Il campo di sterminio di Primo Levi tratto da Se questo è un uomo

Transcript

Il campo di sterminio di Primo Levi tratto da Se questo è un uomo
Il campo di sterminio
di Primo Levi tratto da Se questo è un uomo, Einaudi
Nel romanzo autobiografico Se questo è un uomo lo scrittore torinese Primo Levi, sopravvissuto ai
campi di sterminio nazisti, racconta in prima persona la sua drammatica esperienza. Il brano che ti
proponiamo prende avvio dal momento in cui lo scrittore viene caricato su un treno con destinazione
Auschwitz.
Con l'assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci i tedeschi fecero l'appello. Alla fine, Wieviel Stuck? - domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose che i «pezzi1» erano
seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni2 e ci portarono alla
stazione di Carpi3. Qui ci attendeva il treno e la scorta4 per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la
cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, né nel corpo né nell'anima. Soltanto uno
stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera? I vagoni erano dodici, e noi
seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco
dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte5, tedesche, quelle che non
ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare.
Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall'esterno, e dentro uomini donne bambini,
compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all'ingiù, verso il
fondo6.
Questa volta dentro siamo noi. Gli sportelli erano stati chiusi subito, ma il treno non si mosse che a
sera. Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz7: un nome privo di significato,
allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra. Il treno viaggiava
lentamente, con lunghe soste snervanti. Dalla feritoia8, vedemmo sfilare le alte rupi pallide della val
d'Adige, gli ultimi nomi di città italiane. Passammo il Brennero alle dodici del secondo giorno e tutti si
alzarono in piedi, ma nessuno disse parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente mi
rappresentavo9 quale sarebbe potuto essere la inumana gioia di quell'altro passaggio, a portiere
aperte, ché nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi nomi italiani... e mi guardai intorno, e pensai
quanti, fra quella povera polvere umana, sarebbero stati toccati dal destino.
Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran
lunga il vagone più fortunato. Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a
gran voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta allontanavano
chi tentava di avvicinarsi al convoglio. Due giovani madri, coi figli ancora al seno, gemevano notte e
giorno implorando acqua. Meno tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l'insonnia, rese meno
penose dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine.
Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine polacche. Alla
sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in
modo percettibile10. La neve era alta. Doveva essere una linea secondaria, le stazioni erano piccole e
quasi deserte. Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo
ormai «dall'altra parte». Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema
lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in mezzo a una pianura buia e
silenziosa. Si vedevano da entrambi i lati del binario, file di lumi bianchi e rossi, a perdita d'occhio; ma
nulla di quel rumorio confuso che denunzia11 di lontano i luoghi abitati. Alla luce misera dell'ultima
candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano, attendemmo che qualcosa avvenisse.
Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci
conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma sapevamo poco l'uno dell'altra. Ci
dicemmo allora, nell'ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve;
ciascuno salutò nell'altro la vita. Non avevamo più paura.
1
«pezzi»: i prigionieri (considerati come oggetti).
torpedoni: pullman.
3
Carpi: località emiliana in provincia di Modena
4
scorta: soldati che seguono un convoglio per difenderlo e controllarne il carico.
5
tradotte: convogli ferroviari per il trasporto di militari, ora usati per i prigionieri ebrei.
6
il fondo: l'inferno, la fine di ogni speranza
7
Auschwitz: campo di prigionia polacco, uno dei più famigerati del periodo nazista, sede di forni crematori e
camere a gas per lo sterminio degli ebrei
8
feritoia: fessura posta in alto nei vagoni ferroviari.
9
mi rappresentavo: cercavo di immaginare.
10
percettibile: di cui ci si può accorgere
11
denunzia: manifesta, indica la presenza
2
Venne a un tratto lo scioglimento12. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini
stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una
rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina13 illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di
autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare
questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di
rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l'un
l'altro, ma timidamente a mezza voce.
Una decina di SS stavano in disparte, l'aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento,
penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra presero a interrogarci rapidamente,
uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?»
e in base alle risposte ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario, e
come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici
agenti d'ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli
dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non
volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di
chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca,
che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di
ogni giorno. In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che
accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilirlo allora né dopo: la
notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e
sommaria14, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich15;
sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro
convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che tutti gli altri, in numero di più di
cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue
principio di discriminazione16 in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il
sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai
nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio;
andavano in gas gli altri. Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese17 la
necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell'ingegner Aldo Levi di
Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente, alla quale, durante il viaggio nel
vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua
tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva18 che
trascinava tutti alla morte.
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi
nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po' di tempo come una massa oscura all'altra
estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla. Emersero invece nella luce dei fanali due
drappelli di strani individui19`. Camminavano inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il
capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di
una lunga palandrana20 a righe, che anche di notte e di lontano si indovinava sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad
armeggiare coi nostri bagagli, e a salire e scendere dai vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito.
Questa era la metamorfosi21 che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così.
12
lo scioglimento: il distacco tra di noi
banchina: marciapiede. 14.. 15. Reich: antica parola celtica che significa "impero", "regno": con questo nome
veniva chiamato lo Stato tedesco sotto Hitler.
14
sommaria: eseguita in fretta
15
Reich: antica parola celtica che significa "impero", "regno": con questo nome veniva chiamato lo Stato tedesco
sotto Hitler.
16
principio di discriminazione: criterio (assurdo) che non considera le persone come tali ma come oggetti..
17
palese: chiara e convincente
18
locomotiva: locomotiva a vapore
19
individui: i prigionieri già presenti nel campo.
13
20
21
palandrana: abito lungo e largo
metamorfosi: trasformazione, cambiamento totale
Il sacrificio di padre Kolbe
Lawrence Elliott, da «Selezione dal Reader's Digest», Ottobre 1974
Campo di concentramento di Auschwitz, luglio 1941: le condizioni di vita degli ebrei ammassati nelle
baracche è al limite della sopportazione umana, ma un uomo, padre Kolbe, non si rassegna e cerca in
tutti i modi di alleviare le sofferenze dei compagni di prigionia. Il suo sacrificio giungerà alle estreme
conseguenze, cioè a dare la vita per salvare quella di un'altra persona.
Verso la fine di una soffocante giornata del luglio 1941, ad Auschwitz, il campo di concentramento
nazista nel sud della Polonia, un prigioniero si allontanò furtivo dalla propria squadra di lavoro, e
scomparve. Quando la sua assenza venne scoperta durante l'appello serale, delle pattuglie di ricerca
partirono alla caccia del fuggitivo. Il comandante del campo annunciò che, se il prigioniero non fosse
stato trovato entro 24 ore, dieci uomini, scelti a caso tra i 600 del suo Block, sarebbero stati messi a
morte per rappresaglia. La morte era di casa ad Auschwitz. Ma per gli infelici che affollavano le
camerate sudicie e maleodoranti del Block 1422, l'attesa della macabra lotteria fu una tortura di tipo
particolare. Se nel corso di quella notte interminabile qualcuno di loro sperò in cuor suo che il fuggitivo
fosse preso, non si poteva certo fargliene una colpa. Ma non lo presero. Non se ne ebbe più notizia ed
è passato alla storia solo per aver creato, con la sua fuga, le condizioni adatte a mettere in luce quella
che, a 30 anni di distanza, Paolo VI descrisse come la figura «forse più ardente e scintillante» che sia
emersa dalla «degradazione inumana» e dall'«inconcepibile oscurità» dell'epoca nazista.
Quella notte, nel Block 14, nessuno dormì. Ognuno si trovò alle prese con la propria agonia spirituale.
Dignità, casa, libertà, famiglia, tutto era perduto. Ora anche la vita era in forse. Come ricorda uno dei
prigionieri, l'ex soldato polacco Franciszek Gajowniczek, «se uno era vivo, almeno poteva sempre
sperare». Quella di Gajowniczek era una speranza particolarmente concreta. Era convinto che sua
moglie e i suoi due figli fossero vivi. Se solo fosse riuscito a sopravvivere a quel purgatorio, li avrebbe
ritrovati, e insieme avrebbero riannodato i fili spezzati delle loro vite. Sulla branda di fianco a quella di
Gajowniczek dormiva un disegnatore pubblicitario, Mieczyslaw Koscielniak, che aveva ormai perso ogni
speranza. - Pensavo a quelli già morti come a dei privilegiati - rammenta. - E i nazisti avevano ridotto i
superstiti ad animali, pronti a rubare per una briciola di pane. Tutti, tranne il prete. Koscielniak si era
reso conto già d'allora che il prete era diverso. Più debole di molti altri e spesso malato, pure sembrava
che avesse sempre un boccone di cibo da spartire con i compagni. Quando riusciva a reggersi in piedi,
lavorava; se un altro vacillava, si accollava parte del suo carico. Confessava di nascosto e anche
durante quella notte interminabile Koscielniak ricorda di averlo visto in ginocchio accanto al giaciglio di
un giovane scosso dai singhiozzi, al quale andava dicendo che - la morte non è cosa di cui aver paura . All'ora in cui i prigionieri si misero in fila per l'appello del mattino, il sole dardeggiava senza pietà.
Quelli delle altre baracche vennero ben presto scortati ai posti di lavoro, ma gli uomini del Block 14
rimasero in piedi nel quadrangolo. Tutta la giornata restarono là, dieci file di scheletri viventi. Chi
sveniva era preso a calci e percosso finché, barcollando, non si rimetteva in piedi. I corpi di quelli che
non riuscivano a rialzarsi venivano semplicemente accatastati l'uno sull'altro.
Alle 18 il colonnello Fritsch, comandante del campo, annunciò che il prigioniero non era stato trovato.
Avrebbe perciò scelto i dieci che dovevano pagare con la vita la fuga del compagno: questi sarebbero
stati condotti al bunker della morte, nel Block 13, e lasciati lì a morire di fame.
La selezione non richiese più di qualche minuto, ma agli uomini in attesa sembrò un'eternità. Fritsch si
muoveva su e giù dall'una all'altra fila, facendo scricchiolare gli stivali sul terreno riarso. molto caldo.
Per dieci volte si fermò, puntò il dito e pronunciò una sola paro la nel silenzio angoscioso: - Tu! . Ogni volta, le guardie spingevano avanti il condannato. Qualcuno dei dieci si mise a piangere. Uno, il
soldato Gajowniczek, gridò: - Mia moglie! I miei poveri bambini! Mentre le SS si preparavano a
condurre via i condannati, ci fu improvviso movimento tra le file. Dal fondo un undicesimo cercava di
farsi avanti: il prete. - Cosa crede di fare qual porco un polacco? - sbraitò Fritsch. Ma il prete
continuava ad avanzare con passo incerto, incurante delle armi puntate contro di lui. fine, parlò: - Se
al Lagerfuhrer non spiace, vorrei prendere il p di uno di questi prigionieri -. E indicò Gajowniczek. Quello. Fritsch fissò con occhio torvo l'apparizione emaciata che aveva di fronte. - Sei pazzo? - lo
investì. - No -, fu la risposta. - Ma io so solo al mondo. Quell'uomo ha una famiglia per cui vivere. La
prego - Chi sei? Che lavoro fai?
- Sono un prete cattolico.
Gli uomini che osservavano la scena si agitarono inquieti. Koscniak ricorda di aver pensato: «Adesso li
prenderà tutti e due, lui e Gajowniczek». E che cosa pensava Fritsch, fissando quegli oc sereni nel viso
devastato? Si rese conto, in quel momento memorabile, di trovarsi in presenza di una forza superiore
alla sua? Quelli che ricordano affermano che il suo sguardo tremò. - Richiesta accolta - borbottò e girò
sui tacchi. Gli uomini del Block 14 erano sbalorditi. - Non riuscivamo a raccapezzarci - dice Koscielniak
22
costruzione, baracca dove vivevano i prigionieri
oggi. - Che motivo c'era perché un uomo facesse una cosa del genere? E chi era poi quel prete? Era
Maximilian Maria Kolbe, frate francescano; a suo tempo, Koscielniak e gli altri sopravvissuti si
sarebbero resi conto di aver assistito alla nascita di un santo. [...]
I dieci che erano stati destinati a morire di fame ora giacevano nudi sull'impiantito di cemento di
un'umida cella sotterranea nel Block 13. Di tanto in tanto gemevano, o urlavano nel delirio. Ma quando
erano lucidi, rispondevano alle assicurazioni di padre Kolbe che Dio non li avrebbe abbandonati. Finché
ne ebbero la forza, pregarono e cantarono. Dopo alcuni giorni perfino le SS, che avevano visto morire
uomini a centinaia, ma nessuno che avesse affrontato la fine con tanta serenità, si rifiutarono di
avvicinarsi alla cella della morte e mandarono un inserviente polacco a rimuovere i corpi di quelli che
erano morti. Al Block 14, il soldato Gajowniczek si mostrò dapprima sconvolto dal sacrificio di padre
Kolbe: piangeva e rifiutava il cibo. Poi Koscielniak lo ricondusse alla ragione: - Rientra in te stesso! Non
vorrai che il prete muoia per niente! -. In quel momento Gajowniczek decise che era suo dovere
vivere: non avrebbe sprecato il dono di padre Kolbe. E anche per Koscielniak il sacrificio del sacerdote
segnò la fine della disperazione. - Un solo uomo come lui era una ragione sufficiente per tirare avanti.
Allo scadere della seconda settimana, solo quattro uomini erano ancora vivi nel Block 13, e di questi
padre Kolbe fu l'ultimo a morire. Era come se avesse dovuto aiutare ciascuno dei suoi compagni a
superare la prova finale, prima di potersi abbandonare alla morte liberatrice. A quel punto i nazisti
dovettero finirlo. Vennero a fargli un'iniezione di acido fenico" al quindicesimo giorno della sua agonia,
il 14 agosto, vigilia dell'Assunzione. Con il sorriso sulle labbra, mormorando - Ave Maria -, il prete
porse il braccio a ricevere l'ago.
Dopo quattro lunghi anni, terminato l'incubo, Franciszek Gajowniczek ritornò a quella che era stata la
sua casa a Varsavia, e la trovò rasa al suolo dalle bombe. Entrambi i suoi figli erano rimasti uccisi, ma
trovò la moglie sana e salva. I due si trasferirono in un paesino, e cominciarono con pazienza a
costruirsi una nuova vita. Poi Gajowniczek apprese una notizia sbalorditiva: la voce del martirio di
padre Kolbe era arrivata fino in Vaticano, e c'era stata la proposta di beatificazione, passo preliminare`
alla canonizzazione come santo cattolico. Gajowniczek fu invitato dalla Chiesa a rendere testimonianza,
assieme ad altri che potevano attestare la vita di abnegazione e la morte eroica di Maximilian Kolbe.
[...] Così padre Kolbe continua a vivere, simbolo di tutti i sacrifici ignorati del mondo, di tutti quegli atti
di eroismo che non ebbero riconoscimento. Fece a un uomo il dono della vita, e diede a innumerevoli
altri il coraggio di resistere alla tirannia che da ogni parte li opprimeva. E a tutti gli uomini, di qualsiasi
credo religioso, lascia il retaggio del suo spirito indomito.
Le due Anne, da Diario, trad. di A. Vita, Einaudi, Torino
Con intelligenza penetrante e con animo assetato di significato, Anna annotò sul suo diario non solo i fatti
quotidiani di quel piccolo mondo che fu il suo alloggio segreto fino al 4 agosto 1944, giorno in cui la polizia
nazista vi fece irruzione, ma anche gli avvenimenti e le trasformazioni che accadevano in lei. Così nell'ultima
pagina, di seguito riportata, Anna scopre che la personalità di un'adolescente è ancora incerta e ambigua: ha
due facce che paiono irriducibili l'una all'altra.
Martedí, 1 agosto 1944
Cara Kitty,
«un fastello23 di contraddizioni» è l'ultima frase della mia lettera precedente e la prima di quella di
oggi. «Un fastello di contraddizioni», mi puoi spiegare con precisione che cos'è? Che cosa significa
contraddizione? Come tante altre parole ha due significati, contraddizione esteriore e contraddizione
interiore. II primo significato corrisponde al solito «non adattarsi all'opinione altrui, saperla piú lunga degli
altri, aver sempre l'ultima parola», insomma, a tutte quelle sgradevoli qualità per le quali io sono ben
nota. Il secondo... per questo, no, non sono nota, è il mio segreto. Ti ho già piú volte spiegato che la mia
anima è, per cosí dire, divisa in due. Una delle due metà accoglie la mia esuberante allegria, la mia gioia
di vivere, la mia tendenza a scherzare su tutto e a prendere tutto alla leggera. Con ciò intendo pure il non
scandalizzarsi per un flirt24, un bacio, un abbraccio, uno scherzo poco pulito. Questa metà è quasi sempre
in agguato e scaccia l'altra, che è piú bella, piú pura e piú profonda. La parte migliore di Anna non è
conosciuta da nessuno - vero? - e perciò sono cosí pochi quelli che mi possono sopportare. Certo, sono un
pagliaccio abbastanza divertente per un pomeriggio, poi ognuno ne ha abbastanza di me per un mese.
Esattamente la stessa cosa che un film d'amore per le persone serie: una semplice distrazione, uno svago
per una volta, da dimenticare presto, niente di cattivo ma neppure niente di buono. È brutto per me
23
24
un fascio, un gran numero
breve relazione sentimentale
doverti dire questo, ma perché non dovrei dirlo, quando so che è la verità? La mia parte leggera e
superficiale si libererà sempre troppo presto della parte piú profonda, e quindi prevarrà sempre. Non ti
puoi immaginare quanto spesso ho cercato di spingere via quest'Anna, che è soltanto la metà dell'Anna
completa, di prenderla a pugni, di nasconderla; non ci riesco, e so anche perché non ci riesco. Ho molta
paura che tutti coloro che mi conoscono come sono sempre, debbano scoprire che ho anche un altro lato,
un lato piú bello e migliore. Ho paura che mi beffino, che mi trovino ridicola e sentimentale; che non mi
prendano sul serio. Sono abituata a essere presa sul serio, ma soltanto l'Anna «leggera» v'è abituata e lo
può sopportare, l’Anna «piú grave» è troppo debole e non ci resisterebbe. Quando riesco a mettere alla
ribaltata per un quarto d'ora Anna la buona, essa, non appena ha da parlare, si ritrae come una mimosa,
lascia la parola all'Anna n. 1 e, prima che io me ne accorga, sparisce. La cara Anna non è dunque ancora
mai comparsa in società, nemmeno una volta, ma in solitudine ha quasi sempre il primato. Io so
precisamente come vorrei essere, come sono di dentro, ma, ahimè, lo sono soltanto per me. E questa è
forse, anzi, sicuramente la ragione per cui io chiamo me stessa un felice temperamento interiore e gli altri
mi giudicano un felice temperamento esteriore. Di dentro la pura Anna mi indica la via, di fuori non sono
che una capretta staccatasi dal gregge per troppa esuberanza.
Come ho già detto, sento ogni cosa diversamente da come la esprimo, e perciò mi qualificano civetta,
saccente, lettrice di romanzetti, smaniosa di correr dietro ai ragazzi. L'Anna allegra ne ride, dà risposte
insolenti, si stringe indifferente nelle spalle, fa come se non le importasse di nulla, ma, ahimè, l'Anna
quieta reagisce in maniera esattamente contraria. Se devo essere sincera, debbo confessarti che ciò mi
spiace molto, che faccio enormi sforzi per diventare diversa, ma che ogni volta mi trovo a combattere
contro un nemico piú forte di me. Una voce singhiozza entro di me: «Vedi a che ti sei ridotta: cattive
opinioni, visi beffardi e costernati25, gente che ti trova antipatica, e tutto perché non hai dato ascolto ai
buoni consigli della tua buona metà». Ahimè, vorrei ben ascoltarla, ma non va; se sto tranquilla e seria,
tutti pensano che è una nuova commedia, e allora bisogna pur che mi salvi con uno scherzetto; per tacere
della mia famiglia che subito pensa che io sia ammalata, mi fa ingoiare pillole per il mal di testa e
tavolette per i nervi, mi tasta il collo e la fronte per sentire se ho la febbre, si informa delle mie
evacuazioni e critica il mio cattivo umore. Non lo sopporto; quando si occupano di me in questo modo,
divento prima impertinente, poi triste e infine rovescio un'altra volta il mio cuore, volgendo in fuori il lato
cattivo, in dentro il lato buono, e cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere
se... non ci fossero altri uomini al mondo.
La tua Anna
ASCOLTIAMO INTERROGHIAMO ED IL TESTO
1.
Anna scrive che la sua anima era quasi divisa in due: isola nel testo e descrivi tutte le contraddizioni che
ella avvertiva nella sua persona.
2. Anna individua la ragione per cui non riusciva a far prevalere il suo lato buono: esponila.
3. Perché ella è convinta che avrebbe potuto divenire come voleva essere se non ci fossero stati altri uomini
al mondo?
4. Questa pagina di diario rivela che Anna sapeva vedere in sé e giudicare il proprio comportamento.
Guardando sé, vedeva due Anne: accade così anche a te? Anche nella tua personalità ci sono due
«metà» in conflitto?
5. La paura del giudizio degli altri frenava Anna nel suo tentativo di far prevalere il lato migliore di sé: ti è
già capitato di avvertire su di te le richieste dell'ambiente esterno e delle compagnie che frequenti? Come
ti comporti? È un fatto che ti pesa o che ti sprona? Racconta.
6. Tema: «Gli sforzi che compio per mutare un aspetto del mio carattere che mi è sgradito».
Ho cercato di capire, da Diario, trad. di A. Vita, Einaudi, Torino
In queste pagine Anna trascrive i suoi conflitti, il suo mondo interiore fatto di ribellioni, di desiderio di
affermazione, gelosia, sentimenti di rivalsa. È convinta che i genitori non la capiscano e non l'apprezzino.
Appare difficile soprattutto il suo rapporto con la madre, con la quale Anna non riesce a parlare con semplicità
e ad esternare i propri pensieri e sentimenti. In seguito però, crescendo e maturando - tra i due brani intercorre
quasi un anno - Anna cambia atteggiamento: impara a riflettere su di sé con maggiore obiettività, e riesce
anche a valutare in modo critico il proprio comportamento.
Venerdí, 2 aprile 1943
Cara Kitty,
ahimè, debbo segnare un'altra cosa terribile nel registro dei miei peccati.
Ieri sera ero a letto aspettando che il babbo venisse a dire le preghiere con me e poi a darmi la buona
notte, quando la mamma entrò in camera, si mise a sedere sul letto e mi domandò con molta
semplicità: «Anna, il babbo non viene ancora, vuoi che preghi io con te?». «No, mamma» risposi io. La
25
avviliti, afflitti
mamma si alzò, stette un momento in piedi presso il letto, poi si avviò lentamente alla porta. A un
tratto si volse e con un viso contratto disse: «Non mi offendo, l'affetto non si impone». Due lacrime
brillavano sul suo viso quando essa uscí. lo rimasi coricata; sentivo che ero stata cattiva a respingerla
cosí rudemente, ma sapevo pure che non avrei potuto risponderle in altro modo. Non so adulare e non
potevo pregare con lei contro la mia volontà. Non andava. Ho pietà di mamma, moltissima pietà,
perché per la prima volta nella mia vita ho notato che il mio contegno freddo non la lascia indifferente.
Ho visto il dolore sul suo volto, quando diceva che l'affetto non si impone. È duro dire la verità eppure
la verità è questa, che è lei che mi ha respinto, è lei che mi ha resa insensibile a ogni sua espressione
di affetto con le sue osservazioni inopportune, i suoi scherzi grossolani su cose su cui io non intendo
scherzare. Io fremevo26, quando ella mi rivolgeva le sue dure parole; e ora era lei che fremeva,
dicendo che non c'era piú affetto fra noi due. Per metà della notte la mamma ha pianto, e per tutta la
notte non ha quasi dormito. Papà non mi guarda, e quando lo fa leggo nei suoi occhi le parole: «Come
puoi essere cosí sciocca, come puoi dare tanto dolore alla mamma!».
Domenica, 2 gennaio 1944
Cara Kitty,
Stamane, non avendo nulla da fare, mi misi a sfogliare il mio diario e mi capitarono sotto'occhio
parecchie lettere in cui trattavo l'argomento «mamma» in termini cosí irosi che, spaventata, mi
domandai: «Anna, sei tu che hai parlato di odio? O Anna, come hai potuto farlo!». Stetti colla pagina
aperta dinanzi a me e pensai come fosse potuto accadere che io mi sentissi cosí colma d'ira, per non
dire di vero odio, da dover confidare tutto a te. Ho cercato di capire e di scusare l'Anna di un anno fa
perché la mia coscienza non è pulita finché ti lascio con queste accuse senza spiegarti come ciò sia
avvenuto.
lo soffrivo - e soffro - di malumori che, per cosí dire, mi tenevano la testa sott'acqua e mi facevano
vedere le cose in modo soltanto soggettivo, senza che io cercassi di riflettere con calma alle parole
della parte avversa27 e di mettermi nei panni di coloro che col mio impetuoso carattere avevo offeso o
irritato. Mi sono rinchiusa in me stessa, ho guardato soltanto me stessa e nel mio diario ho descritto
impassibile ogni mia gioia e ogni mio corruccio e sfogato ogni mio disprezzo. Questo diario ha molto
valore per me, perché è diventato sovente un libro di memorie, ma su molte pagine potrei scrivere:
«passato». Ero furiosa con mamma, e talvolta lo sono ancora. Non mi capiva, è vero, ma nemmeno io
capivo lei. Mi voleva bene ed era tenera con me; ma siccome si era trovata per colpa mia in molte
situazioni sgradevoli, ed era nervosa e irritabile anche per altre tristi circostanze, è ben comprensibile
che mi sgridasse. Io me la prendevo troppo per questo, mi offendevo, diventavo insolente e molesta
nei suoi riguardi, e lei a sua volta si indispettiva. Si era giunti cosí a un continuo scambio di sgarberie e
di ripicchi. Non era certo bello per nessuna di noi due, ma sta passando. Io non lo volevo ammettere e
sentivo molta pietà per me stessa; anche questo è comprensibile. Le frasi violente del diario sono
espressione di una collera che nella vita normale avrei sfogato pestando un po' i piedi in una stanza o
dicendo qualche insolenza alle spalle di mamma. È passato il periodo in cui condannavo mia madre in
lacrime. Io sono divenuta piú saggia e i nervi di mamma si sono calmati. So tener la bocca chiusa
quando mi arrabbio e lei fa altrettanto; così si va avanti meglio, almeno apparentemente. Però mi è
impossibile voler bene a mamma coll'attaccamento affettuoso di un bambino, è un sentimento che mi
manca. Metto in pace la mia coscienza pensando che è meglio aver messo le insolenze su carta che
averle dette a mamma, perché le sarebbero rimaste impresse nel cuore.
La tua Anna
ASCOLTIAMO IL TESTO
1. Riporta con parole tue lo stato d'animo contraddittorio di Anna, cercando di definire quali siano i
suoi sentimenti nei confronti della madre.
2. Come Anna giudica più tardi il suo comportamento? Che cosa l'ha cambiata? Perché si considera
«più saggia?»
INTERROGHIAMO IL TESTO
1. Che cosa intende Anna dicendo «mi è impossibile voler bene a mamma coll'attaccamento
affettuoso di un bambino»?
2. Anna vive un rapporto diverso con i genitori: tu nei confronti di quale dei tuoi genitori ti senti
più in confidenza? Con quale parli di più e perché?
CONTINUIAMO IL TESTO
Racconta di una circostanza in cui ti sei sentito contrariato o non compreso dai tuoi genitori.
26
27
mi sentivo agitata e mi contenevo per non dimostrare la rabbia
dal punto di vista dei genitori, in particolare della mamma