a33 valo lega

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SE LEGALITA’ NON FA RIMA CON VALIDITA’
Noterelle sull’ abolizione del valore legale del titolo di studio
di Paolo Cardoni
Nel 1959 Einaudi scriveva a proposito del valore legale del titolo di studio, esprimendo il punto di
vista liberale, che il solo modo per assicurare libertà e competizione tra le istituzioni di alta cultura
era l’abolizione di ogni intervento dello stato nella distribuzione dei titoli di studio.
«... la verità essenziale qui affermata [è:] non avere il diploma per se medesimo alcun valore legale,
non essere il suo possesso condizione necessaria per conseguire pubblici e privati uffici, essere la
classificazione dei candidati in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori,
diplomati elementari e simiglianti indicativi di casta, propria di società decadenti ed estranea alla
verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro, pubblico e privato, di preferire
l'uomo vergine di bolli» (cfr. L.Einaudi, “Scuola e libertà”, in Prediche inutili, Einaudi, Torino
1959).
Qualche anno fa Sabino Cassese nel commentare questo passaggio, notava: “È, comunque,
importante riconoscere che non l'intera società, né l'intera economia si appoggiano al valore dei
titoli di studio, ma solo lo Stato e le professioni che vivono sotto la sua ala protettrice. Questa
circostanza può avere due spiegazioni. La prima è la seguente: con la 'conquista' statale delle
università (avvenuta nel corso di tre secoli, fino al XIX), e lo sviluppo della scuola statale
(prodottosi nel corso del XIX, ma specialmente del XX secolo), l'intero sistema di insegnamento è
divenuto pubblico ed è entrato sotto il controllo dello Stato; è, quindi, naturale che, per l'esercizio
della funzione pubblica o delle professioni protette, esso richieda titoli che altri rami della sua
organizzazione, la scuola e l'università, rilasciano. La seconda spiegazione, invece, è la seguente:
concorsi pubblici ed esami di Stato sono strumenti di selezione fragili e ben poco perfetti; è, quindi,
naturale che lo Stato si appoggi a un sistema di valutazione e di selezione ufficiale ed esterno (ma
pur sempre pubblico), per la sfiducia che esso ha nei propri sistemi di reclutamento e di selezione.
Se fosse vera questa seconda spiegazione – aggiungeva - , bisognerebbe ammettere che scuola e
università suppliscono carenze dei poteri pubblici, perché operano come ausiliarie per la selezione
del personale necessario per i posti pubblici e per le professioni. E che, non richiedendo più il titolo
di studio per l'ammissione a concorsi ed esami di Stato, si finirebbe per indebolire ulteriormente la
pubblica amministrazione e le professioni, che sono già deboli. (cfr. S. Cassese, “Il valore legale del
titolo di studio”, Annali di storia delle Università italiane, vol. VI, 2002).
Per circa quarant’anni la questione è rimasta poco più che una questione di principio, sostenuta
apertamente solo dai radicali di Pannella.
Oggi la questione ritorna. Molta acqua è passata sotto i ponti. La situazione italiana (e mondiale) è
molto diversa. Al governo finalmente una chiara impostazione liberale, riconducibile ai valori della
destra storica. Le circostanze l’hanno imposta: crisi economica e crisi verticale dei partiti politici –
quelli di sinistra inclusi…-. Di nuovo il pareggio del bilancio, ma anche l’evasione fiscale, tornano
ad essere obiettivi seri, dopo anni di populismo di una destra sgangherata, centralista e statalista,
ma anche liberista sui generis, a senso unico: non regole ferree con le quali giocare sul libero
mercato, ma nessuna regola per i ricchi, né per l’affarismo che dei soldi pubblici ha fatto incetta in
modo vergognoso: liberismo con l’assistenza dello stato. Quanto di meno liberale si potesse
immaginare.
Ora che sembra tornato di moda il pensiero liberale autentico, si torna a porre dunque il problema
del valore legale del titolo di studio. Prima ancora che in ambito governativo si prendesse
qualunque decisione in merito, un appello promosso da Radicali Italiani e firmato da una
cinquantina di docenti, ha rilanciato la proposta dell’abolizione. Si legge fra l’altro in questo appello
del gennaio scorso:
La nostra università è vissuta per decenni sulla falsa idea che il riconoscimento del merito di
quanti hanno minori disponibilità economiche possa essere garantito solo da una università statale,
con rette universitarie uguali per tutti, indipendentemente dalle condizioni di reddito e da requisiti
di merito individuale. Al contrario, noi pensiamo che oggi la sfida da cogliere con decisione sia
quella di realizzare alcune fondamentali riforme (…). La premessa per una riforma del sistema
universitario basata sulla concorrenza e il riconoscimento del merito individuale è l’abolizione del
valore legale del titolo di studio, accompagnata da un lato dalla libera imposizione delle tasse
universitarie, dall’altro dalla creazione di un sistema moderno di borse di studio volto a
contribuire al finanziamento degli studi universitari dei più capaci e meritevoli. Così facendo, lo
studente sceglierebbe l’ateneo per la qualità della formazione che offre, non per il “pezzo di carta”
e si creerebbe una virtuosa competizione tra atenei, inducendo gli studenti a scegliere le università
migliori e spingendo le università ad assumere persone capaci e meritevoli.
E’ chiaro il riferimento alla cosiddetta meritocrazia, ma altrettanto chiaro è il riferimento al reddito:
liberalizzare la tassazione in modo che gli atenei possano far fronte meglio alle esigenze e alla spese
per la didattica e la ricerca potrà avere in sé del buono, ma non è chi non veda come questo
significhi immediatamente scaricare sui singoli le spese per la qualità e deresponsabilizzare tout
court lo stato. Solo i ricchi all’università, dunque; e l’università solo per i ricchi. Quanto
all’efficacia di un sistema di borse di studio c’è poco da farsi illusioni: i “capaci e meritevoli privi di
mezzi” sono già in Costituzione, ma per decenni abbiamo assistito al vergognoso spreco di risorse
pubbliche, con borse e facilitazioni attribuite a chi dichiarava di avere meno “mezzi”, piuttosto che
a quanti effettivamente ne avevano meno….chi garantirebbe ora il contrario?
E’ facile prevedere che la “sfiga” di cui si è sentito parlare riguarderà in modo sempre più esclusivo
chi di mezzi ne ha comunque di meno…
Tornano perciò anche le ragioni di una sana opposizione, hic et nunc, all’abolizione di questo
baluardo di un sistema basato sull’eguaglianza. Differenze tra destra vera e vera sinistra si possono
ancora rilevare, ma non è più tempo di confronti ideali o ideologici, che rischierebbero di essere
antistorici, come il confronto fra unitaristi e federalisti: i secondi avrebbero forse avuto ragione 150
anni fa, ma oggi è impossibile e inutile pensare di riproporre la questione in quei termini: non si
torna indietro. In certi ambiti si può solo andare avanti e, semmai, correggere il tiro, inventare cose
nuove…: se lo stato italiano fosse sorto e fosse cresciuto con altre basi morali, forse “l’avocazione a
sé” dell’istruzione da parte delle Stato, ossia il controllo diretto sulla scuola, e quindi il valore legale
dei titoli di studio, non avrebbe avuto motivo. Ma non si cancella la storia.
Sicuri che sia una buona idea?
. Notava recentemente con pragmatismo. il rettore Decleva (Università statale di Milano) che la
cosa sarebbe comunque di difficile applicazione:
“Prima di tutto bisognerebbe mettersi d’accordo sulla «cosa» che si vorrebbe abolire. La questione
non è banale. Come da qualche parte si è già fatto opportunamente notare, non esiste una norma di
legge, cassata la quale il valore legale non c’è più. E allora… di che cosa intendiamo parlare? Del
fatto che un medesimo titolo di studio e una medesima votazione possano assumere una valenza
assai diversa a seconda dell’ateneo dove li si sono conseguiti, e che quindi …non li si debba più
prendere in considerazione? Di impedire che il solo conseguimento di un titolo possa
automaticamente far fare carriera nel pubblico impiego (abuso al quale si è peraltro già posto fine,
anche se qualcuno lo richiama come se fosse ancora in vigore)? O che per l’accesso a molte
posizioni, ivi compresa l’iscrizione a ordini e albi professionali, basti il titolo di primo livello? (…):
vedremo se la discussione, se davvero ci sarà, porterà a qualcosa. O se sarà l’ennesimo ritorno in
auge di un tormentone ricorrente. Francamente, anche il richiamo all’autorità di Luigi Einaudi
andrebbe contestualizzato, se non altro citandolo anche là dove scriveva che «Non si mutano d’un
colpo tradizioni, metodo di reclutamento degli insegnanti, metodi di giudizio degli studenti; e se si
fa, d’un tratto, il tentativo, nasce male peggiore di quello al quale si vorrebbe rimediare». (…)
l’unica risposta seria a chi continua a porre il problema dell’abolizione del valore legale, è quella di
mettere il sistema … in sicurezza per quel che riguarda il rispetto dei requisiti che fanno di un
percorso di studio… una cosa seria. Nella situazione italiana, con la storia che abbiamo alle spalle,
questo non può venire che da una certificazione dell’offerta formativa – chiunque la eroghi: soggetti
pubblici o soggetti privati – fatta da una autorità pubblica competente e riconosciuta”.
Quindi – concludeva il rettore - non si tratta di abolire il valore legale, “perché il «pezzo di carta»
finale lo vogliono tutti, e avendo la certezza che lo si possa usare nella vita professionale e di
lavoro. Si tratta piuttosto di garantire che i percorsi di studio valgono quello che promettono e che
sono tenuti a dare in termini di competenza, coerenza, efficacia. Perché ci sono professori in
numero adeguato, perché per preparazione, impegno, aggiornamento scientifico, pratica diretta della
ricerca, essi sono all’altezza delle loro responsabilità; perché il ventaglio dei servizi offerti è
adeguato; perché i laureati sono effettivamente preparati... E perché, conseguentemente, anche il
titolo finale significa e vale qualcosa” (cfr. il sussidiario.net, 30 gennaio 2012).
E dunque, siamo sicuri che sia ancora una buona idea? Che aiuti a risolvere più problemi di quanti
non possa creare? forse lo sarebbe stata decenni fa. Ma che per rilanciare oggi la scuola e
l'università serva l'abolizione del valore legale del titolo di studio, è come sostenere che per
rilanciare il lavoro serva l'abrogazione dell'articolo 18. Tutti sanno che non è così. Siamo davanti a
slogan, o al massimo a pericolose scorciatoie di cui non si vede chiaramente lo sbocco….
A parte la banale battuta secondo cui abolire qualcosa di legale in Italia non sembra mai una buona
idea, nel merito si può osservare che dare a chiunque la possibilità di rilasciare titoli di studio non
significa necessariamente che tutti i possibili “utenti” cercheranno gli istituti migliori. Molti, forse
troppi, cercheranno al contrario i più condiscendenti, i più facili, più disponibili a rilasciare
certificazioni, magari a pagamento. Non è già così? Non ci si nasconde dietro il valore legale del
titolo per ottenerlo senza che nessuno possa “guardarci dentro”? e certo che è sbagliato. Ma chi
contrasterà una scelta sbagliata? Sicuri che invece di promuovere controlli rigorosi sulle violazioni,
la strada sia quella di abolire il rischio che un qualunque controllo riveli l’inganno? Aumentare i
controlli sulle violazioni dei limiti di velocità o abolire i limiti di velocità? I costumi non cambiano
facilmente. E la cultura da noi non è mai stato un valore in sé…
Quando ci si accorgerà del danno così provocato, avremo bruciato un'intera generazione. Un'altra.
Quale modello?
Fin qui il pragmatismo. Ma c’è dell’altro. Siamo certi che la direzione da seguire sia quella del
modello competitivo anche per l'istruzione? come dimenticare che la competizione italiana è quella
delle cricche, dei furbetti del quartiere, di chi usa la legalità come copertura per fare i propri affari?
Siamo sicuri che togliere la legalità – ossia un controllo di legalità - in questo campo
significherebbe facilitare la formazione di regole valide per tutti? si parla tanto di fine delle
ideologie, ma l'ideologia aziendalistica della competizione sembra molto dura a morire….
A parte il fatto che la competizione così come la crescita all'infinito sono miti di cui si comincia a
discutere anche in ambito economico, dati alla mano, rilanciando la necessità di rivedere il modello
competitivo in direzione di un modello ecosostenibile ed ecocompatibile, sono ancora convinto che
in alcune materie il modello da seguire non possa essere, per motivi intrinseci, quello competitivo,
ma debba piuttosto essere quello solidale; in materia di cultura e di istruzione, così come in altre
materie (servizi essenziali, risorse fondamentali come l’acqua ecc.), uno Stato - ossia la macchina
che gestisce la res publica - non deve mettersi in concorrenza con altri soggetti, né favorire la
concorrenza fra privati, che hanno pur sempre legittimi scopi di lucro, e che non a caso possono
sempre competere fra di loro (senza oneri per lo stato…), ma deve offrire e garantire un servizio
basilare di qualità crescente, sia pure compatibilmente con le risorse disponibili. E, semmai,
garantire che i privati concorrano fra di loro utilizzando regole certe, valide erga omnes, tali da
tutelare tanto i “concorrenti”, quanto soprattutto gli “utenti” – che altro non sono, poi, che cittadini
titolari di diritti e di doveri - : quindi, controlli, controlli, controlli.
Come, in effetti, si sta facendo, e non a caso, per le tasse. Lo si faccia in modo adeguato, allora,
anche per i titoli di studio universitari o per quelli post-laurea e per i percorsi formativi che quelli
presuppongono.
Il modello da seguire in queste materie è il modello no-profit, il modello senza fine di lucro e il
modello di Emergency.
Anche perché per l'ambito culturale e scolastico siamo veramente all'emergenza. Chiunque pensi di
mettere in concorrenza le istituzioni non conosce le scuole. Da anni non mette piede dentro un'aula
scolastica. Qui servono mezzi e strumenti, non un'assurda concorrenza fra soggetti privati o
privatistici; questi, semmai, devono “concorrere” idealmente a un rilancio complessivo. In
definitiva, l’impressione negativa è che come per l'articolo 18, si voglia solo parlar d’altro per
coprire la difficoltà di affrontare nel merito le questioni specifiche.