensato dal Cottolengo e da
Nietzsche?», gli fu fatto osservare. Lui non raccolse la provocazione.
Aveva letto l’articolo a suo padre, naturalmente. Il vecchio bordighista
cercava di nascondere la sua perplessità. Se n’era stato in silenzio, come sempre, attento, concentrato. Ma poi, come capitava in quei casi, incominciò a
torcere la testa piano piano e a grattarsi la nuca fino a farsela sanguinare. Giancarlo Balletto ne trasse la conclusione che l’articolo era per specialisti. Allora
pensò di proporlo ad Augusto Ceppaloni, perché lo pubblicasse su “Filosofia”. Il vecchio accademico se ne stava sprofondato nella poltrona del suo studio in via Po. Teneva gli occhi socchiusi. Che dormisse? Se il professore credeva, gli avrebbe letto lui l’articolo. «No!», urlò Ceppaloni improvvisamente
destandosi e balzando in piedi. Ma non gli riuscì tanto facilmente di levarselo di torno. Balletto aveva preso a dargli la caccia. Si appostava nei corridoi di
Palazzo Campana. A certi angoli strategici delle strade dove il professore transitava in ore stabilite. Nell’androne di casa sua. Perfino nella sala d’attesa
d’uno studio dentistico. «L’articolo, professore?».
Non fu pubblicato. In compenso Ceppaloni gli offrì un lavoro. Be’, non
proprio un lavoro. Ma che avrebbe potuto diventar tale a pieno titolo, disse
Ceppaloni, se la biblioteca di Piero Martinetti... Insomma, si trattava intanto
di mettere ordine nel lascito martinettiano, libri e manoscritti, e poi, chissà,
un posto di bibliotecario poteva anche saltar fuori. Balletto non pensò al posto. Bensì alla biblioteca. Dove si lasciò scivolare come nel ventre materno. Ne
varcava la soglia all’alba. E ne usciva spesso a notte fonda – suo padre ad
aspettarlo, pronto a rimettere lo spezzatino sul fuoco e a dividerlo con lui,
quando ne restava, cioè quasi mai, visto che Giancarlo raccontava trasognato
tutte le scoperte del giorno, per giunta a digiuno dalla sera prima, e mangiava, mangiava. L’operaio Balletto non capiva più suo figlio, ma era contento
che non lasciasse niente nel piatto. Tanto più che a lui le patate e le cipolle bollite piacevano moltissimo ed era certo facessero bene.
Non c’era libro né manoscritto del fondo Martinetti che non fosse per
Giancarlo Balletto fonte di ispirazione. E giù articoli su articoli, scritti in uno
stato d’autentico delirio speculativo. Di tanto in tanto ne inviava qualcuno a
improbabili riviste di cui solo lui conosceva l’esistenza, sia italiane sia straniere, e qualche volta venivano pubblicati, senza che lui desse minimamente peso alla cosa. Il suo lavoro lo assorbiva completamente. Già, ma quale lavoro?
La biblioteca versava in uno stato di caos totale, messa sottosopra dall’incontenibile pathos filosofico con cui Balletto portava avanti le sue scorribande intellettuali. Ceppaloni, che era andato a verificare come procedesse il lavoro di
riordino, aveva seriamente rischiato un colpo apoplettico. Ma non poteva far
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ci niente. Qualche settimana prima aveva ricevuto per “Filosofia” una nota da
parte di Ludwig Sammer, ordinario a Marburgo. Questa nota era dedicata a
un giovane filosofo italiano: Giancarlo Balletto. E tu adesso vallo a licenziare,
il Balletto!
A far precipitare la situazione ci fu la storia del pinguino. Come tutte le
mattine Balletto era entrato nei locali del fondo Martinetti in ora antelucana.
Accende la luce, e vede venirgli addosso, ali sbattenti e tremendi colpi di becco, un essere mostruoso. Balletto, terrorizzato, riuscì a barricarsi in una stanza. E a telefonare a Ceppaloni. Nessuno sa che cosa i due si dissero. Se non
che, alla fine di un dialogo concitatissimo, Ceppaloni aggiunse: «Dottor Balletto, confessi, lei fa uso di eccitanti!». E poi, visto che l’altro negava: «Allora, pazzo furioso, lei lo è naturaliter!». Subito aggiungendo: «Solo quel cretino di Sammer...».
E dire che se Ceppaloni avesse avuto un po’ di pazienza sarebbe venuto
presto a capo della vicenda, nient’affatto straordinaria. Era andata così. Da
settimane un gruppo di studenti aveva dichiarato guerra allo zoo comunale.
Nella convinzione che zoo e barbarie fossero tutt’uno. E la liberazione dell’uomo (come i più estremisti giungevano a sostenere) passasse attraverso la
liberazione degli animali. Accadde che un giorno quegli studenti riuscissero a
catturare un pinguino. Ma una volta nelle loro mani, si decise che il volatile o
presunto tale dovesse diventare un simbolo, uno strumento di lotta. Si pensò
di portarlo in un’aula durante le lezioni. Ma come evitare di essere scoperti
prima? Si ripiegò sul seminterrato. Dove il fondo martinettiano aveva trovato provvisorio ricovero. «Sì, da Balletto!». La proposta suscitò l’entusiasmo
generale. Ecco spiegato il mistero.
Quella sera Balletto non aveva voglia di raccontare. Aveva capito benissimo tutto quello che c’era da capire: che la sua parte in commedia era semplicemente ridicola. Lui, Giancarlo Balletto. Balletto. Cosa può aspettarsi dalla
vita uno che si chiama così? Ma poi non ce la fece a tenersi quel groppo in gola. Raccontò per filo e per segno l’accaduto a suo padre. Il quale ancora una
volta stava a sentire tutto assorto e meditabondo. Ma le parole gli arrivavano
da troppo lontano. Proprio non gli riusciva di afferrarne il significato. Un pinguino che assale rabbioso suo figlio. Il professor Ceppaloni che lo copre di miserie. La Croce Verde che arriva e invece di un demente che sogna un pinguino trova un pinguino. A Giuseppe Balletto, operaio comunista internazionalista bordighista, sembrò che tutta l’insensatezza del mondo stesse per crollargli addosso. Guardava quel suo figlio umiliato. Ma i suoi occhi galleggiavano, smarriti, in un’acqua azzurrina senza luce.
«Non hai più il lavoro?», fu la sola cosa che osò chiedere. Ma non ottenne risposta.
Poi, furono mesi di balbettamenti e silenzi amari. Il filo del discorso che
aveva legato tenacemente padre e figlio si era spezzato. Adesso nel tinello al
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la Falchera (già, abitavano alla Falchera) mangiavano tutt’e due seduti, ciascuno la sua porzione, ogni porzione ben divisa, e ne restava sempre quel tanto che bastava da portare in fabbrica il giorno dopo. Ma non durò a lungo.
Non c’era più niente da fare, quando il figlio lesse negli occhi del padre che
era ammalato, e il padre capì di esserlo leggendolo negli occhi del figlio. Giuseppe Balletto se ne andò senza disturbare.
A tutto questo pensava Giancarlo Balletto tenendo fra le dita la lettera che
Ignacio Reguerra gli aveva spedito da Salamanca. E quando, a Salamanca, sotto la statua di Fray Luis de León, dove si erano dati appuntamento, vide venirgli incontro Ignacio Reguerra in persona: «Vagliedo», continuava a risuonargli in testa, «Vagliedo, Vagliedo», come un dolce scrosciare d’acque che
avrebbe dilavato tutte le miserie del mondo. E invece: «Carissimo professor
Balletto!» lo apostrofò con impeccabile accento italiano Ignacio Reguerra.
La redenzione, che per un istante era sembrata a portata di mano, tornò
a sprofondare in un suo cielo remoto.
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