Libro terzo "Parlo per me, perché io sono libero. Ciascuno di noi
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Libro terzo "Parlo per me, perché io sono libero. Ciascuno di noi
Libro terzo "Parlo per me, perché io sono libero. Ciascuno di noi parla per sé solo. Siamo un coro di voci che offusca le vostre bugie”. Osheola Prologo “Attaccheremo Fort Black, quel ricettacolo d’indiani, schiavi ribelli, fuorilegge, canaglie, figli di puttana… seminole di tutte le razze, feccia dell’umanità”, proferì ai propri luogotenenti il generale Andrew Jackson, che una quindicina d’anni dopo occuperà lo scranno di presidente degli Stati Uniti. Trascorsero solo due giorni e i visi pallidi, nelle cui file militavano anche diversi cani sciolti del magma indiano, iniziarono le operazioni di assedio del forte. Le prime scaramucce, però, diedero ragione agli assediati, che rintuzzarono peraltro timidi attacchi. Seminole black, determinati fino all’osso. “Basta, schiacciamoli!”, urlò allora Jackson sputando sul pavimento, in segno di disprezzo, il tabacco fino ad allora rabbiosamente biascicato. Due cannoniere presero posizione sul fiume di fronte al forte. Gli assediati si videro seriamente minacciati e spararono alcune cannonate contro le navi. E i bianchi risposero al fuoco senza farsi pregare. Era proprio quello che aspettavano. Uno due, tre… otto tiri, e al nono una bomba di fuoco, vermiglia e incandescente, centrò in pieno la polveriera di Fort Negro. Fu il finimondo. Un bagliore accecante e un boato assordante devastarono ogni cosa. Quasi un’onda d’urto si abbatté, come un immane contraccolpo, tutt’attorno, persino sulle imbarcazioni da cui erano partiti i colpi. L'esplosione si era udita ad oltre cento miglia di distanza. Di Fort Black più nessuna traccia. Solo carboni fumanti e cenere al soffio del destino. Ma quale destino? Degli oltre trecento esseri umani arroccati nel forte, più di duecentocinquanta morirono all’istante e altri ancora lo avrebbero fatto, loro malgrado, dopo una terribile agonia. “La fine del mondo me la immaginavo proprio così. Oggi l’ho quasi vissuta”, sogghignò tra il compiaciuto e lo stordito il generale Jackson, che a bordo dell’ammiraglia spiaccicò col piede destro una vile sanguisuga, il cui sangue, frutto di un gonfio bottino, spruzzò ai quattro venti nelle pareti della cabina: “Bastarda!” E poi salì dinoccolato sul ponte pensando compiaciuto: “Questa volta si piegheranno alla legge. Sì, s’inchineranno, mangeranno la polvere delle loro colpe…”. Seguirono abbondanti retate in tutta la regione, con altre numerose uccisioni e catture, ma le tribù non si lasciarono domare. Si ritirarono verso le paludi, pronti ancora a combattere. Indomiti seminole. Cronologia Prima e Seconda Guerra Seminole 1812. Gli inglesi finita la guerra contro gli americani abbandonano un forte che diventa il quartier generale dei neri in fuga dalla schiavitù (si chiamava Prospect Bluff e poi cambia nome in Fort Black o Fort Negro). Gli inglesi appoggiano i neri ribelli e gli indiani, donando loro armi ed equipaggiamento per aiutarli contro gli Stati Uniti. 1813-14. Guerra Creek (guerra dei Bastoni Rossi). Gli americani aiutati dai Cherokee e dai Creek del sud muovono guerra e massacrano (non senza difficoltà) i Creek del nord. Questi al termine della guerra vengono scacciati dai loro territori in Alabama e fuggono in Florida. Fra questi c’è anche Osceola (nove anni). 1816. Gli americani attaccano Fort Negro dal mare e lo prendono: una palla di cannone centra la polveriera del forte e l’esplosione si sente a centosessanta km di distanza! (Fonte Wikipedia). Scoppio della prima guerra seminole (i Seminole corrono in aiuto dei neri e vogliono contrastare l’egemonia statunitense che sta rubando loro le terre, com’era già successo in Alabama). 1817. Il 21 marzo il generale Jackson attacca Fowltown (importante villaggio seminole). Muoiono quattro uomini e due donne, i Seminole si rifugiano nelle foreste e comincia la strategia della guerriglia. 1818. Jackson compie razzie in tutto il nord della Florida, attaccando numerosi dei villaggi seminole più grandi. Il 6 aprile il comandante Jackson entra a S. Marks (possedimento spagnolo). Fine della prima guerra seminole (gli indiani si rifugiano nella boscaglia e nella palude). 1819. Nel gennaio, importante battaglia sul Suwannee River. I Black Seminole che erano accampati sulla riva ovest rallentano Jackson e i suoi con alto costo di vite, per permettere alle donne e ai Seminole sulla riva est del fiume di scappare e mettersi in salvo. 1821. La Florida passa dal dominio spagnolo a quello degli stati nord americani. 1823. Trenta capi seminole firmano il trattato di Moultrie Creek, secondo il quale i Seminole devono spostarsi tutti a sud di Charlotte River (infausta terra paludosa: swamp). 1830. Jackson con l’Indian Removal Act vuole tutti gli indiani fuori dalla Florida. Il motivo economico scatenante fu l’asilo che i Seminole davano agli schiavi neri che fuggivano dalle piantagioni. I pellerossa odiavano la schiavitù e amavano i loro alleati neri tanto abili e intelligenti. Per un’economia basata sulla schiavitù era fuori discussione permettere un’alleanza tanto pericolosa. Per questo motivo gli Stati Uniti impiegheranno tante energie nella guerra più costosa, sfortunata e inconcludente di tutta la storia degli Stati Uniti. 1832. Trattato di Paynes Landing: una delegazione di capi seminole è accompagnata in Oklahoma a visitare la riserva. “Se soddisfatti di quella regione tutti i seminole si sposteranno nell’indian territory”. Non si capisce però se a essere soddisfatti debbano essere solo gli esponenti della delegazione o tutti i seminole: a questa incomprensione creata (forse appositamente) da Abraham (leader e interprete Black Seminole) si appiglieranno i pellerossa per annullare la validità del trattato. A Fort Gibson gli americani costrinsero i seminole a firmare la loro volontà di spostarsi. 1832-1833. Alcune tribù seminole accettano il trasferimento in “riserve” (fra Texas e Kansas). 1834. Osceola sposa la sua seconda moglie. 1835. Il generale Thompson imprigiona il suo riottoso “amico” Osceola che si rifiuta di emigrare e minaccia di uccidere tutti i capi Seminole che siano disposti a scendere a compromessi. Osceola in catene promette di cedere, ma una volta liberato sarà ancora più furioso di prima. In poco tempo organizza un agguato a Thompson e lo uccide, mentre il resto dei Seminole condotti da Micanopy e Alligator massacrano il generale Dade e tutto il suo esercito al Wahoo Swamp; ne sopravvivono solo quattro. Il 28 dicembre scoppia la seconda guerra seminole alcuni gruppi seminole non accettano la deportazione e riprendono le armi. La causa scatenante è l’assassinio da parte di Osceola e di un gruppetto di guerrieri del generale Thompson che era responsabile di aver rapito e venduta come schiava la figlia di Osceola. Il 31 dicembre il Generale Clinch con settecentocinquanta uomini muove di nuovo verso il covo di Withlacoochee. Usa una canoa abbandonata per attraversare il fiume. Quando metà degli uomini è passata, duecento Seminole e Black Seminole guidati da Osceola attaccano. Osceola è ferito a un braccio. Gli indiani persero tre uomini ed ebbero tre feriti, contro i quattro morti americani e cinquantanove feriti. I verbali ospedalieri indicavano una maggioranza di ferite alla testa, polmoni e addome: questo indicava una mira molto accurata, ma i proiettili usati erano di calibro troppo piccolo per ferire mortalmente. I soldati americani erano totalmente inadatti alle swamp, morivano di caldo, di diarrea, o letteralmente soffocati dalle zanzare, camminavano per giorni con l’acqua fino alla cintura, la sawgrass, l’erba delle paludi, era talmente affilata che tagliava loro calzature e piedi, procurandogli delle infezioni micidiali. Inoltre indossavano delle stupidissime divise azzurre che si vedevano a chilometri. Gli indiani erano pazzi, combattevano nudi oppure si addobbavano usando parti di divise americane, si appendevano monete luccicanti, pellicce e qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani. In un’occasione rapinarono una carovana di teatranti ed il preziosissimo bottino consistette in brillanti e colorati costumi teatrali che indossarono durante tutta la Seconda Guerra Seminole. Il loro urlo di guerra era terribile. Questo loro modo di affrontare le battaglie era terrorizzante. 1836. Il maggiore Gaines raggiunge il Withlacoochee con novecentoottanta uomini, ma viene accerchiato dai Seminole che lo tengono sotto scacco. Per due giorni manda messaggeri a chiedere i rinforzi di Clinch. Intanto invita i capi seminole a trattare e mentre stanno trattando arriva Clinch che apre il fuoco a tradimento. I Seminole scappano e gli americani evitano l’ennesima strage. Anche il generale Call tenta di scovare i Seminole al Withlacoochee ma è costretto a ritirarsi senza successo a parte la cattura di venti civili sorpresi in un accampamento. 1837. Il generale Jesup prende d’assalto il quartiere generale di Osceola e fa prigionieri cinquantacinque uomini fra neri e Seminole, ma Osceola si salva. Il 6 marzo c’è la firma del trattato che garantisce ai seminole il “possesso” degli schiavi neri. In aprile trecento indiani si riuniscono a Tampa per farsi deportare, tra questi: Osceola, Sam Jones, Coa Hadjo, Philip, Tuskinia, Wild Cat, Yaholoochee, Micanopy, Jumper, Cloud e Alligator. Il 2 giugno Osceola e Sam Jones (Arpeika) con duecento guerrieri distruggono l’accampamento e fuggono. Il motivo di questa rivolta è che Jesup aveva firmato un accordo segreto con alcuni capi, che in cambio di denaro avrebbero consegnato i loro neri. 1837. Jesup prende in ostaggio il padre e il fratello di Gatto Selvaggio (capo guerra seminole con Osceola) e fa promettere a Gatto Selvaggio di convincere i Seminole a recarsi ad un incontro diplomatico, ma tradendo le leggi di guerra lo imprigiona. Il 21 ottobre Osceola si reca all’incontro diplomatico è fatto prigioniero. 1837. Il 29 novembre Wild Cat e John Cavallo scappano da Fort Marion insieme a sedici guerrieri e due donne, scavando un varco nelle mura larghe due metri. Il 25 dicembre si svolge la battaglia di Okeechobee: quattrocento indiani guidati da Sam Jones, Alligator, Wild Cat e John Cavallo affrontano millecinquecento americani, che contarono ventisei morti e centododici feriti, mentre i Seminole persero solo undici uomini e ne ebbero quattordici feriti. 1838. Jesup offre libertà e protezione ai neri che si fossero separati dai Seminole. Molti seguirono questa proposta, stremati da una guerra infinita. Il 30 gennaio Osceola muore in carcere vicino alle due mogli, ai quattro figli, a sua sorella e a un medico europeo. Si fa vestire da capo, con il suo coltello rituale e poi muore rifiutando le cure del medico che vuole operare un salasso la malaria. In febbraio Jesup invita i Seminole ad accamparsi vicino a lui e scrive a Washington chiedendo di terminare la guerra e lasciare gli ultimi Seminole nelle Everglades. Per giorni si svolgono feste e danze tra Seminole e americani. A marzo arriva la risposta negativa dal segretario Pionsett. Jesup allora cattura i cinquecento indiani che con lui aspettavano una risposta. Si consegnano anche Holatoochee, Alligator e John Cavallo. Jesup passa il comando a Taylor. Nel suo mandato riesce a catturare duemila e novecento indiani, che spedisce man mano in Oklahoma e ne uccide cento nelle battaglie. Le epidemie uccideranno cinquantaquattro Seminole durante la deportazione, tra i quali Re Philip (padre di Wild Cat). Taylor adotta la strategia della guerriglia, distrugge il bestiame e le coltivazioni e rompe ogni commercio fra bianchi e indiani. 1839. Billy Gambe Storte (metà nero) diventa leader capo per diritto di nascita. 1842. Fine della Seconda Guerra Seminole. Rimangono solo trecento Seminole in Florida. Capitolo 1 Era il tredicesimo giorno del decimo mese del 1835 e, nei pressi del presidio americano di Fort King, una vedetta avvistò una piccola nuvola di polvere muoversi verso il forte. Nella stretta pianura che si estendeva fra due ripide colline rocciose proprio di fronte al forte si capiva chiaramente che un cavaliere al galoppo si stava avvicinando. Presto le nuvole di polvere divennero tre, una centrale e due ai lati, un po’ più arretrate. La sentinella William Foller soffiò forte nel suo fischietto come gli era stato ordinato di fare non appena avesse avvistato qualcosa di strano o pericoloso. In pochi istanti, le mura del forte si riempirono di berretti blu, soldati curiosi di sapere che genere di pericolo stesse arrivando. Foller, gridando dalla torretta del forte, fece rapporto al suo ufficiale che parve sollevato nel sapere che non vi era nessun pericolo reale all’orizzonte. Intanto il gruppetto di cavalieri stava ormai avvicinandosi velocemente alla porta principale. Ora tutti potevano vedere che si trattava di tre nativi, probabilmente appartenenti dalla tribù dei Creek o forse a quella Seminole. Fu ordinato di puntare sei fucilieri dalle mura della porta principale più per intimidazione che per far fronte a una pericolosa minaccia e fu intimato l’ “Alt” agli indiani. “Sono Osceola, voglio parlare con Thompson” aveva detto quello che sembrava essere il capo. Tutti conoscevano il nome di Osceola, era considerato il più grande guerriero delle tribù Seminole, la sua fama di tiratore infallibile e il suo carisma lo avevano reso famoso in tutte le città della Florida e anche in quelle americane. Il suo aspetto rispecchiava le sue qualità: il suo corpo era snello ma forte e si muoveva con agilità ed eleganza. Aveva un portamento regale, dei lineamenti morbidi e un sorriso sincero. Gli indiani dicevano che nei suoi occhi potevi leggere, nel medesimo istante, sia la tenerezza di quando stringeva i suoi figli, che la ferocia di quando si trovava sul campo di battaglia. Era solito indossare, e quella volta non faceva eccezione, degli abiti finemente tessuti e ricamati (cosa alquanto strana fra i guerrieri della sua gente che spesso non consideravano importanti queste “frivolezze”). I vestiti, insieme a una serie molto preziosa di fini ornamenti, gli conferivano un aspetto ancora più importante e questo aveva certamente avuto il merito di rendere il suo nome ancora più conosciuto soprattutto negli insediamenti dei bianchi. La storia più famosa che circolava su Osceola era di sicuro quella del “Trattato di Payne’s Landing”; era un racconto risalente a due anni prima ed era presto divenuto leggendario ispirando decine di cantastorie, scrittori e persino diversi pittori che ritrassero splendidamente quella scena così carica di pathos: Per capire bene quell’incontro è necessario fare un breve salto indietro di qualche anno: nel 1821 gli Stati Uniti avevano acquistato la Florida dalla Spagna e da allora avevano cercato di “risolvere” i problemi con i nativi. Nel 1823 fu firmato un accordo, detto di “Moultrie Creek” nel quale Stati Uniti offrivano protezione agli indiani, sovvenzioni per vent’anni e una riserva di circa di quattro milioni di ettari (16.000 km ²) nel centro della Florida. Per contro gli indiani dovevano rinunciare a ogni pretesa di possesso di altre terre in quella penisola. L’accordo aveva resistito fino al 1828, anno nel quale il famigerato Generale Jackson era diventato il settimo Presidente degli Stati Uniti d’America. La politica di Jackson fu completamente diversa tanto che nel 1830 impose ai Seminole’ “Indian Removal Act” che sanciva l’espulsione di tutti gli indiani dalla Florida e la restituzione degli schiavi neri fuggiti dalle piantagioni e rifugiatisi nei villaggi Seminole. La reazione degli indiani fu di totale dissenso, la maggior parte dei capi, fra cui Mikanopy, aveva rifiutato la firma di quel trattato e nel 1832 fu convocata quindi una grande riunione presso Payne's Landing, uno scalo naturale sulle sponde del fiume Oklawaha. All’incontro parteciparono i generali e rappresentanti dei bianchi e circa 450 indiani guidati da Neamathla, capo scelto per quell’occasione quale rappresentante di tutto il popolo Seminole. Il generale Gadsden che presiedeva la riunione per conto degli americani spiegò che il governo aveva dato agli indiani tre anni per abbandonare la riserva e muoversi ad ovest del Missisipi. Dopo quella data qualunque Seminole trovato in tutta la Florida sarebbe stato dichiarato fuorilegge e imprigionato. Correva voce che per spingere gli indiani ad accettare più facilmente l’accordo, gli Americani avessero corrotto alcuni capi tribù ma nessuno in quei giorni sapeva se era solo una diceria o se qualcosa corrispondesse al vero. Neamathla e alcuni altri capi Seminole sottoscrissero il patto, decisero che si sarebbero mossi dalla Florida nelle terre ad ovest del grande fiume. Micanopy e diversi altri si rifiutarono invece di sottoscrivere quel sopruso e furono immediatamente considerati deposti dal Governo degli Stati Uniti. Proprio mentre il generale James Gadsnen stava cercando di persuadere tutti i capitribù a firmare si alzo dalle fila degli indiani un giovane guerriero il cui nome era Asi-yaholo, dai bianchi conosciuto come Osceola. L’indiano si avvicinò al tavolo delle trattative ed estraendo il suo pugnale lo piantò nel centro del trattato. La lama trapassò la carta e si conficcò nel tavolo di legno su cui era appoggiato il foglio. Ci fu in istante di silenzio dopo il quale il guerriero Seminole gridò: “Accetteremo solo un tipo d’accordo, quello in cui i Seminole rimangono gli unici padroni della terra che possiedono.”Poi aggiunse: "Parlo per me, perché io sono libero. Ciascuno di noi parla per sé solo. Siamo un coro di voci che offusca le vostre bugie”. Quel gesto fu l’atto di nascita dei nuovi gruppi di guerrieri ribelli che avrebbero da allora combattuto l’egemonia statunitense nella regione, Osceola ne sarebbe diventato con il tempo il leader indiscusso. I tre Seminole non dovettero attendere molto perché il portone del forte si aprisse lentamente. Ne uscirono sei guardie che intimarono di consegnare le armi. L’indiano e i suoi due compagni annuirono e posarono, fucili, pistole e coltelli. Osceola fu subito scortato da Thompson che si trovava, a quell’ora, nelle sue stanze. Wiley Thompson era stato prima generale maggiore della quarta divisione della milizia della Georgia e successivamente fu eletto per tre anni di fila membro del Congresso. Per contrastare il costante formarsi di gruppi di ribelli il governo degli Stati Uniti aveva creato diverse strutture denominate “Agenzie” il cui scopo era quello di mantenere più tranquilli possibile i rapporti fra il crescente impero e il popolo dei nativi e a convincerli a lasciare la Florida. Al termine della carica governativa Thompson aveva accettato di diventare un “Agente indiano” e gli era stato affidato il comando generale di Fort King, in cui era conosciuto da tutti come “il generale”. Osceola entrò da solo, come solo era il generale. “Siete venuto senza preavviso, Osceola” disse Thompson alzandosi dalla scrivania. “Non è una visita di cortesia, generale” rispose il Seminole. Osceola aveva cavalcato tutta la notte e tutto il mattino successivo, incurante della fatica, per giungere nel più breve tempo possibile al forte, non aveva ne mangiato ne dormito, ma ne il sonno ne la fame potevano sostituire nel suo animo la grande preoccupazione che percepiva in quei momenti. Che-co-la o Rugiada del mattino, la sua prima moglie, era stata rapita il giorno precedente da un gruppo di mercanti di schiavi e condotta probabilmente nei mercati di St. Augustine. Osceola aveva deciso di recarsi dall’Agente Thompson, per ottenere la sua liberazione. “Questo è un affronto generale, lei è la madre dei miei figli, non potete venderla come schiava! Che-co-la è una donna libera, libera perché Seminole, non erano questi i nostri patti. Ci avevate concesso la libertà completa nella riserva.” Aveva concluso Osceola al termine del suo racconto. “Proprio tu, Osceola, vieni a intimare a me di rispettare gli accordi?” disse il generale in tono sarcastico “Proprio tu che non fai altro che sabotare le nostre spedizioni e ti sei ostinato a combatterci anche quando vi abbiamo concesso terre e sovvenzioni?” L’indiano rispose immediatamente: “Voi non ci avete concesso terre, ” disse “Voi avete rubato quelle che avevamo e ci avete costretti a vivere in luoghi paludosi e malsani… e da due anni ci perseguitate per indurci a trasferirci, e ora scopro che rapite anche le nostre donne e le vendete come schiave!” Thompson afferrò una pipa dal posacenere della sua scrivania, la accese e prese due boccate di fumo, poi guardò Osceola e rispose sarcastico: “Mi stupisce vederti qua a piagnucolare per la tua donna, ma evidentemente anche voi avete dei sentimenti, per quanto rozzi. Ti faccio una proposta: smetti di combattere, smetti con i sabotaggi, e vedremo cosa possiamo fare per farti riavere la tua femmina.” Osceola rispose con uno sguardo talmente carico di rabbia che, nel profondo del suo animo, il generale poté percepire nitidamente un’emozione che pensava di aver scacciato per sempre dal suo animo e che invece si ripresentava d’improvviso impetuosa come non mai: la paura. Negli attimi di silenzio che seguirono Thompson cercò le parole per mitigare la situazione e non trovò di meglio da fare che scaricare la colpa del rapimento il più possibile lontano da lui: “Se devo dirti il vero, Osceola, non posso aiutarti, ” disse cercando di mantenere la voce più calma possibile, “Non ho potere sui mercanti di schiavi. Quelli sono bestie, non guardano in faccia nessuno se non il denaro. Chi catturano appartiene a loro, perché è il loro bottino. Non so nulla dei loro piani né dei loro spostamenti”. Gli occhi di Osceola si fecero piccoli e scintillanti come la brace, sapeva che Thompson stava mentendo, sapeva del suo enorme potere in tutta la regione soprattutto nella gestione dei rapporti con i nativi. Fece un passo verso la scrivania che lo separava dal Generale e con un gesto fulmineo afferrò il tagliacarte che vi faceva bella mostra e lo punto al collo del militare. “Ascolta bene, ” disse “ azzardati ancora a parlare così a me o a mancare di rispetto a mia moglie e ti giuro che non vedrai l’alba di domattina.” Il generale cercò di fare qualche passo indietro in modo da sfuggire alla minaccia dell’arma ma si ritrovò in pratica subito con le spalle al muro del suo studio dove era appesa una grossa cartina geografica che riproduceva la zona nord della Florida. “E sono certo” continuò Osceola “che ti occuperai della faccenda di mia moglie il prima possibile, vero? Il Generale annuì senza quasi volerlo e a quel gesto, il Seminole, posò il tagliacarte sulla scrivania di legno, gli voltò le spalle e uscì dalla stanza senza aggiungere una parola. Thompson rimase immobile appoggiato alla parete con il cuore che gli pulsava nel petto quasi volesse uscirne. Ci mise qualche istante a riprendersi dallo shock e appena i polmoni glielo permisero, chiamò le guardie che stazionavano nel corridoio impartendo loro l’ordine immediato di catturare e imprigionare i tre seminole prima che potessero abbandonare il forte. Osceola sapeva bene che non avrebbe potuto sfuggire alla cattura e si consegnò senza combattere ma chiedendo ed ottenendo il rilascio dei suoi due compagni. I soldati lo sbatterono poi in una cella e chiusero la porta dietro di lui. *** Seduto nella penombra della sua cella, Osceola, cercò di dare un senso alla sua rabbia e alla sua preoccupazione. Prima di allora il generale si era sempre comportato con onore nei suoi confronti, qualche anno prima gli aveva persino donato un prezioso fucile che da allora era diventata la sua arma preferita. Quel voltafaccia era di certo attribuibile a un profondo mutamento nella considerazione che gli americani avevano degli indiani: se prima si cercava il più possibile una coesistenza, oggi, di certo, i Seminole era considerati qualcosa di cui disfarsi il prima possibile. Osceola sapeva che in molti uomini lo avrebbero seguito se avesse scatenato una guerra vera e propria, erano ancora molti i capi indiani a volere la libertà a costo della guerra ma sapeva che tutti avrebbero contato sulle sue capacità di combattente e stratega e non era così sicuro di essere all’altezza di quel compito. Su questo rifletteva Osceola sdraiato sul pagliericcio della sua cella, nei pochi istanti in cui il suo cuore non si lamentava per l’assenza della sua dolce consorte. Ripensò tutta la notte a Che-co-la, all’ultima volta che l’aveva vista, a quanto era bella e profumata la sua pelle e giurò in cuor suo che se mai gli fosse stato impossibile salvarla avrebbe ucciso il Generale Thompson e chiunque altro fosse complice di quella barbarie. Osceola aveva sposato Rugiada del Mattino nove anni prima e lei gli aveva già regalato per due volte la possibilità di essere padre. La donna era di padre indiano e di madre nera e aveva preso le migliori qualità da entrambi i genitori. La sua pelle olivastra, il suo taglio degli occhi marcato, il suo corpo forte e snello ne facevano una splendida creatura. Conosceva l’inglese e questa era stata una grande risorsa per Osceola, che col tempo era riuscito ad imparare quell’idioma e a comunicare con gli americani. Osceola ricordava molto precisamente quando e come l’aveva conosciuta. L’aveva vista in una radura nei pressi di un torrente che confluiva nel fiume Perdido di ritorno da una battuta di caccia ed era rimasto a guardarla per diversi minuti nascosto nella boscaglia. Che - co -la stava raccogliendo erbe aromatiche e fiori per preparare unguenti e rimedi. Le sue mani scivolavano fra le foglie e le bacche come fossero fatte di vento, era precisa ma soave nel recidere piccoli rametti avendo cura di non nuocere troppo alla pianta. A ogni suo passo sembrava che l’erba e i fiori della radura si scostassero per permetterle di camminare sicura. Era di sicuro una donna stupenda. Con quelle immagini nel cuore e a tarda notte Osceola prese sonno. Fu svegliato al mattino da una visita inaspettata. Era Neamathla, uno dei capi indiani che aveva aderito al trattato firmato qualche anno prima. Osceola lo considerava un codardo e non amava parlare con lui. Charlie Neaamthla era entrato nella cella portando con sé una richiesta: voleva che Osceola si unisse al suo gruppo e che facesse propaganda per l’emigrazione dei Seminole. “In cambio avrai la libertà, ho già parlato di questo con Thompson”aveva concluso. Il guerriero Seminole accettò immediatamente, lasciando di stucco il suo interlocutore. In cuor suo, Osceola, sapeva che non avrebbe mai rispettato quel ricatto abominevole, ma non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di tornare libero. Quando all’incirca a mezzogiorno fu scarcerato, dichiarò che sarebbe andato da Micanopy per iniziare il suo lavoro di persuasione. Gli fu restituito il cavallo e si precipitò subito verso Cuscowilla, la dimora del capo indiano. Mikanopy era un capo molto importante: nelle sue vene scorreva lo stesso sangue del famigerato Micco Payne, indimenticato leader della prima guerra fra Seminole e americani. Micanopy si era sempre rifiutato di cedere alle pressioni statunitensi, per questo aveva preso subito sotto la sua protezione, il giovane Osceola e l’aveva visto trasformarsi in un grande guerriero. Quando Osceola raggiunse Cuscowilla, il sole stava già tramontando dietro le colline che s’innalzavano sopra la foresta e oltre il fiume. fu accolto con un abbraccio dal capo indiano che volle conoscere le sue condizioni e lo mise al corrente di due decisioni che erano state prese. “Per primo t’informo che ho mandato uomini a St.Augustine, cercheranno informazioni su Che- co-la, non temere la troveranno” disse Micanopy “Per secondo ti dico che in questo momento ci sono quindici uomini dei nostri che stanno trattando con gli spagnoli per diverse partite di piombo e polvere nera, pensavamo di usarli per liberare te ma vedo che come sempre riesci a stupirmi” aggiunse sorridendo. “Micco, ti ringrazio davvero.” rispose Osceola rispondendo al sorriso e stringendo con forza l’avambraccio del capo indiano. Micanopy era molto contento di vederlo proprio poche ore dopo aver saputo della sua ingiusta prigionia e lo fece subito entrare nella capanna centrale dove erano in riunione diversi altri capi tribù e militari. Fra questi, John Horse, Alligator e Gattoselvaggio. I leader parlarono tutta la sera, ormai era chiaro a tutti che nel giro di qualche mese si sarebbe di nuovo combattuto, era necessario stabilire le strategie di attacco e di difesa. Osceola aveva a lungo studiato gli addestramenti nelle caserme dei bianchi, ne aveva carpito tattiche e punti deboli e aveva imparato molto sull’arte della guerra, per questa ragione veniva ascoltato con grande interesse da tutti i capi tribù e i capi guerrieri. La sua strategia di base era riassumibile in una frase che ripeté più volte durante quell’incontro: “Dove loro saranno molti noi, non ci saremo, dove loro saranno pochi, lì colpiremo”. Era una strategia vincente, gli indiani avevano l’indiscutibile vantaggio di conoscere bene il territorio, di sapere come e dove muoversi e potevano facilmente tendere imboscate ai piccoli battaglioni che si sarebbero spostati durante l’invasione delle truppe statunitensi. La riunione si protrasse fino a tarda notte e venne interrotta per essere ripresa il giorno successivo. Prima di concedere al suo corpo il meritato riposo Osceola volle occuparsi di un altro problema. Si avvinò ad Alligator, un leader militare molto abile e gli disse: “So che i tuoi uomini sono i migliori a nascondersi nella vegetazione, ho bisogno che tu mi scacci dalla mente un dubbio che mi attanaglia.” Alligator fu soddisfatto di quel riconoscimento che veniva da una grande guerriero e rispose che avrebbero fatto qualsiasi cosa. “Manda i tuoi uomini migliori e fai seguire Neamthla, ha troppi rapporti con gli americani e voglio sapere come stanno realmente le cose. Mi raccomando con discrezione” Alligator rimase di sasso a quelle parole, davvero Charlie poteva essersi venduto agli americani? In quel caso si sarebbe spiegato perchè avesse così immediatamente accettato l’idea del trasferimento a ovest del Missisipi. Decise che era giunto il momento di scoprire la verità e cominciò a pensare a come organizzare la missione delle spie. Nei giorni seguenti i guerrieri e i leader militari si spartirono i compiti: John Horse fu incaricato dei rapporti con gli schiavi neri delle piantagioni di Pensacola, avrebbe dovuto convincerli a lottare, a ribellarsi e a unirsi all’esercito seminole. John era un marrones, un nero, e avrebbe potuto convincere più facilmente gli schiavi a sposare la loro causa. Alligator invece avrebbe dovuto studiare il territorio, scegliere le zone in cui tendere le imboscate alle truppe americane, le gole, le strettoie naturali, i guadi, ogni zona doveva essere studiata con precisione per diventare il detonatore degli attacchi degli indiani. Il compito di Gatto Selvaggio era forse il più pericoloso in quel frangente. Egli avrebbe dovuto sabotare le zattere che risalendo il fiume portavano rifornimenti alle truppe americane. Significava combattere subito, sparare, uccidere, e rischiare la pelle; proprio la vita che Gatto Selvaggio sembrava preferire! Decisero infine che Cuscowilla sarebbe stato il loro quartier generale e che avrebbero fatto rapporto a Micanopy almeno ogni cinque giorni. Al termine di diversi giorni di riunione tutti meno Osceola, si allontanarono dall’insediamento per portare a termine il compito che gli era stato assegnato. Osceola restò in attesa di notizie di Sua moglie. *** Erano passati circa dieci giorni da quando Osceola era tornato a Cuscowilla e ancora non arrivava nessuna notizia di Rugiada del Mattino. Gli informatori mandati a St. Augustine ne tornarono con un pugno di mosche, e anche da Pensacola le notizie scarseggiavano. Dentro il suo cuore, Osceola sentiva crescere sempre di più il timore di non rivedere più sua moglie. Era capitato molto spesso, infatti, che alcuni gruppi di schiavi scomparissero improvvisamente nel nulla, come dissolti o, forse peggio, imbarcati per il vecchio mondo. *** Erano i freddi giorni di fine novembre e Charlie Neamthla era alla guida di un grande convoglio con più di duecento seminole. Facevano parte di quelle tribù che avevano accettato il trattato di Payne’s Landing e ora stavano muovendo verso Fort Brooke, prima tappa del viaggio che li avrebbe portati nelle pianure ad Ovest del Mississippi. Verso mezzogiorno, nei pressi del fiume si udì d’improvviso un colpo di fucile. Subito due guerrieri della delegazione seminole risposero sparando in aria due proiettili. Era, evidentemente, un segnale prestabilito. Il piccolo convoglio si fermò e tutti osservarono Charlie e i suoi due uomini più fidati, che erano anche quelli che avevano sparato poco prima, addentrarsi nella boscaglia. Penetrando nella fitta foresta i tre indiani procedevano a passo spedito, fino a quando, poco dopo, raggiunsero un gruppetto di uomini in divisa militare americana. “Capo tribù Neamthla” disse quello che sembrava il più alto in grado “spero che mi portiate delle ottime notizie”. “Eccoci generale, siamo in viaggio verso Fort Brooke. Là, se ho capito bene, saremo imbarcati su navi americane che ci condurranno nelle terre che ci avete assegnato.”. Il generale annuì. “Siamo due tribù di seminole, circa duecento unità fra uomini e donne, undici miglia prima del forte dovremo unirci ad altre tre tribù e arrivare a essere circa ottocento” aggiunse poi Charlie. Il generale sorrise e annuì con convinzione. “Molto bene” aggiunse, “allora vi voglio a Fort Brooke al massimo per domani a mezzogiorno, salperete alla sera con i venti che spirano verso ovest.” Poi aggiunse curioso: “Cosa mi sai dire di Osceola, sta facendo quanto aveva promesso, verrà con voi?” “Non credo onorerà la sua promessa, ma se i vostri soldati sono numerosi come ho saputo, non avranno nessuno scampo, generale Thompson, nessuno” rispose subito Neamthla. Thompson sorrise, annuì più volte e poi aggiunse porgendo una piccola sacca all’indiano. “Ve li siete meritati Charlie” Charlie Neamthla afferrò la borsa, la aprì, e cominciò a contare velocemente le banconote. “Sono venti mazzi da cento, duemila dollari come pattuito, ovviamente quando raggiungerete le pianure a ovest del Missisippi, faremo in modo di farti eleggere capo indiscusso degli indiani come avevate richiesto.” fece il generale. L’indiano non rispose, ma si limitò a fissare le banconote con gli occhi che gli brillavano dalla commozione. “Per ora vi saluto comandante Neamthla, e mi raccomando, vi voglio a Fort Brooke entro domani a mezzodì.” Terminò il generale facendo cenno ai suoi uomini che era venuto il momento di congedarsi. Il seminole salutò velocemente gli americani e tornò indietro ripercorrendo il sentiero nella foresta fino al loro piccolo convoglio. Camminarono fino a sera e poi decidessero di accamparsi. Il mattino successivo, l’accampamento si svegliò di soprassalto a causa delle urla furibonde che provenivano dalla boscaglia che circondava le tende. Tutti sapevano che quelle grida erano la dichiarazione di guerra dei Seminole ma non riuscivano a spiegarsi perchè i fratelli li stessero attaccando. L’unico a capire la situazione fu proprio il capo Neamthla, che cercò di mettersi in salvo e si rifugiò in una tenda fra le più esterne del campo. In un battibaleno una ventina di guerrieri urlanti uscirono dal bosco e cominciarono a sparare all’impazzata. I pochi guerrieri che scortavano il convoglio furono sopraffatti in breve tempo. Nell’accampamento regnava la confusione, le urla, gli spari e, cosa peggiore, nessuno sapeva più chi fossero gli amici e chi i nemici. A un tratto l’aria fu squarciata da un grido che molta di quella gente aveva già sentito diverse volte. Era senza dubbio il grido di guerra di Osceola. Quell’urlo era così famoso e rispettato che bastò per riportare una calma almeno apparente nell’accampamento. Osceola, in piedi su una botte che si trovava nei pressi del fuoco centrale dell’accampamento, gridò: “Fratelli Seminole, non siamo qui per uccidervi, siamo qui per salvarvi. Il vostro capo Charlie Neamthla ha tradito voi e la sua terra vendendosi ai bianchi.” Dal campo che si era fermato improvvisamente ad ascoltare Osceola, si levò un brusio di disapprovazione, nessuno voleva credere a quanto stava sentendo. Charlie era sempre sembrato tutti un buon capo e ora, un suo rivale, lo stava accusando della peggiore delle colpe. Mentre Osceola parlava alla folla, i suoi uomini procedettero a stanare Neamthla, che si era nascosto fra i sacchi di provviste e lo condussero a spintoni nello spiazzo del grande fuoco. Nella sua tenda fu trovata la borsa contenente il denaro americano e fu allora che il traditore capì che non avrebbe visto il sole di mezzogiorno. Fu interrogato per circa un’ora da quel tribunale improvvisato e si limitò semplicemente ad annuire quando gli fu chiesto se quei soldi fossero il pagamento per il suo tradimento. A quella confessione Osceola lo condusse in una tenda poco lontano e lo uccise con un colpo al volto com’era previsto fare nei confronti di chi tradiva il popolo Seminole. Fu poi trascinato a pancia sotto nuovamente nello spiazzo e il capo guerriero gli cosparse il corpo con i duemila dollari che erano stati il frutto del suo tradimento. Dopo quel gesto simbolico Osceola si rivolse nuovamente ai seminole: “Sono Osceola un guerriero, un difensore del mio popolo.” aveva esordito “molti di voi mi conoscono, hanno combattuto al mio fianco contro i bianchi. So che molti di voi sono stati ingannati, vi hanno promesso terre e libertà di là del grande fiume. Conosco la bontà d’animo dei Seminole e so che vi siete fidati, che avete sperato di ottenere finalmente un po’ di libertà ma conosco anche la nostra straordinaria intelligenza e mi viene da chiedervi: Come si può pensare che la libertà sia figlia della schiavitù, della deportazione? Come si può pensare di guadagnarla perdendola? Non abbiamo voluto noi questa guerra, abbiamo sempre cercato di vivere in pace, ma quei cani pensano di avere il diritto di possedere la nostra terra, poterci venderci come schiavi, disporre di noi come più credono. Io dico che dobbiamo combattere e farlo per noi e per i compagni caduti per la nostra libertà. Cosa diremo ai neri che hanno combattuto al nostro fianco? Che li lasciamo massacrare dal nemico perchè abbiamo paura? Soprattutto cosa diremo agli spiriti dei nostri valorosi fratelli che hanno sacrificato la loro vita per dare libertà al nostro popolo? Diremo che ci siamo piegati? Diremo che abbiamo preferito una vita ignobile alla morte? Diremo che abbiamo sputato sul loro sacrificio più grande? Oppure diremo che ci siamo alzati in piedi e abbiamo combattuto per la stessa causa per cui loro sono morti!? Oppure diremo che abbiamo resistito con tutte le forze alla follia dei bianchi, che non ci siamo piegati alle loro leggi o alle loro volontà!? Questo è l’unico modo che conosco per onorare gli eroi caduti in battaglia. Questo è l’unico motivo per dare un valore a tutto quanto è già successo. E’ questo pensiero che scaccia dalla mia mente la paura di morire in battaglia: il fatto che qualcun altro occuperà il mio posto e il mio sacrificio non sarà stato vano. Se ci fermiamo ora tutto sarà stato inutile. Siamo Seminole, siamo uomini liberi.” Il gruppo degli indiani che avevano seguito Neamthla decise all’istante che non sarebbe più sottostato alle leggi degli americani e mentre le donne e i bambini furono portati a Cuscowilla, gli uomini furono armati e arruolati fra le truppe guidate da Osceola. Il guerriero aveva compiuto il primo dei due compiti che si era assegnato: far luce sul possibile tradimento di Charlie. Ora si sarebbe concentrato nel vendicare la scomparsa di Rugiada del Mattino. Era ormai passato più di un mese dal suo rapimento e non si sapeva nulla di lei, neppure se fosse ancora viva. Osceola stava a malincuore abituandosi al lutto, ma impresso nel suo animo come una marchiatura a fuoco ricordava il suo giuramento: avrebbe ucciso Thompson se non fosse riuscito a riabbracciare Che - co - la. Si concentrò quindi sul secondo obiettivo. Fece spiare i dintorni di Fort King per più di un mese, preparò un piano semplice ma ingegnoso e scelse come giorno prestabilito il 28 dicembre successivo. Come ogni inizio settimana, quel giorno il Generale pranzava fuori, accompagnato da quattro dei suoi ufficiali di grado più alto, in una piccola taverna che distava circa mezzora di cammino dal forte. Per un quarto di miglio prima della locanda la strada si addentrava nella boscaglia e fu proprio quello il luogo in cui Osceola decise di tendere l’agguato. Nel piano era ovviamente compresa la strategia di fuga; lui e i nove migliori tiratori delle sue truppe avrebbero sparato due raffiche, e poi si sarebbero dileguati verso est, attraversando il fiume con delle zattere e nascondendosi nelle paludi facendo perdere così le loro tracce. Il giorno prestabilito Osceola non si sentiva molto bene, a dire il vero erano già diversi giorni che si lamentava dei forti dolori alla gola e si sentiva caldo e fiacco. Si era fatto visitare dai curatori e dagli shamani che gli avevano diagnosticato il male delle paludi o, come la chiamavano i bianchi, la malaria. Era ai primi stadi, nulla che non potesse essere curato ma gli era stato consigliato di stare al caldo e a riposo. “Se il male peggiora” aveva detto lo shiamano di Cuscowilla “potrebbe condurti alla morte!” Il leader guerriero aveva deciso di portare comunque a termine il suo piano, una volta concluso avrebbe avuto il tempo e lo spirito giusto per curarsi. Lunedì 28 dicembre 1835, mentre il sole splendeva alto nel cielo, dagli alberi della boscaglia partì una raffica di spari che centrò in pieno il gruppo del Generale Thompson. Solitamente per ricaricare un moschetto in maniera corretta così, che non esplodesse in faccia al tiratore, ci voleva molto tempo, circa lo stesso in cui delle mani esperte scuoiano un coniglio. Osceola sapeva che sarebbe stato un tempo troppo lungo, avrebbe dato la possibilità a chi non era stato colpito di fuggire e ai feriti di rispondere al fuoco con il rischio di rovinare completamente la missione. Per ovviare a questo inconveniente aveva comandato che ogni guerriero portasse con sé due fucili, in modo da poter esplodere una scarica dopo l’altra. La seconda raffica finì chi ancora era rimasto agonizzante o semplicemente ferito di striscio, l’unico che si salvò fu un giovane soldato di nome William Foller che fungeva da apripista al gruppo del generale. fu risparmiato perchè potesse raccontare agli altri quello che era successo. Sul terreno, quel lunedì, rimasero il Generale Thompson e quattro dei suoi migliori ufficiali. Osceola sapeva molto bene che gli americani si sarebbero infuriati dopo quell’affronto e che avrebbero dichiarato guerra ai Seminole. La forza dell’esercito americano era di molto superiore alla loro ma se John Horse avesse convinto gli schiavi neri di Pensacola a ribellarsi, se Alligator avesse distrutto i primi contingenti americani con i suoi agguati e se Gatto Selvaggio avesse rallentato gli approvvigionamenti forse quella guerra, si sarebbe potuta anche vincere. Questo pensava Osceola mentre correva a capo dei suoi uomini verso Cuscowilla. Capitolo 2 “Ehi guardate in cielo, John aveva ragione!” Il piccolo Bill correva nella gigantesca piantagione di canna da zucchero gridando a squarciagola e indicando con la mano il lato est della tenuta. Riusciva a stento a vedere tra quei cespugli così fitti ma correva e gridava a più non posso. A quelle parole gli schiavi intenti a raccogliere le piante mature interruppero il loro lavoro e si misero a scrutare il cielo. Nessuno voleva perdersi il miracolo che, evidentemente e a dispetto di quanto avevano pensato tutti, si era magicamente compiuto. Immediatamente si mossero le guardie, tutto quel trambusto aveva attirato anche la loro attenzione. Fai inciampò e cadde al suolo. Fu subito raggiunto da un soldato: “Che cosa è successo e perché non sei al lavoro?” disse il militare. Il piccolo riaprì gli occhi e si mise a sedere cercando di riprendersi dal colpo. Aveva imparato che piangere davanti agli inglesi serviva solo a farli infuriare di più quindi trattenne le lacrime con tutta la sua forza, fece un profondo respiro e accennò con un inglese stentato: “Tartarughe! Volano, volano!” La guardia corrucciò il volto e alzò lo sguardo. In lontananza, confuse dal sole del mattino, si vedevano due piccole sagome verdognole in cielo. Dalla piantagione si sollevò un grido di giubilo: “Le tartarughe volanti, le tartarughe volanti!” Quella visione era talmente mistica che per un momento, ogni schiavo, credette in cuor suo di essere di nuovo un uomo libero. L’incantesimo fu spezzato da un colpo di fucile che risuonò nell’aria portando via con sé ogni speranza e ogni idea di libertà e costringendo tutti a tornare al proprio lavoro. Bill aveva approfittato di quell’attimo di distrazione per darsi alla fuga scomparendo senza lasciar traccia tra la fitta selva di canne da zucchero… Nella grande piantagione a sud di Pensacola tutti gli schiavi avevano incontrato almeno una volta John Horse. John era un nero come loro ma a differenza di loro era un uomo libero. Apparteneva alla Tribù dei Seminole ed era un personaggio carismatico e bizzarro. Molte notti, riuniti nel fienile o in qualche capanno degli attrezzi, gli schiavi rimanevano per ore ad ascoltare le parole di libertà, fratellanza e ribellione che John riusciva scagliare come saette verso le loro anime. Era un grande parlatore e si recava da loro molto spesso. Voleva che si ribellassero, che impugnassero i fucili e combattessero per la loro liberà. Per quanto il carisma certo non gli mancasse, i neri continuavano ad avere molta paura, credevano di essere troppo deboli e rifiutavano l’idea di scatenare una rivolta. Così, qualche notte prima di quella mattina, John aveva riunito un piccolo gruppo di due dozzine di schiavi riuscendo a strappare loro la promessa che lo avrebbero seguito, anche se questo avesse significato combattere, sparare e morire. Lo avrebbero seguito se… “Non mi credete?” aveva detto “Non pensate che possa condurvi alla libertà? Avete paura mollaccioni? Guardate me, la mia pelle è nera come la vostra eppure io sono libero! E credete che io non combatta tutti i giorni per la mia libertà? Me la sapremo dalla pelle col sudore! E’ vero, sono nato libero, ma non siete forse nati liberi anche voi, figli di un’altra terra? Dovete ribellarvi, non siete bestie siete uomini dannazione… fidatevi di me, gli spiriti sono dalla nostra parte!” “Devi provarlo John, provaci che gli spiriti sono favorevoli e verremo con te” aveva obbiettato uno schiavo. Il Seminole si fermò a riflettere un istante. Poi s’illuminò ed esclamò: “Vi ricordate le tartarughe del Generale Brooke? Ebbene vi prometto che torneranno per schernire il maggiore Dade questa volta!”. Gli schiavi non sembrarono vedere nessun segno della volontà degli spiriti nella proposta del Seminole, sapevano bene che John aveva preso in giro il generale inglese e le sue tartarughe e sapevano che avrebbe potuto fare una cosa simile anche al Maggiore Dade che da più di dieci anni governava su Pensacola. Vedendo la delusione sul volto degli schiavi il Seminole aggiunse: “…e lo faranno volando! Torneranno per conto degli spiriti volando e questo sarà il segnale…”. Fu interrotto dalle risate degli schiavi, nessuno poteva credere che delle tartarughe, gli esseri più lenti che conoscevano, avrebbero mai potuto volare, forse neppure con l’intervento degli spiriti. “Non ci credete fannulloni? Non credete in ciò che non è possibile?” riprese John. “Allora ascoltate: i prossimi giorni guardate verso est, un po’ dopo l’alba. A est ho detto, verso il nostro accampamento, verso la libertà. Vedrete come i miracoli possano diventare realtà e forse vi convincerete che è arrivato il momento per capire che gli uomini veri, non i piscia letto, non marciscono in schiavitù, piuttosto muoiono combattendo”. A quelle parole tutti avevano pensato che John l’avesse davvero detta davvero grossa e avevano sparso la voce fra gli schiavi di tutta la tenuta tanto che quella mattina, alla vista delle tartarughe volanti, erano in molti a chiedersi se era davvero venuto il momento di brandire le armi contro i padroni che li frustavano e dormivano con le loro mogli e le loro figlie. La vista di quel miracolo aveva rinvigorito quella fiammella di speranza che rimane sempre viva nel cuore di ogni uomo cui tocca vivere in schiavitù. Dalla finestra del suo studio, arredato con mobilio proveniente dal vecchio mondo, il maggiore degli Stati Uniti Francis Langhorne Dade e scrutava le paludi a est della tenuta meditando sul nuovo problema che si era palesato quella mattina. Davanti a lui vedeva librarsi in volo dalla foresta quelli che dovevano essere due grossi aquiloni che riproducevano, abbastanza fedelmente, il carapace di due grosse tartarughe. Di certo, dietro a quella vicenda, c’era lo zampino del Marrones. Anche nella cittadina di Pesancola tutti conoscevano il nome di John Horse, detto il marrones per via della sua carnagione nera come la notte. Era lui il protagonista di una storia così impensabile da poter sembrare una leggenda. Diversi anni prima, quando nella tenuta regnavano ancora gli inglesi, il generale Brooke aveva iniziato un lungo lavoro diplomatico per stringere patti di non belligeranza con gli indiani che si erano rifugiati in Florida durante la guerra dei Bastoni Rossi. Fra tutti gli indiani che si erano stanziati nelle paludi vicine, uno era riuscito a stabilire con il generale un rapporto che poteva quasi essere considerato di amicizia. Si chiamava John Horse ed era un indiano Seminole. Era alto e forte anche se a quell’epoca non aveva neppure vent’anni. Cosa molto strana era nero di pelle, molto simile agli schiavi delle piantagioni, sembrava quasi provenisse dalla stessa terra. Il generale non aveva una grossa considerazione degli indiani che reputava, com’era consuetudine fra i bianchi, rozzi e incivili. John era però riuscito a farsi considerare da Brooke il migliore cacciatore della provincia. Quando il generale voleva togliersi lo sfizio di mangiare qualche animale strano o prelibato, aveva preso l’abitudine di rivolgersi a lui e questi, a fronte di una giusta somma di denaro, portava sulla sua tavola le migliori bestie della regione. Un giorno Brooke decise di organizzare un banchetto sontuoso al quale invitare tutte le autorità della zona; piatto principale del ricevimento sarebbe stato quello che nell’invito era definito “il miglior brodo di tartaruga che si sia mai sorbito in tutta la Florida”. Per soddisfare tutti i suoi invitati, il generale aveva bisogno di un numero molto grande di animali e chiese a John se potesse procurarglieli. Gli promise di pagarlo cinque dollari ad animale. Durante il mese che seguì John Horse si presentò tutte le mattine con un piccolo carretto portando una o due tartarughe che liberava nello stagno all’interno della tenuta. Alla fine del mese il generale era convinto di possederne più di cinquanta ed era pronto a ricevere i suoi ospiti. Solo due giorni prima del fatidico banchetto Brooke fu informato che non c’era nessuna tartaruga nel suo laghetto. L’inglese aveva capito di essere stato imbrogliato dal Seminole quando aveva aperto un biglietto ritrovato vicino allo stagno e che recitava circa così: “Generale, siccome puzzi come il buco del culo di un maiale questa notte, ci siamo fatte spuntare le ali e siamo volate via verso la libertà. A mai più rivederci. Tarte.” Qualche riga più in basso il messaggio continuava: “Caro amico Generale, devo confessarti una cosa: tu non hai mai posseduto oltre cinquanta tartarughe, ne hai possedute due, che io per una trentina di volte ti ho venduto e poi rubato la sera stessa per rivendertele ancora il mattino. Forse noi Seminole non siamo così stupidi come credevi! Comunque hanno ragione i saggi animali: il tuo culone bianco puzza più della latrina di un reggimento. J.H.” Così come accade alle notizie più succulente ci vollero solo pochi giorni perché in tutta Pensacola, così come fra i liberi anche fra gli schiavi, si spargesse il racconto del Seminole e delle tartarughe. Il generale capì tardi e totalmente a proprie spese che quel gruppo di Indiani erano tutt’altro che rozzi o stupidi e oggi, dalla finestra del suo studiolo, anche il maggiore Dade ne aveva un’ulteriore conferma. Erano diversi giorni che, sul tavolo della sua scrivania, riceveva puntualmente delle informative che parlavano di contatti fra gli schiavi e i Seminole. Era probabile che i Seminole stessero cercando di fomentare la rivolta fra gli schiavi ora che tutti, nella regione, sembrava si stessero preparando allo scontro. In un clima del genere non si poteva rischiare una sommossa, gli schiavi non dovevano in nessun modo entrare in contatto con i Seminole. Quel problema andava eliminato il prima possibile o le conseguenze sarebbero potute essere molto gravi. ** Nell’accampamento Seminole poco distante, quella stessa sera tutti parlavano delle tartarughe volanti e del nuovo miracolo di John Horse. “Raccontaci la tua avventura John!” chiedeva la folla a gran voce. I Seminole adoravano ascoltare il marrones raccontare le sue avventure, aveva un modo di parlare magico e riusciva a narrare le sue gesta sempre in rima baciata. “Certo che ve la racconterò! Vi racconterò di come il prode John Horse rubò le tartarughe al malvagio Generale Brooke. E di come questi animali così lenti riescano incredibilmente a volare come hanno fatto questa mattina”. La folla rispose con un grido di giubilo ma fu subito taciuta da John che precisò: “ Ma prima fatemi sorseggiare un bicchiere di Rhum di quello nostro, quello vero, non di quella porcheria che bevono i cani bianchi.” Ci fu un’ovazione e gli fu subito portata una piccola zucca svuotata e fatte essiccare per diventare una piccola borraccia. John Horse trangugiò un paio di sorsate del prezioso nettare e parve sprizzare energia da tutti i pori, alzò la testa, sgranò gli occhi fece cenno di dargli spazio con le mani e cominciò il suo racconto. “Mi accorsi che la tartaruga può volare un giorno che dalla villa di Brooke dovetti scappare! Mi ero avvicinato al muro circospetto per capire che facevano le guardie col moschetto” John s’interruppe, attese qualche istante e poi si rivolse direttamente al suo “pubblico”. “Avete presente come sono i soldati bianchi?” disse osservando gli indiani uno a uno negli occhi. Poi corse dal lato opposto dello spazio che gli era stato concesso e si rispose: “Con il culo su una sedia e i piedi su quella davanti!?” Il pubblico reagì con risate e grida che John zittì velocemente indicando che aveva molto altro da raccontare. Tornò alla prima posizione e continuò a raccontare: “Eran proprio così le due guardie della villa, Mentre mi avvicinavo sculettando come un’anguilla! E tanto leggero era il mio piede Che non si accorsero di esser le mie prede! Un pugno al primo sul muso: cadde a terra dritto come un fuso! E prima che l’altro potesse dar fiato alla voce. Lo colpisco col calcio del fucile veloce! In un istante son dentro, vicino al laghetto principale e una strana tartaruga mi voleva parlare. Così’ avvicino l’orecchio alla sua bocca e quella mi ci canta dentro una filastrocca. Mi dice: -sai cosa vorrebbe questa vecchia tartaruga? un po’ di libertà e un cespo di lattuga! Se frughi dentro al secchio, di certo ne troverai uno spicchio, la nasconde l’uomo bianco Presto guarda sopra il banco!Come potevo rifiutare, a quest’animale che voleva scappare, e dopo una splendida ballata un rametto d’insalata? Così ne prendo un pezzetto e lo porgo all’animaletto e quella affamata non ci da manco un’annusata! D’improvviso squillan le trombe Han trovato i corpi moribondi. E io penso mi han beccato di sicuro son fregato! Nello scuro della villa ecco accendersi una fiammella e dopo quella un’altra e un’altra ancora tutta sveglia è la dimora. -Presto corri dietro alla cucina, troverai una porticina non scordarti mia sorella che ti servirà anche quella!O grazie mille tartaruga che m’indichi la fuga metto ognuna sotto un braccio che risolvano il brogliaccio sono dietro alla magione sento odore di prigione perché al posto di quell’uscio contro il muro, il naso struscio. Ecco la sorella carapace che mi da dell’incapace. “Con le mani i rampicanti sposta presto lì davanti” E m’indica col becco un cespuglio tutto secco Senza neanche farlo apposta urto la porta ben nascosta Ma appena uscito sulla via Ecco c’è la polizia Le due bestie leste leste spremon si le loro teste E col rombo di più tuoni mollan mille scorreggioni D’improvviso e soprassalto eccomi salire in alto volo sulle loro teste, salgo più delle finestre! e le guardie sbigottite restan lì come impietrite. La magia del deretano mi porta sempre più lontano e in uno schioccar di dita metto in salvo la mia vita! Sulla via per l’accampamento penso a come sarà contento il malvagio Generale quando lo verrà a sapere Batte il pugno grida forte e ci giurerà morte ma noi siamo differenti siamo immuni agli accidenti il nostro sangue è così forte che spaventiamo anche la morte Il bisonte che da forza l’orso nero la sua scorza dei guerrieri abbiam l’ardore, per combattere per ore La libertà è il nostro spirito perché è stato nostro merito e abbiam l’ardir di dire che è peggio viver schiavi che morire! Finì la filastrocca rimanendo immobile e sorridente mentre tutto il villaggio gioiva e batteva i piedi a terra per festeggiare le imprese del suo eroe. Più tardi, nella capanna centrale, quella in cui avvenivano le grandi riunioni, John fu ricevuto dal capo villaggio. “Sei sempre un ottimo cantastorie John oltre che uno scaltro stratega” disse Mcanopy “Non voglio sapere come ti è venuto in mente di far “volare le tartarughe” ma davvero apprezzo la tua mente acuta.” Aveva aggiunto il capovillaggio “Ti ringrazio per la tua fiducia, Micco” rispose John onorato. “Sai cosa mi preoccupa di più?” aggiunse. “Dimmelo se ti va” replicò il capo. “I neri che arriveranno qui in queste sere, saranno molti vedrai, li ho impressionati.” “E’ questo che ti preoccupa John?” “No, quello che mi preoccupa è che sono stati schiavi per molto, potrebbero non sapere più come ci si comporta da uomini liberi, potrebbero avere paura, rifiutarsi di combattere… potremmo ritrovarci senza il loro aiuto e sarebbe davvero dura allora.” “Vedi John” fece il capo villaggio “io non ho nessuna paura, sai perché?” “No” “Perché so che tu sai riaccendere la libertà anche nel cuore di uno che non l’ha mai assaporata” *** Passarono forse una o due notti in cui gli schiavi della piantagione rimasero indecisi sul da farsi. I dubbi furono spazzati via da una notizia che aveva dell’incredibile: Il Maggiore Dade, che tutti consideravano un guerriero invincibile, era caduto vittima di un’imboscata presso un fiume. Dalle prime notizie sembrava che un gruppo di seminole fosse il responsabile dell’agguato alla compagnia. Decisero immediatamente: sarebbero fuggiti, avrebbero brandito le armi e combattuto i bianchi. Gli uomini rimasti a Pensacola sarebbero stati spaesati dalla notizia della morte del loro capo e loro avrebbero potuto averne la meglio. La mattina del 1 Gennaio 1835 gli schiavi si incontrarono prima dell’alba con John. Il seminole aveva portato con sé un piccolo arsenale. Era un carretto stracolmo di moschetti polvere e piombo. Immediatamente gli schiavi uccisero senza pietà tutti i soldati che facevano la guardia all’accampamento. Il conflitto a fuoco durò pochi minuti vista la disparità delle forze in campo ma di certo gli spari avrebbero in breve tempo attirato l’attenzione del grosso delle truppe che sostavano a Pensacola. Presto ci sarebbe stato da combattere davvero. Gli schiavi si disposero su una piccola collina poco distante, e attesero l’arrivo dei soldati. Quel tempo passato ad aspettare fu deleterio per il morale dei ribelli, Quell’attesa logorava gli animi dei neri che sempre più numerosi cadevano vittime della loro stessa paura: forse non sarebbero stati in grado di fronteggiare un manipolo di soldati per professione, forse facevano ancora in tempo ad arrendersi e tornare alla piantagione. Quando arrivò, l’esercito americano a nessuno degli schiavi era rimasto il coraggio per combattere; fu allora che John Horse prese in pugno la situazione. Dal racconto di uno schiavo nero: “Ehi! Ehi! Ehi!” Urlava come un pazzo. I bianchi culi stretti sparavano come demoni ma non lo colpivano. Io ero dietro un masso, con la testa tra le braccia, e mi dico: adesso lo ammazzano. Lui gridava: “Ehi! Ehi! Ehi! Vi piace la frusta, vigliacchi? Vi piace che vi tengano il giogo sul collo come a un bue castrato? Ehi, svegliatevi! Guardate qua! Mi sparano? Sentite che mi sparano? Eppure non mi colpiscono!” In effetti, gli stavano sparando addosso. Decine di soldati gli sparavano addosso. Io mi dico: “Adesso lo colpiscono e smette di urlare quel fanatico!” Ma non lo colpivano. E continuava a urlare: “E’ questa la forza che non avete! La forza di credere all’impossibile! E voi, bianchi, iene uscite dall’inferno! Non sapete sparare meglio? Oppure avete dimenticato di mettere il vostro Dio dentro i proiettili! Come mai non mi colpite con i vostri grandi fucili?”. Saltava, piroettava, s’inchinava, rotolava, lo guardavo ogni tanto, sollevando la testa appena per vederlo. Gli sparavano e non lo colpivano e lui li insultava e insultava anche noi che stavamo sdraiati per terra in preda al terrore. Perché un conto è bere un bicchiere di alcol di canna da zucchero e dire: “Andrò in battaglia e li ammazzeremo tutti!” Un conto è alzarsi la mattina presto e camminare nel fango tutto il giorno e poi trovarsi di fronte questi bastardi che ti sparano davvero. Eravamo 300 schiavi ribelli, appena fuggiti dalle piantagioni, ma in quel momento avremmo preferito tutti starcene in pace abbracciati ai maiali con delle belle catene ai piedi piuttosto che dover affrontare tutti quei bianchi armati e intenzionati a ucciderci. Intanto Horse continuava a saltellare e a urlare, e i bianchi non riuscivano proprio a farlo stare zitto. Adesso stava insultando i bianchi: “Forse ho qualche cosa che manca a voi. Forse sono andato a letto con le vostre donne e vi ho rubato l’energia! Ma che strano! Non mi colpisci! Il vostro problema è che fate schifo al vostro Dio e alle vostre donne! Siete puzzolenti, non vi lavate mai!” Poi ricominciò a insultare ancora noi. Mi venne voglia di sparargli, perché era snervante sentire gli scoppi dei fucili che gli tiravano addosso e continuare a ripetersi: “Adesso lo colpiscono, adesso crepa, e invece niente.” “Allora, schiavi di merda, volete uscire o no da dietro i vostri ripari? Volete guardarli in faccia questi signori, i vostri padroni, sono venuti a riprendervi, se chiedete perdono in ginocchio, forse vi picchieranno piano, così non vi si rovinerà la schiena e potrete ancora lavorare per loro. Voi, i vostri figli, le vostre figlie. Le vostre figlie lavoreranno di più dei vostri figli. Lavoreranno di giorno, lavoreranno di notte. E tu scemo crescerai il figlio bastardo del padrone. Avanti, venite a strisciare ai piedi dell’uomo bianco!” Urlava così, come un pazzo, saltellava, si tuffava, faceva capriole, mostrava il deretano, mimava passi di danza, camminate da donna. E i bianchi sparavano. Certo che sparavano. Chissà cosa gli aveva preso. Forse veramente John Horse aveva fatto un maleficio, aveva un patto con i suoi Dei Neri. Oppure aveva lanciato un malocchio talmente cattivo da allocchire persino Gesù Cristo e San Giuseppe e tutti gli Arcangeli protettori dei proiettili e dei fucili. Qualche cosa aveva fatto perché aveva di fronte i fucilieri inglesi (non sono americani?). Gente che vive per la guerra. Non puoi pensare che improvvisamente smettessero di saper sparare. Gli tremavano le mani, avevano il midollo stregato. Sparavano un colpo dietro l’altro. E non colpivano quel pazzo che saltapicchiava sul crinale fingendosi ora un demone ora un animale selvatico e un po’ ubriaco. A un certo punto io ho alzato la testa, per guardare oltre il masso che mi nascondeva. E lui era lì che faceva l’imbecille, o forse era diventato più santo dei santi dei bianchi. Non lo so. E guardo vicino a me c’era Tom il Grosso, nero come la notte, con quel sorriso un po’ storto per via che ha preso un bacio dallo zoccolo di un cavallo ferrato male. E quello mi ha detto: “Non ce la faccio più a stare qui, con quello lì che urla e loro gli sparano ma non lo colpiscono.” Io gli ho risposto: “Anch’io.” E allora ci siamo alzati, ci siamo ripuliti un po’ dalla polvere, se c’era da morire meglio farlo decentemente. Abbiamo iniziato ad avanzare, in piedi, come se si passeggiasse. I bianchi ci sparavano e, in effetti, non colpivano nessuno. Forse veramente qualche donna aveva lanciato un maleficio sulle loro polveri. E Tom Grasso ha gridato: “Salsiccia vieni fuori c’è da fare un lavoro.” Salsiccia si chiama così perché pensa solo a mangiare. E’ un mulatto, per via che sua madre era molto bella ed era piaciuta al padrone bianco. L’era piaciuta molto, infatti, Salsiccia ha cinque fratelli. E sono usciti tutti da un avvallamento e hanno iniziato a venire avanti contro i bianchi. I fucili dei bianchi non colpivano neppure loro. E poi anche altri, visto che noi si andava avanti e non ci colpivano, si sono alzati in piedi e sono venuti all’attacco. Non correvamo all’attacco, camminavamo come se si trattasse di una passeggiata. E John Horse continuava a urlare. Adesso diceva: “Bianchi, scappate, adesso vedete questi diavoli neri! Sono neri come diavoli, vengono a mangiarvi gli occhi. I vostri fucili non servono! Li avete fatti arrabbiare adesso! Li avete fatti molto molto arrabbiare! Vi mangeranno il cuore. Sono neri! Guardate come sono neri!” Urlava con una voce che sembrava più forte delle trombe del Dio dei bianchi, che fanno crollare le mura delle città. Una voce che urlava direttamente dentro le tue orecchie, rimbesuiva. E i bianchi erano tutti schierati in fondo alla valle. E alcuni avevano smesso di sparare perché non riuscivano a colpire niente. Erano sbigottiti come uno che vede una vacca nera uscire da una stalla con la schiena incendiata, di notte. Allora poiché ormai stavamo attaccando noi, iniziammo a sparare. I nostri fucili sparavano giusto. Tu sparavi e ne colpivi uno. Anche i neri orbi nati, che ce n’era qualcuno anche in mezzo a noi, che non avrebbero colpito un elefante da due metri, anche loro sparavano e colpivano. Ogni colpo un bianco morto. A quel punto i cani bianchi culo stretto strinsero ancora di più il culo e furono travolti dalla paura e scapparono. E noi continuammo a sparargli addosso e ad ammazzarne fino a quando si potettero vedere. E per un po’ li inseguimmo pure. Poi quando finì la battaglia ci mettemmo a ballare e a cantare mentre giravamo tra i morti nemici per impossessarci delle armi e tutto il resto. Alcuni avevano proprio delle belle scarpe e io ne trovai un paio della mia misura, di cuoio morbido. Ottimi. E mentre ballavamo agitando i fucili mi guardai intorno e ripensai alla notte prima che John Horse era venuto alla piantagione. Eravamo radunati come sempre nel fienile, tenevamo solo una candela accesa per non farci scoprire. La candela stava vicino a John Horse e gli si vedeva il viso mentre raccontava: “Sapete com’è, vivere da liberi è diverso, pensate che se hai mal di pancia puoi perfino restare a dormire. Perché la terra è tua. Le vacche sono tue. Avete mai visto un negro con una vacca sua? Io ho dieci vacche. E mia moglie non deve andare a scaldare il letto dei bianchi. Sono piccole cose certo. E qualcuno potrà chiedersi se vale la pena di morire ammazzati per questo. Lo capisco. Quando io zappo la terra, il solo pensiero che poi me le mangerò io le verze, la lattuga, le zucche dolci e le carote mi fa sorridere. E anche pensare che il figlio sarà mio mi da più gusto quando sto sveglio la notte con la mia donna. E anche quando sto sveglio di giorno. Il problema della schiavitù non è tanto la mancanza di libertà. Quanto il fatto che ti cambia il sapore delle cose. Ad esempio tu, quando guardi un bel culo rotondo a cosa pensi? Ecco guardate la sua faccia! Ci sta pensando sì ci sta pensando. All’inizio hai proprio la faccia di uno che guarda un bel culo rotondo e sente dentro di se e dentro il culo rotondo la grandezza dell’opera di Dio. Il nostro Dio che fa i culi delle nostre donne. Che Dio li benedica. Poi lo sai che ti arriva quel pensiero in testa, come un trapano. Perché il culo, il culo che ha fatto il tuo Dio e che l’ha dato a quella donna stupenda non è un culo qualsiasi. E’ il culo di un bianco. Perché l’ha comprato! E’ suo come il culo del suo cavallo! Lui bianco culo stretto con una moglie senza culo ha diritti sul culo della tua donna. Allora ditemi, uomini, ditemi, per che cosa sopportate tutti i malanni della vita, il mal di denti, il mal di pancia, il mal di schiena, il mal di culo, se poi non potete sentire fino in fondo la divinità del culo di una donna? Per questo vale la pena di ribellarsi, di combattere insieme ai vostri fratelli perché anche se tu dovessi morire comunque, avrai fatto in tempo a vedere un culo rotondo che non è di nessun culo bianco! Lo so che molti hanno paura. Il padrone bianco ha tutto, ha le armi ha i soldati, ha i cannoni, ci sparerà addosso e addio al nostro povero culo. Voi lo sapete chi sono? Io l’ho dimostrato che i bianchi sono stupidi quanto molti altri. Lo sapete che ho venduto per trenta volte le stesse due tartarughe allo stesso medesimo generale? Avete visto come poi sono tornate volando? Vi ho sempre chiesto di credere all’impossibile, ora sapete che a volte l’impossibile accade! L’avete visto con i vostri occhi. I generali, i maggiori, i bianchi insomma, hanno bei vestiti, certo, spade, due pistole e anche un fucile. Sono stupidi. Per loro le tartarughe hanno tutte le stesse facce. Per loro i negri sono tutti uguali. Non distinguono. Se i bianchi non sanno distinguere non sono intelligenti come sembrano, e se non sono intelligenti, possiamo batterli. Quante volte hai pensato che questi bianchi sono proprio stupidi oltre che cattivi? Quante volte? Sono falsi, artefatti, vigliacchi. Lo sai. E allora perché quando pensi di ribellarti ti fanno così paura? Guarda quella porta negro. E’ aperta. Se questa notte vieni con me nessuno ti inseguirà. Puoi farlo. Poi dovrai combattere. Saremo in tanti. Saremo uniti, avremo i nostri fucili. E tu sarai un guerriero. Uno che non lascia che un padrone decida per la sua vita. Uno che si è comprato sé stesso. Forse pagando con il sangue. Ma è meglio comunque. Fatelo per la vostra dignità, fatelo per i culi rotondi delle donne, per i vostri figli. Avete mille motivi per ribellarvi, non c’è niente di buono a fare gli schiavi!