il leopardo nero - Edizioni Helicon
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il leopardo nero - Edizioni Helicon
Gabriele Riva IL LEOPARDO NERO Prefazione di Cristiana Vettori Edizioni Helicon Mattino I I vecchi del villaggio avevano stilato negli anni un catalogo di centoundici azioni assolutamente vietate: se la prima era molto banalmente non uccidere un membro del proprio villaggio e la sessantanovesima era non attraversare il fiume a nuoto nella stagione fredda, la centesima era non avvicinarsi ai grandi massi dell’altopiano durante il primo plenilunio di primavera. I vecchi sapevano benissimo che in quella nottata gli scorpioni uscivano dalle loro tane sotto le rocce per accoppiarsi ed erano particolarmente aggressivi. Quando il guaritore varcò la soglia della vecchia baracca si fermò per qualche secondo, chiuse gli occhi e pensò al vecchio maestro. Erano passati tre mesi e tre giorni dalla sua morte ma lo sentiva vicino, sentiva l’odore acre di sudore e cumino che impregnava la sua veste, il calore della sua voce e delle sue mani. 13 Sul letto di legno il bambino si contorceva e delirava, la madre seduta al suo capezzale dondolava il busto e il capo e recitava litanie, il padre guardava il guaritore in silenzio. -Avete fatto la cosa giusta- disse il guaritore alzando lo sguardo al cielo, e mentre si chiudeva la porta alle spalle si lasciò scappare un sorriso e disse: -Ora pregate il vostro Dio, per vostro figlio e anche per me-. -Uno scorpione nero?- chiese il guaritore esaminando la ferita sulla caviglia sinistra del bambino. La gamba era gonfia come una zampogna e la carne attorno al morso iniziava a entrare in necrosi. -La colpa è solo mia- disse il padre abbassando lo sguardo -ieri notte ho deciso di andare a caccia sull’altopiano e lui ha voluto venire a tutti i costi. Era il primo plenilunio di primavera. Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto lasciarlo a casa-. Il guaritore chiese di togliere tutto da un tavolo, vi appoggiò delicatamente una piccola scatola di legno e sempre con la massima cura la aprì; chiese una bacinella d’acqua, alcuni bicchieri, degli stracci, poi chiese alla madre e al padre di uscire. All’esterno dell’abitazione si era creata una piccola folla di curiosi. Si fermò un istante sull’uscio, fissò uno a uno i presenti e si rivolse di nuovo al padre: -Perché non mi avete chiamato subito?-. Il padre si guardò attorno, cercò uno sguardo d’intesa con la moglie e soppesò la risposta: -Dopo la morte del vecchio Bashir non sapevamo se avresti preso il suo posto ma alla fine non sapevamo cos’altro fare…-. 14 15 II ghe attese tra dirupi, deserti e grotte. Sempre senza un pensiero se non quello di uccidere e non farsi ammazzare. Una tensione continua che nelle poche ore di riposo teneva lontani persino i sogni. Un deserto fuori, un deserto dentro. Quando invece quel colpo maledetto gli squarciò il fianco destro, fece appena in tempo a sentire una vampata di calore sotto il giaccone, a guardare la mano coperta di sangue denso ed ecco che mentre il suo corpo crollava a terra un fiume di ricordi gli riempì la mente. L’abbraccio del padre il giorno in cui si era diplomato all’accademia militare, il caldo afoso e la polvere di quel giorno di luglio, lo sguardo dolce della madre quando bambino era tornato a casa con un taglio profondo sul ginocchio, le carezze sul viso ad asciugargli le lacrime, la voce metallica della nonna che lo cercava in cortile, il grande tiglio su cui si nascondeva sempre, gli ordini perentori del suo vecchio capitano, il sapore di miele e formaggio di quel primo seno, la sua consistenza… L’abbraccio del padre il giorno in cui si era diplomato all’accademia militare, il caldo afoso e la polvere di quel giorno di luglio, lo sguardo dolce della madre quando bambino era tornato a casa con un taglio profondo sul ginocchio, le carezze sul viso ad asciugargli le lacrime, la voce metallica della nonna che lo cercava in cortile, il grande tiglio su cui si nascondeva sempre, gli ordini perentori del suo vecchio capitano, il sapore di miele e formaggio di quel primo seno, la sua consistenza… Era stato addestrato per anni ad avere la mente perfettamente sgombra durante il combattimento: un deserto fuori, un deserto dentro, come ripetevano fino allo sfinimento gli ufficiali in caserma per prepararli a quella guerra. E così era stato per mesi. Interminabili marce, agguati, imboscate, scontri improvvisi e lun- Colpì il terreno quasi con la stessa immotivata violenza con la quale aveva dato la caccia ai nemici in quei mesi. Sentì alcune voci in lontananza, sempre più deboli e confuse. Poi più nulla. 16 17 III La rosa del deserto, la città degli specchi, la perla del caucaso, la città bianca, l’occhio della regina, il pozzo dei sospiri, la città degli angeli, la città d’avorio, più semplicemente Samarkanda; non basterebbero tutti i tomi della biblioteca di Alessandria per elencare i nomi con cui i poeti l’hanno cantata, per narrarne la storia, il mito, la sua origine e l’origine dei suoi nomi, le storie nate, inventate o sognate tra le sue vie, nei suoi palazzi. Samarkanda. Marco rispose con un sorriso lontano di nostalgia: -La città più bella che io abbia mai visitato non può essere inserita in un elenco al pari delle altre, non può essere una parte ma solo il tutto, l’insieme armonico ed equilibrato di tutte le parziali bellezze che ho incontrato nei miei viaggi; la città più bella che io abbia mai visitato non può essere raccontata ma solo vissuta, non servirebbero parole per descriverla ma basterebbe calpestarne una sola pietra per comprenderla. La città più bella che io abbia mai visitato si distingue da tutte le altre perché tutte le racchiude, e nel racchiuderle le supera.- Cullato dal mistero di quelle parole il Khan chiuse il libro ancora assorto nei suoi pensieri e solo allora si rese conto che l’opera aveva un titolo, la risposta alla sua domanda: Samarkanda. Si narra che quando Marco Polo presentò al Signore dei mongoli il catalogo con la descrizione delle cento città più belle che avesse mai visitato, il Gran Khan lo sfogliò con l’entusiasmo di un bambino ma si accorse subito che l’elenco iniziava dalla seconda e gliene chiese conto. -Qual è la prima, la città più bella che tu abbia mai visitato?- chiese al suo giovane esploratore. 18 19 IV Aveva mantenuto un atteggiamento sicuro e sereno per non trasmettere agitazione ai genitori ma ora, una volta chiusa la porta alle sue spalle, si trovò pieno di dubbi e passò interi minuti a osservare in silenzio i contenitori e le fiale che aveva disposto sul tavolo con ordine quasi maniacale. Pensò al maestro e alla serenità con la quale si era spento, nonostante il dolore per le brutte ferite, e a quelle poche parole: -Ora tocca a te-. Non poteva tradirlo, non dopo quello che il maestro aveva fatto per lui, non dopo che lo aveva fatto rinascere, e rivivere. Cosa avrebbe fatto il maestro? Come si sarebbe comportato? Avrebbe inciso la ferita o avrebbe stretto con una cinghia la gamba sotto il ginocchio per impedire l’ulteriore propagazione del veleno? Quali erbe o unguenti avrebbe applicato? Per la prima volta si trovava da solo a decidere e per la prima volta provava un forte senso di smarrimento. Mai come in quel momento capì che l’assenza del maestro non si risolveva solo in un’assenza fisica ma soprattutto in un’assenza spirituale, nella mancanza di una guida, di un punto di riferimento. Il tempo scorreva inesorabile: la fronte del bambino bruciava e la febbre alta cominciava a farlo tremare e delirare. Ancora pochi minuti e probabilmente per quella vita non ci sarebbe stato più niente da fare. 20 Per curare qualcuno devi per prima cosa curare te stesso e poi convincerti di poterlo guarire. Lo sguardo pensieroso si trasformò di colpo in uno sguardo sereno e deciso, si avvicinò al bambino e gli posò una mano sulla fronte, poi dal tavolo prese il coltello, pulì la lama con l’estratto di un’erba disinfettante e cominciò a incidere all’altezza del morso. Dodici incisioni a formare una corona intorno al polpaccio per spurgare il sangue infetto raggrumato e altrettante applicazioni di una pomata ottenuta con una base di euforbia, limone e zenzero. Poi massaggiò tutta la gamba con un olio all’incenso e la fasciò stretta con le garze che aveva preparato. Dalla finestra si accorse che il sole stava tramontando. Al contrario dentro di lui sentiva una nuova alba, una 21 sensazione di benessere e di pace. Era stato all’altezza del suo maestro? Lo avrebbe saputo con certezza solo dopo qualche giorno, monitorando le condizioni del bambino, ma si sentiva forte e convinto di avercela fatta e, secondo gli insegnamenti appresi, questa era la parte più difficile. V Fin da bambino aveva dimostrato una mira eccezionale e dei grandissimi riflessi: non c’era un solo giardino a Samarkanda che non avesse ospitato una sua battuta di caccia con la fionda. In queste occasioni sembrava un leopardo di montagna in cerca di prede, attento ad ogni piccolo movimento per ore, fino a quando la voce metallica della nonna non lo richiamava a casa per cena. Poteva centrare una tortora su un ramo di gelso a più di quaranta passi. Uccideva come uccidono i bambini, con l’incoscienza di chi ancora non conosce i concetti di vita e di morte e quindi non ne distingue il sottile confine. Uccideva così, con il sorriso innocente di un bambino che si diverte, senza pensare troppo alle conseguenze delle proprie azioni. Uccideva così, come se il tempo non esistesse, come se ogni volta fosse la 22 23 prima, e anche l’ultima. Uccideva con la leggerezza di una tortora. Fin da bambino aveva dimostrato una mira eccezionale e dei grandissimi riflessi, perciò nessuno si stupì quando al termine del primo ciclo di studi scelse la carriera militare ed entrò in accademia. In famiglia solo la madre provò a fargli cambiare idea ma fu tutto inutile: quando si diplomò lo accolse con lo stesso sguardo dolce col quale lo aveva lasciato di fronte al cancello dell’accademia cinque anni prima. Si rese conto di avere di fronte un uomo. Ma i genitori non avevano ancora sistemato la casa dopo i lunghi bagordi che già lo trovarono con lo zaino in spalla: era uno spirito irrequieto e, nonostante in quella baraonda avesse assaggiato di nuovo i seni morbidi della giovane fornaia che anni prima gli aveva fatto perdere la verginità, aveva deciso di ripartire subito e di arruolarsi nell’esercito. Festeggiarono con parenti e vicini per tre giorni ininterrottamente: per l’occasione affittarono abiti da cerimonia color cremisi come i gladioli che abbellivano il cortile, un fotografo professionista, una banda di tredici strumentisti e un clown con un orso ballerino; svuotarono le cantine di quattro taverne e con le ossa della selvaggina cucinata alla brace riempirono sette sacchi di juta. Alla fine dei tre giorni ognuno tornò alle proprie case, qualcuno con le proprie gambe qualcuno accompagnato; tutti tranne una vicina di casa vedova e l’orso ballerino che non furono più trovati. Il Clown disperato li cercò per settimane: spariti senza lasciare traccia. Anni dopo alcuni giurarono di averli visti in Russia durante un’esibizione del circo di Mosca. 24 25