nota a sentenza in materia di truffa contrattuale

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nota a sentenza in materia di truffa contrattuale
NOTA A SENTENZA IN MATERIA DI TRUFFA CONTRATTUALE
La sentenza in disamina affronta – tra le altre – la specifica tematica della
configurabilità del delitto di truffa contrattuale, nell’ambito di operazioni poste in
essere sui mercati finanziari e, segnatamente, concernenti titoli ad alto rischio. Nel
compendio motivazionale, il Giudice, all’esito della ricostruzione del fatto storico,
correttamente procede ad una approfondita valutazione circa la fattispecie di truffa
in ambito negoziale, enucleando i profili oggettivamente e soggettivamente
rilevanti del reato de quo.
In primo luogo, attenendosi al costante e consolidato (seppur risalente)
orientamento giurisprudenziale, il Giudice procedente introduce i criteri
ermeneutici per individuare l’elemento materiale del reato di truffa contrattuale;
nello specifico, si legge nel provvedimento in commento che “è configurabile il
reato di truffa, nella specie contrattuale, quando il "dolus in contrahendo" si
manifesti attraverso artifici o raggiri che, intervenendo nella formazione del
negozio, inducono la controparte a prestare il proprio consenso e cioè quando
sussiste un rapporto immediato di cause ad effetto tra il mezzo o l’espediente
fraudolentemente usato dall’agente e il consenso ottenuto dal soggetto passivo,
sì che questo risulta viziato nella sua libera determinazione” (Cass. pen. sez. II,
27.10.1986-17.2.1987, n. 2041). Pertanto, si reputano sussistenti gli estremi della
truffa contrattuale “ogniqualvolta uno dei contraenti ponga in essere artifizi o
raggiri diretti a tacere o a dissimulare fatti o circostanze tali che, ove
conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal concludere il
contratto (Cass. pen. sez. VI, 13.2.1987-8.5.1987, n. 5705; in senso conforme sulla
rilevanza del silenzio maliziosamente serbato circa clausole, fatti o circostanze
rilevanti al fine della conclusione del contratto: Cass. pen. sez. II, 18.12.1995, n.
2333)1. Nel caso che occupa, non vi sono ragioni per disattendere gli orientamenti
sopra enunciati; la condotta del promotore finanziario, invero, così come acclarata
all’esito del dibattimento, certamente è tale da indurre in errore il contraente, stante
l’omissione di informazioni, in astratto ed in concreto, determinanti ai fini di una
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Conforme al citato orientamento, Corte di Casaszione, Sezione II, sentenza 27 luglio 2012, n.30798, la quale
afferma che in materia di truffa contrattuale anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da
parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra l’elemento oggettivo ai fini della configurabilità
del reato di truffa. Pertanto, la rilevanza giuridica del silenzio serbato dal soggetto agente è strettamente legata ad
uno specifico dovere giuridico di far conoscere le circostanze oggetto del negozio. Orbene, nel caso che occupa,
detto principio appare attinente al caso concreto ed alla particolare figura professionale ricoperta dall’imputata.
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corretta valutazione del negozio giuridico. Peraltro, come pure rileva correttamente
il Giudice di merito, si tratta di un contegno omissivo per così dire “qualificato”,
atteso che i soggetti che operano nell’ambito del mercato di strumenti finanziari,
sono destinatari di specifici obblighi di informazione in favore dei sottoscrittori.
Non a caso, il Giudice procedente afferma come “il punto di partenza non può
che essere costituito dal fatto che l’art. 31 del D.Lgs. n. 58/98 dà una definizione
precisa del promotore finanziario, soggetto che, dopo le modifiche apportate
al citato Decreto dal D.Lgs. n. 164/07 di attuazione della direttiva comunitaria
c.d. Mifid, appare distinto anche dal consulente finanziario di nuova
istituzione previsto dall'art. 18 bis TUF”. Dunque, “secondo tale norma, il
promotore finanziario è semplicemente colui che, per conto dei soggetti
abilitati, esercita fuori sede (ovvero fuori dalla sede legale o dalle dipendenze
di chi presta, promuove o colloca il servizio o l'attività) l'offerta di strumenti
finanziari ovvero i servizi e attività di investimento. Trattasi di una persona
fisica che esercita professionalmente l'offerta fuori sede come dipendente,
agente o mandatario nell'interesse esclusivo di un solo soggetto”. Pertanto, nel
caso del promotore finanziario, “il cliente confida sulla struttura bancaria nel
suo complesso per la conclusione e l'esecuzione del contratto, non contraendo
alcun diretto impegno contrattuale con il promotore, tanto è vero che, a
maggiore garanzia del cliente, il comma 3 dell'art. 31 TUF prevede che il
soggetto abilitato che ha conferito l'incarico al promotore risponde in solido
dei danni arrecati a terzi da questi, anche se tali danni siano conseguenti a
responsabilità accertata in sede penale. L'investitore si aspetta, dunque, tanto
dal
promotore
finanziario,
quanto
dal
dipendente
bancario,
un
comportamento diligente, corretto e trasparente, teso a servire al meglio i
propri interessi (art. 21 lett. a) TUF); che costoro acquisiscano le informazioni
necessarie da lui e che operino in modo da fornirgli adeguate informazioni (art.
21 lett. b) TUF); che utilizzino comunicazioni pubblicitarie e promozionali
corrette, chiare e non fuorvianti (art. 21 lett. c) TUF come inserita per effetto
del D.Lgs.n. 164/07)”.
Tutto ciò premesso, appare un punto nodale del provvedimento in commento,
non tanto l’aspetto relativo al contegno omissivo idoneo a determinare l’erroneo
convincimento
dei
contraenti,
quanto
quello
relativo
all’individuazione
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dell’ingiusto profitto conseguito dall’imputata, sostanziatosi – ad avviso del
giudicante – nella percezione di indebite provvigioni.
Invero, la condotta contestata all’imputata attiene all’avere, in qualità di
promotore finanziario della Intra Private Bank S.p.a., avere indotto le persone
offese ad eseguire alcune operazioni di investimento in borsa consistenti
nell’acquisto di titoli e prodotti finanziari attraverso artifici e raggiri, consistiti nella
prospettazione dell’investimento in termini di sicurezza rispetto al capitale
investito, sottacendo maliziosamente le reali caratteristiche delle operazioni e
l’aleatorietà delle stesse rispetto alla garanzia della restituzione del capitale
investito, in tale modo procurandosi un ingiusto profitto pari alle provvigioni
ottenute, con correlativo danno per i clienti.
Si afferma anche, nel corpo delle motivazioni, che “in tema di truffa negoziale,
la sussistenza dell’ingiusto profitto e del correlativo danno non è esclusa dal
fatto che il raggirato abbia effettuato quella prestazione che in base al
contratto appariva giusta ed equa, quando risulti che la prestazione stessa non
sarebbe stata eseguita senza l’impiego dei raggiri” (Cass. pen. sez. VI,
14.6.1983, n. 274).
Orbene, non vi sono dubbi sulla circostanza che il Giudice di merito abbia
aderito alla prevalente e costante giurisprudenza di legittimità, nella sussunzione
del fatto storico, così come accertato, nell’ipotesi di truffa contrattuale aggravata,
sanzionata ai sensi degli artt. 640 e 61 n. 11 c.p.. Pur tuttavia, un elemento che
avrebbe potuto costituire oggetto di ulteriore approfondimento difensivo concerne
l’assunto che il conseguimento della provvigione, possa costituire “ingiusto
profitto”, quale elemento costitutivo della fattispecie in parola. In altri termini, il
consequenziale sviluppo logico-giuridico del percorso argomentativo seguito dal
giudicante, comporterebbe che solo a seguito del verificarsi di quelle condizioni di
rischio tali da comportare un depauperamento della quota capitale investita, la
percezione della provvigione per l’operazione finanziaria assumerebbe il carattere
dell’illiceità. Diversamente, quel medesimo compenso non sarebbe espressivo di
alcun disvalore.
Invero, i contratti oggetto di valutazione non sono connotati da alcun vincolo
sinallagmatico corrente tra il promotore ed il contrante. Per di più, il promotore
finanziario non è certamente “parte contrattuale” in senso tecnico. Di talché, il
conseguimento di un beneficio patrimoniale per il promotore finanziario non
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consegue necessariamente alla deminutio patrimonii, in danno del soggetto passivo.
Paradossalmente, dunque, nel caso in cui l’investimento non produca perdite
(ancorché avvenuto con modalità analoghe al caso che occupa, e dunque in
violazione degli obblighi di informazione ampiamente enucleati), il diritto alla
provvigione sarebbe del tutto lecito, legittimo e giuridicamente tutelato. Viceversa,
il verificarsi di una perdita di capitale, pur connessa all’alea fisiologica del rapporto
contrattuale in parola, renderebbe “illegittima” la percezione della provvigione,
inquadrandola nell’alveo del concetto giuridico di “ingiusto profitto”. V’è da dire,
inoltre, che nel caso che occupa, il compenso del promotore è comunque “mediato”,
passando attraverso l’istituto bancario di riferimento e non promanando
direttamente dalla persona offesa.
La soluzione prospettata dal giudicante, passa attraverso l’inquadramento del
momento consumativo del reato, paventando l’ipotesi di tentativo, ai sensi dell’art.
56 c.p., per il caso di mancata perdita di capitale. Il Giudice, anche in questo caso,
recepisce il corrente orientamento della Suprema Corte, evidenziando che “la
truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla
realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la
"deminutio patrimonii" del soggetto passivo. Sicché, nell'ipotesi di truffa
contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per
effetto di artifici o raggiri, l’obbligazione della "datio" di un bene economico,
ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte
dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato” (Cass.
pen. Sez. U., 21.6.2000, n. 18). Ebbene, per adeguare il principio di diritto così
massimato al caso concreto, si perviene all’assunto che “l’operazione può
concludersi positivamente per il cliente come anche negativamente. Nel primo caso,
l’evento dannoso non si verifica per cause indipendenti dalla volontà del soggetto
attivo; nel secondo caso, al contrario, la condotta ingannatoria posta in essere dal
funzionario di banca ha prodotto le conseguenze dannose astrattamente possibili,
stante la natura aleatoria del contratto stipulato. Dunque “sotto il profilo giuridico,
nel primo caso la mancanza dell’evento determina la necessità di valutare la
condotta in termini di astratta idoneità e non equivocità a produrlo, secondo
lo schema del delitto tentato di cui agli artt. 56, 640 c.p.”. Ed ancora, si legge
che “avendo ad oggetto la truffa proprio la stipula di un contratto fortemente
aleatorio (nel caso concreto, n.d.r.), sussiste l’astratta idoneità e univocità della
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condotta a produrre l'evento dannoso, essendo insito nelle caratteristiche del
negozio giuridico concluso il rischio del danno. Sotto questo aspetto, del resto,
i contratti in questione non prevedevano la possibilità di modificare le
caratteristiche ed i contenuti dell’investimento finanziario effettuato, sicché o
l’operazione veniva portata a compimento nei termini pattuiti, ovvero il cliente
assumeva tutti i rischi di un recesso anticipato. Se il danno, invece, si verifica
[…] la truffa non è meramente tentata, bensì consumata”.
Orbene, per il giudice estensore, il peculiare carattere dei contratti in disamina
renderebbe – in astratto – perseguibile il promotore che tacesse i rischi connessi
all’investimento, a titolo di tentativo per il caso di mancata perdita ed a titolo di
delitto consumato, allorché si realizzassero perdite di capitale. Pur tuttavia, tale
soluzione non appare sufficientemente idonea a spiegare come il profitto connesso
ad una attività lecita e regolamentata, seppure prestata in violazione dei succitati
obblighi informativi, possa o debba essere ritenuto illegittimo.
D’altra parte, in punto di fatto, si afferma che “la truffa ipotizzata dal P.M. ha
ad oggetto un particolare tipo di contratto, e cioè un negozio giuridico relativo
all’acquisto di un prodotto finanziario caratterizzato da un’elevata
potenzialità utilitaristica, correlata, però, ad un altrettanto elevato rischio di
perdita, anche del capitale, legato all’andamento, futuro ed incerto, dei
mercati finanziari. Se il mercato finanziario è in crescita i profitti sono elevati;
al contrario, aumentano i rischi di perdita del capitale. Il consulente titoli di
una banca che, nascondendo maliziosamente al cliente le reali caratteristiche
del contratto, lo induce a sottoscrivere l’acquisto di un simile prodotto
finanziario, nella erronea convinzione di acquistare un prodotto finanziario ad
alto rendimento, sebbene in assenza di rischi di perdita del capitale
originariamente investito, è consapevole della sussistenza di un’astratta
possibilità di provocare danni all’ignaro cliente, tenuto conto dell’alea sottesa
al negozio giuridico”. Dunque, si comprende come la prospettiva del Tribunale sia
polarizzata eminentemente sulla ascrivibilità del silenzio serbato dal promotore
finanziario agli artifizi e raggiri tipici del delitto di truffa, senza meglio specificare
e circostanziare come detto contegno abbia determinato, appunto, l’ingiusto profitto
parimenti richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
Tale discorso si è reso necessario, poiché le Difese in sede di discussione finale
si sono a lungo concentrate sulla ritenuta assenza di un danno economico e sul
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contesto altamente critico dell’intera economia nell’ultimo decennio, con
argomentazioni tuttavia utili al più a qualificare la truffa come tentata e non
consumata, ma non certo ad escluderne la sussistenza.
Pertanto, un tema che avrebbe potuto essere ulteriormente sviluppato in una
prospettiva difensiva, è quello afferente alla inquadrabilità della provvigione
nell’alveo dell’ingiusto profitto. Invero, escludendo che detta provvigione abbia
siffatto carattere di ingiustizia e, soprattutto che detta prestazione non sia
conseguenza, diretta od indiretta, del verificarsi dell’evento dannoso, si potrebbe
pervenire ad escludere la sussistenza del reato, nei suoi elementi costitutivi
materiali.
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Quanto all’elemento soggettivo, il Giudice procedente perviene all’affermazione che, nel
delitto di truffa, “esso è costituito dal dolo generico, diretto o indiretto, avente ad oggetto
gli elementi costitutivi del reato (quali l’inganno, il profitto, il danno), anche se preveduti
dall’agente come conseguenze possibili, anziché certe della propria condotta, e tuttavia
accettato nel loro verificarsi, con conseguente assunzione del relativo rischio; per cui è
priva di rilevanza la specifica finalità del comportamento o il motivo che ha spinto l’agente
a realizzare l’inganno” (Cass. pen. sez. VI, 7.11.1991, n. 470). Tale asserto, allora, consente
di poter giungere alla conclusione che il dolo della truffa possa manifestarsi anche nella forma
del dolo eventuale. Siffatta affermazione non appare censurabile, né pone particolari problemi
ermeneutici. Pur tuttavia, nell’affermare che “sussiste dolo eventuale quando l’agente,
ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità
del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca
accettando il rischio di cagionarle. Al contrario, quando si entra nel campo della
probabilità, specie quando la realizzazione del fatto si presenti all’agente altamente
probabile – e sarà lo stesso concreto accadimento a segnare la linea di demarcazione – non
si può ritenere che il colpevole si limiti ad accettare il rischio dell’evento, ma accettando
l'evento, lo vuole, sicché versa in dolo diretto e non eventuale (Cass. pen. Sez. U. 14.2.1996,
n. 3571), il giudice manifesta l’intendimento di estendere l’ambito del dolo alla mera
rappresentazione della mera “possibilità” del prodursi dell’evento dannoso. Detto canone
ermeneutico, pur conforme ai dettami della citata giurisprudenza di legittimità, non appare
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attagliarsi ai casi di contratti aleatori, quali – appunto – quelli afferenti il mercato degli
strumenti finanziari. In tal caso, la possibilità del prodursi di una perdita patrimoniale è
strettamente connessa allo strumento contrattuale medesimo; di talché, un simile criterio
interpretativo renderebbe quasi del tutto superfluo l’accertamento del dolo, atteso che la
possibilità di una perdita è in re ipsa. Dunque, il principio enunciato potrebbe essere oggetto di
rivalutazione in chiave difensiva, allorché la mera possibilità astratta del verificarsi di un
qualsivoglia evento dannoso non può essere espressiva di dolo, ancorché eventuale, se non in
presenza di indici concreti che denotino una effettiva e circostanziata, sulla base di elementi
oggettivi, che un danno possa prodursi. Nel caso che occupa, la somministrazione di strumenti
finanziari ad alto rischio, non consente – di per se stessa – di ritenere imminente o possibile un
danno patrimoniale, a maggior ragione ove il soggetto agente confidasse nella propria
competenza per massimizzare i profitti. Eppure, un simile accertamento – in concreto – della
sussistenza del dolo, seppure nella forma del dolo eventuale, appare sostanzialmente disattesa.
D’altra parte, il nodo centrale del provvedimento in commento, è proprio quello relativo alle
peculiarità del negozio giuridico relativo all’acquisto di un prodotto finanziario, contratti
intimamente legati all’andamento dei mercati finanziari e connotati dalla loro tendenza al
rischio di perdita del capitale e dalla propensione del cliente a conseguire un futuro (e
possibilmente elevato) rientro economico proporzionale al pericolo patrimoniale assunto. Il
promotore, pertanto, deve tenere ben presente l’alea sottesa a tale tipologia contrattuale e deve
darne conto e chiara illustrazione al cliente, convincendolo ad acquistare un prodotto delle cui
reali caratteristiche sia ben consapevole perché puntualmente informato, in ossequio al
rispettivo dovere di informazione e diritto di essere effettivamente informato. Sull’argomento
si noti un pregevole contributo secondo il quale si ritiene che «per essere valida ed esistente la
causa aleatoria sottesa al contratto derivato, i rischi che la costituiscono devono essere stati
consapevolmente assunti dalle parti e distribuiti tra di esse, anche se non necessariamente in
modo eguale, quanto meno in modo proporzionato. E sussiste tale proporzionale e reale
reciprocità e bilateralità dell’alea solo se le modalità di calcolo ed ogni elemento utile per le
valutazioni del rischio siano stati previamente e ampiamente conosciuti e consapevolmente
concordati dai due contraenti. In termini concreti, è necessario che “le regole del gioco” e le
procedure di calcolo (da cui, ad esempio, dipende la percezione dell’alea e la possibilità di
ponderare e accettare il connesso rischio) siano condivise prima della sottoscrizione del
derivato. Affermata Dottrina in materia di contratti aleatori sul punto è chiara. Equiparata
l’operatività in derivati al gioco e scommesse autorizzate in cui “bilateralità non significa che
debbano esservi due prestazioni paritetiche sotto il profilo del sacrificio patrimoniale [posto
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che] l’eventuale sperequazione tra le due prestazioni è sopportabile alla luce della
considerazione che le prestazioni dedotte sono state assunte in funzione di rischio, ovvero non
in termini di corrispettività, ma al fine di lucrare sull’incertezza” (G. Di Giandomenico, I
Contratti Speciali – I Contratti Aleatori, op. cit., 148; conf. con la più volte citata Corte d’App.
Milano, 18 settembre 2013), la validità del relativo contratto è condizionato alla presenza di
una distribuzione dell’alea proporzionata e coerente con le poste in gioco e al fatto che le regole
del gioco siano conosciute da entrambe le parti (G. Di Giandomenico, I Contratti Speciali – I
Contratti Aleatori, op. cit., 149). Traslato tale ovvio principio al contratto derivato, si conclude
che l’investitore può scientemente e validamente accettare il rischio collegato all’operazione in
derivati solo se la banca non si sia limitata a fornirgli generiche informazioni sui derivati o sul
mercato finanziario, ma abbia con esso previamente condiviso tutte le informazioni relative al
pricing del derivato sottoscritto, all’eventuale up front, all’andamento storico dei tassi e degli
indici, agli schemi finanziari e alle proiezioni probabilistiche relative agli indici che influiscono
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nella quantificazione dei nozionali»2.
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Da ultimo, al fine di poter meglio scrutinare la sentenza tiburtina, si ritiene doveroso un breve
cenno sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 c.p. relativa alla prestazione d’opera, la quale
postula che l’agente approfitti della particolare relazione con la vittima sorta proprio dalla
prestazione della sua opera in favore dell’offeso stesso ovvero, in ragione di tale prestazione,
egli instauri un legame con la vittima tale da facilitarne l’abuso. Quindi, dirimente è l’esistenza
di una particolare fiducia riposta nell’agente3, infatti ciò che rileva è l’abuso della relazione
fiduciaria da parte dell’autore, il quale profitta di una situazione di minorata attenzione della
vittima, stante l’affidamento riposto nell’opera dell’altro, che invece commette un reato a suo
Zuccarello A., in Nota alla recente giurisprudenza in materia di contratti derivati: il concetto di “alea razionale”
quale criterio di valutazione della validità della causa, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 8, 2014.
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Al fine di meglio illustrare il concetto in parola, si noti che «in materia di rapporti tra una associazione non
riconosciuta ed il suo Presidente, è stato affermato che in tema di appropriazione indebita, ai fini della
ricorrenza della circostanza aggravante comune della prestazione d’opera è sufficiente l’esistenza di qualsiasi
rapporto, anche di mero fatto, da cui sia derivato, in capo all’agente, il possesso della cosa che ne abbia
consentito una più facile appropriazione, in virtù della particolare fiducia in lui riposta» (Cass. Pen. Sez. 2^
sent. n. 3639/16).
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danno4. Anzi, pare ancor più corretto sostenere che, nella relazione della prestazione d’opera,
è il carattere di “abuso” a costituire il nucleo essenziale della circostanza di cui all'art. 61 n. 11
c.p.5
È quindi palmare che l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera implichi un concetto più
esteso di quello civilistico di “locazione d’opera”, comprendendo anche tutti i casi in cui, a
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qualunque titolo, taluno abbia prestato ad altri la propria opera . Ne consegue che vi rientrano
anche i contratti di diritto privato nei quali i rapporti giuridici regolati comportano l’obbligo di
un “facere” e, quindi, di una prestazione d’opera (come, ad esempio, il rapporto di mediazione).
Tuttavia, benché l’aggravante in parola sia configurabile in presenza di rapporti giuridici anche
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“Premesso che l’aggravante dell’abuso di prestazione di opera concerne tutti i rapporti giuridici
che comportano un obbligo di fare e instaurino tra le parti un rapporto di fiducia non meramente
occasionale o estemporaneo, ovvero di semplice amicizia o favore, il quale comunque agevoli la
commissione del fatto, allorquando il reato di truffa venga commesso con l’artificio rappresentato
dall’aver costituito una parvenza di legittima operatività di uno studio professionale, ciò non toglie
che detto studio professionale, nella sua fisicità e concretezza, sia esistito e abbia operato come se
fosse legittimamente istituito e che, pertanto, i clienti si siano affidati allo stesso e al suo titolare
con una “minorata cautela”. Ne deriva che, indipendentemente dall’invalidità del contratto di
prestazione professionale, la truffa in tal modo commessa è da ritenere aggravata dall’abuso della
relazione qualificata di prestazione d’opera professionale. Conseguentemente, la Corte di appello
ha correttamente ritenuto integrata, in relazione al reato di truffa – commesso dall’imputata
dichiarandosi falsamente “dottoressa” – la circostanza aggravante di aver agito con abuso della
relazione fiduciaria derivante dalla prestazione di opera professionale. Diversamente, l’aggravante
in oggetto non può caratterizzare il delitto di lesioni colpose. L’aver agito arrecando lesioni a titolo
di semplice colpa non è compatibile con la circostanza aggravante dell’abuso della prestazione
d’opera, non potendosi plausibilmente innestare sopra una condotta colposa una circostanza
aggravante costituita da un atteggiamento abusivo; ossia da un atteggiamento mentale doloso, nel
caso concreto volto ad approfittare di un rapporto di fiducia non meramente occasionale o
estemporaneo”.  Allegare Cass 15463/12
“La parte offesa ha instaurato stretti rapporti fiduciari con l’imputato, proprio in funzione della sua attività
(dipendente della banca presso la quale la parte offesa intratteneva i propri conti), con la conseguenza che
l’imputato ha avuto modo di “abusare” della relazione di un mandato di fatto instauratosi fra le parti, avendo
la persona offesa demandato all’imputato aspetti inerenti alla amministrazione del proprio patrimonio,
proprio perché quest’ultimo svolgeva la sua attività nella banca presso la quale la persona offesa aveva il suo
conto; va qui ribadito che “l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera implica un concetto più ampio di
quello civilistico di «locazione d’opera», comprendendo tutti i casi nei quali, a qualunque titolo, taluno abbia
prestato ad altri la propria opera” (Cass. Pen. Sez. 2 sent. n. 24093/11).
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Si noti, Cass. Pen. Sez. 2 sent. n. 3349/13 «agli effetti dell’aggravante di cui all’art. 61 n. il c.p., la
relazione di prestazione d’opera corrisponde ad un concetto più ampio di quello di locazione
d’opera a norma della legge civile e comprende ogni specie di attività, materiale ed intellettuale, che
abbia dato luogo a quell’affidamento nel corso del quale si è verificata la condotta criminosa, come
nella specie».
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soltanto fondati sulla fiducia, è pur sempre indefettibile riscontrare che questi a qualunque titolo
comportino un vero e proprio obbligo – e non una mera facoltà – di “facere” (cfr. Cass. Pen.
Sez. 2^ sent. n. 28812/15)7.
Non può comunque non notarsi l’ampiezza dell’ambito di prensione punitiva della circostanza
in esame, constatazione rafforzata soprattutto in considerazione di quelle ipotesi delittuose,
come il reato di appropriazione indebita, nelle quali l’espressione “abuso di relazioni di
prestazione di opera” è stata riconosciuta applicabile ben oltre le ipotesi di un contratto di lavoro
o dei rapporti giuridici che comportino l’obbligo di un “facere”, considerandola configurabile
in tutte quelle relazioni che – comunque – instaurino tra le parti un rapporto di fiducia dal quale
possa essere agevolata la commissione del fatto (cfr. Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 44485/15), a
nulla rilevando la sussistenza di un vincolo di subordinazione o di dipendenza (cfr. Cass. Pen.
Sez. 2^ sent. n. 41357/15).
A fronte dell’estensione dell’ambito applicativo concreto, preme tuttavia evidenziare come, ai
fini della contestazione dell’accusa, ciò che rilevi sia la compiuta descrizione del fatto e non
piuttosto l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (cfr. Cass. Sez. Un. Sent.
n. 18/2000). È sufficiente la chiara contestazione nel capo di imputazione del fatto commesso
dall’agente con abuso delle relazioni di ufficio ovvero di prestazione di opera, anche senza
contemplare con una specifica indicazione l’articolo di legge.
Orbene, attesa la portata dell’aggravante in parola, non pare censurabile la sua riconosciuta
applicabilità nell’ipotesi concreta8 all’esame del Giudicante tiburtino, il quale ben argomenta il
L’esposto orientamento pare ancor più chiaro in tema di appropriazione indebita, atteso che ai fini della
ricorrenza dell’aggravante della prestazione d’opera, è sufficiente la esistenza di un rapporto, anche di natura
meramente fattuale, che abbia rappresentato, quantomeno, occasione (se non anche ragione giuridica) del
possesso da parte dell’imputato e che abbia quindi consentito a quest’ultimo di commettere con maggiore
facilità il reato, approfittando della particolare fiducia in lui riposta.
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A conforto dell’esposto convincimento si noti incidentalmente: Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n.
1118/16, in cui la Corte ha ritenuto ravvisabile la circostanza aggravante dell’art. 61 n. 11 c.p.,
quando il procacciatore di affari converta in proprio profitto la somma a lui affidata dal cliente,
nonché Cass. Pen. Sez. 2^ sent. n. 25941/13 quando la Corte l’ha ravvisata in riferimento al
mandato a vendere una cosa mobile, il quale fa nascere un rapporto di prestazione d’opera tra le
parti, in virtù del quale il mandatario approfitta della particolare fiducia in lui riposta dal mandante
per appropriarsi del bene. Si noti ulteriormente quanto statuito da Cass. Pen. Sez. 5^ sent. n.
28157/15: «anche “la tutela del risparmio e dei mercati finanziari”, peraltro, costituisce, ai sensi
dell’art. 117, co. 1, lettera e) Cost., uno degli obiettivi affidati in via esclusiva alla legislazione statale,
che, per l’appunto, lo Stato può perseguire, al pari della “tutela della concorrenza”, anche attraverso
interventi normativi sanzionatori di natura penale, allo scopo di garantire la trasparenza dei mercati
finanziari, necessaria ad assicurare un ordinato e sereno svolgimento delle attività di investimento
del risparmio realizzate attraverso la molteplicità degli strumenti finanziari, e delle relative forme di
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presupposto logico-normativo sulla cui base si innesta l’operatività della circostanza in parola.
Infatti, condivisibilmente il promotore finanziario non viene differenziato dal dipendente di
banca “classico”, salvo che per il luogo in cui costoro svolgono la propria attività (in sede o
meno). Da tale evidenza, innalzando la soglia di tutela della platea degli investitori contattati e
“contrattualizzati” dal promotore, pare chiaro che il cliente sia rassicurato dalla struttura
bancaria a cui l’agente è legato ed è con quella che intende stipulare un impegno.
Il legame del promotore con l’istituto bancario non è poi da intendersi alla stregua una mera
ideazione dell’investitore, poiché ai sensi del comma 3 dell’art. 31 TUF «il soggetto abilitato
che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente
finanziario abilitato all’offerta fuori sede, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità
accertata in sede penale». Anzi, parrebbe corretto sostenere che proprio tale abbinamento
promotore/istituto bancario generi nell’investitore un senso di ovvia rassicurazione, che
probabilmente non avrebbe avuto se avesse dovuto stipulare un accordo con un soggetto slegato
da un istituto di credito. Inoltre, pare fuor di dubbio come esso legittimi altresì l’insorgenza di
un’ovvia relazione di fiducia in presenza della quale, a chi ne abusa al fine di commettere più
agevolmente il fatto di reato in danno di chi ha maturato tale affidamento, sarà addebitata
l’aggravante in esame9 avendo l’agente beneficiato della minorata difesa della p.o., la quale
aveva abbassato la propria soglia di attenzione e cautela in virtù del rapporto fiduciario
instauratosi10.
È di tutta evidenza che l’offeso non conclude (né voglia concludere) un accordo diretto con il
promotore-persona fisica, il quale è fisiologicamente posto fra chi lo incarica e chi vuole
accordare la propria fiducia (e disponibilità economica) ad un soggetto presumibilmente stabile
organizzazione e di gestione, che il mercato, in continua evoluzione, fa emergere, di cui un’ampia
tipologia è definita e disciplinata proprio negli artt. 1 e ss., d. Igs. 24 febbraio 1998, n. 58 (noto
anche come “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” o T.U.F.).
La trasparenza, la correttezza, la competenza professionale, in una parola l’affidabilità degli
operatori cui gli investitori si rivolgono, anche alla luce degli stringenti doveri di informazione
previsti a carico degli intermediari finanziari dall’art. 21, comma 1 lettera a), T.U.F. e dall’art. 26,
co. 1, del regolamento Consob 11522/98, infatti, sono valori necessari ad assicurare “la tutela del
risparmio e dei mercati finanziari”, evitando che gli investitori siano esposti a rischi maggiori di
quelli strettamente connaturati, e perciò insopprimibili, alle operazioni eseguite sul mercato dei
valori mobiliari, sottoposto alle regole del libero mercato e, quindi, ai rischi tipici dell'iniziativa
economica privata».
Cfr. Cass. Pen. 2^ Sez. sentenza n. 24530/12
La fiducia del cliente nel promotore finanziario non si fonda solamente sull’esposta responsabilità solidale
di chi ha conferito a questi l’incarico, ma altresì sulla convinzione che siano stati rispettati quegli specifici
doveri gravanti sull’abilitato all’offerta fuori sede e disciplinati dall’art. 21, comma 1 lett. a), b) e c) TUF.
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come una banca (che annovera quel promotore fra i propri impiegati). Pertanto, l’agente è
onerato di doveri sia verso l’intermediario, che verso il cliente11.
Al fine di meglio illustrare l’esposto convincimento, si noti quanto statuito dalla Suprema Corte
in riferimento ad un caso (seppur solo parzialmente) analogo a quello deciso dal monocratico
tiburtino: «le linee argomentative seguite dal giudice del merito si sviluppano coerentemente
lungo i binari tracciati, dalla giurisprudenza di legittimità in sede civile, col principio secondo
cui, proprio in tema di intermediazione mobiliare, la mera allegazione del fatto che il cliente
abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle
con cui quest’ultimo sarebbe legittimato a riceverle, non vale, in caso di indebita appropriazione
di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo
svolgimento dell’attività dello stesso e la consumazione dell’illecito, e non preclude, pertanto,
la possibilità di invocare la responsabilità solidale dell’intermediario preponente; né un tal fatto
può essere addotto dall’intermediario come concausa del danno subito dall'investitore, in
conseguenza dell’illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre l’ammontare del
risarcimento dovuto. Le disposizioni di legge e regolamentari dettate in ordine alle modalità di
corresponsione al promotore finanziario dell’equivalente pecuniario dei titoli acquistati o
prenotati, infatti, sono dirette unicamente a porre a suo carico un obbligo di comportamento al
fine di tutelare l’interesse del risparmiatore e non possono, quindi, logicamente interpretarsi
come fonte di un onere di diligenza a carico di quest’ultimo, tale da comportare un addebito di
colpa (concorrente, se non addirittura esclusiva) in capo al soggetto danneggiato dall’altrui atto
illecito, e salvo che la condotta del risparmiatore presenti connotati di “anomalia”, vale a dire,
se non di collusione, quanto meno di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle
regole gravanti sul promotore, palesata da elementi presuntivi, quali ad esempio il numero o la
ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, il valore complessivo delle
Le regole comunitarie e nazionali che disciplinano contenuto e forma dei contratti di investimento
impongono all’intermediario ed all’emittente un evidente dovere di chiarezza e trasparenza informativa nei
confronti del cliente risparmiatore. Si noti infatti che, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., è posto a carico
dei contraenti un obbligo di informazione e chiarezza; ai sensi dell’art. 21 del D.lgs. n. 58/98 si impone agli
intermediari di “operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati”; il regolamento
Consob n. 11522/98 e l’allegato 7 allo stesso impongono all’intermediario di “illustrare all’investitore in
modo chiaro ed esauriente (…) gli elementi essenziali dell’operazione, del servizio o del prodotto”. Quindi
solo obbligando alla chiarezza gli intermediari e gli emittenti di strumenti finanziari (in ordine a contenuto
e forma dei contratti di investimento) costoro adempiono al proprio dovere di informare il cliente, tentando
in tal modo di riequilibrare in favore del risparmiatore le fisiologiche differenze conoscitive fra i due
contraenti. Tale dovere non può poi ritenersi adempiuto dalla mera esibizione o sottoscrizione dei
documenti informativi, atteso che si ritiene indispensabile chiarirne il significato e l’effettiva portata al
cliente.
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operazioni, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza del
complesso “iter” funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e le sue
complessive condizioni culturali e socio-economiche (Sez. 1, Sentenza n. 6829 del 24/03/2011
(Rv. 616358); Sez. 3, Sentenza n. 1741 del 25/01/2011 (Rv. 616356). Si pone in evidenza nella
motivazione delle sentenze citate che “la responsabilità dell’intermediario preponente trova
la sua ragion d’essere, per un verso, nel fatto che l’agire del promotore è uno degli
strumenti dei quali l’intermediario si avvale nell’organizzazione della propria impresa,
traendone benefici cui è ragionevole far corrispondere i rischi; per altro verso, ed in
termini più specifici, nell’esigenza di offrire una più adeguata garanzia ai destinatari delle
offerte fuori sede loro rivolte dall’intermediario per il tramite del promotore, giacché
appunto per le caratteristiche di questo genere di offerte più facilmente la buona fede dei
clienti può essere sorpresa. E tale garanzia il legislatore ha inteso rafforzare, tra l’altro, anche
e proprio attraverso un meccanismo normativo volto a responsabilizzare l’intermediario nei
riguardi dei comportamenti di soggetti - quali sono i promotori - che l’intermediario medesimo
sceglie, nel cui interesse imprenditoriale essi operano e sui quali nessuno meglio
dell’intermediario è concretamente in grado di esercitare efficaci forme di controllo...”. Invero,
un simile principio è quello idoneo a risolvere la vicenda processuale in esame, emergendo
dalla lettura della sentenza impugnata che l’apprezzamento del giudice del merito - confutato,
come detto, inammissibilmente con argomentazioni in fatto esposte nel ricorso - è stato nel
senso del pieno ed assoluto affidamento da parte dei querelanti nella serietà professionale e
nelle capacità del family banker, della unicità – rispetto al passato – della operazione loro
sottoposta dall’imputato, relativa a prodotti finanziari non venduti direttamente dalla Banca,
della scarsa dimestichezza rispetto alle comunicazioni bancarie e alle operazioni finanziarie
che, per questo, venivano sintetizzate in “schemi” ad opera del promotore: elementi tutti che
hanno motivatamente indotto il giudice del merito a far emergere una situazione del tutto
diversa da quella della collusione tra le persone offese e l’imputato e comunque diversa
anche dalla consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul
promotore» (Cass. Pen. Sez. 5^ sent. n. 6185/13).
Avv. Tommaso Giustiniano
Avv. Fabio D’Offizi
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