Piu` lontana dalla luna

Transcript

Piu` lontana dalla luna
LIBRO
IN ASSAGGIO
PIÙ LONTANA DELLA
LUNA
DI PAOLA MASTROCOLA
Più lontana della luna
DI PAOLA MASTROCOLA
COME SEI PIÙ LONTANA DELLA LUNA, ORA CHE SALE IL GIORNO E SULLE
STRADE BATTE IL PIEDE DEI CAVALLI!
(SALVATORE QUASIMODO)
25 Ottobre 1970
Veniva a trovarci tutti i venerdì, portando le bignole. Puntuale come la morte,
verso le sei. Assurdo imbottirsi di pasticcini a quell’ora, che non è merenda né
cena. Ci si sente colpevoli e grassi. Ma lei era così gentile a portarceli, volevi
dirle di no?
Credo che venisse a trovarci per pietà. Non per carità cristiana, dal momento
che non credeva in nessun dio. Veniva da noi per una sua tutta personale
forma di pietà: le facevamo pena. Non eravamo proprio poveri poveri:
secondo me per lei eravamo bassi, che è una cosa diversa. Ceto basso. Mio
padre faceva l’operaio. Lui diceva operaio specializzato, ci metteva orgoglio,
ma non cambiava granché: era solo un operaio. Mia madre vendeva frutta e
verdura a un banchetto del mercato, si alzava alle quattro e correva ad
accaparrarsi la merce migliore ai mercati generali. Qualsiasi parola trovassi
per definirla, fruttivendola o verduraia o verdunera, e per quanto orgoglio ci
volesse mettere di suo, la sostanza era quella: mia madre era una che vende
frutta e verdura al mercato.
Lei invece era un’impiegata delle Assicurazioni. In pensione, ma non aveva
importanza: continuava a sentirsi un’impiegata delle Assicurazioni. Una che
conta. Infatti aveva la Simca mille, che a parer suo era la migliore delle auto,
non come le Fiat.
Si chiamava Anita Perotti, detta tota Nita perché era signorina, e signorina in
piemontese si dice tota. Era la nostra vicina di casa. Cioè, non esattamente,
perché noi, non avendo una vera casa, non potevamo avere una vicina di
casa.
Noi abitavamo in un ex podere reale. In un paese attaccato a Torino, che si
chiama Stupinigi ed è famoso per la Palazzina. Si arriva, percorrendo dritto un
grande corso pieno di traffico e rumore, a un anello di case basse, che erano
le ex scuderie, gli ex canili per i cani da caccia, le ex pagliere e le ex sabbiere,
con la sabbia per riparare le strade quando si riempivano di buche. Tutto ex,
perché una volta alla Palazzina ci venivano i Savoia per la caccia, poi più
niente.
Mio padre era nato li, in una di quelle case di mattoni scuri, a metà tra ex
© MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153
PAG. 2
scuderia e ex podere; un alloggetto al primo piano con il balcone di ferro, le
finestre verdi e sotto, a pianterreno, un gran portone di legno vecchio che
dava in una specie di stalla, dove chi voleva teneva ancora gli animali oppure
le macchine per coltivare la terra e gli attrezzi.
I miei nonni erano contadini e avevano lavorato la terra a grano, granturco e
foraggio per le bestie. Quando morirono, a mio padre rimase solo una cavalla,
oltre al diritto di continuare ad affittare per poche lire quella specie di cascina,
che non affacciava nemmeno sul grande corso, ma s’apriva su un cortiletto
interno spento di rumori, e sul retro aveva il nulla, solo campi e prati
all’infinito, e in lontananza la città che cominciava, i condomini nuovi in
costruzione.
A un certo punto mio padre aveva deciso di fare accoppiare la cavalla:
« Meglio pensarci prima che tiri le cuoia » aveva detto.
Voleva assicurarsi di avere sempre un cavallo, anche negli anni a venire.
« Cosa ce ne facciamo, che costa anche a tenerlo? » diceva mia madre, ma
non c’era niente da fare.
« Si sa mai » rispondeva cupo mio padre.
Dalla cavalla nacque un bellissimo puledrino sauro, con una striscia bianca
sul muso. Mio padre lo chiamò Pino perché alla tivù c’era il carosello del
bagnoschiuma Pino Silvestre Vidal, con un cavallo bianco che andava al
galoppo tra le onde in riva al mare. Il nostro non era bianco, era marrone
scuro, ma faceva lo stesso. Quando nacque Pino, io avevo quasi cinque anni,
ma a me sembrava lui il fratello maggiore. La cavalla poi mio padre la diede
via, perché tenere due animali secondo lui era troppo.
Così, mentre la città ci stava sempre più accerchiando e sul grande corso
sfrecciavano le macchine ai cento all’ora, noi eravamo rimasti gli unici ad
avere un cavallo. Quando andai a scuola e mi chiedevano cosa fa tuo padre,
dicevo operaio con cavallo. Sembrava meglio che operaio.
Quando tornava dal turno, mio padre andava a salutare Pino. Diceva proprio
così:
« Scendo a salutare » e noi capivamo. Voleva dire tre cose: strigliano, dargli
da mangiare e ingrassargli la sella e i finimenti. Montano mai, o almeno, io
non glielo vidi mai fare, « Un cavallo lo monti solo se devi andare da qualche
parte » diceva « e io dove vuoi che vada? » Se era bel tempo, lo portava a
piedi a fare un giro in tondo nell’orto, dove mia madre aveva ottenuto di
togliere l’insalata, le bietole e i pomodori e coltivava solo ortensie, perché
diceva che faceva più bello e noi non eravamo contadini. Se invece era
brutto, niente giro; ma la sella e i finimenti glieli ingrassava ugualmente.
« Si sa mai » diceva.
Insomma, noi abitavamo li. E tota Nita cambiava vestito ogni venerdì per
venirci a trovare. Il cappello invece era sempre lo stesso, un cappello giallo a
larghe tese che non si toglieva mai, credo neanche in casa. Da sotto, si
faceva uscire due ciocche arricciolate di capelli, una a destra e una a sinistra,
che lei chiamava tirabaci spiegando a tutti che tiravano i baci. E ridacchiava. I
baci di chi, nessuno osava chiederle visto che aveva quasi settant’anni, non si
era mai sposata ed era sempre vissuta sola. La chiamavano tota mica per
© MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153
PAG. 3
niente.
Arrivava rombando con la Simca mille fin sotto il portone, e portava con sé il
suo cane, una femmina obesa di nome Doda e di razza imperscrutabile. C’era
solo un cortiletto tra casa nostra e la sua, ma lei prendeva la macchina perché
prima passava in pasticceria a comprare il solito: quattro etti di bignole allo
zabaglione e due chantilly, una per sé e una per il suo ratìn, che ero io e ogni
volta le avrei detto volentieri: guardi che mi chiamo Lidia, non Ratìn.
Entrava in casa che sembrava una regina in pompa magna: pelliccia, cappello
giallo, vassoio di paste e la Doda obesa al guinzaglio. Ogni volta trovava il
modo di far pesare che lei non solo aveva la Simca mille, ma anche la
pelliccia. A quei tempi avere o no la pelliccia faceva la differenza: eri o non eri
una signora. Mia madre alzava le spalle, è solo di rat-musqué, diceva. Ratmusqué era una parola che mi faceva venire il prurito, traducevo topo
muschiato, e mi nascevano mille pensieri su quel ratto che non riuscivo a
immaginare come facesse ad avere del muschio addosso, e se era il muschio
del presepe o quale.
«Oh magna Nita, che sorpresa! » diceva immancabilmente mia madre
aprendole la porta, anche se, come poteva mai essere una sorpresa una
visita che immancabilmente si svolgeva ogni venerdì verso le sei di sera?
Mia madre la chiamava magna, che in piemontese vuoi dire zia. Le
rincresceva chiamarla tota, le sembrava di sottolineare il fatto che era zitella
e, siccome era grata che una signora come lei venisse da noi portando
persino i pasticcini, si era inventata di chiamarla magna. Tanto una zia ce
l’hanno tutti, e nessuno va mai a guardare attraverso quali esatte parentele
uno è zio o non lo è.
Tota Nita si sedeva a capotavola al nostro tavolo di formica verdino del tinello,
il cappello giallo a larghe tese in testa. Cominciava a spacchettare il
vassoietto della pasticceria e ogni volta diceva:
« Ho portato due bignole per fare un po’ merenda».
Alle sei di sera. Poi aggiungeva:
« Dov’è il mio ratin? »
Ogni volta mi andavo a rintanare chiusa a chiave in bagno. Ratìn vuoi dire
topolino. Sarebbe il diminutivo di rat, parente del rat-musqué, tanto per dire.
Avevo solo quindici anni, ero magra e lunga come un filo d’erba, ma mi
sentivo grande e odiavo tutti i ratti dei mondo, topi o topolini che fossero.
Speravo solo che mia madre non mi chiamasse di là. Invece mi chiamava
sempre:
« Lidia, vieni un po’ a salutare, c’è magna Nita che ha portato i pasticcini».
Magna Nita divorava con metodo, una bignola dietro l’altra. Io le contemplavo
le gote lanose e flaccide che si muovevano ritmicamente al lento e inesorabile
ruminio: aveva il viso cosparso di una sottile lanugine grigia, flaccido perché
era il viso di una donna settantenne. Per fortuna il cappello giallo faceva
ombra su rughe e peluria, forse per questo non lo toglieva mai.
Ruminando bignole, magna Nita arrivava alla domanda. Sempre la stessa.
Me la aspettavo come la marinaia sul collo, la sentivo arrivare da lontano, e
poi abbattersi su di me:
© MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153
PAG. 4
« E allora, ratìn, ce l’hai o no il filarino? »
Colpita e abbattuta. Forse veniva da noi ogni venerdì solo per fare a me
quella domanda mannaia. Ce l’hai o no il filarino? La parola filarino mi agitava
dentro un mulinello di nervi. Che razza di parola era? No, non ce l’avevo il
filarino.
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
www.mondolibri.it
© MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153
PAG. 5