xinjiang, una questione non solo cinese

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xinjiang, una questione non solo cinese
XINJIANG, UNA QUESTIONE NON SOLO CINESE
Venerdì 21 Agosto 2009 01:06
di Eugenio Roscini Vitali
La violenta repressione con la quale Pechino sta cercando di soffocare la dissidenza uiguri e le
azioni di polizia che accompagnano gli scontri che dal 5 luglio scorso infiammato la capitale
della provincia orientale dello Xinjiang, sono la dimostrazione pratica della fallimentare “politica
dell’armonia” del presidente Hu Jintao: 197 morti, più di 1600 feriti, 1500 dimostranti fermati e
detenuti senza formali incriminazioni, 319 persone ancora rinchiuse in carcere. Un clima di odio
e di diffidenza che, giorno dopo giorno, alimenta il rischio di nuovi incidenti e che si radica e si
diffonde attraverso i vari strati della popolazione: dalla rete, dove il leader del Partito islamico
del Turkistan (Tip), Abdul-Haq al-Turkistani, grida vendetta e lancia appelli ai musulmani
affinché attacchino tutto ciò che rappresenta la Repubblica popolare; dalla strada, dove le forze
di polizia, nelle speranza di ottenere informazioni, distribuiscono la lista e le foto dei ricercati e
dei latitanti che hanno partecipato agli scontri. Una situazione difficile, che coinvolge Paesi
come la Turchia - patria ancestrale per tutte le popolazioni turcofone - e che potrebbe fare da
cassa risonante a tutti quei problemi che il nuovo assetto post-bipolare ha scatenato in Asia
centrale. Sono ormai cinquant’anni che lo Xinjiang è colpito da una sfrenata politica di
“ripopolamento”, un flusso migratorio che ha sempre favorito l’etnia han e ha dato luogo ad una
vera e propria diaspora: oggi in Turchia vivono 300 mila uiguri, 50 mila in Kirghizistan, 300 mila
in Kazakistan, migliaia negli Stati Uniti, in Europa e nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica.
Un processo a senso unico che nell’ultimo decennio è cresciuto in maniera esponenziale e che
il governo ha blindato attraverso una serie di intese che hanno coinvolto i Paesi confinanti.
I Trattati per il rafforzamento dell’appoggio militare e la riduzione delle forze nelle regioni di
confine, sottoscritti nel 1996 e 1997 dal Gruppo di Shanghai, composto da Cina, Russia,
Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan; la Dichiarazione che nel 2001 ha dato vita alla Shanghai
Cooperation Organization (SCO), l’organizzazione intergovernativa che copre un’area di 30
milioni di chilometri quadrati e che abbraccia un miliardo e mezzo di individui, alla quale ha
aderito anche l’Uzbekistan e con la quale la Cina si è assicurata la rinuncia al sostegno delle
regioni secessioniste da parte dei Paesi firmatari; il Trattato per i buoni rapporti tra Stati
confinanti, firmato nello stesso anno da Russia e Cina.
Per giustificare la mano pesante e sviare l’attenzione della comunità internazionale dalle
aspirazione secessioniste delle province cinesi di confine, Pechino è ricorsa all’uso di uno
spauracchio ormai collaudato, un argomento particolarmente caro all’ex presidente americano
George W. Bush: l’islamismo radicale e i pericolosi legami della resistenza uiguri al terrorismo
internazionale. Ma nel caso dello Xinjiang, il governo cinese è si è spinto anche oltre, arrivando
a ritirare i film in concorso al festival cinematografico di Melbourne come ritorsione alla
proiezione di “The 10 Conditions of Love”, il documentario di Jeff Daniels che illustra le
persecuzioni cinesi contro la minoranza turcofona del Turkistan orientale.
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Una politica che aveva già intrapresa trasformando Rebiya Kadeer, la donna d'affari che per
quasi trent’anni ha lavorato in armonia con le autorità ed ha creato un impero commerciale da
30 milioni di dollari, nel capo di una spietata banda di sovversivi, la mente e l’organizzatrice dei
gruppi ribelli e degli scontri di luglio. Una pericolosa terrorista insomma, che ha lasciato la
Conferenza politica consultiva del Popolo per guidare la lotta per l’autonomia del Turkistan
orientale, esiliata negli Stati Uniti dopo essere finita in carcere con l’accusa di spionaggio,
condannata nel 1999 a sei anni di reclusione e liberata nel 2005 in occasione dell'arrivo in Cina
di Condoleezza Rice.
Nonostante le autorità abbiano tentato in ogni modo di nascondere gli effetti della crisi dello
Xinjiang, i fatti del 5 e 6 luglio hanno avuto comunque un ampia risonanza, soprattutto tra quei
Paesi che ospitano un significativo numero di esuli uiguri o che hanno forti affinità etnico
culturali con la popolazione turcofona. In Turchia, dove il premier Recep Tayyip Erdogan ha
addirittura parlato di genocidio, le scelte del governo sono state guidate dall’opinione pubblica e
dai media che hanno raccolto ed amplificato le voci di una piazza arrabbiata e decisa ad
appoggiare i fratelli musulmani. Determinante è stata la spinta del Partito per la giustizia e lo
sviluppo, la formazione islamico-conservatrice di maggioranza che ha approfittato
dell’occasione per rilanciare la Turchia nel suo ruolo di media potenza euroasiatica, un Paese
guida che sembra destinato a svolgere una missione culturale, politica e religiosa in favore delle
comunità turcofone di tutto il mondo.
Ad Ankara c’é però chi teme che la crisi possa avere ripercussioni anche nei rapporti
commerciali con Pechino, relazioni che negli ultimi anni avevano fatto notevoli progressi e che
alla fine di giugno, con la visita in Cina del presidente Abdullah Gul, invitato dallo stesso
presidente Hu Jintao, erano arrivate al loro apice. Il 28 giugno, rivolgendosi agli studenti
dell’università di Urumqi, il leader turco aveva parlato degli uiguri come del un ponte che unisce
Ankara a Pechino, il legame di un’amicizia che nello Xinjiang si traduce in interessi economici a
nove zeri. Secondo il giornale turco Hurriyet la delegazione che ha accompagnato il presidente
Gul avrebbe infatti portato a casa contratti per tre miliardi di dollari e un accordo che prevede
l’impegno della Chery Auto a costruire una fabbrica di auto in Turchia.
L’interesse e il modo nel quale in Turchia i media hanno seguito, sin dall’inizio, i fatti di Urumqi
sembrano confermare che tra turchi ed uiguri il legame è molto più profondo del semplice
rapporto inter-religioso. Mentre i commentatori parlavano di Turkestan orientale indipendente,
Erdogan si diceva pronto a portare la questione di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite: “Uno Stato che minaccia la vita e i diritti dei civili non può garantire sicurezza e
prosperità. Che siano uiguri o cinesi, non possiamo tollerare simili atrocità. La sofferenza del
popolo uiguri è la nostra sofferenza”. Parole alle quali hanno subito fatto eco quelle del ministro
dell’industria, Nihat Ergun, cha ha invitato le aziende e la popolazione di tutto il Paese a
boicottare i prodotti cinesi, seguite da quelle del vice primo ministro, Bulent Arinc, che alla
televisione ha ricordato i profondi legami storici che uniscono i due popoli ed ha parlato della
grande comunità uiguri che oggi vive in Turchia.
Quella dello Xinjiang non può essere considerata una crisi periferica. Troppi gli interessi in
ballo: gas naturale, petrolio, carbone, ferro, miniere ricche di materie prime; un tesoro
inestimabile che serve a far funzionare l’immensa macchina industriale cinese. Una regione
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strategicamente importante, ponte naturale tra la Cina e l’Asia centrale ed autostrada degli
oleodotti che dal Kazakistan arriveranno entro qualche anno a Shangai, vero cuore pulsante
dell’industria cinese. Legato alla provincia di Taoyuan, dove vive una grande comunità uiguri, lo
Xinjiang confina con regioni altrettanto turbolente, Tibet, Qinghai, Gansu, e con nazioni ritenute
veri e propri focolai del fondamentalismo islamico d’impronta jihadista, il Pakistan e
l’Afghanistan.
Una regione complessa quindi, con 19 milioni di abitanti, la metà dei quali uighuri; una regione
che ora diventa teatro per il rilancio del Panturchismo, l’ideologia collegata all’idea turanica che
alla fine del XIX secolo cercò di riunire, intorno ad un forte sentimento di comunanza delle
origini, tutti i popoli turchi, i così detti Popoli turatici, quelli che oggi abitano la Turchia,
l’Azerbaijan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, il Tajikistan, il Kyrgyzstan, il Kazakhstan e il
Turkistan orientale.
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