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Le cicliche crisi umanitarie in Sahel. Le alternative alla pura “emergenza”
La regione saheliana è vittima in questo periodo dell’ennesima crisi alimentare, la quinta in 10 anni.
Sono più di 13 milioni le persone in stato di emergenza. Come afferma il direttore dell’United Nation
for the Coordination of Humanitarian Aids (OCHA), Jonh Ging, “questa è già una durissima crisi (…) le
cose andranno sempre peggio se i programmi di risposta non saranno finanziati adeguatamente. È
una questione di vita o di morte, una lotta contro il tempo. Sono milioni le vite a rischio, e già un
milione di bambini è in crisi da malnutrizione cronica”. Gli fa eco il direttore generale della FAO, José
Graziano da Silva, “dobbiamo agire in breve tempo, due o tre mesi al massimo”. Anche altri
rappresentanti di numerose organizzazioni internazionali sembrano d'accordo: non possiamo
prevenire la siccità ma dobbiamo prevenire carestia ed emergenza umanitaria. In aggiunta alla crisi
alimentare non c’è da dimenticare che la regione saheliana è vittima di una crisi politica e di un forte
scombussolamento sociale, dovuti in parte ai postumi delle guerre civili in Libia e Tunisia (in primis
golpe in Mali e guerra nelle regioni del nord; scontri etnici mascherati da guerre di religione in
Nigeria).
La zona saheliana racchiude l'area che va dal Senegal al Ciad (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania,
Niger, Gambia, Camerun, Nigeria e Senegal). È una delle aree più povere del pianeta che due anni fa ha
conosciuto una crisi alimentare con gravi problemi di nutrizione, e che è ora nuovamente afflitta dalla
siccità. Niger, Ciad e numerose regioni di Mali e Burkina Faso sono state le aree già raggiunte dalla
crisi. Secondo studi effettuati, si stima che circa 10 milioni di persone hanno subito gli effetti
dell’ennesima crisi, sia, in maniera diretta, in termini di perdita dei mezzi di sussistenza, sia, in
maniera indiretta, a causa dell’aumento dei loro tassi di indebitamento e del loro livello di
vulnerabilità. Se nel 2010 la crisi si è limitata al Niger e al Ciad, così non sarà quest’anno: la crisi
alimentare si presenta a macchia di leopardo a tutta la regione, dal Ciad al Senegal.
Nel Sahel, il numero di persone afflitte da insicurezza alimentare in maniera cronica e che vedono
aumentare la loro povertà e vulnerabilità rispetto ai cicli di siccità sono in forte aumento. Le più
recenti e gravi crisi alimentari, quelle del 2005 e del 2010, sono i picchi nel breve termine, provocati
dalla siccità e da una tendenza mai svanita alla vulnerabilità cronica crescente. Nel 2010, una grave
crisi alimentare ha toccato più di 10 milioni di persone negli stati della regione saheliana. Le regioni
nord del Niger sono state le colpite dalla recente crisi alimentare, che ha influito su più di 7 milioni di
persone, cioè il 50% della sua popolazione. In Ciad, 2 milioni di persone non hanno avuto di cosa
nutrirsi. Si stima che un altro milione di persone (600.000 in Mali, 300.000 in Mauritania e 100.000 in
Burkina Faso) sia stato raggiunto dalla crisi del 2010. Inoltre un numero indeterminato di persone ha
subito gli effetti della crisi nel nord del Camerun e Nigeria.
I dati sulla crisi alimentare del 2010 provano che il ritmo dell’arrivo ciclico delle crisi è cambiato in
Sahel. Infatti, in questa zona, le crisi non possono essere trattate come eventi limitati, provocati dai
soli rischi “occasionali” quali siccità, inondazioni o cambiamenti climatici. L’insicurezza alimentare è
ormai diventata un problema cronico a lungo termine. Le crisi alimentari, se fino agli anni Settanta si
presentavano in maniera improvvisa o inattesa, oggi si presentano quasi periodicamente. E non per
caso. I livelli crescenti di povertà, vulnerabilità e malnutrizione in Sahel sono la prova che non c’è più
protezione disponibile. E non basta la messa a punto di sistemi di allerta o di prevenzione nazionali o
sub-regionali. È, infatti, sufficiente un piccolo choc per destabilizzare l’intero sistema saheliano. Una
perturbazione dei prezzi sul mercato, una pioggia di quantità leggermente maggiore, una modifica
della produzione, possono provocare una serie di avvenimenti a catena, i risultati della quale sono
sproporzionati rispetto all’avvenimento iniziale.
L’insicurezza alimentare e la povertà sono divenute endemiche, al punto che una delle loro
manifestazioni più visibili, cioè la forte malnutrizione dei bambini di meno di 5 anni, è divenuta ormai
“normale” per il Sahel. La causa dei forti livelli di malnutrizione è imputata a “fattori culturali”,
comprese le pratiche di svezzamento o i cattivi regimi alimentari. Questi fattori sono evidentemente
importanti. Però, non spiegano il perché durante la crisi alimentare del 2010, vi è stato un enorme
aumento del tasso di malnutrizione. È, infatti, il tasso di malnutrizione dei bambini uno degli
indicatori più importanti nell’identificazione di una crisi umanitaria.
E non soltanto durante una crisi alimentare la situazione in Sahel diventa critica. Anche negli anni di
buon raccolto, numerose persone del Sahel devono lottare per la loro sopravvivenza. Si calcola che un
terzo della popolazione ciadiana è cronicamente sotto-alimentata, qualunque siano i livelli di pioggia o
di raccolti. Uno studio della Banca Mondiale del 2009 (quindi prima della crisi alimentare del 2010)
sulla sicurezza alimentare in Niger ha dimostrato che più del 50% della popolazione soffre
d’insicurezza alimentare cronica, e la metà di questo di insicurezza alimentare estrema. Inoltre, una
proporzione inaccettabile di individui appartenenti al gruppo più vulnerabile - cioè i bambini di meno
di 5 anni - non sopravvivono. Secondo l’UNICEF, ogni anno 300.000 bambini di meno di 5 anni
muoiono per cause legate alla malnutrizione.
Anche se la risposta umanitaria globale alla crisi alimentare del 2010 è stata significativamente
migliore di quella del 2005, la triste realtà dimostra che la comunità internazionale non è intervenuta
a sufficienza, o meglio con metodologie a lungo termine. Alcuni puntano il dito contro la tardiva
tempistica dell’intervento del 2010. L’ONU è intervenuta nel marzo e il Programma Alimentare
Mondiale (PAM) nel luglio 2010. E altri hanno invece evidenziato la scarsità di fondi economici
stanziati per la crisi. Secondo alcuni, la crisi del 2010 non è stata mediatizzata a sufficienza e per
questo non ha ricevuto l’“importanza necessaria”, e il poco racimolato è stato mal gestito e mal
distribuito.
Ma è stata solo una questione di tempo e di fondi stanziati? È possibile invece che, alla base della
cattiva risposta alla crisi umanitaria, vi sia un’errata gestione dell’intervento umanitario?
È innegabile che le Nazioni Unite, le agenzie connesse, e le Ong internazionali abbiano definito un
sistema di risposta alla crisi umanitaria migliore rispetto alle crisi passate. Il cammino è però ancora
lungo e bisogna imparare dagli errori compiuti. Nazioni Unite e numerose Ong internazionali
utilizzano un intervento che risponde sul breve termine e che si focalizza sull’urgenza. Questa
tipologia “intervento e fuga” è spesso al centro delle problematiche e della buona riuscita (o meno)
dell’intervento a lungo termine. L’intervento d’urgenza, infatti, non chiama in causa le complesse
questioni del lungo termine: esso si sviluppa nel breve termine, volendo rispondere ai bisogni
dell’urgenza. Ma una volta passata l’urgenza, qual è la situazione che si crea?
Potrebbe essere questa tipologia d’aiuto d’emergenza una delle cause dell’impossibilità di rottura del
ciclo di crisi umanitarie nella regione saheliana? È vero che non si possono arginare o prevenire
fenomeni come siccità o cattivi raccolti, ma è anche vero che si possono immaginare degli approcci
d’aiuto che non rispondano solo all’emergenza tout-court, ma che prevedano un intervento nel mediolungo periodo.
Sono numerosi gli approcci d’aiuto che, intervenendo sull’emergenza, non perdono di vista il loro
intervento nel lungo termine. Sono questi i nuovi approcci che, separando aiuto umanitario da quello
di sviluppo, si basano su strategie differenti (metodi di finanziamento e nuovi approcci pratici) e su un
paradigma operativo che lega l’aiuto d’urgenza alla riabilitazione e allo sviluppo.
Uno dei più importanti e ormai sviluppato è l’approccio strategico Linking, Relief, Rehabilitation and
Development (LRRD). Questa è la strategia messa a punto dalla Commissione Europea, uno dei
principali donatori in Sahel. LRRD favorisce delle azioni a breve e a lungo termine: risposte a lungo
temine che si leghino con un’analisi della situazione d’emergenza. L’aiuto umanitario è fornito
attraverso un’articolazione congiunta tra settore governativo e non-governativo. LRRD collega alla
risposta immediata alla crisi umanitaria (es. distribuzione di cereali o di beni di prima necessità) delle
azioni di medio temine (es. sistema di warrantage o stoccaggio di cereali), per finire con l’applicazione
di misure di vero e proprio sviluppo a lungo termine (es. formazioni o costruzioni).
Non mancano certamente delle problematiche “culturali” che rendono difficile la conciliazione del
principio umanitario dell’urgenza del bisogno, con l’obiettivo dello sviluppo che è la durabilità.
Secondo molti, questa lacuna frena la transizione verso l’LRRD.
La Commissione Europea e le più importanti Ong internazionali presenti in Sahel hanno individuato
un cammino comune possibile per arrivare all’LRRD.
1) L’aiuto umanitario deve essere meglio pianificato al fine di permettere una sincronizzazione
rapida una volta che la fase di recupero post-crisi è cominciata. La messa a punto di altri
strumenti d’aiuto in una fase secondaria esige una strategia chiara di uscita dalla fase iniziale
d’emergenza. In altre parole, prima di cominciare a mettere in atto una strategia di sviluppo, è
necessario che la fase d’emergenza sia finita;
2) Una migliore integrazione e coerenza tra le azioni di emergenza e di sviluppo potrebbe
rinforzare l’approccio LRRD. Infatti, il processo di “Rehabilitation”, via di mezzo tra i due
approcci strategici (emergenza e sviluppo), si potrà potenziare a breve, medio e lungo termine,
secondo il contesto locale. In altre parole, interventi simultanei di riabilitazione o di sviluppo
potranno andare di pari passo, solo se concepiti all’interno di un quadro comune d’azione.
Potrebbe essere l’LRRD, l’approccio vincente in un’ottica di riposta d’emergenza ad una crisi, ma
senza perdere di vista l’obiettivo dello sviluppo a lungo termine? E nello specifico per l’attuale crisi
alimentare del 2012, con già più di 13 milioni di persone in stato di emergenza, si può pensare ad un
approccio che sia a metà tra la pura emergenza e i più classici progetti di sviluppo?
Questo come ulteriore tentativo di spezzare il presentarsi ciclico delle crisi alimentari e umanitarie
che affliggono le regioni saheliane. Infatti, la priorità centrale (a parte la nutrizione) dovrebbe
diventare lo sviluppo di strategie, capacità e meccanismi che permettano alle stesse popolazioni di
apportare una risposta rapida e adeguata di previsione della successiva crisi. Altrimenti tutti gli sforzi
saranno vani o inefficaci, e il ciclo della crisi umanitaria non si spezzerà.