Le città nel futuro dell`Italia
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Le città nel futuro dell`Italia
Le città nel futuro dell’Italia Note per nuove politiche urbane Le città costituiscono la carta non ancora giocata dall’Italia per uscire dal declino. La cultura urbana è ciò che abbiamo di peculiare e di inimitabile nella competizione mondiale. In essa il filo della tradizione si intreccia con le opportunità del moderno. Infatti, la società della conoscenza trova nella città la sua nuova fabbrica, come luogo di condensazione della creatività, come nodo locale della rete globale del sapere. Realizzare nuove politiche urbane è quindi una leva decisiva per la rinascita civile ed economica del Paese. Esse saranno una priorità per il nuovo governo di centrosinistra. Su quali politiche urbane sono possibili e necessarie gli appunti che seguono cercano di sollecitare una discussione e una ricerca. La questione urbana non è un problema settoriale, non è uno dei tanti capitoli di un elenco delle cose da fare, ma si colloca nel cuore del problema italiano di questo inizio secolo. Dopo un decennio di retorica sulla globalizzazione e sulla innovazione scopriamo che proprio queste sono le frontiere di massima difficoltà del sistema Italia. Finite le protezioni del passato, trovandosi a navigare nel mare aperto della competizione mondiale, l’economia non regge la sfida e mostra i suoi antichi limiti strutturali. Esaurita la fase dell’industria manifatturiera, dovendosi misurare con le produzioni dell’immateriale, l’inventiva italiana segna il passo e paga il prezzo per aver trascurato da tanto tempo le strutture del sapere e della ricerca. Queste difficoltà vengono riassunte nel dibattito pubblico con l’esigenza di diffondere l’innovazione tecnologica nel sistema produttivo, che è un problema reale e allo stesso tempo una soluzione molto parziale. Se scaviamo a fondo dei problemi, vediamo che non è questione di tecnologie, ma di creatività. Questa è prima di tutto un processo sociale che favorisce la produzione dei saperi e delle arti, l’invenzione di nuovi prodotti, l’elaborazione di nuovi stili di vita, mutamenti dell’organizzazione civile, condivisione di conoscenze, contaminazione tra esperienze diverse, apertura verso le differenze, ricambio generazionale, mobilità nella scala sociale ecc.. Quando sono vitali queste dinamiche, allora c’è anche innovazione, c’è voglia di tentare strade nuove, apertura al futuro. Da qui scaturiscono le risorse necessarie per affrontare il mondo nuovo che l’Italia si trova di fronte. La creatività italiana si trova ad una complessa transizione. L’antico saper fare si misura con l’economia della conoscenza. E’ un passaggio difficile della lunga storia che ha trasformato lo spirito italiano. Esso ha raggiunto i suoi vertici nel paesaggio, nell’arte e nella cultura materiale, ma fatica a misurasi con l’immateriale. I suoi elementi preferiti sono stati la terra, la pietra, l’acqua, la luce. Ma è difficile ripetere il miracolo nell’epoca digitale. La creatività ha sempre bisogno di reinventare l’antico in forme nuove. Qualcosa di simile accadde nella fase industriale. Allora si riuscì a rielaborare la tradizione, a tradurre nella cultura industriale la concretezza contadina, il gusto artigianale e la tradizione scientifica che veniva dal positivismo di fine Ottocento. E fu il miracolo economico. Oggi la sfida appare più difficile. Tanti sintomi ci parlano di un Paese stanco e rivolto al passato. Sembrano inaridirsi i giacimenti della creatività italiana. Viviamo di ricordi. Dov’è oggi quel design industriale italiano celebrato dal Moma di New York? Dove sono i Fellini e i Calvino dei giorni nostri? Quali novità ha dato al mondo l’Italia degli ultimi dieci anni? Prevale la ripetizione nostalgica, la rendita di posizione, l’immeritata eredità dei nostri padri. Crescita economica e diffusione della conoscenza, storicamente a braccetto nella fase industriale, sembrano prendere strade diverse e tale divorzio favorisce il diffondersi di subculture leghiste e corporative proprio nei punti alti dello sviluppo. Il ritardo storico nella scolarizzazione di massa fa sentire ancora il suo peso, mentre facciamo i conti con i nuovi linguaggi digitali. Circa trenta milioni italiani si trovano a rischio di regressione alfabetica, mentre l’asticella della conoscenza si sposta verso la comunicazione globale. La modernizzazione prende le sembianze di una certa volgarizzazione dello spirito pubblico. Basti pensare al ribaltamento del ruolo della televisione: da grande vettore dell’alfabetizzazione del Paese a livellatore di linguaggi, da vedetta della modernità a tritacarne del consueto. Se ci guardiamo intorno in cerca di buone notizie viene immediato scorgere proprio nelle città italiane qualcosa di nuovo e di creativo. Da qui sono venute le innovazioni più importanti dell’ultimo decennio. Si sono visti progetti di rango europeo, recupero dei centri storici, riscoperta dei beni culturali, architetture moderne, tentativi concreti di modernizzare i servizi, nuove opportunità imprenditoriali. In molti casi, le città sono riuscite a darsi un profilo internazionale contribuendo al rafforzamento del prestigio italiano. I cittadini hanno riscoperto il senso di appartenenza ai luoghi urbani. Perfino il sistema politico locale ha dimostrato di funzionare meglio di quello nazionale. I sindaci sono incardinati su questi giacimenti di creatività e danno buone notizie. Al contrario, la politica nazionale, abbarbicata sullo Stato in affanno, è costretta ad occuparsi del declino economico e del deficit di bilancio. I primi vengono quasi sempre rieletti, i governi nazionali consumano la fiducia nell’arco di una legislatura. Intorno al rinnovamento urbano si è sviluppata una nuove economia del “buon vivere” che è attualmente una delle poche voci attive della bilancia commerciale. Centri storici, identità culturali e produzioni locali fanno da sfondo per nuove attività imprenditoriali. Nelle tante strade del vino, nelle città del gusto e nei luoghi delle produzioni DOC si esprime una creatività ammirata nel mondo e in costante crescita negli ultimi tempi. Si tratta di un fenomeno importantissimo da curare con molta attenzione e che può dare risultati ancora maggiori nei prossimi anni. Sembrano però esagerati gli entusiasmi che va suscitando sul futuro dell’economia italiana in molti osservatori. Anche nella tarda età barocca i prodotti italiani, il saper fare del bel Paese e l’ingegno latino raggiunsero il massimo prestigio nelle corti europee. Ai contemporanei sembrò un segno di forza e invece era solo l’ultimo bagliore di una stella cadente. Non basta l’economia della qualità urbana, occorre qualcosa in più, non solo cura del passato, ma l’invenzione del futuro, non solo il buon vivere, ma anche il produrre moderno. Il problema è tutto qui, se si riesca a fare della creatività urbana un centro propulsivo della crescita economica e civile del Paese, se le città, come storia italiana, possano essere l’opportunità moderna Se questa è la sfida dovremmo pensare a nuove politiche urbane come grande priorità nazionale. Dovremmo pensare a fare politiche volte a curare la creatività dei luoghi, non solo come memoria del passato, ma come crogiuolo dell’invenzione moderna. Ciò significa non solo buon governo amministrativo, ma progetti per potenziare i servizi, forti e vivaci università, poli di ricerca e di innovazione produttiva, luoghi di espressione della sensibilità giovanile, ricchezza multietnica, apertura al mondo, clima di libertà verso le differenze di ogni genere. Sono fatte così, oggi, le città di maggiore successo economico a livello internazionale. In alcuni casi, con simili strategie hanno fatto il salto della rana nella competizione globale. Pensiamo a Dublino che, da città angusta e triste, in pochi anni, è diventata uno dei poli di sviluppo più dinamici del mondo, mettendo insieme la memoria di Joyce, il gusto della birra, le migliori aziende di software del globo, la massima attrazione di cervelli e i gruppi musicali all’avanguardia nelle tendenze giovanili. Operazioni del genere si possono fare non in una, ma in cento città italiane e con una ricchezza culturale di gran lunga maggiore. Lo sviluppo locale è una dimensione decisiva dell’economia moderna. La competizione mondiale non avviene più soltanto tra imprese, anche tra sistemi urbani. Anzi, di fronte alla tendenza omologante della globalizzazione le specificità e le differenze delle singole città diventano una risorsa in più. Questa è la carta più preziosa che l’Italia può giocare. Il nostro formidabile reticolo di tessuti urbani costituisce un patrimonio di civiltà unico al mondo, la più originale realizzazione dello spirito italiano, anzi la misura ineguagliabile di ciò che è specificamente italiano. Promuovere le relazioni internazionali delle nostre città diventa quindi una priorità della politica nazionale. Solo a partire dai punti alti della nostra identità nazionale sarà possibile cogliere le sfide del futuro. Questa, a pensarci bene, non è solo un’opportunità, ma in un certa misura è anche una scelta obbligata. Nel senso che purtroppo, oggi in Italia, non ci sono molte altre carte da giocare, oltre al sistema urbano. Infatti, proprio nel momento in cui la competizione mondiale si concentra sul terreno dell’innovazione, vengono a esaurimento le strutture economiche e sociali che hanno sorretto l’inventiva italiana degli ultimi decenni. Luciano Gallino ci ha raccontato la scomparsa dell’Italia industriale, quella vicenda, non sempre senza colpevoli, di autolesionismo nazionale che ha portato alla sparizione della grande impresa pubblica e privata protagonista di tanti successi internazionali: i primi computer dell’Olivetti, la plastica di Natta e Montecatini, la siderurgia e l’aerospazio di Stato, l’automobile e le sue filiere, la robotica e le macchine utensili. Più di recente è apparso evidente l’affanno dei distretti a tenere il passo della competizione mondiale. Quella peculiare forma di organizzazione produttiva, studiata e ammirata in tutto il mondo, ebbe il merito di trasformare l’antico gusto artigianale e la coesione sociale in fattori propulsivi della produzione industriale e perfino dell’immagine italiana nel mondo. Possono dare ancora molto, se sapremo difenderli e rinnovarli, ma certo non saranno più i centri propulsivi dell’innovazione italiana. L’indebolimento di questi due grandi modelli rende nudo il Paese di fronte alla sfida competitiva. E’ come se in Germania venisse a mancare il modello renano, in Francia l’interventismo statale, in Gran Bretagna la forza finanziaria. Ecco la specificità della crisi italiana. Siamo l’unico grande Paese che affronta il mondo nuovo proprio mentre viene meno l’eredità dei momenti migliori della recente modernizzazione. Nasce allora spontanea la domanda: siamo in grado di trovare altri luoghi dell’innovazione? Ci sono altre qualità del nostro Paese che oggi possano ottenere risultati analoghi a quelli del periodo industriale? La questione urbana si carica allora di una grande responsabilità. Il problema è se le città riusciranno a diventare un modello di innovazione capace di esprimere la stessa forza della grande industria e dei distretti. E se riusciranno a cogliere dinamiche nuove che erano precluse a quei modelli. La vecchia industria aveva una certa indifferenza per il territorio; oggi invece la qualità dei luoghi diventa fattore decisivo per l’agglomerazione delle competenze. Diventa, quindi, decisivo per le città organizzare la convergenza delle relazioni tra saperi, produzioni e stili di vita. Nel distretto industriale si realizzava la trasmissione delle competenze in virtù di una forte omogeneità culturale, di una condivisione delle scelte e di legami sociali forti. Il lavoratore creativo, al contrario, ama le differenze, le relazioni aperte, i legami sociali deboli tipici dell’ambiente urbano. Per le città italiane diventa strategico attrarre la classe creativa, i cervelli, gli innovatori. Dobbiamo, quindi, chiedere molto alle politiche urbane, più dell’economia del “buon vivere”, più delle normali politiche di sviluppo locale che si fanno in Europa, più di quello che hanno saputo esprimere il miracolo economico e il made in Italy. Proviamo a fare delle città il modello italiano della società della conoscenza. L’innovazione di un Paese non è mai una fuga in avanti, comporta sempre una rielaborazione in chiave moderna dei caratteri più profondi dell’identità collettiva. La cultura urbana italiana è una forza di lunga durata che può conferire allo sviluppo del Paese quell’energia necessaria per affrontare le sfide della competizione mondiale. Ma soprattutto l’innovazione non è un fatto tecnico, né puramente economico. E’ un processo sociale condiviso. Significa in fin dei conti girare il Paese verso il futuro. E ciò richiede una ripresa di fiducia, la voglia di darsi delle mete come nazione, una rinascita civile della società italiana. Anche se la interpretiamo in questo senso l’innovazione è possibile solo a partire dai grandi depositi di energia collettiva che si trovano nella città. D’altronde qualcosa di simile è già accaduto in un altro tornante difficile, all’inizio degli anni Novanta. Allora, un Paese sull’orlo della bancarotta, scosso dall’indignazione popolare, senza una guida politica ritrovò le sue coordinate proprio dalle esperienze dei nuovi Sindaci. Da lì cominciò a coagularsi un nuovo sistema politico bipolare, si ritrovò l’orgoglio di essere italiani, si ricostituì il capitale di fiducia che fu poi decisivo per il grande balzo in Europa. E non si trattò solo fattori simbolici. Si attuarono concrete politiche di rinnovamento urbano e molto spesso soluzioni pensate in questa o quella città divennero in seguito politiche nazionali. Tante delibere furono riscritte in forma di legge. Oltre all’euro furono proprio le politiche urbane che ci avvicinarono all’Europa, introducendo per la prima volta nelle città italiane soluzioni che erano ormai consolidate nelle altre città europee. Questa onda riformatrice dura ancora oggi e, soprattutto dove governa il centrosinistra, ha prodotto un cambiamento sensibile della vita cittadina. Eppure, tutto ciò non basta più. Se davvero si vuole affidare un compito rilevante alle città nel rilancio del Paese occorre una stagione nuova delle politiche urbane, sia nei contenuti sia nelle risorse impegnate. Il futuro delle città non è un libro dei sogni. Sono possibili anche regressioni e ripiegamenti. Anzi, di questi tempi emergono proprio gli aspetti più contraddittori dello sviluppo urbano. Esso si trova in bilico tra passato e futuro: da un lato le formidabili opportunità della concentrazione di saperi, di cui si è detto; dall’altro, però, una grande occasione per le rendite e i monopoli. Molte delle politiche degli ultimi anni hanno incoraggiato il secondo aspetto, più del primo. I condoni, il rientro quasi gratuito dei capitali, le procedure poco trasparenti di alienazione di un ingente patrimonio immobiliare pubblico e in generale una maldestra deregulation urbanistica, sono tutti fenomeni che hanno accentuato la funzione della città come rifugio della rendita. Su questa dinamica hanno trovato nuove opportunità una parte del capitalismo italiano, proprio quello che si stava ritirando dalla competizione internazionale, e i nuovi capitani di ventura, i quali, dopo aver fatto fortuna nell’immobiliare, danno la scalata al salotto buono della finanza italiana. Il mercato immobiliare, infatti, è stato finora l’unica compensazione al declino industriale e senza il suo contributo l’andamento del Pil sarebbe stato negativo negli anni passati. Anche il settore dei servizi pubblici, dopo la stagione delle liberalizzazioni è ripiegato nella tutela dei monopoli, negando una strategia di sviluppo industriale alle aziende locali. E infine è sempre viva la vecchia bestia corporativa che in tanti campi delle professioni, del commercio e del terziario ha sempre limitato la modernizzazione dei servizi della città. La rendita e l’ingegno hanno sempre giocato un ruolo importante nella storia italiana. La prima tira di più quando la nazione è rivolta al passato. Il secondo vince solo quando il Paese si rivolge al futuro. Questo è il bivio in cui ci troviamo oggi. Le risorse non sono infinite e l’acqua di dirige dove trova la strada. Bisogna porre molta attenzione ai sistemi di regolazione per evitare che la ricchezza della città trovi allocazione nelle rendite piuttosto che nelle innovazioni. Ad esempio, il sistema bancario è purtroppo sempre pronto a finanziare un bene fisico, un terreno o un palazzo, e molto restio a sostenere progetti immateriali: un’innovazione produttiva, il risultato di una ricerca scientifica, la sperimentazione di un servizio. Molto possono fare le politiche pubbliche per dirigere l’acqua nella direzione giusta. Devono essere politiche capaci di andare in profondità e di affrontare nodi strutturali della vita cittadina. Per questo non si possono lasciare soli i Comuni, c’è bisogno di un impegno nuovo dello Stato in favore delle città italiane. Una malintesa concezione delle autonomie ha fatto pensare che nell’epoca del federalismo non vi fosse più bisogno di un intervento centrale. E invece, oggi in Europa si vanno impostando molte politiche nazionali per le città. Dai programmi nazionali di Francia, Germania, Olanda e Gran Bretagna vengono molti suggerimenti che possono essere rielaborati per il caso italiano. Il caso più evidente è la Spagna che ha fatto della modernizzazione urbana un veicolo decisivo della sua integrazione europea e internazionale. Basti pensare ai progressi enormi realizzati negli ultimi vent’anni in città come Madrid, Barcellona, Valencia, Bilbao. Si tratta di individuare politiche nazionali che non abbiano la pretesa di sostituirsi ai governi locali, anzi siano capaci esaltarne le funzioni mettendo a disposizione risorse, incentivi ed opportunità per arricchire i programmi che ciascuna comunità urbana elabora nella sua autonomia. Le politiche nazionali definiranno obiettivi generali per il Paese e ciascun governo locale potrà attingere alle risorse sulla base della qualità dei progetti e secondo criteri di riequilibrio a favore del Mezzogiorno. La politica nazionale deve lasciare autonomia non solo per i vincoli costituzionali ormai stabiliti con il Titolo V, ma per ragioni di contenuto. La differenze tra le città italiane sono un dato storico e una risorsa per l’avvenire. Anzi, l’obiettivo principale delle nuove politiche urbane dovrebbe essere proprio quello di promuovere una sorta di biodiversità dei sistemi urbani italiani. 1. LA CITTA’ FISICA Per rendere le città più sostenibili sono necessarie politiche e investimenti per le infrastrutture ambientali e la riqualificazione dello spazio pubblico. L’accessibiltà delle strade, delle aree verdi urbane e periferiche, delle piazze, delle sedi dei servizi sociali, formativi, culturali e sportivi è la condizione per realizzare una rete fisica di relazioni decisive per l’ecosistema delle città e per la coesione sociale. Lo spazio pubblico è il luogo dell’incontro, sollecita senso di appartenenza, identità e responsabilità collettive per la qualità dell’ambiente. Innanzitutto, c’è da sanare il deficit storico di infrastrutture che le città italiane hanno accumulato nel corso del XX secolo. Negli ultimi anni molti progetti sono stati impostati per recuperare il ritardo. Si tratta di completare l’opera individuando per ciascuna città gli interventi necessari a raggiungere una normale dotazione europea di infrastrutture, soprattutto per la mobilità delle persone e delle merci. La cura del ferro Sarà bene bloccare i processi che ricreano il deficit infrastrutturale mentre si sta faticando per sanarlo. Gran parte delle città italiane sono dilagate nei rispettivi hinterland creando intorno alla parte consolidata una galassia di insediamenti sparsi. La campagna si è fatta metropoli senza passare per la città. Tutte le reti urbane devono essere allungate per servire questi nuclei con basse densità territoriali, determinando in tal modo alti costi infrastrutturali per abitante che appesantiscono i bilanci pubblici già impegnati a recuperare il deficit pregresso. Le conseguenze di tale forma insediativa si fanno sentire soprattutto nell’aggravamento dei problemi di mobilità. Infatti, se da un lato i cittadini vanno ad abitare sempre più lontano, circa due milioni hanno abbandonato le città negli ultimi venti anni, dall’altro hanno poi bisogno comunque di recarsi in città per lavorare, con l’evidente accentuazione di tutti i fenomeni di pendolarismo. Aumentano così il numero e la lunghezza degli spostamenti e in molti casi l’uso dell’automobile diventa una scelta forzata. In queste condizioni le politiche positive per la mobilità intraprese da molti Comuni sono vanificate dagli effetti delle trasformazioni urbanistiche. Per questo motivo l’inquinamento urbano continua ad essere un problema grave. Ciò che sembra quasi un destino cinico e baro non è altro che la conseguenza, almeno in parte, di trasformazioni urbane lasciate a se stesse. Occorre una risposta adeguata del trasporto pubblico, ma sulla scala dell’area vasta dove ormai si è collocata la dinamica urbana. Il recupero e il potenziamento delle ferrovie locali assume un’importanza strategica, non solo per migliorare il servizio pubblico, ma per rendere possibili nuove scelte di pianificazione territoriale. Si presenta una grande occasione. Nel prossimo decennio, se saremo in grado di concludere la lunga e faticosa attuazione della rete ad alta velocità, si avrà una disponibilità aggiuntiva del 50% sui tracciati ferroviari della rete metropolitana. Se a questi si aggiungono tante linee locali ancora ampiamente sottoutilizzate e i vecchi impianti delle cosiddette ferrovie concesse, sciaguratamente abbandonati negli anni Settanta, diventerà possibile realizzare una potente armatura su ferro nelle principali aree metropolitane. Negli anni Cinquanta in Germania si ricostruirono le vecchie ferrovie realizzando la rete S-Bahn, che ha consentito alle piccole città tedesche di sopportare un’equilibrata diffusione nell’hinterland e, nei centri più grandi, di integrare il trasporto a lunga distanza con le metropolitane classiche, le U-Bahn. La stessa cosa si deve fare in Italia, seppure con mezzo secolo di ritardo. Si tratta dell’intervento strutturale più importante che si possa realizzare nelle aree metropolitane, l’unico in grado di migliorarne i servizi e nel contempo di renderle di nuovo pianificabili. E’ un’opera impegnativa che richiede un ribaltamento delle attuali priorità: su 240 opere definite dalla legge obiettivo solo una decina riguardano la mobilità urbana. Occorrono approcci moderni nella progettazione, nel project-financing, nelle modalità realizzative e nella cultura del servizio di un nuovo tipo di ferrovie, che non hanno nulla a che vedere con l’attuale trasporto locale di FS. Non devono essere più i tracciati di serie B della rete nazionale, secondo la mentalità purtroppo consolidata in quell’azienda, ma vanno considerati gli assi portanti di moderne reti metropolitane, come le travi su cui appoggiare tutti gli altri sistemi di trasporto urbani: metropolitane, tram e autobus. Una volta definito lo schema di area vasta è possibile definire le reti integrate di trasporto all’interno delle città. Qui occorre superare l’attuale legislazione nazionale che finanzia singole opere secondo un’assurda separazione modale: esistono leggi distinte per le metropolitane, per gli autobus, per i parcheggi e per le piste ciclabili. Il contributo finanziario dello Stato deve invece mirare all’attuazione di Programmi Urbani di Mobilità (PUM) elaborati dai Comuni, secondo modelli di integrazione modale, lasciando alle scelte progettuali, non alle norme, l’individuazione delle diverse tecnologie di trasporto. I PUM devono indicare le prestazioni che si vogliono raggiungere secondo parametri verificabili, in modo che il finanziamento statale sia allocato sui progetti più efficaci nel miglioramento della mobilità. Sulla base di queste scelte infrastrutturali è allora possibile riprendere il discorso della pianificazione urbanistica. In questo schema i nodi della rete devono diventare i luoghi a più intensa trasformazione urbanistica, in quanto consentono di concentrare funzioni sopra stazioni già servite dal trasporto pubblico o in via di realizzazione. Ciò significa che si debbono cancellare previsioni edificatorie sparse in zone senza infrastrutture per concentrarle sopra la rete su ferro. La pianificazione dei trasporti non deve essere più separata da quella territoriale. Anzi, il disegno della rete offre le nuove linee di forza della trasformazione urbanistica. Superare il divorzio tra mobilità e urbanistica è l’unico modo per curare gli effetti dannosi della disseminazione e per avviare nuove dinamiche di sviluppo urbano. Di conseguenza, la pianificazione urbanistica deve essere integrata con quella ambientale, alla scala territoriale vasta più idonea a governare trasformazioni territoriali, al fine di prevedere più efficacemente i relativi impatti socioambientali e i fabbisogni infrastrutturali, che spesso travalicano i confini amministrativi dei singoli comuni. Il valore urbano Molte regole della valorizzazione urbana sono fatte per favorire la rendita, spesso a discapito dell’interesse generale. Il volume generale della rendita rappresenta una ricchezza pari a sei volte il Pil e gran parte delle sue rivalutazioni sono caratterizzate da ampi fenomeni di elusione ed evasione fiscale. Quando si trasforma una parte di città si crea da un lato un aumento del valore immobiliare e dall’altro un costo per la realizzazione delle relative infrastrutture. Il gioco è però diseguale: il primo è a favore del privato e il secondo a carico del pubblico. Il riequilibrio dovrebbe avvenire tramite gli oneri di concessione e di urbanizzazione pagati dai proprietari a favore dei comuni. Tali oneri, pur con sensibili differenze tra le diverse regioni, sono però quasi sempre sottodimensionati rispetto ai costi pubblici. Per molto tempo, infatti, si è ritenuto in Italia che non bastasse la rendita a innescare la trasformazione edilizia e che questa dovesse essere incentivata anche da sussidi pubblici mascherati. Il risultato di tale scambio ineguale è che l’attuazione dei progetti aumenta spesso il deficit infrastrutturale. Tale fenomeno è particolarmente evidente e ancora più ingiustificato nelle politiche seguite per incentivare gli insediamenti produttivi e industriali diffusi. La legislazione italiana, a tutti i livelli, ha preso decisamente la strada della contrattazione dei processi edilizi, senza però mai tentare di definire parametri e criteri adatti a misurare il bilancio dei costi e delle valorizzazioni. La legge nazionale sui suoli, invece di scopiazzare i testi regionali vigenti, dovrebbe fornire regole omogenee per trasferire una parte congrua delle valorizzazioni immobiliari a favore dei servizi pubblici, anche mediante una revisione della normativa sugli oneri concessori. Sulla base di criteri oggettivi definiti dalla legge ogni trasformazione urbanistica dovrebbe essere accompagnata da una certificazione del bilanciamento tra i vantaggi privati, i costi e i benefici pubblici. Infine, il catasto è un classico monumento all’ipocrisia nazionale, nel senso che non rappresenta affatto i valori reali e livella in basso tutte le tassazioni del settore. Immobili che in origine erano popolari e oggi sono diventati di pregio conservano le vecchie classificazioni, mai aggiornate dal 1965. Secondo una recente stima del Ministero dell’Economia, nel periodo 1999-2003, le entrate dell’Irpef dal lavoro dipendente sono aumentate del 24%, mentre dalle locazioni l’aumento è stato solo del 3%, nonostante la grande bolla immobiliare. Le tecnologie disponibili consentono una gestione moderna del catasto, ottenendo così una rappresentazione veritiera dei valori immobiliari e un sistema informativo attendibile per tutte le operazioni pubbliche e private. Per fare alcuni esempi romani, secondo il catasto a piazza Navona non esistono abitazioni di lusso e metà delle ville dell’Appia antica sono classificate come periferico-degradate. L’introduzione di moderne tecnologie può aiutare a contrastare l’enorme fascia di elusione ed evasione fiscale nella locazione e nella compravendita degli immobili. Su 136 miliardi (tale è l’ammontare delle transazioni immobiliari nel 2004) vanno allo Stato circa 6 miliardi per tributi (registro, catasto ecc.) e ben 7 miliardi ai notai. La gran parte della ricchezza che si forma nella vendita non è neppure identificata dal fisco e tanto meno dalle casse comunali. A partire da questa operazione verità si può rivedere la fiscalità immobiliare, compresa l’Ici, ripartendo diversamente i pesi tributari e aumentando le capacità regolative delle politiche pubbliche sul territorio, in particolare quelle abitative. Tutte questi meccanismi che partecipano ai processi di formazione della rendita hanno bisogno di un ripensamento generale, al fine di migliorare il circuito della valorizzazione urbana. La rendita è pur sempre una misura del valore di una città che viene dall’insieme delle azioni dei diversi soggetti economici e istituzionali. Acquisirne una parte consistente significa avere risorse necessarie per realizzare nuove infrastrutture e per modernizzare i servizi in modo da aumentare ancor di più il valore urbano. Le proprietà pubbliche In questi anni è stata avviata una vasta operazione di alienazione del patrimonio pubblico. Le procedure poco trasparenti e scarsamente concorrenziali hanno determinato arricchimenti facili per pochi gruppi immobiliari. La necessità di fare cassa rapidamente ha ridotto sensibilmente i vantaggi per il pubblico, aumentando i costi di transazione; immobili pagati poco allo Stato sono passati di mano in mano diverse volte in pochi mesi moltiplicando per tre-quattro volte il loro valore. L’utilizzazione degli introiti per coprire il deficit dello Stato (e talvolta perfino la spesa corrente) ha reso del tutto marginale il vantaggio per le città, lasciando alle casse comunali, quando è andata bene, solo il 15% del valore delle vendite, molto spesso inferiore all’aumento dei costi infrastrutturali che la città sopporta per quelle trasformazioni. C’è un modo diverso di realizzare la politica patrimoniale. Innanzitutto, bisogna partire dal fatto positivo che lo Stato oggi dispone di una Agenzia del demanio di grande efficienza, realizzata su impulso dei governi dell’Ulivo. Si tratta di un’innovativa tecnostruttura pubblica, dotata delle migliori tecnologie, in grado ormai di conoscere e valutare tutti i settori del patrimonio pubblico. Integrando i dati delle amministrazioni locali con quelli dello Stato si può costituire per ciascuna città una Carta delle proprietà pubbliche, con una descrizione compiuta dei valori immobiliari, dello stato di conservazione, dei valori culturali e delle potenzialità urbanistiche. A partire da questa conoscenza integrata si possono fare dei piani urbanistici di recupero centrati sui patrimoni pubblici di Stato, Regioni ed Enti locali. Come si dismettono le aree industriali, altrettanto succede per tante funzioni pubbliche: aree ferroviarie, caserme, ex aziende, servizi tecnologici obsoleti. Se si supera la gestione settoriale e angusta che ciascun ente porta avanti, con risultati non sempre esaltanti, e si mettono insieme le risorse immobiliari pubbliche, si ottiene una massa critica capace di condizionare il mutamento strutturale della città. Il sogno impossibile dei pianificatori del primo centrosinistra, regolare l’urbanistica tramite lo stock di aree pubbliche, naufragato con la sconfitta della legge Sullo, può oggi realizzarsi attraverso una gestione dei demani pubblici accorta nei fini e integrata nei mezzi. Occorre superare l’approccio del caso per caso, della vendita a brandelli, dell’alienazione disperata dei beni pubblici. La politica integrata del patrimonio consente, infatti, di cogliere almeno tre vantaggi. In primo luogo, si deve passare dal singolo cambio di destinazione d’uso alla progettazione urbanistica degli interventi. Ciò consente di realizzare la valorizzazione a livello di sistema e non del singolo manufatto, con evidenti vantaggi funzionali ed economici. Ad esempio, si può decidere di mantenere quel dato immobile a completa destinazione pubblica, per tutelare esigenze di servizi collettivi o pregi culturali e ambientali, e l’altro, invece, destinarlo completamente alle attività private. Se non si è costretti a contemperare le diverse esigenze in un singolo immobile, si possono attuare politiche più ricche sia per la tutela dell’interesse collettivo sia per la redditività economica delle trasformazioni. In secondo luogo, se invece di vendere a pezzi, si promuove un progetto integrato, il soggetto pubblico può incamerare una quota maggiore della valorizzazione economica degli interventi, senza lasciare nelle mani degli intermediari finanziari guadagni ingiustificati. La rendita urbana di per sé non è un male, è negativa la ripartizione a discapito dell’interesse generale. In terzo luogo, è molto importante affidare mediante gara internazionale l’attuazione di piani urbanistici centrati sul patrimonio pubblico. In questo caso, a realizzare gli interventi è il gruppo imprenditoriale che rende massimo il vantaggio dell’interesse generale in termini di infrastrutture e di servizi. Ciò consente di fissare la quota pubblica della rendita in base ad un meccanismo concorrenziale e non ad una incerta trattativa tra amministratori e operatori economici. La concorrenza è decisiva per suscitare una crescita del sistema imprenditoriale della trasformazione urbana. Tra i tanti paradossi del nostro Paese c’è anche quello di aver accompagnato per oltre mezzo secolo una febbrile attività edilizia con una debolezza dei soggetti imprenditoriali di riferimento. Manca in Italia la figura del grande promotore urbanistico, tipico di tanti altri paesi civili, capace di integrare attività industriali di costruzione, progettazione di qualità, competenze tecnologiche, solidità finanziaria, gestione delle funzioni e marketing urbano. In cambio, abbiamo in abbondanza giocatori della compravendita di aree e piccole imprese edili che rimangono a galla tramite il sommerso. Mettere sul mercato uno stock di patrimonio pubblico con l’obiettivo di rafforzare la concorrenza significa dare un contributo alla crescita del sistema imprenditoriale che opera sulla città. E’ un aiuto ai settori più avvertiti dell’imprenditoria che stanno puntando sulla modernizzazione delle strutture produttive. La casa La rigidità del mercato degli affitti frena la flessibilità della vita urbana ed è fonte di nuove forme di disagio sociale. I redditi più bassi e le giovani coppie vengono in parte espulsi nell’hinterland secondo la dinamica disseminativa descritta sopra. Lo spostamento gigantesco di risorse a favore della rendita immobiliare e a discapito dei redditi da lavoro è una delle cause fondamentali dell’attuale sofferenza dei ceti medio-bassi. Per i ceti più poveri l’affitto pesa per il 47% del reddito e per i redditi dei lavoratori arriva al 30%. Nei prossimi anni, con il rinnovo dei contratti, in assenza di provvedimenti, queste percentuali sono destinate a salire non poco. E’ una vera emergenza sociale. Le case in affitto si sono ridotte del 17% negli ultimi venti anni, in un Paese che ha tradizionalmente la più alta quota di case in proprietà in Europa, circa 80%, la più bassa quota di edilizia sociale (5% contro il 16% europeo) e si permette il lusso di cancellare addirittura dal bilancio statale qualsiasi intervento in materia. Ai vecchi problemi irrisolti si aggiungono fenomeni nuovi che rendono ancora più complessa la struttura della domanda: aumento della popolazione anziana, immigrati in cerca di alloggio, lavoratori flessibili che non possono reggere un mutuo, maggiore instabilità dei nuclei familiari, mobilità studentesca, city users che si muovono per attività terziarie. La mancata risoluzione di questi problemi blocca un carattere decisivo delle città come fattore della mobilità sociale e della qualità delle relazioni. La flessibilità nell’uso residenziale e la coesione sociale degli abitanti sono condizioni essenziali per lo sviluppo urbano. Tutto ciò richiede di assegnare alle politiche abitative una priorità nazionale. I programmi di recupero centrati sul patrimonio pubblico devono servire anche a riportare la residenza nelle aree semicentrali della città. Una caserma dismessa può anche diventare un nuovo quartiere residenziale, per fare un esempio. In molte situazioni è possibile riutilizzare vuoti urbani o aumentare la densità di zone debolmente edificate ma situate vicino alle aree centrali. Tutto ciò riduce il fenomeno dello sprawl, riportando i cittadini nelle zone meglio dotate di servizi pubblici ed evitando di andare a costruirne di nuovi in periferia. Soprattutto la città che ritrova i suoi abitanti diventa più vivibile e più ricca di relazioni sociali, si evita così di creare i non-luoghi dei centri monofunzionali del terziario. Per favorire la mobilità degli studenti e l’attrazione di studenti stranieri occorre riprendere i programmi di residenza universitaria, accompagnandoli con servizi integrati che aiutino la crescita della qualità della cittadinanza universitaria. Bisogna rilanciare programmi di edilizia sociale impostati sul recupero della città esistente. Con i Contratti di quartiere sono state sviluppate moderne metodologie di integrazione degli interventi che tengono insieme diversi obiettivi: residenza, servizi, formazione-lavoro e soprattutto partecipazione dei cittadini alle trasformazioni. A partire dalle esperienze migliori di deve mettere a punto una politica ordinaria e non più occasionale di rigenerazione dei quartieri, con finanziamenti certi e procedure consolidate. Occorrono incentivi anche all’edilizia privata per promuovere l’offerta di locazione a canone concordato, accompagnati da sussidi per l’affitto per i ceti meno abbienti. Vanno sostenute le iniziative regionali, ad esempio quella toscana, per l’istituzione di un fondo di rotazione per alloggi in affitto. Infine, occorre un grande piano nazionale per il recupero delle periferie, in particolare quelle realizzate negli anni Settanta. Gli interventi di rinnovo edilizio e l’incremento delle dotazioni infrastrutturali possono fornire un contributo decisivo per ridurre il disagio che in questi quartieri non è solo di carattere abitativo, ma anche dovuto all’ambiente urbano. I finanziamenti di tali programmi devono garantire soprattutto una continuità nel tempo, in modo che i comuni possano procedere ad una programmazione degli interventi e non ad esperimenti episodici. L’impegno di progettualità speso negli anni trascorsi per il recupero dei centri storici deve oggi essere accresciuto e finalizzato alle periferie dove tutto è reso più complesso: per l’assenza di identità da valorizzare, per le difficoltà di sovrapporre investimenti privati e, non da ultimo, per la mancanza di esperienze, almeno in Italia, che riconsiderino ambiti ai margini della città ed in prossimità dell’urbanizzazione diffusa per riproporli come tessuti urbani compiuti. 2. LA CITTA’ DEI SERVIZI La città è prima di tutto un luogo di invenzione dei servizi pubblici e privati. La logistica, la formazione, l’assistenza e la cura degli anziani, i beni culturali, il recupero urbano e il risparmio energetico, il trasferimento tecnologico sono tutti campi che dovrebbero essere investiti da una grande innovazione dell’ offerta. Non è necessario che siano sempre le amministrazioni a prendere in mano la gestione. Ma l’azione pubblica è decisiva per creare nuove opportunità imprenditoriali, definire le condizioni di fattibilità e favorire le convenienze di una soft-economy dei servizi urbani, del buon vivere, della cultura e della coesione sociale. Quelli che siamo abituati a classificare come gravi problemi dell’organizzazione cittadina, come ad esempio la mobilità, possono diventare l’occasione di nuova imprenditorialità mirata alla loro soluzione. Come un gruppo di ragazzi si inventò il servizio di pony express fino a realizzare importanti imprese di logistica, così in molti altri campi è possibile inventare nuove risposte alla domanda di qualità ed efficienza della macchina cittadina. Più offerta di trasporto collettivo Il caso emblematico è quello del trasporto merci, affidato quasi sempre solo all’approvvigionamento individuale, con mezzi di trasporto che viaggiano per gran parte del tempo vuoti. E’ un sistema che realizza alte inefficienze nella rete distributiva, scarica un peso insostenibile sulle delicate strutture dei centri storici ed è il principale responsabile dell’inquinamento più pericoloso, quello delle polveri, il quale a sua volta determina spesso il blocco generale del traffico, scaricando costi molto alti sulla collettività. Ci perdono tutti i soggetti coinvolti. Gestire la distribuzione delle merci con imprese conto terzi in concorrenza tra loro determinerebbe sicuramente un servizio efficiente e sostenibile. Si creerebbe nuova occupazione, migliorando la vivibilità collettiva. Il pubblico non dovrebbe assumere nuovi oneri, ma soltanto agire con fermezza nella programmazione e nella definizione delle nuove regole. La leva economica può essere utile per incentivare il trasporto conto terzi e disincentivare quello in conto proprio. Anche l’introduzione di nuove tecnologie è l’occasione per inventare nuovi servizi. C’è molto da fare; l’organizzazione urbana è uno dei settori più arretrati nella dotazione tecnologica. Ad esempio, nei prossimi anni il progetto Galileo, renderà disponibile un sistema avanzato di posizionamento satellitare che avrà un grande impatto nella gestione della mobilità, soprattutto se accompagnata all’introduzione della targa elettronica. Una volta realizzata l’infrastruttura ci vorranno nuove imprese capaci di utilizzarla, proponendo nuovi servizi per il controllo delle flotte, per la prevenzione degli ingorghi, per la sicurezza stradale. Iniziative di questo tipo determinano una domanda qualificata di innovazione e servono anche ad alzare il livello tecnologico dell’economia dei servizi che è uno dei punti più gravi del ritardo italiano. Molte innovazioni possono anche venire dall’eliminazione di assurdi protezionismi. Le leggi stabiliscono una totale libertà nell’uso individuale dell’automobile e allo stesso tempo delle pesanti restrizioni nell’uso collettivo. Dare un passaggio ad un amico con la propria auto è una cosa normale, ma se diventasse un’attività economica sarebbe duramente repressa dalle norme. Un’adeguata delegificazione del trasporto conto terzi potrebbe favorire la crescita di nuove imprese che offrono servizi di trasporto collettivo meno rigidi della rete dei bus e meno costosi dei taxi. Questi tradizionali sistemi di offerta, infatti, lasciano insoddisfatta una gamma vasta di esigenze, dal tempo libero, alla cura delle persone, a molti spostamenti del terziario, ai grandi eventi. Occorrono imprese innovative capaci di leggere i diversi segmenti della domanda e di rispondere con moderne tecniche di marketing e adeguati strumenti tecnologici. Ci sarebbe un campo enorme di invenzione di nuovi servizi di trasporto gestiti da privati sotto la regolazione pubblica. Per far nascere queste nuove imprese sarebbe necessario anche stornare a loro favore una parte dei sussidi pubblici che oggi sono riservati solo alle aziende pubbliche. Questa manovra è però possibile solo all’interno di un ripensamento generale della ripartizione dei costi della mobilità, peraltro necessaria per semplici problemi di equità. Infatti, gli utenti del trasporto pubblico pagano per legge il 35% dei costi del servizio. Se agli automobilisti dovesse essere attribuito lo stesso carico per sostenere i pesanti costi di realizzazione e gestione della rete stradale si dovrebbe moltiplicare il bollo auto di un fattore dieci. Inoltre, gli automobilisti sono chiaramente debitori del trasporto pubblico, anche se non ne hanno piena consapevolezza. Con una media di due automobili ogni tre abitanti, il più alto tasso di motorizzazione europeo, si avrebbe la paralisi continua del traffico se non ci fossero ogni giorno le aziende pubbliche che eliminano una quota di domanda e consentono a tutti gli altri automobilisti di utilizzare le strade. Infatti, quando viene a mancare il trasporto pubblico, ad esempio per uno sciopero, è quasi impossibile usare l’automobile. E’ quindi l’automobilista dovrebbe contribuire a pagare il biglietto e non soltanto l’utente dei bus, al quale anzi dovrebbero andare i ringraziamenti per aver migliorato la convivenza in città con la sua scelta. In questo modo si reperiscono le risorse per determinare un forte aumento dell’offerta di trasporto pubblico urbano. In questi anni, mentre si predicava ai cittadini di lasciare l’automobile, le risorse per il trasporto locale sono diminuite di circa il 10%. Occorre invertire questa tendenza. Se si vuole ridurre davvero l’inquinamento e rispettare i vincoli di Kyoto è necessario mettere in servizio più autobus, tram e metropolitane. Bisognerà prevedere un intervento statale per incentivare e sostenere quelle amministrazioni comunali che intraprendono politiche di aumento dell’offerta di trasporto e nel contempo di abbassamento dei costi mediante le liberalizzazioni avviate dai governi dell’ulivo. Occorre infine una svolta nella politica per la sicurezza stradale in ambito urbano. Si continua, infatti, a prestare attenzione solo all’ambito autostradale che rappresenta una piccola parte del problema . La vera anomalia italiana è l’alta percentuale di incidenti delle nostre città: su diecimila abitanti Londra presenta una media di 600 feriti, mentre a Milano si arriva a 1900; la mortalità nelle autostrade italiane è di 11%, nelle città del 40% . Il piano nazionale per la sicurezza stradale deve dare quindi assoluta priorità alle politiche urbane per interventi strutturali, organizzativi ed educativi. Il risparmio energetico La città è una macchina che dissipa energia senza produrla. Eppure, non esistono politiche locali né strutture pubbliche che si occupino in modo organico di un carattere tanto rilevante del sistema urbano. Le aziende locali dell’elettricità si occupano di vendere energia, ma nessun ente è preposto ad incentivarne il risparmio. Il risparmio energetico può diventare un mercato capace di creare nuove convenienze, qualificazione delle imprese e utilità per i cittadini. L’occasione è data dal recepimento della direttiva europea volta a migliorare le prestazioni energetiche degli edifici. Ciò deve riguardare non solo le nuove costruzioni, bensì la massa edilizia esistente, purtroppo in Italia caratterizzata da una bassa qualità ambientale. Si può mirare alla ristrutturazione del patrimonio edilizio urbano diffondendo la tecnica dei certificati bianchi: soggetti imprenditoriali che realizzano progetti di risparmio energetico acquisiscono dei titoli che possono rivendere alle società elettriche, le quali sono vincolate dallo Stato a dotarsene, ottenendo in cambio un riconoscimento sulle tariffe. Realizzando questa filiera di risparmio ci guadagnano tutti soggetti: il cittadino spende meno in tariffa, nascono nuove imprese ambientali, il settore edilizio migliora i suoi standard tecnologici, le aziende locali hanno un incentivo a risparmiare e non solo a vendere, lo Stato evita di pagare le penali per Kyoto. Inoltre, si possono aggiungere incentivi nazionali per le energie rinnovabili, ad esempio il solare, con particolare attenzione ai problemi specifici per l’inserimento di queste tecnologie nell’ambiente urbano, dove è più difficile l’integrazione con il patrimonio esistente. Allo stesso tempo, si deve consentire al cittadino non solo di consumare, ma anche di produrre energia da vendere alla rete distribuzione. Si istituisce un marchio di qualità energetica per le città che realizzano politiche di tale natura e acquisiscono una delle certificazioni europee in materia ambientale. I comuni dotati del marchio saranno beneficiati di agevolazioni di varia natura previsti dalla legislazione nazionale. Cogliere l’obiettivo di riconvertire una parte significativa della massa edilizia urbana secondo criteri ecologici può diventare una grande opportunità economica, da aiutare con un ripensamento degli incentivi fiscali per il recupero (36%) mirato al risparmio energetico. I margini di convenienza sono determinati proprio dalla trascuratezza che per decenni ha caratterizzato la nostra edilizia in questo campo. L’energia consumata in cinque anni per il riscaldamento di un appartamento è pari a quella impiegata per costruirlo. Nel complesso queste funzioni coprono il 45% del consumo nazionale di energia. Curare l’ambiente urbano può diventare l’occasione per la crescita di un sistema di nuove imprese ecologiche e per innalzare il livello tecnologico dell’industria italiana delle costruzioni. Concrete esperienze di applicazione dei principi e delle tecniche della bioedilizia e della domotica stanno dimostrando, che i maggiori oneri di investimento iniziale sono largamente compensati dai minori costi di gestione a carico dei cittadini e della collettività. La normativa edilizia non può ridursi a formalismi, ma deve determinare obiettivi cogenti per il miglioramento della performance energetica e ambientale dell’insediamento residenziale o produttivo. Le reti urbane E’ il momento di condurre un bilancio della politica di trasformazione delle utilities dell’ultimo decennio. La trasformazione in spa attuata su larga scala ha indotto certamente effetti positivi. Rispetto alle vecchie e burocratiche municipalizzate, le nuove gestioni hanno introdotto metodi manageriali, ottenendo livelli molto più alti di efficienza e una maggiore focalizzazione sui risultati. È cambiato il mondo delle aziende pubbliche; è stata una delle maggiori riforme delle strutture di governo delle città. Proprio per questo è però necessario correggere gli aspetti meno positivi, i quali hanno essenzialmente origine da una commistione di compiti in capo al regolatore. Il potere locale, infatti, svolge rispetto alle aziende due mestieri non sempre convergenti. Da un lato, è proprietario e quindi portato a valorizzare gli asset e i dividendi; e dall’altro, come regolatore dei servizi è responsabile della loro efficacia. La presenza dei privati nella compagine azionaria spinge a privilegiare la funzione proprietaria piuttosto che quella regolativa. Inoltre la collocazione in borsa introduce inevitabilmente uno sguardo a breve nella conduzione dell’azienda e il timore di un giudizio negativo degli analisti scoraggia l’impegno verso ambiziosi piani di investimento per modernizzare gli impianti, a meno che non abbiano ritorni sicuri a breve termine. Ma le reti che si trovano a gestire le aziende hanno valore proprio perché i vecchi amministratori hanno fatto l’opposto, realizzando lungo tutto il corso del Novecento poderosi investimenti per adeguare i servizi alle diverse transizioni tecnologiche. C’è il rischio che il patrimonio ricevuto in eredità non sia arricchito nella stessa misura e di conseguenza si lasci alle generazioni successive qualcosa di meno. Ciò è già evidente nel ritardo con cui le città faticano ad affrontare le nuove frontiere tecnologiche delle reti urbane: il cablaggio in larga banda, la dotazione wire-less negli spazi pubblici aperti, la convergenza tra telefonia, televisione e internet, l’utilizzazione della rete elettrica per la trasmissione dati ecc.. Sono tutte opportunità lasciate ad iniziative sperimentali o alla sola iniziativa privata, peraltro in fase calante dopo la bolla delle new-economy. Manca la consapevolezza della necessità di adeguare il concetto stesso di rete urbana alle nuove opportunità tecnologiche. I nostri nonni sentirono l’esigenza di dotare la città dell’illuminazione pubblica come servizio per tutti. Noi dovremmo essere ancora più avvertiti nell’illuminare lo spazio urbano con il flusso di dati accessibile per tutti in banda larga. Lo stato attuale e il futuro delle reti merita quindi un’adeguata valutazione. Si devono definire gli standard di dotazione necessari per evitare un nuovo ritardo rispetto alle tendenze internazionali e allo sviluppo tecnologico. E’ necessario un piano strategico nazionale per l’ammodernamento delle reti urbane. Nella legislazione occorre comunque rafforzare l’importanza della funzione regolativa, finora troppo sacrificata dagli assetti societari, introducendo strumenti per la tutela e la crescita della qualità dei servizi, nella duplice accezione di più elevata capacità di risposta alle domande dei cittadini e di migliore uso delle risorse naturali. In tale prospettiva, è necessario un ripensamento delle politiche nel settore idrico, al fine di tutelare più fortemente la risorsa acqua come bene comune, garantendo l’effettivo status pubblico degli impianti e assicurando il livello ottimale degli investimenti e della sicurezza. Rimane aperta poi la questione del futuro delle aziende. Siamo in grado di far nascere un sistema di grandi imprese dei servizi dalla galassia delle migliaia di aziende locali? La questione riguarda un problema generale del Paese la cui struttura economica soffre la competizione internazionale proprio a causa del nanismo imprenditoriale, soprattutto nei servizi. Sarebbe quindi molto importante suscitare un processo di aggregazione delle realtà locali per creare dei gruppi imprenditoriali capaci di gestire le nostre città e di affacciarsi nel mercato internazionale che si va aprendo anche in tale direzione. Ci sono però due modi di organizzare tali processi, in un contesto monopolistico oppure concorrenziale. Nel primo caso le aggregazioni serviranno solo a proteggere meglio le rendite locali e difficilmente produrranno dei soggetti imprenditoriali veramente competitivi. Nel secondo caso vi sarà una selezione che eliminerà i parassitismi e farà emergere le forze più capaci di innalzare davvero la qualità dei servizi pubblici locali. Le utilities sono destinate ad un rapido processo di internazionalizzazione. Si vanno già affermando in Europa grossi player e il mercato offre molte opportunità nei paesi in via di sviluppo. Se l’Italia rinuncia a questa sfida non solo perde preziose opportunità, ma rischia nel lungo periodo di essere colonizzata dai gestori stranieri. La retorica dei gioielli di famiglia, ormai tanto invocata per difendere i monopoli, sembra volere il bene delle aziende, ma in realtà le condanna all’isolamento negando una prospettiva di sviluppo. Molte di esse hanno una storia imprenditoriale di tutto rispetto, costituiscono patrimoni preziosi di professionalità rare e di culture del servizio ben radicate nelle rispettive città. Le aziende non si difendono chiudendole al mercato, bensì aprendole a nuove sfide imprenditoriali e impegnandole in progetti di sviluppo. Siamo ancora in tempo per impostare una politica industriale dei servizi locali basata sullo sviluppo della concorrenza, sull’innovazione tecnologica, sugli investimenti nelle reti e sulle aggregazioni imprenditoriali. Sarà quindi necessario riprendere le politiche di liberalizzazione avviate dai governi di centrosinistra e sciaguratamente bloccate dalla destra. Si dovranno eliminare i protezionismi introdotti recentemente nelle legislazione, ma la leva normativa non sarà sufficiente, come non lo è stata in passato. Le città che più decisamente prendono la strada delle liberalizzazioni dovranno essere incoraggiate da incentivi nazionali, in linea con la competenza che, in base al Titolo V, rimane in capo allo Stato in materia di concorrenza. La risorsa anziani La condizione degli anziani sarà sempre più un aspetto determinante della vita urbana. L’invecchiamento della popolazione richiede un radicale ripensamento dell’organizzazione dei servizi e dei criteri del welfare locale. D’altronde, a livello nazionale, la questione degli anziani non autosufficienti è il nodo principale da affrontare nell’ambito della ripresa della politica sociale. E’ necessaria quindi una strategia coordinata tra Stato, Regioni e Comuni per creare una rete di servizi per la cura e l’assistenza degli anziani. Oggi i sistemi di offerta sono posizionati sugli scenari estremi, tra il massimo di rigidità e il massimo di sommerso: da un lato cooperative sociali che operano soltanto su commessa pubblica e dall’altro i servizi di cura forniti dagli immigrati, spesso clandestini. Non esistono vie intermedie. Eppure la domanda di cura è molto ampia e variegata e l’intervento comunale copre solo una piccola componente. Occorre quindi aiutare la crescita di un’imprenditoria sociale capace di corrispondere a tale domanda con servizi di qualità, vigilati dal pubblico, ma erogati in condizioni di mercato. In tale ottica l’amministrazione si concentra nell’accreditamento delle imprese e nell’assegnazione di sussidi modulati secondo le condizioni di reddito e i bisogni degli anziani. L’intervento pubblico è spalmato così su una popolazione più ampia e le condizioni di mercato consentiranno di qualificare le imprese che producono i servizi di cura. In esse sarà incentivato l’impegno degli stessi anziani che sono in condizione di lavorare, nella direzione del così detto invecchiamento attivo, che si va sviluppando anche nella gestione di alcune funzioni pubbliche. La crescita di una moderna impresa sociale è un obiettivo importante sia per l’inclusione sociale che per la crescita economica della città. A tale scopo vanno rafforzati anche gli incentivi per la creazione di nuove esperienze imprenditoriali che operano nel campo della solidarietà, ad esempio rilanciando l’esperienza avviata con la legge Bersani-Turco. 3. LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA E’ un dato di fatto, confermato da tante analisi recenti, che i luoghi più vitali di sviluppo corrispondono alle città più ricche di competenze, attrattive di cervelli, sedi di brillanti università, disponibili alla sperimentazione e aperte alla convivenza di diversi stili di vita. Nell’economia moderna non basta introdurre un po’ di tecnologia nei processi produttivi, occorre coltivare la creatività dei processi sociali che danno luogo all’innovazione. Le scuole della vita Le scuole costituiscono la rete più capillare e istituzionale della società della conoscenza. Oltre il compito primario, l’istruzione dei giovani secondo i diversi cicli scolastici, tale rete potrebbe assolvere anche ad altre funzioni culturali. Gli edifici scolastici possono diventare i luoghi in cui si intrecciano i tanti fili della trasmissione del sapere. Per questo hanno bisogno di cura. Lo stato di abbandono e di scarsa manutenzione è molto grave. Più della metà non sono neppure in regola con elementari norme di sicurezza. Al contrario, il segno che una società punta sul sapere dovrebbe essere prima di tutto la qualità dei luoghi in cui si fa scuola. E’ necessario un programma nazionale per l’edilizia scolastica con l’obiettivo di riqualificare le strutture esistenti, per farne i luoghi più belli e accoglienti del quartiere o della città, con architetture nuove, attrezzature didattiche di qualità, strumenti tecnologici e ampia dotazione di servizi. Ciò consentirà di svolgere meglio prima di tutto la funzione scolastica, accorpando nello stesso edificio diversi cicli e diversi indirizzi formativi, in veri e propri campus della scuola dell’obbligo. Dopo la ristrutturazione, questi edifici tanto ricchi di servizi dovrebbero essere utilizzati al massimo grado, non solo ripristinando il vero tempo pieno, ma tenendoli aperti giorno e sera. Innanzitutto, per riportare anche i genitori e gli adulti a studiare. L’educazione permanente è infatti in grave ritardo rispetto alla media europea. I campus potrebbero essere anche luoghi che favoriscono l’integrazione tra la scuola e la formazione professionale e in generale i rapporti con il mondo del lavoro, con particolare riferimento all’orientamento delle scelte lavorative; potrebbero diventare centri di iniziative contro l’evasione dell’obbligo scolastico e per il recupero di ragazzi in difficoltà. Le scuole rinnovate possono diventare luogo di coordinamento e di stimolo per iniziative rivolte a rendere i luoghi urbani a misura dei bambini e delle bambine, con interventi sugli spazi ludici, la mobilità pedonale e i servizi innovativi, secondo le migliori sperimentazioni realizzate in diverse città. Inoltre, dovrebbero essere spazi aperti alla sperimentazione e disponibili ad ospitare la libera creatività giovanile. Dalla musica, al teatro, all’arte, al multimediale, tutte le forme di espressione culturale dei giovani dovrebbero trovare nel campus la propria casa di produzione. E ancora, questi luoghi potrebbero diventare i terminali qualificati delle reti di comunicazione digitale, contribuendo all’alfabetizzazione tecnologica della cittadinanza e all’accesso ai nuovi servizi di e-government, all’educazione ambientale e alla conoscenza del rispettivo territorio, secondo i programmi che ciascuna realtà si vorrà dare. Nei nuovi edifici scolastici potrebbero trovare ospitalità i Laboratori di quartiere che aiutano i cittadini ad essere protagonisti delle trasformazioni urbane. La rete dei campus costituirebbe una potente realtà della cultura italiana, sostenuta dalle massime istituzioni culturali, aperta al contributo delle università, arricchita dagli apporti di intellettuali, artisti, scienziati e studiosi. Dovrebbe essere cioè un luogo di incontro tra i cittadini e i massimi livelli della produzione culturale nazionale. Università e sviluppo locale La presenza di una buona università è la risorsa più preziosa per lo sviluppo locale. Non solo per la funzione primaria di formazione dei giovani, ma anche per altri effetti indiretti. Se davvero si tratta di un buon ateneo sarà sicuramente in grado di trasferire i risultati della ricerca verso il tessuto produttivo e di introdurre nel contesto urbano un’attitudine alla sperimentazione, all’invenzione e al confronto di posizioni diverse. Tramite le connessioni della comunità scientifica, per sua natura globalizzata, l’università è il veicolo più importante di internazionalizzazione del territorio circostante. E di ciò hanno tanto bisogno le città che si aprono alla competizione mondiale e alle reti lunghe dei saperi. Tuttavia, queste relazioni orizzontali tra città e università sono molto deboli e per lo più lasciate al caso, senza il supporto di specifiche politiche pubbliche. Il mondo universitario viene tradizionalmente da una relazione verticale con lo Stato. Con il Titolo V, però, le Regioni hanno acquisito nuove competenze e in alcuni casi hanno assunto iniziative meritorie per il finanziamento di piani di sviluppo dei sistemi universitari, calibrati sulle vocazioni dei territori interessati. Tali progetti possono essere incoraggiati dal cofinanziamento statale secondo rigorosi criteri di qualità ed efficacia degli interventi, attingendo ad una quota del Fondo nazionale per l’università (FFO). I contributi statali debbono essere indirizzati al sostegno di progetti locali università-territorio, con esclusivo riferimento a quegli atenei che, in base al sistema nazionale di valutazione, dimostrano capacità di innovazione nella didattica, nella ricerca, nel trasferimento tecnologico e negli scambi internazionali. I suddetti contributi, insieme con gli interventi regionali, saranno anche finalizzati a rendere cogente la funzione di coordinamento delle università su base regionale, al fine di evitare sovrapposizioni inutili e di integrare al meglio le diverse offerte formative. Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti dannosi di un cattivo decentramento universitario che in molti casi, negli ultimi anni, ha fatto proliferare sedi distaccate di provincia senza alcuna qualità. Ma esistono anche esempi positivi di piccole città che hanno acquisito una proiezione internazionale proprio in seguito alla crescita di ottimi atenei. Tutto dipende dalla qualità: se si decentrano solo attività didattiche di basso livello, è uno spreco di risorse; se invece si fa buona didattica e soprattutto si svolge attività di ricerca, allora i nuovi poli diventano fattori propulsivi. I cattivi esempi non possono impedire di progettare un modo virtuoso di mettere in relazione l’università e i territori. Sarebbe una rinuncia ad un fattore decisivo di sviluppo locale. Frontiere tecnologiche Le città devono diventare i capoluoghi della ricerca avanzata. L’ambiente urbano si presta ad ospitare le attività connesse alle frontiere tecnologiche: biotecnologie, tecnologie della comunicazione, scienze ambientali e scienze della materia sono settori all’avanguardia e stanno determinando nuovi fenomeni nell’organizzazione dell’attività di ricerca e in particolare nelle sue relazioni con l’economia e la società. Esse sono caratterizzate da forti integrazioni tra diverse discipline, connessioni più ravvicinate tra ricerca di base e applicata, opportunità nella creazione di nuove imprese, forte domanda di giovani cervelli, ambiente sociale creativo e aperto alla sperimentazione. Anche nella ricerca è in atto una transizione di modelli organizzativi simile a quella che in economia ha portato al superamento del modello fordista: dal grande centro di ricerca pubblico o della corporation si passa alla rete di laboratori, dalla specializzazione tecnologica all’integrazione delle discipline, dalle grandi organizzazioni alla focalizzazione sui cervelli. Questi modelli postfordisti di ricerca e innovazione trovano nell’ambiente urbano il luogo naturale di crescita e diffusione. Occorre, quindi, incentivare nelle città italiane la nascita di forti distretti di alte tecnologie per realizzare, secondo le diverse vocazioni territoriali, progetti integrati tra università, enti pubblici di ricerca, imprese e fondazioni. I progetti riguarderanno il finanziamento della ricerca, il sostegno dell’offerta formativa, il trasferimento tecnologico, il credito e i servizi per le imprese innovative. Recentemente il governo francese ha annunciato un piano straordinario di circa due miliardi di euro per lo sviluppo di distretti hi-tech in 67 città francesi. Forse è un numero troppo alto, ma l’idea di utilizzare le città per il decollo della ricerca avanzata è una scelta lungimirante. Anche l’Italia deve dotarsi di un simile piano, affidando alle regioni la programmazione e la realizzazione di questi poli, che lo Stato contribuisce a finanziare sulla base di rigorosi criteri di qualità. In questo occorre dare priorità al Mezzogiorno, prima di tutto per arginare la nuova emigrazione intellettuale che rischia di impoverire le città meridionali, ma soprattutto perché le nuove tecnologie, al contrario, consentono di compiere il salto della rana, come è accaduto in altre regioni europee che sono riuscite a balzare ai massimi livelli della competizione mondiale pur partendo da situazioni di sottosviluppo. Mentre i distretti del made in italy e le politiche industriali conducono una lotta difensiva per migliorare il livello tecnologico delle produzioni mature, le città hi-tech tenteranno di passare all’attacco posizionando il Paese all’altezza delle frontiere tecnologiche. Le migliori risorse di sapere e di creatività delle città debbono essere impegnate per realizzare un balzo in avanti della ricerca italiana. Beni culturali Le recenti esperienze internazionali dimostrano che le risorse culturali possono diventare elemento essenziale per una strategia di sviluppo locale. Negli ultimi tre lustri alcune città italiane hanno ritrovato nuovo slancio a partire dal recupero e dal restauro di parti importanti dei rispettivi centri storici. Pensiamo, ad esempio, a come erano ridotte città come Roma, Napoli e Genova alla fine degli anni Ottanta, alla mestizia della vita urbana, alla perdita di prestigio, all’assenza di fiducia sul proprio futuro. La rinascita di queste e di tante altre città piccole e grandi si deve spesso al recupero di una piazza, al restauro di un monumento, all’apertura di un nuovo museo, alla riscoperta di valori urbani dimenticati. I beni culturali sono stati un veicolo formidabile per la riscoperta dei cittadini del senso di appartenenza, per il risveglio di economie locali basate sul buon vivere e per la visibilità internazionale delle città. Molte di queste realizzazioni sono state il frutto di leggi speciali che coglievano l’occasione di grandi eventi, dal Giubileo, alle Colombiadi, ad appuntamenti internazionali di carattere politico o sportivo. In Italia più che altrove dovrebbe, però, essere possibile realizzare questi interventi in via ordinaria. Non ci dovrebbe essere bisogno di grandi eventi per ricordarci che possediamo il prezioso – ma altresì, fragilissimo - patrimonio culturale apprezzato ed amato in tutto il mondo. Una programmazione ordinaria delle politiche urbane per i beni culturali consentirebbe di innalzare il livello di complessità e di integrazione degli interventi. Si potrebbero elaborare progetti organici che, partendo dalla individuazione dei beni da restaurare, definiscano i programmi urbanistici di riqualificazione del territorio circostante, le forme di gestione delle nuove strutture culturali, l’incoraggiamento alla crescita di nuove imprese culturali capaci di utilizzare tali opportunità, gli interventi di formazione per le nuove professioni richieste, la progettazione dei servizi turistici connessi, la comunicazione delle novità al largo pubblico, reale e potenziale. Se si esce dalla episodicità degli interventi, si colgono tutte le implicazioni culturali ed economiche delle realizzazioni, si favorisce il coordinamento di tutti i soggetti istituzionali e si aiuta la crescita della cultura progettuale del recupero urbano. I nostri beni culturali quasi mai sono riconducibili ad oggetti isolati e, anzi, costituiscono un reticolo originalissimo di valori monumentali, urbanistici e ambientali, vicendevolmente uniti da nessi logici, cronologici e culturali. Solo una visione organica degli interventi si può collocare all’altezza della qualità che abbiamo ereditato dalla storia italiana. Devono finire i tempi bui della vendita del patrimonio e si deve riprendere la politica dei beni culturali come leva decisiva della rinascita urbana. 4. LA CITTA’ DEL MONDO La fortuna di una città dipende ormai dalla sua capacità di trovare un ruolo nella dimensione internazionale. Molte amministrazioni comunali hanno meritoriamente avviato politiche di apertura agli scambi internazionali. Si tratta di attività complesse e difficili che non possono rimanere solo sulle spalle dei municipi. E’ interesse nazionale che le città contribuiscano a rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo. Per questo lo Stato deve aiutare gli enti locali inserendo queste politiche organicamente nelle attività di politica estera e costituendo apposite strutture di supporto presso i ministeri competenti. La capacità attrattiva Si parla molto di fuga dei cervelli, però il vero problema non è che i nostri vadano all’estero, bensì che pochi vengano in Italia. Ciò dipende da cause strutturali: una certa chiusura dell’università italiana verso i docenti stranieri, la debolezza dei laboratori di ricerca, la scarsa domanda delle imprese e recentemente anche le norme assurde della Bossi-Fini. Tuttavia, si può aiutare il superamento di tali limiti con progetti di accoglienza di scienziati, studiosi e inventori per periodi di insegnamento e di ricerca nelle nostre città. Ad esempio, si può incentivare la chiamata di docenti stranieri. Così, alcuni progetti di trasferimento tecnologico potrebbero essere sostenuti dal contributo di esperienza di esperti tecnologi che hanno realizzato con successo attività simili in altri paesi. Occorre migliorare l’attrattività degli studenti stranieri, oggi molto bassa rispetto alla media europea. Essi costituiranno le future classi dirigenti dei rispettivi paesi e quindi potranno contribuire in seguito a stabilire relazioni con le città italiane dove si sono formati. Anche nella fascia dell’obbligo gli scambi internazionali tra le scolaresche possono offrire importanti arricchimenti formativi. Sviluppo delle residenze universitarie e progetti cittadini di accoglienza degli studenti stranieri debbono essere oggetto di specifici programmi pubblici sostenuti dallo Stato. Il miglioramento del posizionamento internazionale deve riguardare anche le attività economiche. Purtroppo, le analisi recenti ci indicano una scarsa attrattività delle città italiane nei confronti degli investimenti esteri, solo Milano si attesta su standard europei. Negli ultimi anni sono cresciuti piani di marketing urbano, con risultati talvolta apprezzabili. Il sostegno statale può rafforzare queste attività. La nostra politica di commercio con l’estero deve avere uno specifico filone di attività nella promozione internazionale di progetti di valorizzazione urbana. Infine, sul turismo le tendenze sono purtroppo molto negative e le città italiane perdono terreno proprio per la debolezza delle nostre strutture promozionali. All’interno di un più generale rilancio della politica nazionale per il turismo occorrerà dare il rilievo adeguato alle bellezze e ai servizi delle città. Per avere maggiore forza di attrazione è utile promuovere l’integrazione di grandi sistemi urbani capaci di essere protagonisti in Europa e nel mondo. La scala delle singole città non è infatti sufficiente a posizionarsi nei grandi flussi internazionali. D’altro canto, con la realizzazione dell’alta velocità, i tempi di spostamento intercittà diventano paragonabili a quelli intracittà e ciò consente la gestione coordinata di grandi servizi metropolitani: università, fiere e centri congressi, aeroporti, reti culturali, centri di ricerca, servizi alle imprese ecc. Ad esempio, l’asse Torino-Milano può aspirare ad essere un polo di servizi avanzati a scala europea, Roma-Firenze-Napoli può essere un potente sistema turistico-culturale mondiale, le città del Mezzogiorno possono unire gli sforzi per migliorare il profilo internazionale. Un adeguato sostegno statale può favorire questi processi di aggregazione delle funzioni strategiche metropolitane. Società multietnica Le città sono il banco di prova della capacità del nostro Paese di governare la transizione verso la società multietnica tramite una maturazione del grado di civiltà e un salto di qualità dell’organizzazione collettiva. Le politiche di accoglienza sono la condizione decisiva per fare dell’immigrazione una ricchezza sociale e culturale ed evitare la regressione xenofoba. Tale impegno non può essere lasciato solo sulle spalle degli amministratori locali, né lo si può affrontare con le sole ordinarie politiche sociali. E’ necessario un contributo forte dello Stato a sostegno di alcune dimensioni cruciali dell’accoglienza, in particolare: l’abitazione, la formazione, l’integrazione culturale e politica. Se non vogliamo rivedere le baraccopoli, ancora più disperate di quelle determinate dall’immigrazione interna degli anni Sessanta e che sembravano definitivamente scomparse dai nostri paesaggi urbani, occorre una politica abitativa che consenta agli immigrati di vivere dignitosamente nella città in cui lavorano. Occorre rilanciare la politica sociale per la casa a favore dei redditi bassi e introdurre meccanismi incentivanti dell’offerta privata per l’affitto calmierato. Non c’è un soluzione separata per gli immigrati, al contrario l’immigrazione rende evidente la necessità di riprendere una politica abitativa che era stata archiviata e che invece costituisce un’esigenza fondamentale per i cittadini meno abbienti sia italiani che stranieri. La scuola è il luogo decisivo per l’integrazione culturale e per la crescita di un costume aperto alle differenze. Oggi, gli insegnanti si trovano ad affrontare da soli un passaggio cruciale dell’istituzione scolastica, chiamata a rispondere ad una domanda di formazione che viene dalle culture più diverse. Occorrono interventi mirati per la formazione degli insegnanti al fine di metterli in grado di corrispondere alle nuove esigenze. I contenuti dell’insegnamento devono aprirsi al confronto multiculturale. Le scuole devono essere dotate di figure di sostegno per superare le barriere linguistiche e di costume che si frappongono ad un sereno processo di apprendimento. Non si può continuare ad utilizzare la risorsa lavoro degli immigrati senza occuparsi adeguatamente anche della loro formazione professionale. Molto spesso si tratta di persone con una buona formazione di base che non viene valorizzata; la percentuale di laureati è addirittura superiore a quella degli italiani. Progetti mirati di formazione possono migliorare la condizione e l’efficacia dell’attività lavorativa degli immigrati. Di grande successo sono state ad esempio le attività di formazione delle badanti intraprese da alcune amministrazioni comunali. Queste ed altre iniziative devono avere il pieno sostegno di politiche nazionali per l’accoglienza. Infine, per una vera integrazione è indispensabile il riconoscimento dei diritti politici. Una città davvero accogliente deve consentire agli immigrati di partecipare alle decisioni pubbliche. Diversi Comuni hanno realizzato esperienze innovative di elezione di rappresentanti degli immigrati nei Consigli, con esiti molto positivi sul piano concreto e su quello simbolico. Tali innovazioni dimostrano che è ormai matura l’esigenza di una nuova legislazione nazionale per il voto agli immigrati. Politiche europee Le amministrazioni pubbliche hanno imparato, dopo tante difficoltà, ad acquisire finanziamenti europei per progetti di recupero urbano, ma c’è ancora molto da fare per raggiungere l’attitudine di altri paesi. Maggiore attenzione e competenza tecnica vanno dedicate alle possibilità di finanziamenti di infrastrutture tramite la Banca europea degli investimenti. L’esperienza dei progetti Urban ha consentito di introdurre una metodologia nuova di integrazione degli interventi urbanistici, sociali e formativi nelle aree di disagio urbano. A partire dai migliori risultati occorre un ulteriore sviluppo e un consolidamento di questo approccio. Nel prossimo programma quadro europeo gli Urban saranno collocati all’interno dei piani di attuazione regionale. Sarà però necessario mantenere a livello nazionale un osservatorio per promuoverne la qualità dei progetti e coordinarli con altri interventi statali. Inoltre, sono nate molte reti europee di città su diversi obiettivi; spesso costituiscono preziosi luoghi per l’innovazione dei metodi di governo, l’incentivazione della ricerca sui servizi urbani e lo scambio tra diverse esperienze. Lo Stato ha guardato con indifferenza tali politiche e invece potrebbe avere una funzione positiva, sostenendo i progetti migliori, promuovendo la partecipazione italiana alle reti e impegnandosi per portare nel nostro Paese sedi di agenzie, infrastrutture e grandi servizi di carattere europeo. La comunicazione Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano (COM 2004/60) e il lavoro successivo ancora in corso preludono ad un prossimo provvedimento comunitario in materia. Quel documento intende rilanciare le politiche europee per la sostenibilità e la qualità socio-ambientale delle città, in sintonia con approccio ribadito dalla Convenzione di Aalboorg+10 e dagli impegni assunti dalle reti urbane dell’Agenda 21, con particolare riferimento alla necessità di più rigorose scelte di pianificazione urbanistica. Il governo italiano dovrà svolgere un ruolo di punta nella discussione sulla politica europea per le città, sollecitando la definizione di programmi specifici e aumentando la quota dei finanziamenti. Nell’Amministrazione sarà necessaria una struttura dedicata al coordinamento della presenza italiana nelle politiche europee per le città. Si tratta altresì, in buona sostanza, di sostenere un ruolo attivo delle città italiane nella maturazione dei processi decisionali comunitari, in particolare sui temi che le riguardano da vicino. Non solo, quindi, terminali seppure qualificati, di spesa, ma protagonisti nella analisi e nella elaborazione di obbiettivi e strategie. Non sono certo mancate iniziative e ricerche che tante città hanno fatto su questo fronte, così come straordinarie esperienze di elevata qualità progettuale, ma si è avvertito chiaramente l’assenza della politica nazionale. Le città e le regioni, infatti, sono state spesso lasciate sole su di un fronte che merita, al contrario, il massimo sostegno ed attenzione da parte governativa. Mediterraneo Il Mediterraneo torna ad essere un grande crocevia degli scambi internazionali in campo politico, economico e culturale. La crescita dell’Oriente innesca un nuovo flusso economico che pervade il vecchio mare e restituisce alle antiche rotte un primato perduto da tanto tempo. E’ una straordinaria occasione per quel grande molo che è l’Italia. In particolare le sue città di mare si trovano ad essere le porte di accesso della nuova configurazione geoeconomica del Mediterraneo. Anche nel basso Medioevo il risveglio degli scambi determinato dall’espansione araba fu raccolto prima di tutto dalle repubbliche marinare e poi si propagò verso l’interno facendo fiorire la civiltà comunale. Analogamente, ai tempi nostri per superare il declino occorre rafforzare le città di mare, con particolare riferimento al Mezzogiorno. C’è tutta un’economia che va sostenuta con interventi strutturali sulla portualità, con la qualificazione dei servizi logistici, con l’attivazione delle autostrade del mare che collegano diverse città alleggerendo le infrastrutture interne. Ma non si tratta solo di una politica nazionale. Mediterraneo ed Europa sono, per molti versi uno scenario unitario sul quale le nostre città possono svolgere un ruolo peculiare. L’Italia come sistema paese deve quindi essere protagonista delle politiche euromediterranee. Lo spazio mediterraneo, luogo di scambi e di confronti, trova nelle politiche per l’economia marittima e per la portualità un punto di iniziativa assolutamente prioritario. Occorre pianificare le infrastrutture e i servizi per fare della penisola una vera e propria piattaforma logistica verso il mare. Per tanto tempo si è caricato tutto il peso della logistica sul territorio interno, già molto delicato per ragioni geografiche e storiche, senza utilizzare i vantaggi che vengono dal fatto di essere una penisola circondata dal mare. A partire dai porti occorre ripensare la rete ferroviaria al fine di realizzare elevati gradi di integrazione modale e di sviluppare standard adeguati di servizi logistici, superando strozzature del tessuto urbano che moltiplicano disagi, conflitti e perdita di competitività. Ridare centralità ai nostri porti ed alla economia ad essi connessa, significa, quindi, affrontare anche e con profondità, il sistema porto-città, sia in termini urbanistici che nelle relazioni istituzionali tra autorità portuali e poteri locali. La separazione ha prodotto nel passato danni enormi. Le città di mare sono fisicamente isolate proprio dall’elemento che le caratterizza a causa di fratture e sbarramenti che hanno prodotto ampie zone di degrado. Oggi si presenta l’occasione per recuperare immense aree demaniali e ricostruire un rapporto positivo tra la strutture urbane e il mare. La riqualificazione dei waterfront è l’occasione per rinnovare le strutture urbanistiche, le funzioni culturali e il senso di appartenenza dei cittadini, attraverso programmi integrati di intervento sulle infrastrutture, sull’economia e sulla qualità della vita. Il Mediterraneo è anche lo spazio del confronto culturale tra le diverse civiltà che da millenni lo attraversano. Le città possono essere luoghi di accoglienza, di rispetto delle differenze, di elaborazione della civiltà multiculturale. A tal fine si deve sostenere il lavoro di associazioni e istituzioni che operano nel campo della cooperazione, della ricerca e degli scambi culturali con i paesi rivieraschi. Le università devono essere incentivate ad accogliere studenti dai paesi arabi ed a promuovere ricerche comuni con altre università del Mediterraneo. Nella Palermo di Federico II cristiani d’oriente e d’occidente, ebrei e arabi non solo convivevano pacificamente, ma dalla influenza reciproca facevano scaturire le produzioni culturali più elevate, dalla filosofia, all’arte, al diritto, alle tecniche. Qualcosa di simile possono diventare le città italiane nell’epoca della multiculturalità. 5. STRUMENTI DI GOVERNO Il primo strumento per governare questi processi non è di tipo amministrativo, ma squisitamente politico: è la decisa volontà di assumere la qualità urbana come grande priorità della politica nazionale. Ciò comporta una radicale inversione di tendenza rispetto alla politica del centro destra, che ha considerato il sistema delle autonomie come una riserva da utilizzare per tagli ed imposizioni di diversa natura. Il grido d’allarme lanciato dalle Regioni e dall’Associazione dei Comuni ha messo in evidenza i guasti profondi, anche di lungo periodo, che simile politica rischia di determinare. Siamo in presenza di un tentativo di ritorno centralistico che va in collisione con il processo riformatore di stampo federalista, ormai maturato nelle istituzioni e nella società italiana. Si tratta di riprendere questo percorso. L’impianto autonomistico del Titolo V consente ampi margini per impostare nuove politiche nazionali per le città. L’intervento statale deve essere un’occasione in più per attuare il dettato costituzionale e certo non per metterlo sempre in discussione. Opposta è la direzione intrapresa dalla recente “legge per le città”, un provvedimento inutile, privo di risorse finanziarie, che ricorre addirittura alla dichiarazione di interesse nazionale per normali varianti urbanistiche, con l’intento di riportare ad un antistorico controllo centralistico il governo delle trasformazioni urbane. Le politiche indicate nei capitoli precedenti, al contrario, devono essere attuate lasciando ampia autonomia ai governi locali. La concertazione tra i diversi livelli istituzionali, in primis tra lo Stato e le Regioni, dovrà offrire nuove opportunità ai progetti di sviluppo locale elaborati dalle amministrazioni comunali. In particolare si possono distinguere tre tipi di intervento statale. In primo luogo, l’intervento legislativo per la parte di competenza, in modo da offrire regole certe e moderne su cui impostare le politiche locali. Nel corso dell’esposizione si è fatto cenno alle più urgenti esigenze di riforma legislativa, a partire da un’organica revisione delle norme per il governo del territorio. In secondo luogo, vi sono ordinarie politiche statali che producono effetti sulle città per il tramite delle procedure regionali, come, ad esempio, nel caso della cura degli anziani, del risparmio energetico e della politica della casa. Inoltre vi sono programmi speciali che richiedono la concertazione di diversi livelli istituzionali e la stipula di contratti di programma, come ad esempio per il patrimonio, i poli universitari e della ricerca e per le città di mare. La combinazione di questi diversi elementi deve rientrare in una progettazione organica della trasformazione urbana. Diverse città hanno intrapreso l’esperienza dei piani strategici che rispondono proprio a tale esigenza. A partire da un bilancio di queste iniziative si possono individuare le modalità per una generalizzazione dello strumento. In tale prospettiva il sostegno statale andrebbe a rafforzare strategie organiche di sviluppo locale, evitando così di disperdere in mille rivoli le risorse pubbliche. Inoltre, lo strumento del piano strategico consente di introdurre una base competitiva per l’accesso al finanziamento statale, in modo da premiare le migliori progettualità e stimolare la capacità di programmazione dei governi locali, pur rispettandone l’autonomia.