nota a sentenza in materia di truffa contrattuale
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nota a sentenza in materia di truffa contrattuale
NOTA A SENTENZA IN MATERIA DI TRUFFA CONTRATTUALE La sentenza in disamina affronta – tra le altre – la specifica tematica della configurabilità del delitto di truffa contrattuale, nell’ambito di operazioni poste in essere sui mercati finanziari e, segnatamente, concernenti titoli ad alto rischio. Nel compendio motivazionale, il Giudice, all’esito della ricostruzione del fatto storico, correttamente procede ad una approfondita valutazione circa la fattispecie di truffa in ambito negoziale, enucleando i profili oggettivamente e soggettivamente rilevanti del reato de quo. In primo luogo, attenendosi al costante e consolidato (seppur risalente) orientamento giurisprudenziale, il Giudice procedente introduce i criteri ermeneutici per individuare l’elemento materiale del reato di truffa contrattuale; nello specifico, si legge nel provvedimento in commento che “è configurabile il reato di truffa, nella specie contrattuale, quando il "dolus in contrahendo" si manifesti attraverso artifici o raggiri che, intervenendo nella formazione del negozio, inducono la controparte a prestare il proprio consenso e cioè quando sussiste un rapporto immediato di cause ad effetto tra il mezzo o l’espediente fraudolentemente usato dall’agente e il consenso ottenuto dal soggetto passivo, sì che questo risulta viziato nella sua libera determinazione” (Cass. pen. sez. II, 27.10.1986-17.2.1987, n. 2041). Pertanto, si reputano sussistenti gli estremi della truffa contrattuale “ogniqualvolta uno dei contraenti ponga in essere artifizi o raggiri diretti a tacere o a dissimulare fatti o circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal concludere il contratto (Cass. pen. sez. VI, 13.2.1987-8.5.1987, n. 5705; in senso conforme sulla rilevanza del silenzio maliziosamente serbato circa clausole, fatti o circostanze rilevanti al fine della conclusione del contratto: Cass. pen. sez. II, 18.12.1995, n. 2333)1. Nel caso che occupa, non vi sono ragioni per disattendere gli orientamenti sopra enunciati; la condotta del promotore finanziario, invero, così come acclarata all’esito del dibattimento, certamente è tale da indurre in errore il contraente, stante l’omissione di informazioni, in astratto ed in concreto, determinanti ai fini di una 1 Conforme al citato orientamento, Corte di Casaszione, Sezione II, sentenza 27 luglio 2012, n.30798, la quale afferma che in materia di truffa contrattuale anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra l’elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato di truffa. Pertanto, la rilevanza giuridica del silenzio serbato dal soggetto agente è strettamente legata ad uno specifico dovere giuridico di far conoscere le circostanze oggetto del negozio. Orbene, nel caso che occupa, detto principio appare attinente al caso concreto ed alla particolare figura professionale ricoperta dall’imputata. 1 corretta valutazione del negozio giuridico. Peraltro, come pure rileva correttamente il Giudice di merito, si tratta di un contegno omissivo per così dire “qualificato”, atteso che i soggetti che operano nell’ambito del mercato di strumenti finanziari, sono destinatari di specifici obblighi di informazione in favore dei sottoscrittori. Non a caso, il Giudice procedente afferma come “il punto di partenza non può che essere costituito dal fatto che l’art. 31 del D.Lgs. n. 58/98 dà una definizione precisa del promotore finanziario, soggetto che, dopo le modifiche apportate al citato Decreto dal D.Lgs. n. 164/07 di attuazione della direttiva comunitaria c.d. Mifid, appare distinto anche dal consulente finanziario di nuova istituzione previsto dall'art. 18 bis TUF”. Dunque, “secondo tale norma, il promotore finanziario è semplicemente colui che, per conto dei soggetti abilitati, esercita fuori sede (ovvero fuori dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio o l'attività) l'offerta di strumenti finanziari ovvero i servizi e attività di investimento. Trattasi di una persona fisica che esercita professionalmente l'offerta fuori sede come dipendente, agente o mandatario nell'interesse esclusivo di un solo soggetto”. Pertanto, nel caso del promotore finanziario, “il cliente confida sulla struttura bancaria nel suo complesso per la conclusione e l'esecuzione del contratto, non contraendo alcun diretto impegno contrattuale con il promotore, tanto è vero che, a maggiore garanzia del cliente, il comma 3 dell'art. 31 TUF prevede che il soggetto abilitato che ha conferito l'incarico al promotore risponde in solido dei danni arrecati a terzi da questi, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale. L'investitore si aspetta, dunque, tanto dal promotore finanziario, quanto dal dipendente bancario, un comportamento diligente, corretto e trasparente, teso a servire al meglio i propri interessi (art. 21 lett. a) TUF); che costoro acquisiscano le informazioni necessarie da lui e che operino in modo da fornirgli adeguate informazioni (art. 21 lett. b) TUF); che utilizzino comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti (art. 21 lett. c) TUF come inserita per effetto del D.Lgs.n. 164/07)”. Tutto ciò premesso, appare un punto nodale del provvedimento in commento, non tanto l’aspetto relativo al contegno omissivo idoneo a determinare l’erroneo convincimento dei contraenti, quanto quello relativo all’individuazione 2 dell’ingiusto profitto conseguito dall’imputata, sostanziatosi – ad avviso del giudicante – nella percezione di indebite provvigioni. Invero, la condotta contestata all’imputata attiene all’avere, in qualità di promotore finanziario della Intra Private Bank S.p.a., avere indotto le persone offese ad eseguire alcune operazioni di investimento in borsa consistenti nell’acquisto di titoli e prodotti finanziari attraverso artifici e raggiri, consistiti nella prospettazione dell’investimento in termini di sicurezza rispetto al capitale investito, sottacendo maliziosamente le reali caratteristiche delle operazioni e l’aleatorietà delle stesse rispetto alla garanzia della restituzione del capitale investito, in tale modo procurandosi un ingiusto profitto pari alle provvigioni ottenute, con correlativo danno per i clienti. Si afferma anche, nel corpo delle motivazioni, che “in tema di truffa negoziale, la sussistenza dell’ingiusto profitto e del correlativo danno non è esclusa dal fatto che il raggirato abbia effettuato quella prestazione che in base al contratto appariva giusta ed equa, quando risulti che la prestazione stessa non sarebbe stata eseguita senza l’impiego dei raggiri” (Cass. pen. sez. VI, 14.6.1983, n. 274). Orbene, non vi sono dubbi sulla circostanza che il Giudice di merito abbia aderito alla prevalente e costante giurisprudenza di legittimità, nella sussunzione del fatto storico, così come accertato, nell’ipotesi di truffa contrattuale aggravata, sanzionata ai sensi degli artt. 640 e 61 n. 11 c.p.. Pur tuttavia, un elemento che avrebbe potuto costituire oggetto di ulteriore approfondimento difensivo concerne l’assunto che il conseguimento della provvigione, possa costituire “ingiusto profitto”, quale elemento costitutivo della fattispecie in parola. In altri termini, il consequenziale sviluppo logico-giuridico del percorso argomentativo seguito dal giudicante, comporterebbe che solo a seguito del verificarsi di quelle condizioni di rischio tali da comportare un depauperamento della quota capitale investita, la percezione della provvigione per l’operazione finanziaria assumerebbe il carattere dell’illiceità. Diversamente, quel medesimo compenso non sarebbe espressivo di alcun disvalore. Invero, i contratti oggetto di valutazione non sono connotati da alcun vincolo sinallagmatico corrente tra il promotore ed il contrante. Per di più, il promotore finanziario non è certamente “parte contrattuale” in senso tecnico. Di talché, il conseguimento di un beneficio patrimoniale per il promotore finanziario non 3 consegue necessariamente alla deminutio patrimonii, in danno del soggetto passivo. Paradossalmente, dunque, nel caso in cui l’investimento non produca perdite (ancorché avvenuto con modalità analoghe al caso che occupa, e dunque in violazione degli obblighi di informazione ampiamente enucleati), il diritto alla provvigione sarebbe del tutto lecito, legittimo e giuridicamente tutelato. Viceversa, il verificarsi di una perdita di capitale, pur connessa all’alea fisiologica del rapporto contrattuale in parola, renderebbe “illegittima” la percezione della provvigione, inquadrandola nell’alveo del concetto giuridico di “ingiusto profitto”. V’è da dire, inoltre, che nel caso che occupa, il compenso del promotore è comunque “mediato”, passando attraverso l’istituto bancario di riferimento e non promanando direttamente dalla persona offesa. La soluzione prospettata dal giudicante, passa attraverso l’inquadramento del momento consumativo del reato, paventando l’ipotesi di tentativo, ai sensi dell’art. 56 c.p., per il caso di mancata perdita di capitale. Il Giudice, anche in questo caso, recepisce il corrente orientamento della Suprema Corte, evidenziando che “la truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la "deminutio patrimonii" del soggetto passivo. Sicché, nell'ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l’obbligazione della "datio" di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato” (Cass. pen. Sez. U., 21.6.2000, n. 18). Ebbene, per adeguare il principio di diritto così massimato al caso concreto, si perviene all’assunto che “l’operazione può concludersi positivamente per il cliente come anche negativamente. Nel primo caso, l’evento dannoso non si verifica per cause indipendenti dalla volontà del soggetto attivo; nel secondo caso, al contrario, la condotta ingannatoria posta in essere dal funzionario di banca ha prodotto le conseguenze dannose astrattamente possibili, stante la natura aleatoria del contratto stipulato. Dunque “sotto il profilo giuridico, nel primo caso la mancanza dell’evento determina la necessità di valutare la condotta in termini di astratta idoneità e non equivocità a produrlo, secondo lo schema del delitto tentato di cui agli artt. 56, 640 c.p.”. Ed ancora, si legge che “avendo ad oggetto la truffa proprio la stipula di un contratto fortemente aleatorio (nel caso concreto, n.d.r.), sussiste l’astratta idoneità e univocità della 4 condotta a produrre l'evento dannoso, essendo insito nelle caratteristiche del negozio giuridico concluso il rischio del danno. Sotto questo aspetto, del resto, i contratti in questione non prevedevano la possibilità di modificare le caratteristiche ed i contenuti dell’investimento finanziario effettuato, sicché o l’operazione veniva portata a compimento nei termini pattuiti, ovvero il cliente assumeva tutti i rischi di un recesso anticipato. Se il danno, invece, si verifica […] la truffa non è meramente tentata, bensì consumata”. Orbene, per il giudice estensore, il peculiare carattere dei contratti in disamina renderebbe – in astratto – perseguibile il promotore che tacesse i rischi connessi all’investimento, a titolo di tentativo per il caso di mancata perdita ed a titolo di delitto consumato, allorché si realizzassero perdite di capitale. Pur tuttavia, tale soluzione non appare sufficientemente idonea a spiegare come il profitto connesso ad una attività lecita e regolamentata, seppure prestata in violazione dei succitati obblighi informativi, possa o debba essere ritenuto illegittimo. D’altra parte, in punto di fatto, si afferma che “la truffa ipotizzata dal P.M. ha ad oggetto un particolare tipo di contratto, e cioè un negozio giuridico relativo all’acquisto di un prodotto finanziario caratterizzato da un’elevata potenzialità utilitaristica, correlata, però, ad un altrettanto elevato rischio di perdita, anche del capitale, legato all’andamento, futuro ed incerto, dei mercati finanziari. Se il mercato finanziario è in crescita i profitti sono elevati; al contrario, aumentano i rischi di perdita del capitale. Il consulente titoli di una banca che, nascondendo maliziosamente al cliente le reali caratteristiche del contratto, lo induce a sottoscrivere l’acquisto di un simile prodotto finanziario, nella erronea convinzione di acquistare un prodotto finanziario ad alto rendimento, sebbene in assenza di rischi di perdita del capitale originariamente investito, è consapevole della sussistenza di un’astratta possibilità di provocare danni all’ignaro cliente, tenuto conto dell’alea sottesa al negozio giuridico”. Dunque, si comprende come la prospettiva del Tribunale sia polarizzata eminentemente sulla ascrivibilità del silenzio serbato dal promotore finanziario agli artifizi e raggiri tipici del delitto di truffa, senza meglio specificare e circostanziare come detto contegno abbia determinato, appunto, l’ingiusto profitto parimenti richiesto dalla fattispecie incriminatrice. Tale discorso si è reso necessario, poiché le Difese in sede di discussione finale si sono a lungo concentrate sulla ritenuta assenza di un danno economico e sul 5 contesto altamente critico dell’intera economia nell’ultimo decennio, con argomentazioni tuttavia utili al più a qualificare la truffa come tentata e non consumata, ma non certo ad escluderne la sussistenza. Pertanto, un tema che avrebbe potuto essere ulteriormente sviluppato in una prospettiva difensiva, è quello afferente alla inquadrabilità della provvigione nell’alveo dell’ingiusto profitto. Invero, escludendo che detta provvigione abbia siffatto carattere di ingiustizia e, soprattutto che detta prestazione non sia conseguenza, diretta od indiretta, del verificarsi dell’evento dannoso, si potrebbe pervenire ad escludere la sussistenza del reato, nei suoi elementi costitutivi materiali. *** Quanto all’elemento soggettivo, il Giudice procedente perviene all’affermazione che, nel delitto di truffa, “esso è costituito dal dolo generico, diretto o indiretto, avente ad oggetto gli elementi costitutivi del reato (quali l’inganno, il profitto, il danno), anche se preveduti dall’agente come conseguenze possibili, anziché certe della propria condotta, e tuttavia accettato nel loro verificarsi, con conseguente assunzione del relativo rischio; per cui è priva di rilevanza la specifica finalità del comportamento o il motivo che ha spinto l’agente a realizzare l’inganno” (Cass. pen. sez. VI, 7.11.1991, n. 470). Tale asserto, allora, consente di poter giungere alla conclusione che il dolo della truffa possa manifestarsi anche nella forma del dolo eventuale. Siffatta affermazione non appare censurabile, né pone particolari problemi ermeneutici. Pur tuttavia, nell’affermare che “sussiste dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il rischio di cagionarle. Al contrario, quando si entra nel campo della probabilità, specie quando la realizzazione del fatto si presenti all’agente altamente probabile – e sarà lo stesso concreto accadimento a segnare la linea di demarcazione – non si può ritenere che il colpevole si limiti ad accettare il rischio dell’evento, ma accettando l'evento, lo vuole, sicché versa in dolo diretto e non eventuale (Cass. pen. Sez. U. 14.2.1996, n. 3571), il giudice manifesta l’intendimento di estendere l’ambito del dolo alla mera rappresentazione della mera “possibilità” del prodursi dell’evento dannoso. Detto canone ermeneutico, pur conforme ai dettami della citata giurisprudenza di legittimità, non appare 6 attagliarsi ai casi di contratti aleatori, quali – appunto – quelli afferenti il mercato degli strumenti finanziari. In tal caso, la possibilità del prodursi di una perdita patrimoniale è strettamente connessa allo strumento contrattuale medesimo; di talché, un simile criterio interpretativo renderebbe quasi del tutto superfluo l’accertamento del dolo, atteso che la possibilità di una perdita è in re ipsa. Dunque, il principio enunciato potrebbe essere oggetto di rivalutazione in chiave difensiva, allorché la mera possibilità astratta del verificarsi di un qualsivoglia evento dannoso non può essere espressiva di dolo, ancorché eventuale, se non in presenza di indici concreti che denotino una effettiva e circostanziata, sulla base di elementi oggettivi, che un danno possa prodursi. Nel caso che occupa, la somministrazione di strumenti finanziari ad alto rischio, non consente – di per se stessa – di ritenere imminente o possibile un danno patrimoniale, a maggior ragione ove il soggetto agente confidasse nella propria competenza per massimizzare i profitti. Eppure, un simile accertamento – in concreto – della sussistenza del dolo, seppure nella forma del dolo eventuale, appare sostanzialmente disattesa. D’altra parte, il nodo centrale del provvedimento in commento, è proprio quello relativo alle peculiarità del negozio giuridico relativo all’acquisto di un prodotto finanziario, contratti intimamente legati all’andamento dei mercati finanziari e connotati dalla loro tendenza al rischio di perdita del capitale e dalla propensione del cliente a conseguire un futuro (e possibilmente elevato) rientro economico proporzionale al pericolo patrimoniale assunto. Il promotore, pertanto, deve tenere ben presente l’alea sottesa a tale tipologia contrattuale e deve darne conto e chiara illustrazione al cliente, convincendolo ad acquistare un prodotto delle cui reali caratteristiche sia ben consapevole perché puntualmente informato, in ossequio al rispettivo dovere di informazione e diritto di essere effettivamente informato. Sull’argomento si noti un pregevole contributo secondo il quale si ritiene che «per essere valida ed esistente la causa aleatoria sottesa al contratto derivato, i rischi che la costituiscono devono essere stati consapevolmente assunti dalle parti e distribuiti tra di esse, anche se non necessariamente in modo eguale, quanto meno in modo proporzionato. E sussiste tale proporzionale e reale reciprocità e bilateralità dell’alea solo se le modalità di calcolo ed ogni elemento utile per le valutazioni del rischio siano stati previamente e ampiamente conosciuti e consapevolmente concordati dai due contraenti. In termini concreti, è necessario che “le regole del gioco” e le procedure di calcolo (da cui, ad esempio, dipende la percezione dell’alea e la possibilità di ponderare e accettare il connesso rischio) siano condivise prima della sottoscrizione del derivato. Affermata Dottrina in materia di contratti aleatori sul punto è chiara. Equiparata l’operatività in derivati al gioco e scommesse autorizzate in cui “bilateralità non significa che debbano esservi due prestazioni paritetiche sotto il profilo del sacrificio patrimoniale [posto 7 che] l’eventuale sperequazione tra le due prestazioni è sopportabile alla luce della considerazione che le prestazioni dedotte sono state assunte in funzione di rischio, ovvero non in termini di corrispettività, ma al fine di lucrare sull’incertezza” (G. Di Giandomenico, I Contratti Speciali – I Contratti Aleatori, op. cit., 148; conf. con la più volte citata Corte d’App. Milano, 18 settembre 2013), la validità del relativo contratto è condizionato alla presenza di una distribuzione dell’alea proporzionata e coerente con le poste in gioco e al fatto che le regole del gioco siano conosciute da entrambe le parti (G. Di Giandomenico, I Contratti Speciali – I Contratti Aleatori, op. cit., 149). Traslato tale ovvio principio al contratto derivato, si conclude che l’investitore può scientemente e validamente accettare il rischio collegato all’operazione in derivati solo se la banca non si sia limitata a fornirgli generiche informazioni sui derivati o sul mercato finanziario, ma abbia con esso previamente condiviso tutte le informazioni relative al pricing del derivato sottoscritto, all’eventuale up front, all’andamento storico dei tassi e degli indici, agli schemi finanziari e alle proiezioni probabilistiche relative agli indici che influiscono 8 nella quantificazione dei nozionali»2. *** Da ultimo, al fine di poter meglio scrutinare la sentenza tiburtina, si ritiene doveroso un breve cenno sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 c.p. relativa alla prestazione d’opera, la quale postula che l’agente approfitti della particolare relazione con la vittima sorta proprio dalla prestazione della sua opera in favore dell’offeso stesso ovvero, in ragione di tale prestazione, egli instauri un legame con la vittima tale da facilitarne l’abuso. Quindi, dirimente è l’esistenza di una particolare fiducia riposta nell’agente3, infatti ciò che rileva è l’abuso della relazione fiduciaria da parte dell’autore, il quale profitta di una situazione di minorata attenzione della vittima, stante l’affidamento riposto nell’opera dell’altro, che invece commette un reato a suo Zuccarello A., in Nota alla recente giurisprudenza in materia di contratti derivati: il concetto di “alea razionale” quale criterio di valutazione della validità della causa, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 8, 2014. 2 Al fine di meglio illustrare il concetto in parola, si noti che «in materia di rapporti tra una associazione non riconosciuta ed il suo Presidente, è stato affermato che in tema di appropriazione indebita, ai fini della ricorrenza della circostanza aggravante comune della prestazione d’opera è sufficiente l’esistenza di qualsiasi rapporto, anche di mero fatto, da cui sia derivato, in capo all’agente, il possesso della cosa che ne abbia consentito una più facile appropriazione, in virtù della particolare fiducia in lui riposta» (Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 3639/16). 3 danno4. Anzi, pare ancor più corretto sostenere che, nella relazione della prestazione d’opera, è il carattere di “abuso” a costituire il nucleo essenziale della circostanza di cui all'art. 61 n. 11 c.p.5 È quindi palmare che l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera implichi un concetto più esteso di quello civilistico di “locazione d’opera”, comprendendo anche tutti i casi in cui, a 6 qualunque titolo, taluno abbia prestato ad altri la propria opera . Ne consegue che vi rientrano anche i contratti di diritto privato nei quali i rapporti giuridici regolati comportano l’obbligo di un “facere” e, quindi, di una prestazione d’opera (come, ad esempio, il rapporto di mediazione). Tuttavia, benché l’aggravante in parola sia configurabile in presenza di rapporti giuridici anche 4 “Premesso che l’aggravante dell’abuso di prestazione di opera concerne tutti i rapporti giuridici che comportano un obbligo di fare e instaurino tra le parti un rapporto di fiducia non meramente occasionale o estemporaneo, ovvero di semplice amicizia o favore, il quale comunque agevoli la commissione del fatto, allorquando il reato di truffa venga commesso con l’artificio rappresentato dall’aver costituito una parvenza di legittima operatività di uno studio professionale, ciò non toglie che detto studio professionale, nella sua fisicità e concretezza, sia esistito e abbia operato come se fosse legittimamente istituito e che, pertanto, i clienti si siano affidati allo stesso e al suo titolare con una “minorata cautela”. Ne deriva che, indipendentemente dall’invalidità del contratto di prestazione professionale, la truffa in tal modo commessa è da ritenere aggravata dall’abuso della relazione qualificata di prestazione d’opera professionale. Conseguentemente, la Corte di appello ha correttamente ritenuto integrata, in relazione al reato di truffa – commesso dall’imputata dichiarandosi falsamente “dottoressa” – la circostanza aggravante di aver agito con abuso della relazione fiduciaria derivante dalla prestazione di opera professionale. Diversamente, l’aggravante in oggetto non può caratterizzare il delitto di lesioni colpose. L’aver agito arrecando lesioni a titolo di semplice colpa non è compatibile con la circostanza aggravante dell’abuso della prestazione d’opera, non potendosi plausibilmente innestare sopra una condotta colposa una circostanza aggravante costituita da un atteggiamento abusivo; ossia da un atteggiamento mentale doloso, nel caso concreto volto ad approfittare di un rapporto di fiducia non meramente occasionale o estemporaneo”. Allegare Cass 15463/12 “La parte offesa ha instaurato stretti rapporti fiduciari con l’imputato, proprio in funzione della sua attività (dipendente della banca presso la quale la parte offesa intratteneva i propri conti), con la conseguenza che l’imputato ha avuto modo di “abusare” della relazione di un mandato di fatto instauratosi fra le parti, avendo la persona offesa demandato all’imputato aspetti inerenti alla amministrazione del proprio patrimonio, proprio perché quest’ultimo svolgeva la sua attività nella banca presso la quale la persona offesa aveva il suo conto; va qui ribadito che “l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera implica un concetto più ampio di quello civilistico di «locazione d’opera», comprendendo tutti i casi nei quali, a qualunque titolo, taluno abbia prestato ad altri la propria opera” (Cass. Pen. Sez. 2 sent. n. 24093/11). 5 6 Si noti, Cass. Pen. Sez. 2 sent. n. 3349/13 «agli effetti dell’aggravante di cui all’art. 61 n. il c.p., la relazione di prestazione d’opera corrisponde ad un concetto più ampio di quello di locazione d’opera a norma della legge civile e comprende ogni specie di attività, materiale ed intellettuale, che abbia dato luogo a quell’affidamento nel corso del quale si è verificata la condotta criminosa, come nella specie». 9 soltanto fondati sulla fiducia, è pur sempre indefettibile riscontrare che questi a qualunque titolo comportino un vero e proprio obbligo – e non una mera facoltà – di “facere” (cfr. Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 28812/15)7. Non può comunque non notarsi l’ampiezza dell’ambito di prensione punitiva della circostanza in esame, constatazione rafforzata soprattutto in considerazione di quelle ipotesi delittuose, come il reato di appropriazione indebita, nelle quali l’espressione “abuso di relazioni di prestazione di opera” è stata riconosciuta applicabile ben oltre le ipotesi di un contratto di lavoro o dei rapporti giuridici che comportino l’obbligo di un “facere”, considerandola configurabile in tutte quelle relazioni che – comunque – instaurino tra le parti un rapporto di fiducia dal quale possa essere agevolata la commissione del fatto (cfr. Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 44485/15), a nulla rilevando la sussistenza di un vincolo di subordinazione o di dipendenza (cfr. Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 41357/15). A fronte dell’estensione dell’ambito applicativo concreto, preme tuttavia evidenziare come, ai fini della contestazione dell’accusa, ciò che rilevi sia la compiuta descrizione del fatto e non piuttosto l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (cfr. Cass. Sez. Un. Sent. n. 18/2000). È sufficiente la chiara contestazione nel capo di imputazione del fatto commesso dall’agente con abuso delle relazioni di ufficio ovvero di prestazione di opera, anche senza contemplare con una specifica indicazione l’articolo di legge. Orbene, attesa la portata dell’aggravante in parola, non pare censurabile la sua riconosciuta applicabilità nell’ipotesi concreta8 all’esame del Giudicante tiburtino, il quale ben argomenta il L’esposto orientamento pare ancor più chiaro in tema di appropriazione indebita, atteso che ai fini della ricorrenza dell’aggravante della prestazione d’opera, è sufficiente la esistenza di un rapporto, anche di natura meramente fattuale, che abbia rappresentato, quantomeno, occasione (se non anche ragione giuridica) del possesso da parte dell’imputato e che abbia quindi consentito a quest’ultimo di commettere con maggiore facilità il reato, approfittando della particolare fiducia in lui riposta. 7 8 A conforto dell’esposto convincimento si noti incidentalmente: Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 1118/16, in cui la Corte ha ritenuto ravvisabile la circostanza aggravante dell’art. 61 n. 11 c.p., quando il procacciatore di affari converta in proprio profitto la somma a lui affidata dal cliente, nonché Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 25941/13 quando la Corte l’ha ravvisata in riferimento al mandato a vendere una cosa mobile, il quale fa nascere un rapporto di prestazione d’opera tra le parti, in virtù del quale il mandatario approfitta della particolare fiducia in lui riposta dal mandante per appropriarsi del bene. Si noti ulteriormente quanto statuito da Cass. Pen. Sez. 5^ sent. n. 28157/15: «anche “la tutela del risparmio e dei mercati finanziari”, peraltro, costituisce, ai sensi dell’art. 117, co. 1, lettera e) Cost., uno degli obiettivi affidati in via esclusiva alla legislazione statale, che, per l’appunto, lo Stato può perseguire, al pari della “tutela della concorrenza”, anche attraverso interventi normativi sanzionatori di natura penale, allo scopo di garantire la trasparenza dei mercati finanziari, necessaria ad assicurare un ordinato e sereno svolgimento delle attività di investimento del risparmio realizzate attraverso la molteplicità degli strumenti finanziari, e delle relative forme di 10 presupposto logico-normativo sulla cui base si innesta l’operatività della circostanza in parola. Infatti, condivisibilmente il promotore finanziario non viene differenziato dal dipendente di banca “classico”, salvo che per il luogo in cui costoro svolgono la propria attività (in sede o meno). Da tale evidenza, innalzando la soglia di tutela della platea degli investitori contattati e “contrattualizzati” dal promotore, pare chiaro che il cliente sia rassicurato dalla struttura bancaria a cui l’agente è legato ed è con quella che intende stipulare un impegno. Il legame del promotore con l’istituto bancario non è poi da intendersi alla stregua una mera ideazione dell’investitore, poiché ai sensi del comma 3 dell’art. 31 TUF «il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale». Anzi, parrebbe corretto sostenere che proprio tale abbinamento promotore/istituto bancario generi nell’investitore un senso di ovvia rassicurazione, che probabilmente non avrebbe avuto se avesse dovuto stipulare un accordo con un soggetto slegato da un istituto di credito. Inoltre, pare fuor di dubbio come esso legittimi altresì l’insorgenza di un’ovvia relazione di fiducia in presenza della quale, a chi ne abusa al fine di commettere più agevolmente il fatto di reato in danno di chi ha maturato tale affidamento, sarà addebitata l’aggravante in esame9 avendo l’agente beneficiato della minorata difesa della p.o., la quale aveva abbassato la propria soglia di attenzione e cautela in virtù del rapporto fiduciario instauratosi10. È di tutta evidenza che l’offeso non conclude (né voglia concludere) un accordo diretto con il promotore-persona fisica, il quale è fisiologicamente posto fra chi lo incarica e chi vuole accordare la propria fiducia (e disponibilità economica) ad un soggetto presumibilmente stabile organizzazione e di gestione, che il mercato, in continua evoluzione, fa emergere, di cui un’ampia tipologia è definita e disciplinata proprio negli artt. 1 e ss., d. Igs. 24 febbraio 1998, n. 58 (noto anche come “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” o T.U.F.). La trasparenza, la correttezza, la competenza professionale, in una parola l’affidabilità degli operatori cui gli investitori si rivolgono, anche alla luce degli stringenti doveri di informazione previsti a carico degli intermediari finanziari dall’art. 21, comma 1 lettera a), T.U.F. e dall’art. 26, co. 1, del regolamento Consob 11522/98, infatti, sono valori necessari ad assicurare “la tutela del risparmio e dei mercati finanziari”, evitando che gli investitori siano esposti a rischi maggiori di quelli strettamente connaturati, e perciò insopprimibili, alle operazioni eseguite sul mercato dei valori mobiliari, sottoposto alle regole del libero mercato e, quindi, ai rischi tipici dell'iniziativa economica privata». Cfr. Cass. Pen. 2^ Sez. sentenza n. 24530/12 La fiducia del cliente nel promotore finanziario non si fonda solamente sull’esposta responsabilità solidale di chi ha conferito a questi l’incarico, ma altresì sulla convinzione che siano stati rispettati quegli specifici doveri gravanti sull’abilitato all’offerta fuori sede e disciplinati dall’art. 21, comma 1 lett. a), b) e c) TUF. 9 10 11 come una banca (che annovera quel promotore fra i propri impiegati). Pertanto, l’agente è onerato di doveri sia verso l’intermediario, che verso il cliente11. Al fine di meglio illustrare l’esposto convincimento, si noti quanto statuito dalla Suprema Corte in riferimento ad un caso (seppur solo parzialmente) analogo a quello deciso dal monocratico tiburtino: «le linee argomentative seguite dal giudice del merito si sviluppano coerentemente lungo i binari tracciati, dalla giurisprudenza di legittimità in sede civile, col principio secondo cui, proprio in tema di intermediazione mobiliare, la mera allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe legittimato a riceverle, non vale, in caso di indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività dello stesso e la consumazione dell’illecito, e non preclude, pertanto, la possibilità di invocare la responsabilità solidale dell’intermediario preponente; né un tal fatto può essere addotto dall’intermediario come concausa del danno subito dall'investitore, in conseguenza dell’illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre l’ammontare del risarcimento dovuto. Le disposizioni di legge e regolamentari dettate in ordine alle modalità di corresponsione al promotore finanziario dell’equivalente pecuniario dei titoli acquistati o prenotati, infatti, sono dirette unicamente a porre a suo carico un obbligo di comportamento al fine di tutelare l’interesse del risparmiatore e non possono, quindi, logicamente interpretarsi come fonte di un onere di diligenza a carico di quest’ultimo, tale da comportare un addebito di colpa (concorrente, se non addirittura esclusiva) in capo al soggetto danneggiato dall’altrui atto illecito, e salvo che la condotta del risparmiatore presenti connotati di “anomalia”, vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, palesata da elementi presuntivi, quali ad esempio il numero o la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, il valore complessivo delle Le regole comunitarie e nazionali che disciplinano contenuto e forma dei contratti di investimento impongono all’intermediario ed all’emittente un evidente dovere di chiarezza e trasparenza informativa nei confronti del cliente risparmiatore. Si noti infatti che, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., è posto a carico dei contraenti un obbligo di informazione e chiarezza; ai sensi dell’art. 21 del D.lgs. n. 58/98 si impone agli intermediari di “operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati”; il regolamento Consob n. 11522/98 e l’allegato 7 allo stesso impongono all’intermediario di “illustrare all’investitore in modo chiaro ed esauriente (…) gli elementi essenziali dell’operazione, del servizio o del prodotto”. Quindi solo obbligando alla chiarezza gli intermediari e gli emittenti di strumenti finanziari (in ordine a contenuto e forma dei contratti di investimento) costoro adempiono al proprio dovere di informare il cliente, tentando in tal modo di riequilibrare in favore del risparmiatore le fisiologiche differenze conoscitive fra i due contraenti. Tale dovere non può poi ritenersi adempiuto dalla mera esibizione o sottoscrizione dei documenti informativi, atteso che si ritiene indispensabile chiarirne il significato e l’effettiva portata al cliente. 11 12 operazioni, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza del complesso “iter” funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e le sue complessive condizioni culturali e socio-economiche (Sez. 1, Sentenza n. 6829 del 24/03/2011 (Rv. 616358); Sez. 3, Sentenza n. 1741 del 25/01/2011 (Rv. 616356). Si pone in evidenza nella motivazione delle sentenze citate che “la responsabilità dell’intermediario preponente trova la sua ragion d’essere, per un verso, nel fatto che l’agire del promotore è uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale nell’organizzazione della propria impresa, traendone benefici cui è ragionevole far corrispondere i rischi; per altro verso, ed in termini più specifici, nell’esigenza di offrire una più adeguata garanzia ai destinatari delle offerte fuori sede loro rivolte dall’intermediario per il tramite del promotore, giacché appunto per le caratteristiche di questo genere di offerte più facilmente la buona fede dei clienti può essere sorpresa. E tale garanzia il legislatore ha inteso rafforzare, tra l’altro, anche e proprio attraverso un meccanismo normativo volto a responsabilizzare l’intermediario nei riguardi dei comportamenti di soggetti - quali sono i promotori - che l’intermediario medesimo sceglie, nel cui interesse imprenditoriale essi operano e sui quali nessuno meglio dell’intermediario è concretamente in grado di esercitare efficaci forme di controllo...”. Invero, un simile principio è quello idoneo a risolvere la vicenda processuale in esame, emergendo dalla lettura della sentenza impugnata che l’apprezzamento del giudice del merito - confutato, come detto, inammissibilmente con argomentazioni in fatto esposte nel ricorso - è stato nel senso del pieno ed assoluto affidamento da parte dei querelanti nella serietà professionale e nelle capacità del family banker, della unicità – rispetto al passato – della operazione loro sottoposta dall’imputato, relativa a prodotti finanziari non venduti direttamente dalla Banca, della scarsa dimestichezza rispetto alle comunicazioni bancarie e alle operazioni finanziarie che, per questo, venivano sintetizzate in “schemi” ad opera del promotore: elementi tutti che hanno motivatamente indotto il giudice del merito a far emergere una situazione del tutto diversa da quella della collusione tra le persone offese e l’imputato e comunque diversa anche dalla consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore» (Cass. Pen. Sez. 5^ sent. n. 6185/13). Avv. Tommaso Giustiniano Avv. Fabio D’Offizi 13