Il piccolo grande uomo

Transcript

Il piccolo grande uomo
Il piccolo grande uomo
Desiderio di diventare indiani
Se almeno si fosse indiani, subito pronti e sul cavallo in corsa, obliqui nell’aria, si fosse continuamente scossi
da brevi tremiti sopra il terreno tremante, finché non si abbandonassero gli speroni, perché non c’erano
speroni, finché non si gettassero le redini, perché non c’erano redini, e si vedesse dinnanzi a sé solo la terra
come prateria rada, già senza collo di cavallo, senza testa di cavallo.
Franz Kafka (1913)
Ogni nazione ha un suo mito delle origini, l’epopea degli
eroi che l’hanno fondata. Per l’Italia a lungo lo è stato il
Risorgimento: sui nostri patrioti sono state scritte
poesie, canzoni, si raccontavano vite leggendarie, si
celebravano ricorrenze e nelle scuole se ne coltivava la
memoria. Ora non più e non solo perché è ormai
trascorso troppo tempo.
Per gli Stati Uniti la storia della formazione della nazione
coincide con la cosiddetta conquista del West, un lungo
processo di colonizzazione che nel corso dell’Ottocento
ha condotto gli immigrati di origine europea dalla costa
atlantica a quella del Pacifico.
Il cinema, l’arte
americana per eccellenza, si è fatto carico del compito di
celebrarne l’epos. Dagli anni Venti ai Settanta del
Novecento centinaia di film western hanno invaso le
sale cinematografiche (e l’immaginario) di mezzo
mondo, per propugnare i valori fondanti della nazione
egemone.
Sullo sfondo di paesaggi sconfinati e incontaminati (le grandi praterie del Texas, i deserti
dell’Arizona, i canyon e le montagne rocciose del Colorado: i grandi spazi americani, simbolo di
libertà e avventura) cowboy e coloni, rudi ma intrepidi alfieri della nazione nascente, si scontrano
con una natura selvaggia e con i suoi originari abitatori: gli Indiani, i pellerossa, ferocemente e
inspiegabilmente avversi all’avanzare della civiltà. Di contorno, ad arricchire il quadro, una schiera
di personaggi reali e tipici, declinati in vario modo sulle strade fangose di cittadine in rapida
crescita, in fumosi saloon: spietati banditi e sceriffi coraggiosi, pistoleros micidiali e ambigui
giocatori d’azzardo, prostitute allegre e disperate, giudici corrotti, medici alcolizzati, ciarlatani
venditori d’unguenti miracolosi, folli predicatori puritani, improbabili dame in attesa di cavalieri
solitari. Un’umanità conflittuale e violenta sino alla brutalità, ma fertile, vitale, tesa nella ricerca
individuale della felicità.
Le guerre indiane hanno accompagnato fin da principio l’espansione. Man mano che la frontiera
avanzava, l’esercito compiva vere e proprie operazioni di “pulizia etnica”: gli aborigeni che
sopravvivevano ai massacri erano costretti in riserve o a emigrare a loro volta a Ovest. La lotta era
impari, per numero e tecnologia, una guerra fra società neolitiche e rivoluzione industriale, oggi
diremmo “uno scontro di civiltà “. Dalla loro parte gli Indiani avevano l’amore per la loro terra, la
conoscenza della natura e del territorio, un indomito spirito guerriero: vinsero molte battaglie ma
persero la guerra. Alla fine si arresero all’apocalisse del loro mondo, da allora sono sopravvissuti ai
margini del capitalismo trionfante. L’ultima grande battaglia fu quella del Little Big Horn (1876),
l’ultimo massacro di popolazione inerme a Wounded Knee (1890), gli ultimi ad arrendersi i
guerrieri Apache guidati da Geronimo (1886).
Cento anni più tardi l’esercito degli Stati Uniti dovette confrontarsi nelle giungle dell’Indocina con
una guerriglia assai più insidiosa, quella dei vietcong comunisti, sostenuti dalla superpotenza
avversa, l’Unione Sovietica. Cinquecentomila soldati americani, truppe aviotrasportate,
bombardamenti al napalm, uso di armi chimiche (defolianti) non riuscivano ad aver ragione della
resistenza vietnamita. Reparti dell’esercito americano, in preda alla disperazione, si
abbandonarono ad efferatezze: stupri, torture, massacri di popolazione civile. Quando negli Stati
Uniti si venne a sapere che il 16 marzo 1968, nel villaggio di My Lai, 347 fra donne, vecchi e
bambini erano stati barbaramente trucidati da soldati americani, riaffiorò da un lontano passato il
ricordo di un altro massacro: 29 novembre 1864, in un villaggio indiano situato in un’ansa del
fiume Sand Creek, 174 Cheyenne, per lo più donne e bambini, assassinati, i loro corpi scalpati,
mutilati. Il regista Ralph Nelson decise di girare un film che ne raccontasse la storia, lo intitolò
Soldato Blu, il primo film dalla parte degli Indiani.
Poco dopo esce Il piccolo grande uomo, di Arthur Penn, basato sull’omonimo romanzo di Thomas
Berger, che racconta la vicenda di un bianco rapito da bambino dai Cheyenne e adottato nella loro
tribù. Avrà modo, nel corso della sua vita, di vedere la storia da entrambi i punti di vista delle
nazioni in lotta. Il piccolo grande uomo è un film che rivisita e demistifica il mito della conquista del
West attraverso diversi stili narrativi: ora è tragico, ora satirico, a tratti perfino comico.
Un vecchio ultracentenario sopravvive in una casa di ricovero, un giovane antropologo, munito di
registratore, lo va a trovare: vuole sapere degli Indiani, ma non di quelli dei film, di quelli “veri”. Il
vecchio si arrabbia, bofonchia qualcosa, lui ha conosciuto Toro Seduto e il generale Custer!
Incomincia a raccontare: c’era una volta il selvaggio West…