tremonti e draghi, il balletto nei saloni del titanic

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tremonti e draghi, il balletto nei saloni del titanic
TREMONTI E DRAGHI, IL BALLETTO NEI SALONI DEL TITANIC
Mercoledì 16 Luglio 2008 01:10
di Mario Braconi
Succedono cose stranissime in periodi di crisi: blasonati quotidiani finanziari britannici rivalutano
i pregi di una seria regolamentazione dei mercati finanziari per la collettività; l’Ecofin, finora
ingenuo come un’illibata fanciulla, scopre finalmente l’esistenza della speculazione
internazionale e dibatte i malanni che ne derivano ai cittadini europei. Ma l’evento più
interessante della scorsa settimana è il garbato battibecco con cui il ministro dell’Economia e
delle Finanze e il Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea ABI (Associazione Bancaria
Italiana) hanno contrapposto le rispettive visioni del mondo, talora ricorrendo ad uno stile che
non avrebbe sfigurato in una vecchia sezione socialista. Se da un lato, infatti, Tremonti si è
prodotto in un’inattesa difesa della classe operaia (l’unica impossibilitata a “traslare” su qualcun
altro gli effetti degli aumenti di prezzi), Draghi ha messo impietosamente il dito nella piaga di un
Paese cui l’insipienza politica ha regalato un livello di salari reali netti non troppo diverso da
quello registrato quindici anni fa. Non v’è dubbio che Tremonti disponga di una notevole
capacità di marketing politico. Se si prova per un momento a dimenticare qual è la sua storia e
quale siano i suoi “amici” più cari, c’è un che di quasi simpatico nel modo quasi ossessivo con
cui dichiara (almeno sui giornali) guerra alla speculazione. Non dispiace affatto la sua proposta
di disincentivare il ricorso ai strumenti derivati del petrolio aumentandone drasticamente il costo
(più elevati margini di garanzia da versare all’inizio), sempre che se ne faccia qualcosa.
Tremonti inoltre, grazie all’appoggio della Francia e nonostante la freddezza di Gran Bretagna e
Paesi Bassi, è riuscito a imporre all’Eurogruppo un’agenda basata sulla lotta alla speculazione,
indicando nell’applicazione degli artt. 81 ed 82 del Trattato di Roma (contro i cartelli e le intese
tra concorrenti) i possibili meccanismi sanzionatori. Per fare un esempio, si tratta delle
disposizioni antimonopolistiche che potrebbero costare alla Microsoft la bellezza di 900 milioni
di euro di multa.
Ma il colpo di genio mediatico di Tremonti è il provvedimento che va sotto il nome di Robin
(Hood) Tax. Il “prodotto” è stato venduto con lo slogan “la tassa che prende ai super-ricchi per
dare ai poveri”: in pratica si tratterebbe di una tassazione straordinaria a carico di quelle
categorie di aziende che negli ultimi anno si sono auto attribuite extraprofitti grazie alla
speculazione, il cui gettito verrebbe impiegato a scopi ridistribuitivi. Peccato che basti grattare
l’oro con l’unghia - e Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra de La Voce lo hanno fatto - per
capire che le cose non stanno proprio come le mostra il furbo Giulio. Innanzitutto, poiché
l’imposta è basata sui ricavi e non sui profitti (peraltro di un esercizio differente da quello in cui
si applica) e quindi potrebbe andare a colpire i profitti e non gli extra-profitti, con conseguenze
negative sugli investimenti delle aziende. Senza contare che seleziona le imprese da colpire in
modo arbitrario (Giannini e Guerra si domandano, giustamente: perché limitarsi a banche,
società energetiche e assicurazioni escludendo escludendo telecomunicazioni e autostrade?
Più comprensibile, nell’ottica di Tremonti l’inclusione delle cooperative, da sempre covo di
rossi). Ma gari gli abbiamo dato un’idea…
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TREMONTI E DRAGHI, IL BALLETTO NEI SALONI DEL TITANIC
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Per comprendere meglio quanto sia forte la componente propagandistica di una misura come
la Robin Tax bastino le seguenti considerazioni: al fondo di solidarietà per i meno abbienti viene
destinato solo il 10% del suo gettito atteso e solo per un anno, il 2008; le aziende del settore
energetico sono di proprietà pubblica o maggioranza pubblica, per cui l’imposta finirebbe per
tramutarsi in una partita di giro; da ultimo, questo tipo di imposta, a dispetto di un divieto di
traslazione tanto stentoreo quanto formalistico, rischia di essere scaricato totalmente sul
consumatore finale.
E’ quest’ultimo il punto sollevato da Draghi, il quale, da iper-liberista, ha un riflesso
condizionato che lo fa scattare come una molla quando sente parlare di interferenze dello stato
sull’allegra anarchia del liberissimo mercato. Per questa ragione all’ABI è andato ben preparato:
secondo uno studio di Bankitalia, la Robin Tax allo studio del Governo “vale” un incremento di
10 centesimi nei costi di raccolta sostenuti dalle banche (già notevolmente stressate dalla crisi
di liquidità internazionale). Il suo sinistro vaticinio ha più il sapore della minaccia che
dell’oggettiva constatazione: per risolvere il problema, profetizza Draghi, le banche potrebbero
(alternativamente) vedersi costrette ad aumentare i costi per la clientela, rinunciare ad aumenti
di capitale, ovvero pagare meno dividendi agli azionisti. Dato che il caso della rinuncia al
dividendo mi pare di tipo puramente scolastico, restano queste due interessanti possibilità:
indebitamento più costoso per le famiglie e/o banche in difficoltà patrimoniali.
A proposito di costi finanziari, Draghi si è esibito in una complicata piroetta dialettica: se da un
lato il Governatore ha ammesso che il 70% dei debiti delle famiglie è a tasso variabile, il rischio
di bancarotta è piuttosto concreto. Eppure, nel mondo perfetto in cui vive Mario Draghi il rialzo
dei tassi deciso dalla Banca Centrale lo scorso 3 luglio è da considerarsi un bene: a detta del
Governatore, infatti, “contrastando il rialzo dell’inflazione, si difende il reddito disponibile delle
famiglie. L’aumento dei prezzi erode il potere d’acquisto, abbassa il valore reale della ricchezza
finanziaria, contribuisce al rallentamento dei consumi e della crescita”. Come sostiene Joseph
Halevi, invece, poiché l’inflazione è generata da “fuori” (shock sulle materie prime e sugli
alimenti) il rialzo dei tassi ha un effetto modesto sul controllo dei prezzi, ma mette sicuramente
in difficoltà le famiglie indebitate riducendo nel contempo i margini di profitto (e quindi gli
investimenti) delle aziende, con effetti negativi sull’occupazione. In pratica “alzare i tassi
significa affrontare il problema dell’inflazione colpendo i settori e gli elementi che non l'hanno
causata. Il che è logicamente assurdo”. Ma coerente con la storia di questo Paese, bisogna
riconoscerlo.
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