Sebastiano del Piombo e il Rinascimento italiano

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Sebastiano del Piombo e il Rinascimento italiano
 Sebastiano del Piombo e il Rinascimento italiano di Claudio Strinati 1 La pala di s. Giovanni Crisostomo è una delle prime cose note di Sebastiano del Piombo eseguita presumibilmente tra la primavera del 1510 e quella del 1511, subito prima del trasferimento del giovane maestro a Roma al seguito di Agostino Chigi. E’ un’ opera di qualità notevole in cui già si nota una impostazione nuova rispetto alle celebri portelle d’organo eseguite da Sebastiano per la chiesa di s. Bartolomeo a Rialto la sede parrocchiale del Fondaco dei Tedeschi. La pala riflette il carattere meditativo e speculativo cui questo genere artistico era stato portato da Giovanni Bellini, dal Carpaccio e pochi altri nella Venezia del primissimo Cinquecento. Si nota nella pala di s. Giovanni Crisostomo l’attenzione del pittore sul tema del libro, della lettura e della scrittura consustanziali con l’immagine del santo dottore della chiesa orientale, immerso in quella dimensione dello studio e del rovello mentale che tornerà simile nelle due possenti figure di s. Francesco e s. Pietro nella cappella Borgherini di s. Pietro in Montorio, due tra le immagini più belle e solenni realizzate da Sebastiano nella sua piena maturità. In s. Giovanni Crisostomo le fisionomie delle figure sono ancora quelle tipiche di quel momento storico, consumate dall’ ombra e come estenuate quelle maschili, tornite e fisse quelle femminili, secondo un’ idea di transito delle immagini dentro il quadro scrutate dall’ artista e dai suoi osservatori come stessero entrando nello spazio sacro e già si stessero apprestando a uscirne, mantenendovi quella riservatezza e quella compostezza che è in sé inerente alla dimensione estetica secondo l’ ottica così compiutamente espressa negli Asolani di Pietro Bembo. Le portelle d’ organo di s. Bartolomeo dovettero essere compiute entro il 1509 e non può non essere ricordato come nella stessa chiesa fosse stata collocata appena tre anni prima, nel 1506, la Pala del Rosario di Albrecht Dürer. La curiosa commistione di morbido giorgionismo melanconico nei santi Ludovico e Sinibaldo e di aspra e aggressiva fisicità nei santi Bartolomeo e Sebastiano sembra costituire una sorta di preludio generale a quella che sarà la carriera successiva di Sebastiano oscillante tra un gigantismo esasperato delle forme e una estenuazione inquieta che sembra portare fuori dai confini del sacro secondo i parametri cattolici che l’ ancora lontano Concilio di Trento renderà normativi. E’ comunque impossibile stabilire con definitiva chiarezza le fonti figurative del giovane maestro che si trova a esordire nel momento della gloriosa vecchiaia di Giovanni Bellini e che indubbiamente sente la formidabile dialettica che non poteva non scaturire dall’ incontro tra il vecchio Bellini e il giovane Dürer e su cui le fonti saranno per sempre reticenti e imprecise. Agostino Chigi lo portò con sé perché aveva visto in Sebastiano l’ uomo affabile e elegante nonchè l’ artista dotto e innovativo, lo volle a Roma per i lavori nella sua villa sul Tevere dove era stato in grado di convocare alcuni tra i massimi artisti del tempo, dal Peruzzi , al Sodoma, a Raffaello Sanzio per non citare che i maggiori. Era un momento di apparente fervore artistico . L’ arrivo di Sebastiano a Roma coincide con il primo scoprimento della volta della Cappella Sistina e con il trionfo di Raffaello nelle Stanze Vaticane già culminato con la cacciata degli altri artisti. Raffaello spadroneggiava in Vaticano e Michelangelo stava cominciando a presentare il capolavoro assoluto destinato a un pubblico di sommi intenditori. Il contrasto tra i due grandi maestri era lampante e 1
Soprintendente Speciale per il Polo Museale Romano e curatore della mostra
destinato a diventare una sorta di colossale luogo comune che avrebbe condizionato tutta la storiografia successiva. Nasceva quell’ immane pettegolezzo che avrebbe condizionato il giudizio critico e lo stesso modello di indagine filologica con cui quell’ epoca sarebbe stata ricostruita in seguito. Non dovette essere ben chiaro a Sebastiano Luciano se l’ ambiente in cui il Chigi lo introduceva fosse il più favorevole alle arti o il più sfavorevole. Era l’ epoca che verrà poi definita come età del Rinascimento ma è improbabile che fosse questa l’ impressione del Luciani in quel 1511. Nel giro di pochissimi anni le occasioni di lavoro in campo artistico erano in verità crollate anche se l’ immagine formulata dagli storici già poco dopo quel momento cruciale tese subito a dare l’ impressione opposta facendo credere a un fervore straordinario e alla nascita della nuova Atene. Al di fuori dell’ area di s. Pietro e dei Palazzi Vaticani non sembrava che ci fosse gran che da fare per i pittori, gli scultori e gli architetti. Certo ancora nella percezione attuale il Rinascimento è l’epoca stessa delle arti. La volta della Cappella Sistina e le Stanze Vaticane sono la gloria imperitura dell’arte in sé ma è notevole osservare come fossero in verità ben pochi i committenti al di fuori della cerchia di Agostino Chigi e ben pochi gli artisti sommi stimolati a produrre , tolti i due Andrea e Jacopo Sansovino e, poco dopo , Parmigianino e il Rosso. Quando Lutero nel 1517 scaglierà le sue accuse roventi su un papato che vendeva le indulgenze, la critica si appunterà anche e soprattutto sulle sciagurate spese per la costruzione del nuovo s. Pietro ma le censure provenienti dal mondo che si sarebbe poi chiamato protestante avrebbero potuto ben essere sottoscritte da tutti gli artisti esclusi dai lavori vaticani. Finchè Sebastiano stette in casa di Agostino Chigi il problema per lui non si pose. Chigi era l’uomo più ricco e influente del momento. La sua casa un luogo di delizie. Il programma artistico generale da sviluppare abbastanza chiaro anche se intralciato da cntinui ripensamenti. Sebastiano vi profuse la sua prima maturità di pittore non troppo esercitato in quel genere di arte ma fine e capace. Si trattava di lavorare su temi della mitologia greca letti sulle Metamorfosi di Ovidio. Sebastiano aveva in quel momento un’ impostazione non lontanissima da quella del giovane Tiziano. Il colore lo sente come pulito e terso, il disegno è vigoroso, il ritmo interno delle immagini consequenziale e serrato anche se un po’ fermo nella percezione immediata. Aveva fama di essere un bravo musicista e in effetti si avverte nei lavori della Villa di Agostino Chigi una superiore armonia e un gusto equilibrato formatosi su quel contemperamento tra arte italiana e arte fiamminga che proprio nella musica del tempo trovava formule affascinanti e di facile divulgazione. Sebastiano aveva fatto il ritratto a Obrecht e Verdelot due esponenti di questa stagione di particolare felicità espressiva e la stessa felicità espressiva era riscontrabile nel bel lavoro che il maesto veneziano faceva per il Chigi. Agostino lo introdusse in una cerchia di eletta distinzione intellettuale e sociale. A Sebastiano si apriva una carriera luminosa. Ma restava il problema del lavoro artistico in sé. Chi voleva veramente l’ arte in un ambiente corrotto e oggettivamente declinante quale quello della Curia romana e delle personalità gravitanti intorno? Michelangelo aveva compiuto un miracolo nella Cappella Sistina e quell’ opera fatale sembrava aver cancellato ogni altra occasione e possibilità di fare per tutti gli altri. Dove altro si sarebbe potuto lavorare per confrontarsi con un’epopea del genere? Che Sebastiano si avvicinasse al Buonarroti non è strano ma nella storia di questa singolare amicizia si può riscontrare molto del senso profondo della carriera del maestro veneto. E’ un’ amicizia che finì molto male ed è interessante in casi come questi andare a ricercare i presupposti, almeno fin dove soccorrono i documenti. A giudicare sul piano solamente stilistico c’è da meravigliarsi che una simile amicizia sia nata e si sia consolidata. Come avrebbe potuto il Buonarroti apprezzare le prime cose di Sebastiano a Roma ? Proprio lui che avrebbe ostentato disprezzo per l’ arte scrupolosa e femminea dei fiamminghi, come poteva non vedere proprio quel tipo di impostazione nelle opere di Sebastiano, bravo pittore ma non certo dotato di quella potente sintesi di cui il Buonarroti era maestro sovrano? Ma la storia dice che tra i due si istituì una amicizia molto solida e che Michelangelo aiutò Sebastiano in tutto e per tutto. Ma quell’ amicizia si rovinò e irreparabilmente, questo è certo. L’ amicizia si sarebbe rotta in maniera definitiva per un motivo che, però, resta poco chiaro. Quando, molti anni dopo, Michelangelo venne incaricato da Paolo III di dipingere il Giudizio Universale, Sebastiano partecipò attivamente alla preparazione del lavoro. Negli oltre venti anni trascorsi tra il 1511, l’arrivo di Sebastiano a Roma, e il 1534, commissione definitiva del Giudizio, Sebastiano Luciani aveva sviluppato le sue ricerche sulla tecnica e sui supporti. Aveva lentamente elaborato un tipo di pittura su pietra che riteneva potesse sfidare il tempo meglio di qualunque altra tecnica. Altri prima di lui avevano dipinto sul peperino o sull’ ardesia ma il risultato era stato per lo più mediocre. La pittura non si incorporava a sufficienza nel supporto, il colore si scuriva prestissimo e in modo irreversibile. La durata era tuttaltro che prolungata. Sebastiano, invece, aveva trovato il modo di dipingere soprattutto sul peperino direttamente ma con una miscela d’ olio perfettamente organica al supporto. Il risultato era stato raggiunto e la parte inferiore della Cappella Borgherini o la Natività della Vergine nella cappella Chigi in s. Maria del Popolo avrebbero sfidato i secoli mantenendo quell’ arcana magia dell’ oscurità nitida e, paradossalmente, carica di splendori notturni ancora oggi pienamente apprezzabile. Ma questa tecnica richiedeva un’ esecuzione lenta e meditata. Garantiva all’ artefice di annullare tutti gli eventuali errori in fase di stesura e Sebastiano aveva avuto occasione di conoscere sicuramente i nuovi orientamenti dell’arte soprattutto fiorentina che spingeva in questa direzione, quell’ arte uscita dalla tempesta del movimento savonaroliano e che faceva sentire i suoi benefici effetti, questi si di un vero e proprio rinascimento dopo le minacce al lavoro stesso degli artisti, soprattutto nelle cerchie più moderne e consapevoli. A cosa fatte sarà il Vasari a parlare di pittura senza errori per Andrea del Sarto ma questo tipo di convincimento doveva essersi profondamente radicato nei nuovi ambienti della pittura. Cominciava la disputa sulle tecniche artistiche e sull’ eccellenza delle diverse arti a paragone. Sebastiano dovette averne precoce cognizione dopo essere arrivato a Roma e essersi lasciato alle spalle il fin troppo evoluto ambiente veneto. Giunto nella Città Eterna Sebastiano avrebbe potuto pensare di essere un artista perfettamente formato e all’ avanguardia. Ma la presenza e la presumibile immediata benevolenza di Michelangelo dovettero fargli capire che le cose stavano ben diversamente. Era ormai penetrata nell’ ambiente l’ idea che l’ artista potesse e dovesse assumere su di sé la responsabilità della perfezione. L’ apparente passaggio del testimone tra Andrea del Sarto e il Pontormo stava a dimostrare come l’attività artistica venisse esercitata attraverso una sorta di esasperato rovello mentale che induce il pittore a scavare a fondo sul dettaglio per ricostruire la realtà di fronte a noi con un dominio assoluto della capacità di rappresentare, capacità buona e giusta in sé. L’ apocalisse di Michelangelo nella volta della Cappella Sistina andava forse troppo al di là di tutto questo ma era un’ opera chiusa in sé, formidabile e irripetibile. Poi erano passati tanti anni e Sebastiano aveva intrecciato un’ amicizia con Michelangelo che molti hanno interpretato in funzione antiraffaellesca. Ma era certo un’ amicizia ambigua e la sua terribile conclusione lo dimostra. Si doveva, dunque, fare il Giudizio e Sebastiano, che si era giovato per tanto tempo dei consigli sempre a distanza e sempre epistolari del Buonarroti, decide questa volta di consigliarlo lui e propone di preparare il muro della Cappella Sistina secondo i suoi ritrovati scientifici affinchè Michelangelo possa dipingere con la tecnica , sostanzialmente, dell’ olio su muro che consente di poter elaborare lentamente, correggere e lasciare finalmente un’ opera immane degna di sfidare l’ eterno. Tutto ciò sarebbe potuto apparire perfettamente degno di Michelangelo, proprio sotto il profilo dell’ ideologia artistica. Non aveva il Buonarroti pensato nella Sacrestia dei Medici in s. Lorenzo a Firenze a un tema leggibile nell’ ottica petrarchesca del Trionfo sul Tempo e sull’ Eternità stessa? Il grande argomento del Tempo era consustanziale con lo stile michelangiolesco e il Giudizio è, appunto, il tema dell’ Eterno in sé e per sè. Non sembrava ci fosse nulla di offensivo nel proporre a Michelangelo di misurarsi con la tecnica dell’ olio su muro. La spropositata reazione del Buonarroti che non solo non accettò questa tesi ma scagliò un vero e proprio anatema contro l’ amico al punto di non rivolgergli più la parola per il resto della vita, deve avere una spiegazione e quella più semplice è che mai Michelangelo avrebbe accettato una lezione da parte di un allievo. Sebastiano avrebbe voluto insegnargli qualcosa ma quel qualcosa era esattamente ciò che Michelangelo mai avrebbe voluto sentire o vedere. E’ decisivo che il Buonarroti usò contro Sebastiano lo stesso argomento che pare abbia usato, parlando con Francesco de Hollanda, per i pittori fiamminghi: è roba per donne. Fare il lavoro a olio su muro avrebbe significato per Michelangelo mettersi sullo stesso piano dei pittori fiamminghi che mirano a far piangere le donne e ignorano il senso profondo dell’operazione estetica. L’ arte deve essere per Michelangelo una metafora di virilità secondo l’ accezione della virilità intesa come forza combattente. Il pittore deve avere la stessa audacia, determinazione e prestezza del soldato che conquista la vittoria mettendola poi a disposizione di tutti e queste sensazioni deve comunicare a chi guarda. Solo così l’ arte ha senso. Sebastiano , del resto, aveva chiara cognizione di questo stato di cose e le sfruttava ai suoi fini. L’ anno precedente alla rottura con Michelangelo Sebastiano era stato richiesto dal segretario imperiale Francisco de Los Lobos di poter avere un quadro per un omaggio e Sebastiano aveva suggerito una Madonna patetica perché sapeva bene come gli spagnoli amassero queste cose pietose. Pochi anni dopo aveva ancora suggerito, sempre per insigni committenti spagnoli, di poter fornire dipinti sul tema del Cristo portacroce per una sorta di “par condicio” del tema pietoso incentrato una volta sulla figura della Vergine e una volta sulla figura del Redentore ma sempre con la consapevolezza che per un certo tipo di pubblico sarebbe stato indispensabile adattarsi a una sensibilità esasperata ma non consapevole dell’ arte in sè. Eppure della amicizia tra Sebastiano e Michelangelo si parlò per secoli senza alcun accenno morboso ma con la più grande discrezione e il più grande rispetto. Vasari, che ha insistito molti sulla irresolutezza e scarsa voglia di lavorare di Sebastiano, ha pure voluto far credere che il Buonarroti lo aiutasse dandogli disegni da cui il veneziano avrebbe tratto insegnamenti decisivi per realizzare le sue opere migliori. Addirittura Vasari insinua che la figura del Cristo flagellato nella Cappella Borgherini di s. Pietro in Montorio, dipinta a olio su muro, sarebbe stato dipinto da Michelangelo in persona mentre le figure dei flagellanti, più deboli, sarebbero opera esclusiva di Sebastiano. Resta , però, che il possente e melanconico patetismo di Sebastiano non ha niente a che fare con Michelangelo e, peraltro , ha ben poco a che fare anche con il mondo giorgionesco. La verità è che Sebastiano del Piombo è artista del tutto autonomo e personale e che dovette essere proprio la sconcertante situazione di una Roma apparentemente favorevolissima alle arti ma sostanzialmente chiusa e asfittica sul piano della grande produzione culturale a provocare il suo genio verso l’ elaborazione di una forma pittorica in dialettico contrasto sia con Raffaello sia con Michelangelo ma lontanissima da entrambi nel tentativo, frustrato in prospettica storica ma proprio per questo carico di un fascino arcano, di formulare un linguaggio pittorico nuovo. Sebastiano pensava a un linguaggio che inglobasse in sé la superficialità del patetismo popolare innestandolo sui presupposti di una altissima dottrina in cui il messaggio religioso diventa veicolo di una autentica dialettica figurativa coerente con l’ idea della vicina rigenerazione della Città Eterna sottratta al tragico degrado morale e civile in cui era sprofondata dopo il crollo della fine del Quattrocento. Non poteva non risultargli chiara la mortificazione di un asservimento progressivo alla corona di Francia nella sostanziale e agli occhi di molti definitiva contestazione del potere temporale del papato di cui la cosiddetta Riforma protestante fu forse più un effetto che una causa. Sebastiano affronta per tempo il grande tema del senso della rappresentazione cristiana e lo fa attraverso la cerchia di Agostino Chigi che lo mette in condizione di occuparsi delle cose che contano veramente sottraendosi all’ impossibile e odioso confronto con le lotte intestine tra Michelangelo e Raffaello per la “leadership” nell’ ambito della Curia. Sebastiano è prima di tutto grande ritrattista e può esercitare tale sua virtù proprio grazie ai contatti che Agostino gli procura. Quello forse più importante è con Giovanni Botonti a Viterbo che gli commissiona la Pietà per s. Francesco della Rocca compiuta proprio mentre Lutero sta per uscire allo scoperto con la pubblicazione delle Tesi contro il Papa. Michelangelo gli avrà pure fornito i disegni ma l’ opera è veramente e esplicitamente antimichelangiolesca nel suo risultato forse persino non voluto dal maestro veneto. Prima di tutto è sbalorditivo l’ antiedonismo assoluto della figura della Vergine contrapposto con piena evidenza al sublime edonismo assoluto della figura del Cristo. Tutto questo può essere spiegato certamente in modi diversi, ferma restando la decifrazione iconologica del dipinto in chiave dantesca, così come argomentato da Andrea Alessi, nella identificazione dello sfondo con il Bullicame di Viterbo una delle porte di accesso agli Inferi. La notte che incombe sulle due immani figure permette già da quella data di decifrare l’ opera di Sebastiano come una titanica rappresentazione della caduta e della sconfitta. Cristo giace ma è intatto, la Madre eleva il suo compianto ed è disfatta dalla fatica e dal dolore. La corretta connessione di un’ opera come questa con la linea di pensiero che fa capo a Egidio da Viterbo, con il suo culto generoso e intriso di profondo patetismo per la figura della Vergine , degna del rispetto e dell’amore che il Cristiano deve riservare al Redentore, è giustificata dall’ ottica millenaristica di una rigenerazione vicina proprio perché resa necessaria dalla punta estrema del degrado toccato dalla politica della Curia. Non ci voleva Lutero per esaltare gli animi di devoti sinceri, ma proprio per questo nemici giurati dell’ appparato, come Egidio da Viterbo, a prescindere da qualunque deduzione sulle vicende della Riforma Cattolica che certamente trovarono in quel momento e in quelle date i loro presupposti fondamentali. Michelangelo e Raffaello erano, su versanti opposti, organici al potere costituito della Curia e lo era anche Sebastiano. Ma Sebastiano era in qualche modo l’“allievo”, quello che viene dopo e non ha alcuno spazio sulle commissioni monumentali. A quel punto nasce la storia di Sebastiano irresoluto, artista bravo che non conclude mai, che ha bisogno dei disegni fornitigli da Michelangelo per concepire le sue opere. Ma la irresolutezza di Sebastiano fu una irresolutezza strutturale, fu metodo e necessità di chi in qualche modo ha vissuto tutta la sua parabola come un grande “escluso”. Certo tanti aneddoti sono veri. E’ vero , perché ben comprovato da una precisa documentazione, che Sebastiano non completò mai la Visitazione di s. Maria della Pace malgrado avesse ricevuto l’ incarico molti anni prima della sua scomparsa. Quando i religiosi, scomparso il maestro nel 1547, riuscirono finalmente a togliere il ponteggio usato da Sebastiano nella zona della Tribuna, ponteggio che li aveva infastiditi per troppo tempo, rimasero colpiti. L’ opera ai loro occhi era pressochè perfetta ed era bellissima. Dipinta con il solito sistema dell’ olio su muro , ispirava grande dignità e devozione . Non riuscirono a capire che cosa ci fosse veramente di incompiuto e perché mai il maestro non li avesse fatti smontare lui quei ponteggi. Sebastiano aveva sempre sostenuto che il lavoro era imperfetto e che mancava ancora qualche cosa per poterlo dire finito. Oggi è possibile solo ammirare tre frammenti dopo la parziale distruzione subita dall’ opera ma la profonda dignità di Sebastiano appare bene anche dai pochi resti. Era dunque così inconcludente e lento? Forse in certi casi ma non quando si trattava di affrontare i momenti decisivi. Nel corso della sua vita lo aveva ampiamente dimostrato. Affidatogli da Giulio de’ Medici l’incarico di dipingere la Resurrezione di Lazzaro per la cattedrale di Narbonne, Sebastiano affrontò il lavoro con determinatezza assoluta e dette magnifica prova di sé. L’ opera riuscì bella e inquietante e di nuovo, dopo il quadro della Pietà e forse dopo le prime cose per la cappella Borgherini, tornava in evidenza la pittura notturna che rende grandioso l’impatto visivo proprio quando sembrerebbe che lo sguardo debba sforzarsi troppo per penetrare nella recondita oscurità dello spazio a trovarvi la traccia del mistero che grava su tutte le cose ma nel contempo le rende perspicue e permette a ciascuno di interrogarsi sul senso dell’ azione, religiosa e umana insieme. Fu giudicato eccellente il Lazzaro e fu una pietra miliare nella carriera di Sebastiano alla data del 1520. Cosa abbia pensato Sebastiano veneziano della improvvisa scomparsa di Raffaello in quell’anno non è dato saperlo ma certo la fatale dipartita di Agostino Chigi cinque giorni dopo deve averlo turbato. Nel giro di pochissimo tempo scomparivano il pittore più grande del momento, il mecenate per antonomasia e il papa fiorentino che aveva avviato un tentativo di energica ripresa del potere della Curia senza aver raggiunto alcun risultato sostanziale. Il Vasari dirà dopo pochi anni che con Raffaello moriva la stessa pittura e, al di là della figura retorica, furono numerosi i segni di una trasformazione dei fatti coincidenti con la morte di Raffaello in chiave simbolica. La storia del Papa che fugge dai palazzi vaticani, perché scossi da una sorta di misterioso terremoto nel momento della scomparsa dell’ urbinate, sembra una preveggenza del Sacco di Roma ma può essere interpretata come una preveggenza ben più concreta e cioè quella di una minaccia incombente anche sulla persona del Papa stesso e magari su quella del Chigi. Un gruppo di personaggi dominanti scompariva di colpo e Sebastiano , rivolgendosi a Michelangelo per ottenere la commissione della Sala di Costantino, forse sperava che la situazione generale sarebbe cambiata in pochi giorni con il crollo della dittatura raffaellesca. Ma non fu così e quella dittatura divenne ancora più asfissiante contribuendo non poco al decadimento della cultura figurativa a Roma malgrado l’eccellente qualità di Perin del Vaga unita a una fine intelligenza dei fatti figurativi e la buona qualità di Giulio Romano. Si racconta che gli artisti se ne sarebbero poi andati da Roma disgustati dal pontificato di Adriano VI e non avevano tutti i torti . Al di fuori della Curia non c’era niente da fare per loro.Venendo a mancare il Papa committenti importanti non ce ne erano. L’ unica cosa che si faceva in grande erano le facciate dipinte all’ antica, secondo il metodo perfezionato dal tremendo allievo di Raffaello Polidoro da Caravaggio. Ma non c’era niente da fare. Certo lo spazio per le “poesie” di Sebastiano era stato eliminato da subito , compiuta l’impresa della villa di Agostino che forse fu addirittura interrotta in fase di stesura. Allora Sebastiano aveva provato a lavorare nell’ ambito della pittura per le chiese sempre con la protezione di Agostino che di cappelle ne aveva due, una in s. Maria della Pace e una in s. Maria del Popolo. L’interferenza con Raffaello era continua ma Sebastiano aveva trovato una sua misura, quella della pala d’altare e delle storie sacre. Raffaello aveva voluto che la Resurrezione di Lazzaro si vedesse direttamente in Francia. E’ probabile che l’ opera lo disturbasse. Non che fosse così remota dai principi raffaelleschi. Anche il Lazzaro è basato sul tema della folla. Accoglie anche l’ idea raffaellesca di fare del quadro una rappresentazione dei contemporanei che si mescolano al popolo di Cristo che non ha volto e non è riconoscibile. Ma Sebastiano suggerisce l’ idea della dimensione gigantesca, ignorata da Raffaello, per cui l’opera è percepibile come uno scontro titanico tra due colossi, il Cristo e Lazzaro, accentuandosi nel quadro quella dimensione notturna che sembra più pertinente alla decifrazione della Sacra Scrittura in termini di miracolo. Il miracolo per antonomasia è la liberazione dalla morte, miracolo nel contempo in sé aberrante essendo la morte fisica in sè prescritta dalla dottrina. Invece nella rappresentazione di Sebastiano la Resurrezione di Lazzaro è descritta figurativamente come atto eroico del Cristo e quindi è una lettura del Vangelo in chiave umanistica. Cristo, nell’ immane dipinto, non è propriamente bontà o giustizia ma è potenza e la dialettica visiva tra potenza e debolezza è invenzione completamente ascrivibile a Sebastiano. Dunque Sebastiano nella vita era o poteva sembrare l’ esatto opposto dal Sebastiano artista. L’uomo era irresoluto, lento, inconcludente, incerto. Preferiva, almeno da un certo momento in poi, una vita agiata e disimpegnata. L’artista era il pittore che pone al centro del suo pensiero visivo la metafora della potenza e del potere. Un potere, certamente, che riflette i tempi attraversati dal Sacco di Roma e dall’assillo della sconfitta e della cancellazione. I grandi Ritratti lo attestano in modo inequivocabile. Quando Sebastiano è al massimo della sua forza creativa il Ritratto spira da sé una forza irresistibile e implacabile. Così è il giovane Clemente VII raffigurato nel meraviglioso ritratto di Capodimonte eseguito una decina d’ anni dopo la Pietà di Viterbo , così è soprattutto il formidabile Andrea Doria da datarsi anche questo in quel tempo, così è, sia pure entro certi limiti , il cosiddetto Anton Francesco degli Albizzi, così è il sensibilissimo Cristoforo Colombo. Certo nella prima fase la ritrattistica di Sebastiano risente ancora della dimensione poetica veneta , come era giusto e consequenziale. Il Ritratto del cardinale Ferry Carondelet o quello del cardinale Antonio Ciocchi del Monte, databili tra l’arrivo del maestro a Roma e la Pietà di Viterbo, raffigurano personaggi malinconici e soffusi di una luce mirabile che sembra promanare dall’ interno dello spazio per manifestarsi all’ attenzione di chi guarda. E’ ancora assente quell’idea della potenza dell’ azione artistica in sé, per cui la materia pittorica si carica di energia e rende lo spazio come se questo fosse sovrastato da quella energia e la luce non potesse più penetrare per essere invece richiamata dall’ esterno spingendo l’osservatore a conoscere il quadro in forma di ispezione ipotetica in un altrove che ha perso le sembianze della conversazione dei dotti asolani e ha assunto le forme dell’ aspra crudeltà delle cose vere. Sebastiano, in effetti, nei grandi ritratti della maturità dipinge “oscuramente” nel doppio senso del controllo sull’ evidenza immediata e dell’ oppressione della materia sulla forma realizzata. Non era il solo. Anche Andrea del Sarto a Firenze e Dosso Dossi in area ferrarese si muovono nella stessa ottica. I grandi artisti insegnavano nel concreto dell’ opera come ci si debba sforzare di vedere e l’ arte non sia un diletto facile ma una conquista difficile. E’ il momento in cui la dignità dell’ artista si eleva al massimo livello sia pure tra infiniti contrasti. Roma aveva scarso bisogno di questo. Era quella che descrive Erasmo. Un centro culturale in cui non si fa ricerca e forse non si vuole fare. Un centro in cui bisogna, più che altro, proteggersi e autocelebrarsi. Il passaggio tra Bramante e Raffaello era stato in tal senso fatale. Sebastiano, in verità, sente costantemente la presenza grandiosa e solenne di Bramante specie nella Cappella Borgherini. Del resto Bramante accompagna la sua parabola. Il tempietto di s. Pietro in Montorio era lì, appena fatto, a pochi metri dalla Cappella Borgherini e a s. Maria della Pace il chiostro meraviglioso era prossimo alla zona della Tribuna dove Sebastiano non si decideva mai a compire la Visitazione. Eppure la storiografia ha stabilito una volta per tutte la decisiva e assoluta assonanza tra Bramante e Raffaello, quasi un rapporto di maestro e allievo tra conterranei che si sostengono a vicenda e stabiliscono un potere personale all’interno della Curia. E non c’è dubbio che le cose siano andate sostanzialmente così. Eppure l’ armonia delicata e grandiosa di Bramante è un punto di riferimento certo anche per Sebastiano. E’ quella garanzia della robustezza morale della dottrina umanistica che Raffaello deforma in modo esasperato con risultati nuovi e sensazionali e che Sebastiano invece preserva nello scrigno della Cappella Borgherini. La misura dello spazio è l’ equivalente della affermazione del potere della pittura in sé che Sebastiano persegue e che riesce di fatto a realizzare, sia pure per un breve periodo. In tal senso la presunta “gara” tra Raffaello e Sebastiano per la pala della cattedrale di Narbonne ha un senso profondo. Sembra che Raffaello giudicasse eccellente il quadro di Sebastiano e eccellente lo è veramente perché è forse l’ ultima opera dell’ Umanesimo e la prima di un’ ipotesi di Rinascimento, radicalmente diversa da quella raffaellesca complessa e contradditoria, che non trovò ulteriore spazio di realizzazione. Il gigantismo di Sebastiano non è vacuo e non è esteriore. Ma gli eventi non permisero che questa linea scantonasse poi in un eccesso retorico sempre latente nello stile del maestro veneto. Dopo il Sacco di Roma realmente Sebastiano cambia e tutto il lavoro svolto tra il 1530 e il 1547 , l’ anno della morte, soffre dell’emersione di una difficoltà di esprimersi scaturita in modo naturale dalle esperienze fatte tra il 1511 e il 1527. La sua carriera è divisa in due metà: una quindicina d’ anni di potente creatività e di forza espressiva formidabile e una quindicina d’ anni di introspezione e riesame. Sono due fasi altrettanto valide e significative. Solo che la seconda è di più difficile comprensione e tale è rimasta per secoli contribuendo non poco alla scarsa fama del pittore e confinandolo in un limbo di incertezze. Non fu la Riforma Cattolica o la Controriforma a modificarlo o a incidere in modo determinante sui suoi sviluppi. Il Concilio di Trento comincia quando Sebastiano è ormai alla fine della sua parabola e ha detto tutto, e il Circolo del cardinale Pole a Viterbo arriva anch’ esso a cose fatte per quel che riguarda la sua storia. Nelle opere tarde appare veramente una sorta di sintesi del pensiero di Sebastiano che si manifesta come artista totalmente consapevole dei suoi mezzi espressivi e della missione del pittore in un contesto sociale e politico volto a recuperare posizioni perdute ma anche a rinunciare al ruolo dominante auspicato fino a poco tempo prima. E’ vero che Sebastiano indaga sulla possibilità di dare forma a una sorta di dolore universale che grava sui destini proprio di un pensiero religioso che non potrà mai più essere come era prima ma farà di tutto per dimostrare il contrario fino a macchiarsi di colpe terribili ma di fatto previste. La grandiosa meditazione della Nascita della Vergine in s. Maria del Popolo e quella della Visitazione di s. Maria della Pace gli consentono di spostare sempre più la sua ottica di pittore sacro verso le storie della Vergine , onorando l’ implicita promessa fatta a Giovanni Botonti di mettere l’ immagine di Maria al centro del dramma religioso, facendone una figura tragica proprio nel senso aristotelico della Catarsi in coerenza con le nuove dottrine dei teorici del tempo. L’ idea di ricollegarsi alla prospettiva bramantesca dandole il senso di un infinito possibile nel fondo del quadro dove la vista , emergendo dalla penombra della scena della Nascita, stenta a addentrarsi, imprime senso universale al dipinto che il maestro non completò mai. L’apoteosi tecnica gli consente di dosare la permeazione luminosa con lo stesso edonismo che gli era stato riconosciuto in certi prodigi della ritrattistica come quando aveva formulato gamme successive di nero nella rappresentazione di un abito, tutte riconoscibili e tutte percepibili all’osservazione attenta. Qui in s. Maria del Popolo Sebastiano inventa il tema della penombra che attraversa lo spazio ed è sovrastata dal peso mastodontico della apparizione celeste. L’ intimità assoluta della stanza e l’ esteriorità assoluta dell’ idea del divino convergono verso un altrove, un lontano che porrà problemi interpretativi complessi in sede iconologica ma che è chiara rappresentazione di una totalità delle percezioni tali da stabilire la perennità dell’ opera d’ arte , quella sfida mirabile al tempo che Sebastiano aveva messo al centro del suo lavoro. Ma l’ arte senza tempo non esiste . E’ solo una finzione, un tentativo destinato a fallire . Un desiderio che è meglio non avere. E Sebastiano non ebbe bisogno di finire materialmente queste ultime opere perché aveva superato l’ idea della finitezza del quadro. L’ opera d’ arte è finita secondo la sua implicita dottrina quando è compiuta la luce che la costruisce e compiuto è il senso che ne scaturisce. E’ probabile che si sarebbe stupito se qualcuno gli avesse detto che questa è dunque l’ arte della Controriforma. Non avrebbe ben compreso i termini della questione. Alcune opere della fine sono dure, pesanti , incombono con un peso che è quello stesso della materia pittorica che diventa rappresentazione. Emblematica in tal senso è la pala di Burgos , un quadro potente ma fragile e delicato nella sua sostanza espressiva. E’ possibile che Sebastiano abbia valutato l’ idea di formulare, in questa sua ultima e talora prudente fase, immagini sempre e comunque emblematiche. Ancora una volta rende monumentale e grave l’ immagine della Vergine. Indubbiamente nel pensiero controriformato avrebbe pesato poi molto il tema della rappresentazione della Madonna, della funzione salvifica della madre di Cristo , della Redenzione, della Chiesa intesa quale baluardo della fede e quindi dotata di energia incrollabile e insostituibile. Indubbiamente Sebastiano con questa e altre immagini consimili contribuì a creare un apparato iconografico inerente alla figura della Vergine che sarebbe poi stato avvertito come esemplare per orientare gli artisti a concepire il proprio lavoro in un’ ottica di ufficialità e condivisione che forse Sebastiano stesso avrebbe ben poco condiviso.