DI CAPUA-05.12.2013-SSM-Semplificazione dei riti

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DI CAPUA-05.12.2013-SSM-Semplificazione dei riti
CORTE DI APPELLO DI TORINO
FORMAZIONE DECENTRATA
SETTORE CIVILE
Incontro di studi del 18 aprile 2012
Semplificazione dei riti a sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo 1°
settembre 2011 n. 150 “Disposizioni complementari al codice di procedura civile in
materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai
sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n.69.”
SOMMARIO
§ 1. Premessa.
§ 2. Il giudizio complessivo sulle novità.
§ 3. L’oggetto della semplificazione dei riti: la materia inclusa e la materia esclusa.
§ 4. Disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito del lavoro.
§ 5. Disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito sommario.
§ 6. Controversie disciplinate dal rito ordinario.
§ 7. Il mutamento nel rito.
§ 8. Sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.
§ 9. Le controversie in materia di liquidazione degli onorari e diritti di avvocato.
§ 10. Le controversie in materia di spese di giustizia.
§ 11. Le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale.
§ 12. Le controversie in tema di espulsione dei cittadini extracomunitari
§ 13. Le controversie in materia di atti discriminatori.
§ 14. Le controversie in materia di rettificazione dell’attribuzione del sesso.
§ 15. Le controversie in tema di entrate patrimoniali dello Stato e degli Enti pubblici.
§ 16. La norma transitoria.
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§ 1. Premessa.
La presenta relazione si prefigge di riprendere e approfondire, dopo sei mesi di
“decantazione”1, la relazione proposta alla Tavola rotonda2 del 20 ottobre 2011 in sede di
commento “a prima lettura” in seguito all’entrata in vigore del d.lgs.1° settembre 2011 n.150.
Quella prima relazione, a causa del limitatissimo tempo a disposizione per la preparazione,
sia per la sua finalità, diretta a fornire soltanto una prima base orientativa per la discussione
da parte dei colleghi magistrati del Distretto circa le recentissime novità normative in
materia processuale, era stata qualificata riduttivamente come un complesso di “prime
considerazioni” stimolate dalla lettura del nuovo testo normativo in materia di “semplificazione
dei riti civili”.
Anche in questa sede si ricorrerà alla tecnica di descrivere sommariamente le novità e
proporre di volta in volta gli interrogativi e le problematiche che ne scaturiscono, non
sempre fornendo un abbozzo di risposta o una proposta di soluzione; sarà ora tuttavia
possibile arricchire il dibattito anche con il contributo di qualche riflessione dottrinale e di
alcune prime (rare) pronunce applicative.
§ 2. Il giudizio complessivo sulle novità.
Non può mancare l’espressione di un giudizio sulle novità; il decreto sulla semplificazione
dei riti, pur con qualche cautela e con qualche prevedibile difficoltà di gestione (non ultima
sotto il profilo informatico) può essere salutato con accenti positivi.
Il Legislatore Delegato è intervenuto per ricondurre ai tre modelli contemplati dal codice di
procedura civile una eterogenea serie di schemi processuali, proliferati negli ultimi decenni
in assenza di un disegno organico, alla ricerca vana di una soluzione che potesse assicurare
una maggiore celerità dei giudizi3.
Essi sono:
1. rito disciplinato dal libro secondo, titolo IV, capo I, del codice di procedura civile,
applicato ai procedimenti prevalentemente caratterizzati da concentrazione
processuale o officiosità dell’istruzione, di seguito per semplicità definito “rito
del lavoro”;
2. rito sommario di cognizione di cui al libro quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di
procedura civile, come introdotto dall’articolo 51 della legge n.69 del 2009,
applicato ai procedimenti, prevalentemente caratterizzati dalla semplificazione
della trattazione o dell’istruzione della causa, di seguito per semplicità definito
“rito sommario”;
3. rito di cui al libro secondo, titoli I e III, del codice di procedura civile applicato a
tutti gli altri procedimenti di seguito per semplicità definito “rito ordinario”.
Il Legislatore delegato si è prefisso di realizzare un vero e proprio Testo Unico processuale,
in ideale prosecuzione del Libro IV del Codice di rito, sostituendo le norme previste dalle
singole leggi speciali con i richiami al nuovo testo legislativo, per consentire agli interpreti
di “rinvenire agevolmente in un unico testo tutte le norme che disciplinano ciascun procedimento speciale, con
I contributi scientifici non sono ancora molti: DEMARCHI “Il processo civile semplificato”, Milano 2011;
Buffone “Semplificazione del processo civile”, Il Civilista , Speciale riforma; AA.VV “Riforma dei riti civili”, Gli
Speciali Quotidiano Giuridico, ottobre 2011; BULGARELLI, “Il procedimento di liquidazione degli onorari e dei
diritti degli avvocati dopo il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti”, Giust.civ.2011, 439; GIORDANO, “ Note a
prima lettura sulle previsioni generali del d.lgs. 150 del 2011 in tema di semplificazione dei riti civili.”, Giust.civ. 2011, 427;
PORRECA, “L’appellabilità dell’ordinanza di rigetto nel procedimento sommario di cognizione: deformalizzazione, giudicato e
giusto processo”, Giur, merito, 2011, 2676; PORRECA “Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti: qualche
osservazione iniziale”, Giur.merito 2012, 30; SASSANI-TISCINI, “La semplificazione dei riti”, Roma 2011.
2 Peraltro rivolta ad un pubblico di soli magistrati.
3 Sono concetti espressi, pressoché testualmente, nella Relazione illustrativa.
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una formulazione ideata appositamente per fugare i dubbi interpretativi conseguenti all’adattamento dei
modelli processuali.”4
Il Legislatore delegato ha inoltre dichiarato l’intenzione, per il futuro, di evitare la
proliferazione dei riti e di conservare in un unico Testo le norme processuali speciali, così
invertendo la tendenza precedente, e ha abbandonato il modello, caro alla legislazione di
fine ventesimo secolo, del procedimento camerale ex art.737 e ss. c.p.c. per la celebrazione
di procedimenti contenziosi civili.
Una delle linee chiave della Novella, del resto conforme ai criteri della delega, è il
mantenimento delle disposizioni previste dalla legislazione speciale che attribuissero poteri
officiosi al Giudice o che fossero finalizzate a produrre effetti altrimenti non
consentiti dal codice di rito.
Il Legislatore Delegato si è infine apertamente professato fedele alla regola del
“Legislatore consapevole”, manifestando l’intendimento (lodevole) di conformarsi alle
chiavi giurisprudenziali di lettura interpretativa delle norme nonché quello (doveroso) di
rispettare le pronunce della Consulta e le abrogazioni implicite.
Ne consegue una struttura normativa divisa in cinque capi:
il primo è dedicato alle disposizioni di carattere generale;
il secondo al rito del lavoro;
il terzo al rito sommario
il quarto al rito ordinario;
il quinto alle abrogazioni e alle modificazioni delle leggi speciali, nonché alla disciplina
transitoria.
La delega utilizzata era contenuta nell’art.54 della legge 18 giugno 2009 n.695:
“Il Governo è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei
procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione
ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale.
La riforma realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti.
Gli schemi dei decreti legislativi previsti dal presente articolo sono adottati su proposta del Ministro della
giustizia e successivamente trasmessi al Parlamento, ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle
Commissioni competenti per materia, che sono resi entro il termine di trenta giorni dalla data di
trasmissione, decorso il quale i decreti sono emanati anche in mancanza dei pareri. Qualora detto termine
venga a scadere nei trenta giorni antecedenti allo spirare del termine previsto dal comma 1, o
successivamente, la scadenza di quest’ultimo è prorogata di sessanta giorni.
Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri
direttivi:
a) restano fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo
giudicante, previsti dalla legislazione vigente;
b) i procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale sono
ricondotti ad uno dei seguenti modelli processuali previsti dal codice di procedura civile:
1) i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di
officiosità dell’istruzione, sono ricondotti al rito disciplinato dal libro secondo, titolo IV,
capo I, del codice di procedura civile;
2) i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di
semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, sono ricondotti al
procedimento sommario di cognizione di cui al libro quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di
Così, testualmente, nella Relazione.
In proposito BALENA, “La delega per la riduzione e semplificazione dei riti”, Foro it. 2009, V, 354;
COSTANTINO, “La disciplina transitoria e l’abolizione dei riti nella legge 69/09”, Riv.dir.proc.2009,. 1253;
DALFINO “Disciplina transitoria e abrogazione dei riti”, Foro it. 2009, V, 350, PORRECA “La riduzione e
semplificazione dei riti”, ne “Il processo civile competitivo” a cura di Didone, Torino 2010, 1005.
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procedura civile, come introdotto dall’articolo 51 della presente legge, restando tuttavia esclusa per
tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario;
3) tutti gli altri procedimenti sono ricondotti al rito di cui al libro secondo, titoli I e III, ovvero titolo
II, del codice di procedura civile;
c) la riconduzione ad uno dei riti di cui ai numeri 1), 2) e 3) della lettera b) non comporta
l’abrogazione delle disposizioni previste dalla legislazione speciale che
attribuiscono al giudice poteri officiosi, ovvero di quelle finalizzate a produrre
effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura
civile;
d) restano in ogni caso ferme le disposizioni processuali in materia di procedure
concorsuali, di famiglia e minori, nonché quelle contenute nel regio decreto 14
dicembre 1933, n. 1669, nel regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, nella legge 20
maggio 1970, n. 300, nel codice della proprietà industriale di cui al decreto
legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, e nel codice del consumo di cui al decreto
legislativo 6 settembre 2005, n. 206.”
Come vedremo, il Legislatore Delegato si è, quasi sempre, attenuto ai criteri fissati dalla
delega.
§ 3. L’oggetto della semplificazione dei riti: la materia inclusa e la materia esclusa.
Si è detto che la delega legislativa consentiva un intervento di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione rientranti nell’ambito della giurisdizione ordinaria e
regolati dalla legislazione speciale.
Il Legislatore delegato non aveva quindi il potere di “toccare” i lineamenti del
procedimento civile ordinario sul quale era invece intervenuto il Delegante con la citata
legge n.69 del 2009.
Il comma 4, lettera d) dell’art.54 salvaguardava una serie di disposizioni processuali
speciali dalla scure semplificatoria, ossia quelle:
in tema di procedure concorsuali;
in tema di famiglia e minori;
di cui al regio decreto 14 dicembre 1933, n. 1669 (legge assegno);
di cui al regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736 (legge cambiaria);
di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300 ( Statuto dei lavoratori);
di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale);
di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo).
§ 4. Disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito del lavoro.
L’art. 2 contiene una serie di disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito del
lavoro (Capo II), ossia:
procedimenti di opposizione a sanzione amministrativa e di opposizione al verbale di
accertamento di violazione del codice della strada;
procedimenti in materia di opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato;
procedimenti in materia di applicazione delle disposizioni del Codice in materia di
protezione dei dati personali;
controversie agrarie;
procedimenti in materia di impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei
protesti.
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In sostanza il rito del lavoro applicabile ai procedimenti speciali non è il rito lavoristico
“puro” e neppure quello “locazionistico” di cui all’art.447 bis c.p.c.6 ma un rito del lavoro
depurato di tutte le disposizioni ritenute non esportabili perché precipuamente
originate dalle peculiarità delle controversie di lavoro7.
Tali disposizioni sono le seguenti:
art.413 in tema di competenza territoriale;
art.415, comma 7, in tema di particolarità della notifica per le controversie dei pubblici
dipendenti;
art.417 in tema di costituzione e difesa personale della parte;
art.417 bis in tema di difesa delle pubbliche amministrazioni;
art.420 bis in tema di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità e interpretazione
dei contratti e accordi collettivi;
art.421, comma 3, in tema di accesso e escussione testimoni sul luogo di lavoro;
art.425 in tema di richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali;
artt.426 e 427 in tema di mutamento del rito;
art.429, comma 3, in tema di rivalutazione monetaria dei crediti del lavoratore;
art.431, commi 1-4 e 6, in tema di esecutorietà della sentenza8;
art.433 in tema di competenza del giudice di appello;
art.438, comma 2, che richiama il comma 2 dell’art.431 in tema di deposito della
sentenza di appello;
art.439 in tema di cambiamento del rito in appello.
Inoltre l’ordinanza ingiuntiva di cui al comma 2 dell’art.423 può essere pronunciata a favore
di ciascuna delle parti, mentre l’esecutorietà delle sentenze di condanna (431, comma 5)
vale bilateralmente.
Non opera infine, di norma, lo svincolo dalle regole codicistiche per l’esercizio dei poteri
istruttori d’ufficio di cui all’art.421, comma 2.
Il motivo dell’espunzione delle regole dettate per il mutamento del rito (artt.426, 427 e 439)
è semplice: vi è una speciale regolazione dell’argomento contenuta nell’art.4 del decreto, su
cui infra.
§ 5. Disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito sommario.
L’art. 3 contiene una serie di disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito
sommario (Capo III), ossia:
procedimenti in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato;
opposizioni ai decreti di pagamento delle spese di giustizia;
procedimenti in materia di immigrazione, e cioè in materia:
o di diritto di soggiorno e di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri
dell’Unione europea o dei loro familiari,
o di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea;
o di riconoscimento della protezione internazionale;
o opposizioni al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del
permesso di soggiorno per motivi familiari;
Caratterizzato da una diversa – ed opposta - tecnica legislativa: in quel caso il Legislatore ha indicato
espressamente le norme del rito del lavoro applicabili dalle controversie in materia di locazione e comodato di
immobili urbani e di affitto di azienda
7 E in particolare dal regime di favore per la “parte processuale debole” rappresentata dal lavoratore.
8 Il 5° comma, così preservato, è altrettanto incompatibile in quanto fa richiamo alla disciplina ordinaria per le
sentenze di condanna a favore del datore di lavoro; il Legislatore, volendo semplicemente salvaguardare la
disciplina ordinaria dell’esecutività delle pronunce di condanna di primo grado, con il comma 3 dell’art.2 ha
disposto che esso si applichi alle sentenze di condanna di ciascuna delle parti.
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opposizioni alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio;
azioni popolari e controversie in materia di eleggibilità, decadenza ed incompatibilità
nelle elezioni comunali, provinciali, regionali e per il Parlamento europeo;
impugnazioni delle decisioni della Commissione elettorale circondariale in tema di
elettorato attivo;
procedimenti in materia di riparazione a seguito di illecita diffusione del contenuto di
intercettazioni telefoniche;
impugnazioni dei provvedimenti disciplinari a carico dei Notai;
impugnazione delle deliberazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti;
procedimenti in materia di discriminazione;
opposizioni ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato;
controversie in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica
utilità;
controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di
giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento.
Nel rispetto del ricordato criterio di delega previsto dall’articolo 54, comma 4, lett. b), n. 2),
della legge 18 giugno 2009, n. 69 è stata esclusa, per tutti i procedimenti suindicati, la
possibilità di conversione del rito sommario di cognizione nel rito ordinario.
In altre parole, al Giudice non è concessa la facoltà discrezionale di disporre per l’istruzione
non sommaria dell’intera causa o della sola domanda riconvenzionale (art.702 ter, comma
3).9
Per commentare e giustificare l’esclusione della possibilità di conversione al rito ordinario
nella Relazione illustrativa è stata inserita una lunga digressione, volta a confutare il dubbio
di costituzionalità che si potrebbe sollevare nei casi in cui il rito sommario venga
applicato a procedimenti destinati a sfociare in pronuncia non appellabile.
Si tratta in sostanza di una elaborata esposizione che difende10 la scelta normativa da
censura di costituzionalità per violazione dell’art.111 Cost. nell’ipotesi in cui il rito
sommario di cognizione venga applicato a procedimenti in cui non è previsto un
secondo grado di merito.
Questi, in sintesi, i passaggi principali:
alcuni dei procedimenti ricondotti al rito sommario di cognizione prevedono che la
decisione di primo grado sia inappellabile, conservando quanto stabilito dall’attuale
disciplina quale effetto processuale speciale;
una parte, minoritaria, della dottrina, ritiene che il procedimento sommario di
cognizione, in prime cure, non sia a cognizione piena in quanto carente della compiuta
predeterminazione delle forme istruttorie e ritiene in conseguenza che la garanzia di
almeno un grado di cognizione di merito piena, imponga (ex art.111 Cost.) la necessità
di un appello aperto a ogni nuova richiesta istruttoria (cfr art. 702 quater c.p.c.);
la dottrina maggioritaria afferma la natura piena della cognizione prodotta dal
procedimento di cui agli artt. 702 bis c.p.c., anche in prime cure, distinguendo la
sommarietà della forme da quella della delibazione;
tale conclusione è corretta perché confermata da una serie di indici positivi, e in
particolare:
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Sul punto sia GIORDANO, op.cit., sia TISCINI, op.cit., indicano la scelta necessitata della separazione
della causa principale dalla riconvenzionale, insuscettibile di trattazione sommaria.
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Le critiche più severe provenivano da AULETTA “Note alle Disposizioni complementari al codice di procedura civile
in materia di riduzioni e semplificazioni, ai sensi dell’art.54, l.18.6.2009 n.69”, audizione luglio 2011; CARATTA
“Nota per l’audizione del 19.7.2011 presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati sullo Schema di decreto
legislativo recanti Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzioni e semplificazioni dei
procedimenti civili di cognizione “, audizione 19.7.2011.
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dal quinto comma dell’art. 702 ter, che stabilisce che il Giudice procede a tutti gli atti di
istruzione rilevanti e non solo a quelli indispensabili, a differenza di quanto, invece,
previsto dall’art. 669 sexies, primo comma, c.p.c. (disposizione sintomatica della natura
di procedimento a cognizione sommaria del cautelare, giustificata dall’urgenza e
coerente con la mancata produzione di un giudicato)
nonché dall’art. 702 ter, quinto comma, c.p.c., secondo il quale Giudice procede agli atti
istruttori rilevanti “in relazione all’oggetto del provvedimento” richiesto, e non, come si legge
nell’art 669 sexies, primo comma, c.p.c., a quelli indispensabili “in relazione ai presupposti e
ai fini del provvedimento” richiesto;
pertanto la domanda svolta con il rito sommario è rivolta alla piena tutela del bene della
vita che è ad essa sottesa e ne costituisce, appunto, l’oggetto, sicché la finalità della
pretesa non è la conformazione del provvedimento strumentale alla cautela del diritto,
quanto piuttosto la protezione piena quest’ultimo;
la legge di delega prevede la riconduzione al rito sommario dei procedimenti “in cui sono
prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa”, operando un
chiaro riferimento alla semplificazione delle forme e non alla sommarietà della
cognizione;
questa scelta dev’essere ritenuta pienamente legittima sul piano costituzionale, a
prescindere dalla corrispondenza con un appello aperto a nuovo richieste istruttorie;
infatti l’art. 111 Cost. non può essere letto nel senso di richiedere, sempre e comunque,
un processo “interamente” regolato dalla legge, ma nella più aderente accezione per cui la
disciplina processuale non può che essere legislativa, vale a dire affidata a norme
primarie;
in applicazione del principio di proporzionalità dell’uso della risorsa giudiziaria, non
illimitata, l’introduzione, in equilibrata misura, di forme processuali flessibili, è
essenziale per garantire la realizzazione complessiva del principio – anch’esso
costituzionale, e anch’esso sancito nello stesso art. 111 Cost. citato – di ragionevole
durata dei processi;
la Corte Costituzionale ha sempre escluso l’illegittimità del ricorso, da parte del
legislatore ordinario, alle forme camerali, ampiamente rimesse alla discrezionalità
giudiziale, anche per la composizione di conflitti su diritti soggettivi e status affermando
che tale scelta “non è di per sé suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in quanto l’esercizio di
quest’ultimo può essere modulato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari procedimenti,
purché ne vangano assicurati lo scopo e la funzione” (Corte cost., 23 aprile 1998, n. 141);
essenziale è il rispetto del contraddittorio, del diritto alla prova e all’assistenza tecnica,
che del primo costituiscono la compiuta declinazione, oltre, naturalmente, al
presupposto della terzietà del giudice11;
la Costituzione non richieda necessariamente un doppio grado di merito;
pertanto nel procedimento di cui agli artt. 702 bis e seguenti il fatto che il Legislatore
abbia previsto un appello “aperto” non implica la necessità costituzionale della scelta;
il Legislatore, ponendo il procedimento sommario di cognizione quale alternativa al rito
“comune”, per le cause che richiedono un’attività istruttoria più semplice, ha previsto due
correttivi al “dimensionamento” delle garanzie implicato dalla conseguente semplificazione
delle forme: la possibilità, per il giudice, di fissare l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.,
riconducendo la causa sui binari più “formali”, e, in difetto, un appello più aperto.
ciò però non esclude la facoltà, per il Legislatore ordinario, di ricorrere a forme
semplificate serventi una cognizione piena in unico grado di merito, nelle ipotesi in cui
la peculiarità della fattispecie lo giustifichi12;
Corte cost., 12 luglio 1965, n. 70 a Corte cost., 13 giugno 2008, n. 212 e, da ultimo, Corte cost., 29 maggio
2009, n. 170.
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il rito sommario di cognizione determina una strutturazione delle forme ben maggiore
di quella propria del rito camerale;
l’oggetto del procedimento, cioè, è ritenuto in quei casi ex lege a bassa complessità
istruttoria, e tale per cui forme semplificate e unico grado di merito sono sufficienti;
deve ritenersi, pertanto, ampiamente compatibile con il vigente quadro delle garanzie
costituzionali la previsione della riconduzione al rito sommario di cognizione, senza
facoltà di conversione al rito ordinario, anche di quelle controversie per le quali è
previsto un unico grado di giudizio di merito.
In sostanza dalla critica dottrinale13 venivano sollevate le seguenti obiezioni:
non omologabilità tra procedimento ordinario e sommario quanto a pienezza della
cognizione;
cancellazione del carattere facoltativo del procedimento sommario di cognizione;
imprescindibilità del gravame di merito a fronte della sommarietà dell’istruttoria;
inaccettabilità della simmetria del rito camerale e rito sommario per il corretto utilizzo e
la corretta ricostruzione del procedimento di cui all’art.702 bis c.p.c.
In conseguenza i profili sollevati di incostituzionalità denunciati attenevano:
alla violazione della delega per l’utilizzo del rito sommario in fattispecie non
caratterizzate dalla semplificazione della trattazione o dell’istruzione (ad es. in materia di
status);
alla violazione della delega per alterazione del modello proprio del procedimento
sommario, da cui non sarebbe scindibile l’appello;
alla violazione dei principi del giusto processo e del diritto di difesa per la soppressione
del gravame di merito contro la decisione nel rito sommario.
Le critiche si imperniano sulla inappellabilità prevista per alcuni procedimenti sommari; è
chiaro che lo snodo essenziale è l’idoneità del rito sommario a garantire il giusto processo,
senza bisogno della “stampella” correttiva della possibilità di appello.
Di qui l’interrogativo: è piena la cognizione in cui il Giudice disponga di poteri istruttori
discrezionali?
In dottrina14 si è risposto:
la valutazione di idoneità della causa a essere trattata in forme semplificate è stata risolta
ex lege sulla base della peculiare semplicità degli accertamenti necessari,
fra l’altro preesisteva una trattazione col rito camerale (indice fortissimo di semplicità
della controversia) inappellabile;
il procedimento a cognizione sommaria non è un procedimento sommario di
cognizione e la qualità della valutazione sugli aspetti probatori e può essere anche molto
elevata;
gli atti di istruzione previsti sono tutti quelli “rilevanti”;
il mezzo di prova deve essere tarato sul bene di cui si discute e sulla tutela finale da
erogare:
la cognizione piena può conseguire ad una istruttoria deformalizzata, perché la
previsione di cui all’art.111 Cost. non richiede necessariamente un processo
interamente e completamente regolato dalla legge.
Non sono previste deroghe apportate in via generale15 alle regole dettate nell’art.702
bis in tema di proposizione della domanda, contenuto del ricorso, formazione del
Corte cost., 1° marzo 1973, n. 22; Corte cost., 6 dicembre 1976, n. 238 e Corte cost., 11 aprile 2008, n. 96.
Riassunta da PORRECA, ne “Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti….” cit.
14
PORRECA, “Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti….” cit.
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15
Ve ne sono invece nei singoli procedimenti speciali nel rispetto di regole peculiari preesistenti che il
Legislatore delegato ha inteso conservare.
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fascicolo, designazione del giudice, convocazione delle parti all’udienza di
comparizione, termini di notificazione e costituzione, contenuto della comparsa di
risposta, decadenze e preclusioni, chiamata di terzo.
Non si applicano invece i commi 2 e 3 dell’art.702 ter, poiché al Giudice è negata la
valutazione discrezionale circa l’opportunità e congruità del rito sommario, fissata una volta
per tutte ex lege.
Occorre inoltre precisare che se c’è un problema di conversione del rito la regola del
procedere va individuata solamente nell’art.4 del decreto.
L’art.702 ter, comma 4, in tema di separazione della domanda riconvenzionale non
trattabile con rito sommario è invece applicabile; in qualche caso potrebbe configurarsi
un nesso di pregiudizialità che può condurre alla sospensione del procedimento principale.
Il comma 2 si occupa dell’ipotesi in cui la causa sia giudicata in primo grado in
composizione collegiale (ipotesi questa non considerata dalle disposizioni codicistiche per
la semplice ragione che l’art.702 bis, comma 1 circoscrive l’esperibilità del procedimento
sommario alle cause in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica).
Beninteso, a rigore, ciò dovrebbe scaturire dall’applicazione del rito sommario a
controversie già devolute ad un Giudice collegiale, in base alle norme preesistenti
(azioni popolari e controversie elettorali di cui all’art.19, azioni in materia di eleggibilità e
compatibilità nelle elezioni per il Parlamento Europeo di cui all’art.20, procedimento per
l’impugnazione delle decisioni della Commissione elettorale circondariale in materia di
elettorato attivo di cui all’art.21, procedimenti per l’impugnazione dei provvedimenti
disciplinari a carico dei Notai di cui all’art.23, procedimenti per l’impugnazione delle
deliberazioni del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, di cui all’art.24).
Infatti la legge delega espressamente prevedeva quale principio e criterio direttivo che
restassero “fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione
dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente”.
Il comma 2 dell’art.3 attribuisce al Presidente del Collegio il compito di designare sin dal
decreto di convocazione il Giudice relatore.
La trattazione dovrebbe quindi essere collegiale, così pure le decisioni istruttorie, le
decisioni delle questioni preliminari e ovviamente la decisione definitiva della controversia.
La legge permette solamente al Presidente 16 di delegare l’assunzione dei mezzi di prova ad
un componente del Collegio; tuttavia si tratta della stessa formula dell’art.702 quater.
Le parti quindi dovrebbero sempre essere convocate dinanzi al Giudice collegiale.
Il terzo comma dell’art.3 sta semplicemente a dire che anche dinanzi alla Corte di Appello,
quale Giudice in unico grado, si applicano le regole procedimentali degli artt.702 bis e ter,
con le limitazioni sopra indicate.
§ 6. Controversie disciplinate dal rito ordinario.
Il decreto legislativo non contiene una norma dettata a titolo di disposizioni comuni alle
controversie speciali a cui viene reso applicabile il rito ordinario di cognizione.
Si tratta delle controversie incluse nel Capo IV, quello sicuramente meno numeroso, poiché
riguarda solo tre tipi di procedimento, ossia:
controversie in materia di rettificazione dell’attribuzione del sesso (art.31);
opposizioni alla procedura coattiva per la riscossione delle entrate patrimoniali e degli
enti pubblici (art.32);
controversie in materia di liquidazione degli usi civici (art.33):
Il che è un po’ incongruo: dovrebbe essere il Collegio ad adottare la decisione; va bene che il
provvedimento è ordinatorio, ma è un po’ assurdo che un Presidente in minoranza possa decidere per la
delega o addirittura riservare a se stesso gli incombenti istruttori: il Giudice è il Collegio.
16
9
A tanto il Legislatore delegato si è risolto, non avendo motivo di ritenere che tali
controversie presentassero caratteri di concentrazione processuali o officiosità di istruzione
o di semplificazione di trattazione e istruzione che giustificassero una diversa opzione.
§ 7. Il mutamento nel rito.
L’art.4 regola il mutamento del rito.
Si tratta di una disposizione speciale dettata per regolare il mutamento del rito quando una
delle controversie speciali oggetto del decreto sulla semplificazione è stata proposta in
forme diverse da quelle previste dal decreto stesso, ossia quando una delle controversie in
parola:
soggetta al rito del lavoro, è stata promossa con atto di citazione o ricorso ex art.702 bis
c.p.c., anziché con ricorso ex art. 414 c.p.c.,
ovvero soggetta al rito ordinario, è stata promossa con ricorso ex art.414 c.p.c. o ricorso
ex art.702 bis c.p.c., anziché con atto di citazione,
soggetta al rito sommario, è stata promossa con atto di citazione o ricorso ex art. 414
c.p.c., anziché con ricorso ex art.702 bis c.p.c.
Per i procedimenti estranei alla legislazione speciale regolata dal decreto la disciplina della
conversione del rito continua a risiedere nel codice di procedura e cioè negli:
artt.426, 427 e 439, quanto ai rapporti fra rito del lavoro e rito ordinario;
art.702 ter, quanto ai rapporti tra rito sommario e rito ordinario;
art.40, quanto all’influenza della connessione dei procedimenti sul rito da seguire.
La disciplina del mutamento del rito copre anche la fattispecie del mutamento del rito da
sommario di cognizione a rito del lavoro (non prevista espressamente nel codice di
procedura) ed è ispirata, secondo la Relazione:
1. all’assenza di ragioni tali da dar luogo a un favor assoluto per uno specifico modello
procedimentale,
2. all’esigenza di ridurre al minimo l’ambito temporale di incertezza sulle regole destinate a
disciplinare il processo, al fine di scongiurare vizi procedurali che lo possano far
regredire, in contraddizione con i principi di economia processuale e di ragionevole
durata sanciti dall’art. 111 della Costituzione.
Nel caso in cui uno dei procedimenti previsti dal decreto sia stato erroneamente introdotto
applicando un rito differente rispetto a quello previsto dalla legge, il giudice deve disporre il
mutamento del rito con apposita ordinanza, da pronunziare, anche d’ufficio, non
oltre la prima udienza di comparizione delle parti.
Viene prevista la rilevabilità d’ufficio della violazione del rito, ma la stessa viene
assoggettata ad una soglia preclusiva, individuata nella prima udienza di comparizione.
In conseguenza, parrebbe che scatti una preclusione17, anche per il Giudice, che non
può più successivamente operare la conversione (diversamente da quanto previsto
dagli artt.426 e 427 c.p.c., ad esempio), tantomeno in appello, come consente l’art.439
c.p.c.18
Entro la soglia preclusiva pare che il Giudice non debba solamente “rilevare” la questione
(indicandola alle parti, cioè e sottoponendola al contraddittorio) ma (diversamente da
quanto previsto ad esempio dall’art.38, comma 3, c.p.c., in tema di rilievo
Non è chiaro se superabile in presenza dell’accordo delle parti. Indubbiamente vi è un interesse pubblico al
rispetto del rito scelto dal Legislatore perché più funzionale alla celebrazione del processo; questo interesse
cede però al principio della celerità che si esprime nella preclusione; se questo cedimento è ispirato
all’interesse delle parti, queste, forse, con l’accordo del Giudice ne possono disporre.
18 La Relazione spiega che la ragione sta nelle peculiarità delle esigenze di tutela del lavoratore che ispirano alla
tutela della parte processuale debole, per vero senza considerare che l’art.439 è richiamato anche nell’ambito
del rito “locatizio” dall’art.447 bis c.p.c.
17
10
dell’incompetenza d’ufficio) deve anche risolverla con l’adozione del provvedimento di
conversione.
Anche se la legge indica la soglia preclusiva nell’udienza, appare ragionevole considerare
l’ordinanza riservata all’udienza di comparizione come il suo naturale prolungamento e la
sua appendice processuale ai sensi dell’art.134, comma 1, c.p.c.
Vien da chiedersi se il provvedimento possa essere pronunciato anche prima dell’udienza di
comparizione.
Sembra, forse, più attendibile l’opinione negativa, se si considera che la questione dovrebbe
essere sottoposta al contraddittorio (ex art.111 Cost. e 101 c.p.c.) e che il d.lgs.150/2011
indica la forma del provvedimento del Giudice nell’ordinanza, che ai sensi dell’art.134 c.p.c.
presuppone il contraddittorio già costituito (a conferma dell’uso avvertito e consapevole dei
termini “ordinanza” e “decreto” da parte del Legislatore Delegato basta leggere il successivo
art.5).
In ogni caso sicuramente, a contraddittorio incompleto (per esempio dopo aver ricevuto il
ricorso ex art.413 o 702 bis c.p.c.), il Giudice può rilevare la questione per stimolare le
osservazioni delle parti; per provvedere, secondo la tesi esposta, dovrebbe però attendere
l’udienza di comparizione.
Nel caso in cui la controversia rientri tra quelle per le quali il decreto prevede l’applicazione
del rito del lavoro, caratterizzato da più stringenti e anticipate preclusioni, assertive e
probatorie, con l’ordinanza di mutamento del rito il Giudice deve fissare l’udienza di cui
all’articolo 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere
all’eventuale integrazione degli atti introduttivi19.
Il meccanismo è analogo a quello di cui all’art.426 c.p.c.; dovrebbe valere l’indicazione
dottrinale circa la necessità di differenziazione dei termini per l’integrazione, a tutela del
diritto al contraddittorio.
L’ordinanza dovrebbe essere notificata anche alla parte contumace alla luce del principio
giurisprudenziale secondo cui “Nel rito locatizio l’ordinanza di trasformazione del rito prevista
dall’art. 426 c.p.c. deve essere comunicata alla part contumace, in osservanza di un principio generale del
nostro ordinamento; la volontarietà della scelta iniziale di non costituirsi, nonostante la ritualità della
notifica dell’atto introduttivo, non esclude, infatti, che, nel quadro del diritto di difesa e con riferimento ad
ipotesi in cui un termine sia stabilito per il compimento di atti la cui omissione importi un pregiudizio per la
situazione soggettiva giuridicamente tutelata, la garanzia di cui all’art. 24 Cost. debba estendersi alla
conoscibilità del momento iniziale di decorrenza del termine stesso, al fine di assicurarne all’interessato
l’utilizzazione nella sua interezza”.20
Tale orientamento si rifà ai principi espressi dalla sentenza della Corte Cost. n. 14 del 1977.
Gli ultimi due commi (il quarto e il quinto) dell’art.4 riguardano le pronunce di
incompetenza e il regime degli effetti della domanda e delle preclusioni e decadenze.
Il quarto comma si propone il fine di dissipare i dubbi interpretativi circa le forme della
riassunzione del giudizio nell’ipotesi in cui il Giudice adito dichiari la propria incompetenza;
in tal caso il Giudice è gravato altresì del compito di indicare con il medesimo
provvedimento il rito corretto da applicare per la riassunzione dinanzi al Giudice
competente.
Il Giudice dovrebbe cioè suggerire lo strumento della riassunzione dinanzi al
Giudice competente.
Il decreto non si pronuncia sul vincolo esercitato dall’indicazione sul Giudice ad quem, e in
particolare non viene detto se il secondo Giudice possa contestare la correttezza
dell’indicazione del rito effettuata dal Giudice dichiaratosi incompetente; sembra tuttavia
19
GIORDANO, op.cit., mette in rilievo che la disposizione risolve in senso negativo rispetto ad altre
possibili opzioni interpretative la questione circa la necessità per le parti del procedimento di cognizione
ordinario di proporre compiutamente già negli atti introduttivi tutte le proprie domande e i propri mezzi di
prova.
20 Cass.civ. sez.III, 8.1.2010 n.77.
11
ragionevole pensare che il secondo Giudice non possa essere espropriato dal
potere/dovere di regolare il proprio processo ed essere così vincolato dalla precedente
decisione; ovviamente, se la decisione da lui non condivisa attiene all’indicazione di
competenza e non al rito, il secondo Giudice dovrà proporre regolamento d’ufficio ai sensi
dell’art.45 c.p.c.
Il comma 5 dell’articolo 4 attribuisce rilievo, ai fini del regime degli effetti della domanda e
delle preclusioni e decadenze, al rito applicato (sia pur erroneamente), e non al rito corretto.
La norma infatti prevede che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si
producano secondo le norme del rito applicato prima del mutamento. Allo stesso
modo il rito erroneamente adottato produce le sue conseguenze anche in tema di
decadenze e preclusioni (sia positive, sia negative).
Ne consegue una sorta di ultrattività del rito quanto agli effetti scaturiti prima della
conversione.
La norma appare in linea con la giurisprudenza di legittimità e costituzionale on tema di
translatio judicii e con il disposto dell’art.59 della legge 18.6.2009 n.59 (“Se, entro il termine
perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda è
riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono
fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata
dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le
preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si ripropone con le modalità e
secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.”)
Decadenze e preclusioni (e in particolare quelle relative al rispetto dei termini per la
proposizione di una impugnazione) si misurano con riferimento al rito pur erroneamente
seguito.
La Relazione chiarisce che l’obiettivo è quello di escludere in modo univoco l’efficacia
retroattiva del provvedimento che dispone il mutamento medesimo e che naturalmente ciò
non incide sulla facoltà della parte convenuta di provocare tempestivamente il mutamento
del rito.
Anche il mutamento del rito, da sommario di cognizione a ordinario, è regolamentata
dall’art. 702 ter in modo differente, poiché è prevista la conversione delle forme processuali
in uno specifico momento del procedimento, ossia la prima udienza di comparizione delle
parti, e non è permessa in grado d’appello.
Infatti in caso di mancata adozione delle forme ordinarie in prime cure, vi sarà
semplicemente un appello più aperto alle nuove richieste istruttorie grazie all’applicabilità
dell’art.702 quater, ma non un mutamento del rito in senso proprio.
§ 8. Sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.
L’art.5 del decreto, aggiunto in un momento successivo rispetto all’impianto originario,
contiene una speciale disciplina, applicabile a tutti procedimenti soggetti all’intervento
semplificatorio, relativamente alla sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento
impugnato.
Il meccanismo prevede:
a) la pronuncia su istanza di parte e non d’ufficio;
b) la possibilità di sospensione disposta con decreto inaudita altera parte sul
presupposto di “pericolo imminente di un danno grave e irreparabile”;
c) la necessità della conferma della sospensione nel contraddittorio entro la prima
udienza successiva;
d) la sanzione dell’inefficacia in difetto di tempestiva conferma;
e) la normale decisione in contraddittorio con ordinanza e sentite le parti;
f) lo strumento dell’ordinanza non impugnabile (e quindi né revocabile né
reclamabile);
g) il presupposto di “gravi e circostanziate ragioni”;
12
h) la necessità dell’indicazione esplicita delle ragioni.
In sintesi:
Il Giudice può adottare il provvedimento con decreto inaudita altera parte, purché esista
una situazione (“pericolo imminente di un danno grave e irreparabile”) del tutto
assimilabile a quella considerata dall’art.700 c.p.c. (minaccia di un pregiudizio imminente e
irreparabile).
Vi è una certa discrasia con la situazione considerata dall’art.669 sexies, comma 2, c.p.c., che
per consentire la cautela inaudita, considera solo l’ipotesi in cui la convocazione preventiva
dell’avversario possa risultare di pregiudizio all’attuazione del provvedimento, nonché
rispetto al recentemente novellato art.129, comma 2, C.p.i. che considera anche i casi di
“speciale urgenza”, oltre al danno irreparabile e al pregiudizio nell’attuazione.
Ovviamente il provvedimento va confermato nel contraddittorio con ordinanza; di qui la
sanzione di inefficacia che scatta, oltre che ovviamente in caso di ordinanza di rigetto nel
contraddittorio, anche nell’ipotesi in cui l’udienza destinata alla conferma non si tenga per
inerzia dell’istante.
E’ stata segnalata21 l’incongruenza del sistema di ripristino della regola del contraddittorio
eccezionalmente sacrificato, visto che l’art.5 non prevede alcun termine per la fissazione
dell’udienza di comparizione successiva alla sospensione inaudita altera parte con rischio
concreto del decorso di un notevole lasso temporale prima della riconsiderazione in
contraddittorio della misura.
L’apparente necessità della conferma della sospensione nel contraddittorio entro la prima
udienza successiva dovrebbe arrestarsi di fronte ad un comportamento incolpevole della
parte beneficiaria del decreto; tuttalpiù potrebbe trovare applicazione l’art.153, comma 2,
c.p.c. in tema di remissione in termini.
La decisione in contraddittorio sulla sospensione presuppone ragioni gravi e circostanziate,
un “quid minus” rispetto a quanto necessario per incidere inaudita; sostanzialmente i “gravi
motivi” considerati ad esempio dall’art.283, ovvero dall’art.649 c.p.c.
La legge esige però che la motivazione non sia tautologica o basata su di una mera
reiterazione della formula normativa, e quindi chiede al Giudice di circostanziare e motivare
per esplicito le ragioni, dando conto cioè delle peculiarità del caso concreto, senza
accontentarsi di una formula stereotipata o tralatizia, sostanzialmente pseudo-motivante.
Si può tranquillamente escludere22 la possibilità di reclamo avverso il provvedimento di
sospensiva, tenuto conto sia degli orientamenti precedentemente maturati in giurisprudenza
circa la reclamabilità di provvedimenti di inibitoria di misure emanate da autorità
amministrative o nell’ambito della precedente fase del giudizio, tenuto conto anche a fortiori,
dell’espressa e consapevole comminatoria della non impugnabilità dell’ordinanza disposta
da norma successiva all’entrata in vigore del procedimento cautelare uniforme.
Un interrogativo molto interessante: anche se la disciplina della “sospensiva” è dettata
solo per i procedimenti speciali assoggettati alla normativa uniformante e
semplificatoria, vien da chiedersi se le sue regole in tema di modalità del
provvedimento inaudita altera parte e i presupposti per la sospensione siano
suscettibili di esportazione anche in quelle particolari fattispecie di sospensiva che
siano regolate dal codice di rito o dalle fonti escluse in modo più sommario e
incompleto, in via di estensione analogica ex art.12 disp. prel. c.c.
Ad esempio, per intendersi; l’art.5 del decreto potrebbe essere applicato analogicamente alla
sospensione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo ex art.649 c.p.c., o alla
sospensione della delibera condominiale impugnata di cui all’art.1137, comma 2, c.c.?
21
GIORDANO” Note a prima lettura sulle previsioni generali del d.lgs. 150 del 2011 in tema di semplificazione dei riti
civili.”, Giust.civ. 2011, 427;
22
GIORDANO” Note a prima lettura sulle previsioni generali del d.lgs. 150 del 2011 in tema di semplificazione dei riti
civili.”, Giust.civ. 2011, 427;
13
§ 9. Le controversie in materia di liquidazione degli onorari e diritti di avvocato.
L’art.14 del decreto prevede l’applicazione del rito sommario per le controversie previste
dall’art.28 della legge 13.6.1942 n.794, sancendo:
la competenza dell’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato
ha prestato la sua opera,
la composizione collegiale del Tribunale,
la possibilità delle parti di stare in giudizio personalmente nel giudizio di merito,
la non appellabilità dell’ordinanza decisoria.
Sin qui nulla di speciale poiché le citate regole erano già contenute negli artt. 28 e 29 della
legge 794 del 1942.
Art.28
“Per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato [o il
procuratore]23, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, deve, se non intende seguire la
procedura di cui all’art. 633 e seguenti del codice di procedura civile, proporre ricorso al capo dell’ufficio
giudiziario adito per il processo24.”
Art.29
“Il Presidente del Tribunale o della Corte di appello ordina, con decreto in calce al ricorso, la comparizione
degli interessati davanti al collegio in camera di consiglio, nei termini ridotti a norma dell’art. 645, ultima
parte, del codice di procedura civile.
Il decreto è notificato a cura della parte istante.
Non è obbligatorio il ministero di difensore.
Il collegio, sentite le parti, procura di conciliarle. Il processo verbale di conciliazione costituisce titolo
esecutivo.
Si applica per le spese l’art. 92, ultimo comma, del codice di procedura civile.
Se una delle parti non comparisce o se la conciliazione non riesce, il collegio provvede alla liquidazione con
ordinanza non impugnabile la quale costituisce titolo esecutivo anche per le spese del procedimento.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti si osservano, in quanto applicabili, davanti al [Conciliatore]25e
al [Pretore]26 quando essi sono rispettivamente competenti a norma dell’art. 28 27. “
La Relazione spiega l’intervento normativo con un sobrio commento:
“L’articolo 12 detta la disciplina delle controversie riguardanti gli onorari, diritti o spese spettanti ad
avvocati per prestazioni giudiziali, previste dall’articolo 28 della legge 13 giugno 1942 n. 794, nonché
l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 del codice di procedura civile contro il decreto ingiuntivo avente
ad oggetto il pagamento dei medesimi crediti.
Le controversie in questione sono state ricondotte al rito sommario di cognizione, in virtù dei caratteri di
semplificazione della trattazione e dell’istruzione della causa evidenziati dal rinvio, ad opera della
normativa previgente, alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio.
L’albo dei procuratori legali è stato soppresso dall’art. 1, l. 24 febbraio 1997, n. 27. La medesima legge ha,
tra l’altro, stabilito che in tutte le disposizioni legislative vigenti al termine “procuratore legale” va sostituito
quello di “avvocato”.
23
Articolo abrogato, a decorrere dal 16 dicembre 2009, dall’ articolo 2, comma 1, del D.L. 22 dicembre 2008
n. 200. Successivamente l’efficacia della presente legge è stata ripristinata dall’articolo 1 della legge 18 febbraio
2009, n. 9, in sede di conversione.
24
Ora Giudice di pace.
Il d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, ha soppresso l’ufficio del pretore e, fuori dai casi espressamente previsti dal
citato decreto, le relative competenze sono da intendersi trasferite al tribunale ordinario
25
26
Articolo abrogato, a decorrere dal 16 dicembre 2009, dall’articolo 2, comma 1, del D.L. 22 dicembre 2008
n. 200. Successivamente l’efficacia della presente legge è stata ripristinata dall’articolo 1 della legge 18 febbraio
2009, n. 9, in sede di conversione.
27
14
In ossequio alla delega (art. 54, comma 2, lettera a) della l. n. 69 del 2009) si è mantenuta ferma la
competenza funzionale dell’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha prestato
la propria opera, nonché la composizione collegiale dell’organo giudicante……Nel rispetto dell’ulteriore
principio di delega (art. 54, cit., lettera c) ultimo periodo) che prevede il mantenimento delle disposizioni
«finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura
civile», si è avuto cura di specificare che le parti possono stare in giudizio personalmente. Questo, com’è
chiaro, potrà accadere nel giudizio di merito, e quindi non nella fase di eventuale impugnativa di legittimità,
per cassazione.
Non si è invece riportata la disposizione sul tentativo giudiziale di conciliazione, in quanto assorbita dalla
norma generale contenuta nell’art 185 c.p.c.
Sempre al fine di mantenere l’effetto processuale speciale attualmente in essere, si stabilisce che l’ordinanza
che definisce il giudizio non è appellabile.”
Il Legislatore delegato ha esteso la medesima disciplina anche al giudizio di opposizione
proposto ai sensi dell’art.645 c.p.c. contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o
spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali che era precedentemente regolato
dall’art.30 della legge n.794 del 1942, con una piena omologazione al procedimento
camerale di cui ai predetti artt.28 e 29.
Tale norma, al pari dei precedenti artt.28 e 29, era tuttora in vigore28 e recitava:
“L’opposizione proposta a norma dell’art. 645 del codice di procedura civile contro il decreto ingiuntivo
riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati [e procuratori] per prestazioni giudiziali è decisa
dal Tribunale e dalla Corte di appello in camera di consiglio oppure dal Conciliatore o dal Pretore, con
ordinanza non impugnabile la quale costituisce titolo esecutivo anche per le spese.
Il procedimento è regolato dall’articolo precedente.”
In sintesi, prima della Novella del 2011, l’avvocato che volesse recuperare giudizialmente
un credito professionale per prestazioni giudiziali poteva optare per tre strade:
a) il giudizio di ordinaria cognizione;
b) il procedimento speciale di cui agli artt.28 e segg. della legge 794/194229;
c) il ricorso per decreto ingiuntivo.
Il procedimento speciale doveva essere promosso con ricorso diretto al Capo dell’Ufficio
giudiziario adito per il processo; si seguiva il rito camerale e la composizione dell’organo
giudiziario era quindi collegiale (art.50 bis, comma 2, c.p.c.).
Data la natura del procedimento, diretto alla mera liquidazione dei compensi, non era
prevista una fase istruttoria e tantomeno l’assunzione di prove costituende.
Il procedimento doveva essere definito con ordinanza, espressamente definita non
appellabile.
Tuttavia il procedimento doveva trasformarsi in ordinario giudizio di cognizione, da
definirsi con sentenza in tutti i casi in cui la res controversa esulasse dalla mera liquidazione
del compenso: e così allorché venisse in contestazione il rapporto professionale, o la natura
giudiziale delle prestazioni, o ancora fosse stata avanzata dal cliente convenuto una
domanda o una eccezione volta ad ampliare il thema decidendum.30
Non vi poteva essere dubbio circa l’astratta ammissibilità del ricorso al procedimento
ordinario di cognizione, visto che il presupposto dell’esperibilità del procedimento speciale
era pur sempre la natura non contestata del credito e l’esigenza soltanto di una sua
determinazione quantitativa (ossia di una sua “liquidazione”).
E’ evidente che non si poteva negare al legale che ritenesse il proprio credito contestato, o
contestabile, o anche solo temesse una sua contestazione, la possibilità di agire con lo
28
Perché ripristinata dall’articolo 1 della legge 18 febbraio 2009, n. 9, in sede di conversione dall’abrogazione
in un primo tempo disposta a decorrere dal 16 dicembre 2009, dall’ articolo 2, comma 1, del d.l. 22 dicembre
2008 n. 200
29
Secondo la giurisprudenza solo relative a procedimenti civili, e non penali e amministrativi:
Cass.civ.14.10.2004 n.20293; 11.5.1984 n.2894; 23.5.1981 n,3351; 8.7.1978 n.3417.
30
Cass.civ. 20.8.1981 n.4955; 27.2.1995 n.2229; 27.3.2001 n.4419; 21.4.2004, n.7652; 4.1.2006, n.29.
15
strumento della cognizione ordinaria prevista obbligatoriamente proprio per quel tipo di
situazioni processuali.
La giurisprudenza di legittimità non era però univoca su di un punto essenziale: ossia se il
procedimento speciale avviato dal legale ex art.28 legge 794 del 1942 fosse suscettibile di
trasformazione, previa conversione del rito, in procedimento ordinario, a fronte
dell’emersione di contestazione tali da non consentire la sua definizione in termini di mera
liquidazione del compenso dovuto:
“In tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocati, non è ammissibile il ricorso alla speciale
procedura di cui agli art. 28 e 29 l. 794/1942 quando vi sia contestazione sulla esistenza del
rapporto di clientela, sull’avvenuta transazione della lite o sulla natura giudiziale dei compensi, ovvero
quando con riconvenzionale sia dal cliente introdotto un nuovo e diverso “petitum”. Peraltro, anche
quando venga dedotta l’esistenza di più rapporti professionali con il difensore ed il pagamento integrale
di tutte le prestazioni professionali mediante versamenti effettuati, il “thema decidendum”
necessariamente si amplia ed esorbita dalla natura e dall’oggetto del procedimento speciale, postulando
la verifica delle diverse attività espletate e dei compensi complessivamente dovuti. Pertanto, in tale caso,
trattandosi di indagine incompatibile con la trattazione nelle forme del rito speciale, vengono meno le
ragioni che giustificano la deroga al principio generale del doppio grado di giudizio ed il procedimento
deve svolgersi secondo il rito ordinario.”( Cassazione civile, sez. III, 14.10.2010, n. 21261);
“In tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocati, non è ammissibile il ricorso alla speciale
procedura di cui agli art. 28 e 29 l. 13 giugno 1942 n. 794 qualora la controversia non abbia ad
oggetto soltanto la semplice determinazione della misura del compenso, ma si estenda altresì ad altri
oggetti d’accertamento e di decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del
mandato, la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa; in tal caso, il procedimento
ordinario attrae nella sua sfera, per ragioni di connessione, anche la materia propria del procedimento
speciale e l’intero giudizio non può non concludersi in primo grado se non con un provvedimento che,
quand’anche adottato in forma d’ordinanza, ha valore di sentenza e può essere impugnato con il solo
mezzo dell’appello.”(Cassazione civile, sez. II, 4.6.2010, n. 13640).
Nella maggior parte dei casi recenti (inclusi quelli di cui alle due sentenze precedentemente
citate n.13640 e 21261 del 2010) la Suprema Corte ha ritenuto che in presenza di
contestazioni sull’an il Giudice del procedimento speciale si dovesse limitare a un non liquet
ossia a una pronuncia di inammissibilità:
“In tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato anche quando l’inesistenza dei presupposti
per l’applicazione del procedimento speciale ex art. 28 e 29 l. n. 794 del 1942 emerga all’udienza di
comparizione delle parti dopo la regolare costituzione del contraddittorio deve essere dichiarata
esclusivamente l’inammissibilità del ricorso senza disporre il mutamento del rito al fine di consentire la
prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie davanti al giudice competente.”(Cassazione civile,
sez. II, 9.9.2008, n. 23344);
L’ordinanza con la quale il tribunale — adito, ai sensi degli art. 28 e 29 l. 13 giugno 1942 n. 794,
per la liquidazione dei compensi professionali di un avvocato — abbia dichiarato l’inapplicabilità di
tale procedura a causa della contestazione del credito non è impugnabile con ricorso straordinario per
cassazione, non avendo contenuto decisorio né potendo acquistare autorità di cosa giudicata; né può
disporsi il mutamento del rito in un ordinario giudizio di cognizione, con conseguente conservazione
degli atti già compiuti, presupponendo il mutamento del rito l’esistenza di due procedimenti a cognizione
piena, mentre lo speciale procedimento per la liquidazione degli onorari è sommario e ha un oggetto
diverso rispetto a quello per il quale si procede con cognizione ordinaria.”(Cassazione civile, sez. II,
5.8.2011, n. 17053; cfr altresì Cass. 30.8.2001 n. 11346);
In altri casi la Cassazione ha espressamente presupposto la trasformazione del rito:
“Lo speciale procedimento abbreviato di cui agli art. 28 e 29 legge n. 794 del 1942, esperibile
dall’avvocato per ottenere la liquidazione delle spese, dei diritti e degli onorari giudiziali nei confronti
del proprio cliente, è utilizzabile anche nei confronti della controparte (ai sensi dell’art. 68, r.d.l. n.
1578 del 1933) qualora ricorra l’ipotesi, non contestata, della definizione del giudizio mediante
16
transazione. In mancanza di uno dei presupposti (nel caso di specie, contestazione del dedotto accordo
transattivo) non può dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, ma il procedimento prosegue
trasformandosi in un ordinario giudizio di cognizione.”(Cassazione civile, sez. II, 24.2.2004, n.
3637).
In forza dell’art.30 anche l’opposizione a decreto ingiuntivo doveva svolgersi con il rito
camerale collegiale, allorché l’avvocato avesse scelto lo strumento monitorio per il recupero
di compensi professionali spettanti per le prestazioni professionali erogate in un giudizio
civile.
In tal caso, però, l’opposizione doveva essere proposta con atto di citazione dinanzi
all’Ufficio giudiziario che aveva emesso l’ingiunzione, stante il richiamo all’art.645 c.p.c.
Il debito inquadramento sistematico della disposizione portava a ritenere che il rito
camerale valesse solo nel caso in cui l’opponente prospettasse argomenti pertinenti alla sola
entità del corrispettivo dovuto e ponesse quindi questioni attinenti meramente alla
liquidazione del compenso professionale; diversamente si originava un ordinario giudizio di
opposizione, soggetto alle regole ordinarie.
L’Ufficio adito in via monitoria pertanto poteva essere differente rispetto a quello dinanzi
al quale erano state svolte le prestazioni giudiziali, poiché nessuna norma imponeva al
legale di chiedere il decreto al Giudice dinanzi al quale si era svolto il giudizio e nessuna
norma derogava alle ordinarie regole di competenza per territorio e valore, rilevanti ex
art.637 c.p.c.; in conseguenza il giudizio di opposizione poteva investire anche un Ufficio
non strutturato per operare collegialmente (ad esempio il Giudice di pace).
In proposito:
“La competenza ad emettere ingiunzione per onorari di avvocati, attribuita anche al capo dell’ufficio
giudiziario che ha deciso la causa a cui si riferisce tale credito, è concorrente con quella del giudice
competente per la proposizione della domanda in via ordinaria, mentre l’adozione del rito camerale anche da parte del giudice monocratico non togato, come è argomentabile sia dall’art. 737 c.p.c., sia
dall’art. 30 l. 13 giugno 1942 n. 794 - anziché di quello ordinario - necessario se l’opponente contesta
il conferimento dell’incarico al professionista - non determina nullità del procedimento, se non è
denunciata e provata la violazione del diritto di difesa.”(Cassazione civile, sez. II, 3.7.1998, n.
6492).
Secondo la giurisprudenza il giudizio di opposizione, salve le deroghe espresse, era soggetto
alla generale disciplina codicistica:
“Nel caso in cui sia stato emesso decreto ingiuntivo per i compensi professionali di un avvocato, ai sensi
degli art. 28 e 29 l. 13 giugno 1942 n. 794, al giudizio di opposizione si applica l’art. 30 della stessa
legge, ma, per quanto non previsto da tale disposizione speciale, il processo deve intendersi regolato dalle
norme del codice di rito sull’ordinario giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ivi inclusa quella di
cui all’art. 653 c.p.c. “(Cassazione civile, sez. un., 22.2.2010, n. 407131).
La giurisprudenza di legittimità ha circoscritto la possibilità per le parti di stare in giudizio
personalmente alla sola fase successiva all’introduzione del giudizio (sia per il procedimento
camerale ex art.28 e 29, sia per l’opposizione all’ordinario decreto ingiuntivo ex art.30 legge
794/1942):
“La disposizione dell’art. 29, terzo comma, della legge n. 794 del 1942, secondo cui nelle cause aventi
ad oggetto il pagamento del corrispettivo di prestazioni giudiziali civili a favore dell’avvocato da parte
del proprio cliente, non è obbligatorio il ministero di difensore, riguarda tutte le attività successive
all’introduzione del giudizio, mentre solamente in relazione all’atto introduttivo del giudizio medesimo
deve ritenersi operante la disciplina ordinaria del patrocinio di cui all’art. 82 cod. proc.
civ.”(Cassazione civile, sez. II, 4.11.2010, n. 22463);
“ La disposizione dell’art. 29, comma 3, l. 13 giugno 1942 n. 794, secondo cui nelle cause aventi ad
oggetto il pagamento del corrispettivo di prestazioni giudiziali civili a favore dell’avvocato da parte del
proprio cliente, non è obbligatorio il ministero di difensore, riguarda esclusivamente le attività successive
31
Cfr altresì Cass.civ., 16.5.1981, n. 3225; Cass., sez. un., 23.3.1999, n. 182; Cass. 17.12.1996, n. 11258.
17
all’introduzione del giudizio e non l’atto introduttivo del giudizio medesimo, in relazione al quale deve,
invece, ritenersi operante la disciplina ordinaria del patrocinio di cui all’art. 82 c.p.c. Pertanto, è
invalida, se sottoscritta personalmente dalla parte non ritualmente patrocinata, la citazione in
opposizione alla pretesa del difensore introduttiva di una causa di valore eccedente lire un
milione.”(Cassazione civile, sez. II, 26.1.2000, n. 850).
In sintesi, quindi, secondo la normativa preesistente, così come interpretata dalla Suprema
Corte, la possibilità di stare in giudizio in proprio non permetteva però la redazione degli
atti introduttivi, ossia:
il ricorso ex art.28, che però dovrebbe comunque rientrare nelle facoltà del legale, ai
sensi dell’art.86 c.p.c.
una vera e propria memoria costitutiva nel procedimento ex art.29;
l’opposizione a decreto ingiuntivo ex art.645 c.p.c. e 30 legge 794/1942.
Pertanto la facoltà di stare in giudizio personalmente era stata riduttivamente delimitata alla
possibilità di interloquire nell’ambito del procedimento camerale introdotto dall’avvocato o
nato per effetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo.
Contro l’ordinanza inappellabile – avente carattere decisorio - poteva essere proposto
ricorso per Cassazione ex art.111 Cost., e pertanto esclusivamente per violazione di legge.
In realtà la gestione camerale ex art.30 del procedimento di opposizione a decreto
ingiuntivo era in realtà sostanzialmente disapplicata, quantomeno perché assai difficilmente
la stessa proposizione dell’opposizione poteva prescindere da una contestazione di merito
circa la pretesa azionata.
La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo quindi di pronunciarsi ripetutamente
sull’ammissibilità del giudizio di appello avverso la decisione dell’opposizione a decreto
ingiuntivo, emanata in forma di sentenza e non già di ordinanza (definita inappellabile).
Al riguardo a fronte di un contrasto giurisprudenziale la Suprema Corte ha stabilito:
“In tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari e altre spettanze dovuti dal cliente al proprio
difensore per prestazioni giudiziali civili, al fine di individuare il regime impugnatorio del
provvedimento - sentenza oppure ordinanza ex art. 30 l. 13 giugno 1942 n. 794 - che ha deciso la
controversia, assume rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole
scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il
relativo procedimento. (Nella specie, le S.U. hanno cassato la sentenza della Corte
territoriale che aveva dichiarato inammissibile il gravame avverso la sentenza emessa dal
giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, per somme relative a prestazioni giudiziali
civili, reputando che si trattasse, nella sostanza, di ordinanza inappellabile ai sensi
dell’art. 30 l. n. 794 del 1942, nonostante detta sentenza fosse stata emanata all’esito di
un procedimento svoltosi completamente nelle forme di un ordinario procedimento
civile contenzioso).”(Cassazione civile, sez. un., 11.1.2011, n. 390).
Nella stessa sentenza le Sezioni Unite hanno ricordato “ Peraltro, nella descritta disciplina, che
prevede una deroga al principio del doppio grado di giurisdizione, non sussistono profili di illegittimità
costituzionale in riferimento agli art. 3 e 24, comma 2, Cost., avuto riguardo al fatto che la Corte cost., con
le sentenze n. 22 del 1973 e n. 238 del 1976, ha già dichiarato non fondate le questioni di legittimità
costituzionale degli art. 28, 29 e 30 della citata legge n. 794 del 1942, in riferimento ai medesimi
parametri, sul rilievo che la non impugnabilità del provvedimento conclusivo del procedimento per la
liquidazione delle prestazioni giudiziali in materia civile rese dagli avvocati è stata razionalmente intesa
negli stretti limiti della non appellabilità del medesimo provvedimento in quanto emanato nell’ambito della
materia della liquidazione, e che detto regime, pur escludendo il doppio grado di cognizione di merito
(oltretutto non riconosciuto dalla Costituzione quale necessaria garanzia del diritto di difesa), assicura
comunque il valido esercizio di tale diritto attraverso l’esperibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art.
111 Cost. “(Cassazione civile, sez. un. 11.1.2011 n. 390).
Ed ancora:
18
“In tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari e altre spettanze dovuti dal cliente al proprio
difensore per prestazioni giudiziali civili, al fine di individuare il regime impugnatorio del
provvedimento - sentenza oppure ordinanza ex art. 30 l. 13 giugno 1942 n. 794 - che ha deciso la
controversia, assume rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole
scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il
relativo procedimento. (Nella specie il provvedimento impugnato era stato qualificato, dallo
stesso giudice che l’aveva adottato, come ordinanza ex art. 29, comma 4, l. n. 794 del
1942, sì che avverso lo stesso bene era ammissibile il ricorso per
cassazione).”(Cassazione civile, sez. II, 19.5.2011, n. 11024).
In seguito al decreto in tema di semplificazione dei riti innanzitutto occorre chiarire se
persiste la possibilità di opzione per il procedimento ordinario di cognizione o se la nuova
disciplina deve ritenersi inderogabile.
Poiché il Legislatore delegato si è riferito solo a due delle tipologie di controversie
astrattamente proponibili (non considerando l’opzione del procedimento ordinario,
sicuramente ammissibile), sembra preferibile la tesi che l’avvocato possa continuare a
scegliere la proposizione della controversia per il recupero degli onorari giudiziali con le
ordinarie modalità della citazione tradizionale.
Tra l’altro, tale soluzione sembra del tutto ragionevole allorché l’avvocato ritenga che le
difese del cliente non si limiteranno all’entità del corrispettivo ma involgeranno il vero e
proprio an debeatur, visto che altrimenti l’avvocato sarebbe costretto a promuovere
un’attività giurisdizionale presumibilmente destinata ad arenarsi in una declaratoria di
inammissibilità.
Persiste comunque sicuramente, la possibilità dell’opzione monitoria, sicché l’avvocato può
proporre ricorso per decreto ingiuntivo ex art.633 c.p.c., come si evince, oltre che dalla
regolazione del procedimento di opposizione, anche dal comma 16, lettera a), dell’art.34,
che ribadisce, nel modificare il più volte citato art.28, la possibilità di seguire la strada
alternativa del procedimento monitorio.
Ci si chiede peraltro se ciò possa avvenire nel rispetto dei criteri tradizionali di competenza
(che fra l’altro possono essere più favorevoli per il cliente di quelli dell’Ufficio del giudizio a
quo32); apparentemente parrebbe di sì, visto che nessuna norma ha inciso sulle regole di
competenza nella richiesta del decreto ingiuntivo; è tuttora vigente infatti l’art.637 c.p.c. che
attribuisce la competenza al Giudice di pace o al Tribunale in composizione monocratica
che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria.
Il secondo comma dell’art.637 prevede la competenza alternativa dell’Ufficio giudiziario
che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce (ossia al Giudice competente ex art.28,
ora 12 del decreto 150/2011); il terzo comma prevede per gli avvocati l’ulteriore
competenza alternativa del Giudice competente per valore del luogo ove ha sede il proprio
Consiglio dell’Ordine33.
32
Si pensi al caso in cui il legale chieda l’emissione al decreto ingiuntivo al Giudice del luogo di residenza o
della sede della parte intimata, mentre le prestazioni professionali sono state svolte in altro Foro.
33
La norma ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalità, a cui è stato sottoposto dalla Corte
Costituzionale con sentenza n. 50 del 2010, in relazione agli artt. 3 e 25 Cost. La Corte costituzionale ha
rilevato che lo scopo della norma è quello di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire
le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello
in cui egli avesse attualmente stabilito l’organizzazione della propria attività professionale, ma che la censura
di incostituzionalità non può ritenersi fondata sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad
altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma. Infatti “si deve osservare che ogni
professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata. Per la professione legale tali
caratteri sono stati già posti in luce con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975.
Infine, quanto al rapporto tra l’avvocato e il cliente, se è vero che la norma censurata attribuisce al primo una facoltà processuale
ai fini del recupero dei suoi crediti per prestazioni professionali, mediante la possibilità di scegliere un foro che può non coincidere
con la residenza o il domicilio del debitore convenuto, è anche vero che tale facoltà non contrasta con il principio di eguaglianza,
essendo essa, come già si è notato, frutto di una scelta non irragionevole del legislatore”.
19
Poiché queste competenze sono tuttora operative, ne verrebbe fuori una sorta di monstrum
in cui il decreto ingiuntivo viene emesso da un Ufficio e l’opposizione si svolge dinanzi ad
un altro, visto che per entrambe le ipotesi il secondo comma dell’art.14 individua come
competente l’ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l’avvocato ha
prestato la propria opera.
La diversificazione non ci sarebbe nel solo caso in cui l’avvocato ricorrente si avvalga della
competenza alternativa di cui all’art.637, comma 2, c.p.c.
Quindi il dilemma è:
o esiste una implicita deroga alla competenza anche per la richiesta del decreto, che va
rivolta al Giudice di merito dinanzi al quale si è svolto il procedimento in cui sono state
prestate le attività professionali (e quindi anche alla Corte di Appello, con tutti i
problemi che ciò comporta), a prescindere dal contenuto delle linee di difesa e dalla
reazione processuale dell’intimato che il ricorrente non può conoscere;34
o non esiste alcuna regola derogatoria e valgono gli ordinari criteri per la
determinazione della competenza per la richiesta del decreto;
in tale ipotesi non è neppur concepibile che, in deroga al meccanismo di opposizione al
decreto ingiuntivo (che la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene oltretutto
immanenti e applicabili anche alla particolare opposizione di cui trattasi), l’opposizione
debba essere proposta dinanzi ad un Ufficio diverso da quello che ha emesso il decreto;
è più semplice interpretare riduttivamente il secondo comma dell’art.14 e ritenere che
esso non si riferisca al procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo;
tale opzione ermeneutica è anche sorretta dall’argomento che diversamente opinando la
norma implicherebbe una deroga ai previgenti criteri di competenza, in contrasto con il
contenuto della delega, visto che in precedenza nessuno dubitava che l’opposizione al
decreto dovesse essere radicata dinanzi al Giudice che lo aveva emesso.
Non vi può esser dubbio sulla possibile competenza della Corte di appello in unico grado
(art.3 , comma 3; art.14, comma 4).
Una dottrina35 ritiene che non vi sia spazio per una competenza funzionale anche
dell’Ufficio del Giudice di pace, stante la competenza collegiale; non è però chiarissimo il
fondamento dell’argomentazione, che non sembra condivisibile, visto che il Giudice di pace
è Ufficio giudiziario di merito e che la composizione collegiale è prescritta solo per il
Tribunale.
Probabilmente la tesi risente del fatto che la competenza del Giudice di pace potrebbe
risultare innovativa rispetto alla previgente disciplina, con il rischio di una violazione della
delega (che prescriveva il rispetto dei criteri previgenti di competenza).
Ancora maggiori perplessità desta la previsione di un’opposizione a decreto ingiuntivo
suscettibile di essere proposta dalla parte personalmente, con ricorso ex art.702 bis c.p.c.; al
riguardo però, come si è visto supra, la giurisprudenza di legittimità formatasi con
riferimento alla norma previgente escludeva che l’atto radicativo del giudizio di opposizione
potesse essere proposto dalla parte personalmente.
Con riferimento alla norma previgente dell’art.30 l. 794 del 1942, si riteneva che
l’opposizione dovesse essere proposta con atto di citazione con indicazione dell’udienza di
comparizione e il rispetto dei termini di legge; era quindi l’Ufficio adito che, per rispettare il
rito camerale, avrebbe dovuto provvedere alla fissazione di un’udienza in camera di
consiglio (procedimento per vero piuttosto disapplicato, come emerge anche dalla lettura
delle pronunce della Suprema Corte).
34
Sicché, per esempio, non può sapere se dall’opposizione scaturirà un giudizio volto alla mera liquidazione
quantitativa del corrispettivo o una contestazione ad ampio spettro investirà anche l’an debeatur.
35
BULGARELLI, “Il procedimento di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati dopo il decreto legislativo sulla
semplificazione dei riti”, Giust.civ.2011, 439
20
Sembra chiaro che l’opposizione deve essere proposta con ricorso, quantomeno allorché
l’opponente intenda contestare la sola entità dei compensi professionali giudiziali.
Ci si chiede poi se entro il termine di cui all’art.641 c.p.c. l’ingiunto debba presentare il
ricorso o provvedere a notificare anche all’opposto il ricorso e il decreto di fissazione
dell’udienza (cosa questa inconciliabile con l’art.702 bis, comma 3, in tema di termini
dilatori per il resistente in sommario).
E’ preferibile la tesi che privilegia il momento del deposito del ricorso, sulla scorta
dell’art.39, comma 3, c.p.c.; è infatti ragionevole pensare che entro il termine di cui
all’art.641 l’opponente possa limitarsi a proporre il ricorso ex art.702, ossia a far ciò che
rientra nel suo ambito di facoltà, perché altrimenti si registrerebbe anche una indebita
compressione dei termini a difesa per la proposizione dell’opposizione e una sostanziale
incompatibilità con i termini previsti in generale dall’art.702 ter terzo comma.
Tale indicazione trova il conforto di dottrina e giurisprudenza di merito in materia di
opposizione al decreto ingiuntivo sia in materia soggetta al rito del lavoro36, sia in materia di
canoni di locazione retta dal rito locatizio ex art.447 bis , per cui si ritiene sufficiente ai fini
della tempestiva opposizione nel termine ex art.641 c.p.c. il deposito in cancelleria del
ricorso entro i 40 giorni dal decreto.37
Assai delicato è il problema ingenerato dalle contestazioni sollevate dal cliente circa il
rapporto professionale, la natura delle prestazioni e soprattutto circa la perizia e diligenza
nell’espletamento del mandato, poste a fondamento di un’eccezione di inadempimento
contrattuale, se non anche di una domanda riconvenzionale risarcitoria, nell’ambito di un
procedimento che non consente una conversione “discrezionale” del rito.
La vera e propria domanda riconvenzionale risarcitoria potrebbe essere assoggettata alla
separazione ex art.702 ter, comma 4, sia pure con problemi abbastanza evidenti di
pregiudizialità fra i due procedimenti (si pensi al caso in cui l’avvocato chiede il pagamento
degli onorari e il cliente lo accusi di avergli fatto perdere la causa con i propri errori
difensivi, eccependo inadempimento ex art.1460 c.c. e chiedendo il risarcimento del danno
da perdita di chance).
Una ragionevole soluzione (che avrebbe anche il pregio di evitare la separazione di
procedimenti connessi per pregiudizialità) potrebbe essere colta attraverso il meccanismo
dell’art.4 del decreto legislativo.
E’ pur vero che tale disposizione sembra riferirsi ai casi di vero e proprio “errore” nella
scelta del rito rispetto all’opzione prevista nel decreto; forse la norma potrebbe essere letta
estensivamente e applicata anche nelle ipotesi in cui la scelta del rito “incongruo” non è
dipesa da un errore del ricorrente (ossia dell’avvocato) ma dalle difese del convenuto che
hanno determinato l’inapplicabilità del rito sommario, con le contestazioni relative all’an e
non solo al quantum debeatur.
E’ pur vero che tale opzione è in contrasto con l’impianto generale della Novella
semplificatoria, in cui la tipologia del rito è il frutto di una decisione legislativa senza
possibilità di modulazioni discrezionali; tuttavia in questo caso occorre considerare che il
sistema preesistente (conservato dalla Novella) implicava la coesistenza del rito ordinario
(in presenza di contestazioni sull’an) e del rito camerale (ora sommario).
La soluzione indicata avrebbe anche il merito di evitare una decisione di non liquet,
precedentemente contemplata dalla giurisprudenza prevalente in caso di emersione a
posteriori dell’inapplicabilità del rito speciale.
In sintesi, il quadro attuale sarebbe:
a) esperibilità dell’azione con rito ordinario da parte del legale;
Ex plurimis Cass. 8.11.1995, n. 11625; Cass. 16.11.1994, n. 9675; Cass. 29.7.1994, n. 7095; Cass. 26.4.1993,
n. 4867; Cass. 15.10.1992, n. 11318; Cass. 26.3.1991, n. 3258 Cass. 14.3.1991, n. 2714; Cass. 6.8.1987, n. 6762.
37 Cfr Cass.civ. 1.6.2000 n.7263; Trib.Latina 8.10.2009.
36
21
b) ricorso sommario del legale, suscettibile di evolvere, previa conversione del rito ex
art.4 in rito ordinario, allorché il convenuto contesti anche l’an o proponga
domanda riconvenzionale;
c) ricorso monitorio da parte del legale e opposizione all’ingiunzione da parte
dell’intimato con ricorso ex art.702 bis in sommario (depositato nel termine ex
art.641 c.p.c.) se la contestazione attiene solo alla liquidazione ;
d) ricorso monitorio da parte del legale e opposizione all’ingiunzione da parte
dell’intimato con ordinario atto di citazione in opposizione (notificato nel termine
ex art.641 c.p.c.) se la contestazione attiene anche all’an debeatur ;
Un ulteriore problema nasce in tema di interferenza fra il Foro di cui all’art.14 ( tanto per il
procedimento sommario, quanto per il ricorso monitorio) con quello stabilito dall’art.33,
comma 2, lettera u), del Codice del consumo, ove il cliente sia un consumatore.
Tale fonte stabilisce infatti una regola, fra l’altro di origine comunitaria, apparentemente
poziore e inderogabile; si direbbe quindi che il foro del consumatore non possa essere
derogato e che a doversi inchinarsi sia la regola di competenza sancita nell’art.14.
Secondo un orientamento giurisprudenziale formatosi ante decreto il ricorso ex art.28 era
esperibile solo nei confronti dei soggetti non consumatori38.
In ogni caso, secondo la giurisprudenza: “In tema di competenza per territorio, ove un avvocato
abbia agito, con il procedimento di ingiunzione, al fine di ottenere dal proprio cliente il pagamento di
competenze professionali avvalendosi del foro speciale di cui all’art. 637, comma 3, c.p.c., il rapporto tra
quest’ultimo ed il foro speciale della residenza o del domicilio del consumatore previsto dall’art. 33, comma
2, lett. u, d.lg. 6 settembre 2005 n. 206 va risolto nel senso della prevalenza del foro del consumatore, sia
perché esso è esclusivo sia perché, trattandosi di due previsioni “speciali”, la norma successiva ha una
portata limitatrice di quella precedente.”(Cassazione civile, sez. III, 9.6.2011, n. 12685)
In conseguenza lo speciale procedimento contemplato dall’art.14 (con la sua regola della
competenza incardinata presso il Giudice dell’Ufficio dinanzi al quale sono state svolte le
prestazioni professionali) sarà esperibile solo nei confronti di clienti che non siano privati
consumatori, ovvero nelle ipotesi in cui il foro del consumatore coincida con il foro
speciale di cui all’art.14.
Ulteriore conseguenza dell’applicazione del rito sommario all’opposizione è che la
proposizione con ricorso e la conseguente fissazione dell’udienza da parte del Giudice
esclude la possibilità di indicare l’udienza e provvedere alla dimidiazione dei termini.
La convocazione infatti compete al Presidente del Collegio che convocherà le parti ai sensi
dell’art.702 bis c.p.c.
§ 10. Le controversie in tema di spese di giustizia.
L’art.15 del decreto ha previsto l’applicazione del rito sommario alle controversie in tema di
spese di giustizia, di cui all’art.170 del d.p.r. 30.5.2002 n.115 (T.U. spese di giustizia).
Si tratta delle opposizioni proposte dai beneficiari interessati, dalle parti private e dallo
stesso pubblico ministero avverso i decreti di pagamento (art.168 d.p.r. 30.5.2002 n.115)
con cui il Giudice ha liquidato le spettanze dei propri ausiliari ovvero l’indennità di
custodia.
La stessa disciplina valeva ai sensi dell’art.84 T.U. per le opposizioni contro i provvedimenti
di liquidazione dell’onorario e spese del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese
dello Stato, di cui all’art.82 T.U.
L’opposizione andava proposta al Presidente dell’Ufficio giudiziario competente, entro
venti giorni dalla comunicazione del provvedimento.
Era prevista una sospensione cautelare con ordinanza non impugnabile per gravi motivi.
38
Cass.civ. 9.6.2011 n.12685; Trib.Terni 14.1.2010; Trib.Monza 19.7.2007; contra Trib,.Roma 8.4.2008
22
Il rito era quello speciale previsto per gli onorari di avvocato (sicché le parti potevano stare
in giudizio personalmente) ma la composizione prescritta dell’ufficio era espressamente
quella monocratica.
L’art.15 ha disposto che:
“1. Le controversie previste dall’articolo 170 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002,
n. 115, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. Il ricorso è proposto al capo dell’ufficio giudiziario cui appartiene il magistrato che ha emesso il
provvedimento impugnato. Per i provvedimenti emessi da magistrati dell’ufficio del giudice di pace e del
pubblico ministero presso il tribunale è competente il presidente del tribunale. Per i provvedimenti emessi da
magistrati dell’ufficio del pubblico ministero presso la corte di appello é competente il presidente della corte di
appello.
3. Nel giudizio di merito le parti possono stare in giudizio personalmente.
4. L’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa secondo quanto previsto dall’articolo
5. Il presidente può chiedere a chi ha provveduto alla liquidazione o a chi li detiene, gli atti, i documenti e le
informazioni necessari ai fini della decisione.
6. L’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile.”
La norma subisce in pratica la stessa sorte dei procedimenti camerali riguardanti gli onorari
giudiziali di avvocato, a cui era assimilata processualmente.
Le uniche questioni degne di nota riguardano la competenza.
La giurisprudenza di legittimità aveva messo in chiaro che il procedimento de quo aveva
carattere civile:
“L’opposizione al decreto di liquidazione dei compensi ai custodi e agli ausiliari del giudice (oltre che ai
decreti di liquidazione degli onorari dovuti ai difensori nominati nell’ambito del patrocinio a spese dello
Stato), introduce una controversia di natura civile, indipendentemente dalla circostanza che il decreto di
liquidazione sia stato pronunciato in un giudizio penale, e deve quindi essere trattato da magistrati
addetti al servizio civile. Qualora l’ordinanza che decide l’opposizione sia stata adottata da un giudice
addetto al servizio penale, si configura una violazione delle regole di composizione dei collegi e di
assegnazione degli affari che non determina né una questione di competenza né una nullità, ma può
giustificare esclusivamente conseguenze di natura amministrativa o disciplinare.”(Cassazione civile,
sez. III, 27.1.2010, n. 1711);
“Il procedimento di opposizione, ex art. 170 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, al decreto di
liquidazione dell’onorario e delle spese al difensore di persona ammessa al programma di protezione dei
collaboratori di giustizia, introduce una controversia di natura civile, indipendentemente dalla
circostanza che il decreto di liquidazione sia stato pronunciato in un giudizio penale, e deve quindi
essere trattato da magistrati addetti al servizio civile, con la conseguenza che la trattazione del ricorso
per cassazione avverso l’ordinanza che lo decide spetta alle sezioni civili della Corte di
cassazione.”(Cassazione civile, sez. II, 2.7.2010, n. 15813).
L’espressione “presidente dell’ufficio giudiziario competente” alimentava qualche ambiguità nel
caso in cui la liquidazione del compenso fosse stata fatta dal Giudice di pace.
L’unico precedente edito è del Tribunale di Matera, secondo cui:
“In tema di patrocinio a spese dello Stato, avverso il decreto di pagamento dei compensi professionali
dell’avvocato emesso dal g.d.p. è ammesso il ricorso al Presidente del tribunale essendo l’autorità
giudiziaria competente in forza del tenore dell’art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002 poiché nel riferimento
in esso fatto “al presidente dell’ufficio giudiziario competente” non vi sono spazi per ritenere che tal
giudice non vada identificato nel “presidente” del tribunale, avuto conto che tale precisa qualifica non
compete al coordinatore del g.d.p. che ha solo limitate funzioni organizzatrici e né al Presidente della
Corte di appello dotato solo di poteri di sorveglianza nei confronti del giudice onorario.”(Tribunale
Matera, 28.9.2009, Giur. merito 2009, 12, 3113).
Ininfluente sul punto il precedente rappresentato da Cassazione civile, sez. II, 22.10.2010,
n. 21786, secondo cui: “Lo speciale procedimento previsto dall’art. 170 d.P.R. 30 maggio 2002 n.
115, per le opposizioni alla liquidazione del compenso degli ausiliari del giudice, è regolato dagli art. 28 ss.
l. 13 giugno 1942 n. 794, ma tale giudizio, per espressa previsione del comma 2 del medesimo art. 170, è
23
trattato davanti al tribunale in composizione monocratica.” In quel caso infatti la decisione era stata
emessa dal Tribunale e si discuteva solamente della composizione collegiale o monocratica
dell’organo.
Va ricordato peraltro che la sentenza della Cass., sez. I, 27 maggio 2008, n. 13833, ha
escluso che nel giudizio di impugnazione del provvedimento di espulsione, avverso il
provvedimento di diniego di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, lo straniero
possa far ricorso al procedimento di cui all’art. 99 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,
espressamente previsto nel procedimento penale, dovendo utilizzare lo strumento
disciplinato dall’art. 170 del citato decreto (applicabile ai sensi dell’art. 84, a sua volta
richiamato dall’art. 142); tanto premesso, la Corte ha affermato che contro il
provvedimento di non ammissione al gratuito patrocinio, lo straniero può proporre ricorso,
entro venti giorni dalla comunicazione, al Capo dell’Ufficio giudiziario e cioè, ratione
temporis, al Coordinatore dell’ufficio del Giudice di pace competente nel giudizio di
impugnazione del provvedimento espulsivo.39
La scelta del decreto di escludere la competenza dell’Ufficio del Giudice di Pace per
l’opposizione, privilegiando comunque quella del Presidente del Tribunale, è quindi da
valutare con sospetto alla luce delle indicazioni di cui alla sentenza da ultimo citata della
Suprema Corte, giacché in quella prospettiva vi sarebbe stata una modificazione dei criteri
di competenza (non così, a seguire la tesi del Tribunale Lucano).
§ 11. Le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale.
Come si è riferito, le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti
previsti dall’art.35 del d.lgs.28.1.2008 n.35 (ossia quelle in materia di riconoscimento della
protezione internazionale ai richiedenti asilo) sono state assoggettate al rito sommario, salve
le deroghe specificamente contemplate nell’art.1, che sono in sostanza quelle dettate dalla
specificità della materia e pertanto salvaguardate alla luce dei principi ispiratori della
Novella.
Le novità più interessanti sono:
39
Nell’ipotesi di negata ammissione al beneficio (che si è visto essere assai ristretta, proprio in forza dell’interpretazione della
disposizione fornita dal Giudice costituzionale) resta il problema di quale sia lo strumento impugnatorio predisposto dal Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al D.P.R. n. 115 del 2002 in caso di
suo diniego.
Infatti, mentre nella materia penale l’art. 99 (Ricorso avverso i provvedimenti di rigetto dell’istanza) ha appositamente stabilito
che “1. Avverso il provvedimento con cui il magistrato competente rigetta l’istanza di ammissione, l’interessato può proporre
ricorso, entro venti giorni dalla notizia avutane ai sensi dell’art. 97, davanti al presidente del tribunale o al presidente della corte
d’appello ai quali appartiene il magistrato che ha emesso il “emesso il decreto di rigetto” (e che “4. L’ordinanza che decide sul
ricorso è notificata entro dieci giorni, a cura dell’ufficio del magistrato che procede, all’interessato e all’ufficio finanziario, i quali,
nei venti giorni successivi, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge”), per la materia civile nulla è stato
disposto.
2.6.1. A tale proposito, la soluzione non può che essere cercati all’interno dello stesso TU, facendo ricorso, più che alla previsione
della disciplina penalistica sopraricordata, a quanto dispone lo stesso art. 142, che, sia pure per le doglianze in materia di
quantificazione delle spettanze del difensore, richiama lo strumento dell’”opposizione ai sensi dell’art. 84”, che a sua volta rende
applicabile l’art. 170 dello stesso TU (Opposizione al decreto di pagamento).
2.6.2. Secondo tale procedura, riguardante l’opposizione al decreto di pagamento emesso a favore dell’ausiliario del magistrato (e
di altre figure), “il beneficiario e le parti processuali, compreso il pubblico ministero, possono proporre opposizione, entro venti
giorni dall’avvenuta comunicazione, al presidente dell’ufficio giudiziario competente”, secondo un processo che “è quello speciale
previsto per gli onorari di avvocato e l’ufficio giudiziario procede in composizione monocratica” (comma 2).
2.7. In tali sensi, dunque, va interpretata, in linea generale, la disciplina (lacunosa) riguardante il rimedio esperibile avverso il
provvedimento di diniego dell’ammissione dello straniero in ordine al richiesto patrocinio a spese dello Stato per l’impugnazione
della sua espulsione dal territorio nazionale.
E’ il Capo dell’Ufficio giudiziario (nella specie, ratione temporis: il Coordinatore dell’ufficio del Giudice di Pace), dunque, il
magistrato (onorario o professionale) chiamato a risolvere anche il problema giuridico posto dal primo motivo dell’odierno ricorso, e
cioè se l’avvenuta nomina del difensore da parte dello straniero costituisca ostacolo all’applicazione del beneficio accordato dal cit.
T.U. del 2002, art. 142.”
24
la qualificazione del procedimento, ai fini delle registrazioni informatiche,
amministrative e statistiche, come procedimento contenzioso e non incongruamente di
volontaria giurisdizione, come avveniva in precedenza (in realtà, vertendosi in tema di
riconoscimento di status ci si è anche chiesti se non fosse più confacente addirittura il
rito ordinario);
la decisione con ordinanza e non con sentenza, il che scaturisce dall’applicazione
dell’art. 702 ter;
la previsione della possibilità di proposizione del ricorso a mezzo del servizio postale o
di rappresentanza diplomatica o consolare italiana; la legge parla di “deposito del ricorso
mediante servizio postale”, sicché sembra agevole inferirne che in tal caso farà fede la data
del timbro postale quanto alla tempestività della proposizione;
resta fermo il principio della normale efficacia sospensiva della proposizione del ricorso
(salvi i casi di ricorrenti ospitati in centri di accoglienza, o trattenuti al CIE, o di
impugnazioni di provvedimenti che dichiarano l’inammissibilità o la manifesta
infondatezza dell’istanza);
per i casi in cui la sospensione non era - e non è automatica - l’art.35 (commi 7 e 8)
prevedeva la decisione antro 5 giorni da parte del Giudice adito con ordinanza non
impugnabile, eventualmente stesa in calce al decreto che disponeva la comparizione; di
qui si desumeva che l’integrazione del contraddittorio non fosse necessaria per la
sospensione, nonostante la previsione di un’ordinanza;
ora trova applicazione la disciplina dell’art.5, il che significa che non sono previsti
termini, il giudice può provvedere con decreto, ma deve esistere un pericolo imminente
di danno grave e irreparabile; in tal caso la sospensione deve venir confermata nel
contraddittorio alla prima udienza successiva, che può anche essere la prima del
procedimento sommario di cognizione; peraltro, in difetto, se il procedimento viene
per qualsiasi ragione rinviato, la sospensione diviene inefficace;
in precedenza non erano previsti termini a comparire, ma solo un termine di 5 giorni
per il Tribunale per disporre la convocazione;
secondo giurisprudenza della 9° Sezione civile del Tribunale di Torino il richiamo delle
norme del rito sommario, ove non espressamente derogate, e l’assenza nell’art.19 di
qualunque disposizione in tema di termini a comparire spettanti alla parte resistente e di
termine per la costituzione in giudizio del resistente, che deroghino a quanto previsto
dall’art.702, bis, commi 3 e 4, comporta che il Giudice deve fissare l’udienza secondo il
parametro normativo, ossia assicurando che dopo la notificazione del ricorso e del
decreto la parte resistente disponga di trenta giorni fra la data di notificazione e la data
fissata per la costituzione, che a sua volta deve avvenire non oltre dieci giorni prima
dell’udienza; tali termini sono stabiliti nell’interesse rispettivamente del resistente e del
ricorrente e non possono quindi venir derogati;
coerentemente è stato eliminato il termine sollecitatorio per la definizione dell’intero
procedimento entro tre mesi dal deposito del ricorso;
è rimasto sostanzialmente immutato il regime speciale in tema di costituzione in
giudizio dell’Amministrazione resistente (che però può ora esser affidata non solo a
rappresentanti della Commissione ma anche a funzionari dell’Amministrazione), di
destinatario della notifica (Commissione territoriale o nazionale), di notificazione su
impulso d’ufficio da parte della Cancelleria;
persiste la regola della possibilità di trasmissione di atti e documenti da parte della
Commissione (che ora è svincolata dal limite della prima udienza);
persiste la regola dell’impulso probatorio officioso tipico della materia;
in precedenza era prevista la notifica della sentenza al ricorrente e al Ministero
dell’Interno, presso la Commissione nazionale ovvero presso la competente
25
Commissione territoriale, nonché la comunicazione al Pubblico Ministero; ora è
prevista solo la comunicazione alle parti a cura della Cancelleria. Quindi comunicazione
in via telematica e solo in direzione della parte costituita?
l’appello non è più retto dal comma 11 dell’art.35, che richiedeva la proposizione del
reclamo con ricorso alla Corte di Appello entro dieci giorni dalla notificazione, ma
dall’art.702 quater;
quindi appello con atto di citazione notificato entro trenta giorni dalla notificazione o
dalla comunicazione dell’ordinanza e governato dal regime di cui all’art.702 quater;
occorrerà quindi anche il rispetto degli ordinari termini a comparire e la confezione
dell’impugnazione secondo le più severe regole che sono previste per l’impugnazione
(formulazione di motivi di appello veri e propri, quale invalicabile limite al potere di
riesame da parte del Giudice di secondo grado);
il comma 11 prevede che la controversia sia trattata in ogni grado in via d’urgenza,
raccomandazione generica che richiede un particolare riguardo per queste controversie
nell’organizzazione del lavoro dell’Ufficio giudiziario, della Sezione e dello stesso
magistrato e che sostituisce la previgente regola dei tre mesi per la celebrazione del
giudizio di primo grado;
tuttavia non pare potersi ritenersi che la controversia sia stata ricondotta fra quelle
previste dall’art.92 dell’Ordinamento giudiziario, che esigono la trattazione anche in
periodo feriale, non operando la sospensione dei termini processuali di cui alla legge
n.742 del 7.10.1969, perlomeno in difetto di apposito provvedimento del Capo
dell’ufficio;
in effetti l’art.3 della citata legge 742/1969 rinvia per l’identificazione dei procedimenti
non assoggettati alla sospensione all’art.92 dell’ordinamento giudiziario, che si riferisce40
alle cause in tema di alimenti, ai procedimenti cautelari, ai procedimenti per l’adozione
di provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione, di
inabilitazione, ai procedimenti per l’adozione di ordini di protezione contro gli abusi
familiari, di sfratto e di opposizione all’esecuzione, nonché alle cause relative alla
dichiarazione e alla revoca dei fallimenti (e in nessuna di dette categorie è riconducibile
il procedimento de quo), nonché ed in genere quelle rispetto alle quali la ritardata
trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti;
in quest’ultimo caso, tuttavia, la dichiarazione di urgenza è fatta dal Presidente in calce
al singolo atto introduttivo, con decreto non impugnabile, e per le cause già iniziate,
con provvedimento del Giudice istruttore o del Collegio, egualmente non impugnabile;
si ritiene pertanto che continui ad operare la sospensione feriale dei termini, salvo
ovviamente per quanto riguarda la richiesta cautelare di sospensiva per i casi in cui la
sospensione non è garantita automaticamente dalla proposizione del ricorso;41
la natura contenziosa del procedimento - e non più di “volontaria giurisdizione” - ha delle
conseguenze anche in tema di conseguenze della mancata comparizione delle parti
all’udienza fissata dal Giudice, che secondo la precedente giurisprudenza di
legittimità42non esonerava il Giudice dalla necessità di decidere comunque nel merito;
secondo l’interpretazione seguita dalla 9° Sezione civile del Tribunale dopo il decreto
semplificazione, la natura contenziosa del ricorso fa sì che in caso di mancata
comparizione e quindi in difetto di impulso di parte, il Giudice dichiari semplicemente
Con elencazione ritenuta tassativa, di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica:
Cass.civ. 13.5.2010 n.11607; 19.1.2005 n.1094; 24.3.1999 n.2772.
41 Questa l’opinione maturata in recente riunione dei Giudici della 9° Sezione civile, all’unanimità.
42
Cfr, con specifico riferimento alla materia della protezione internazionale Cass.civ.29.11.2010 n.24168 e
3.8.2010 n.18043; più in generale Cass.civ. 19.7.2010 n.16821; 7.12.2005 n.27080; 28.11.2002 n.16884, tutte
basate sulla rilevanza dell’impulso officioso nel procedimento camerale di volontaria giurisdizione.
40
26
non luogo a provvedere, non trovando applicazione neppure le disposizioni di cui agli
artt.181 e 309 c.p.c., riferite al giudizio ordinario di cognizione.
§ 12. Le controversie in tema di espulsione dei cittadini extracomunitari.
L’art.18 del d.lgs.150/2011 disciplina con il rito sommario le controversie scaturenti
dall’impugnazione del decreto di espulsione prefettizio di cittadini extracomunitari,
attribuendole alla competenza del Giudice di pace.
Qui l’incompatibilità con i termini di cui all’art.702 bis è acclarata perché il giudizio (comma
7) deve essere definito entro venti giorni dal deposito del ricorso e il termine a comparire è
di soli 5 giorni (comma 5).
Esisteva tuttavia una residuale riserva di competenza a favore del Tribunale ordinario
sancita dall’art.1, comma 2 bis, del d.l. 241/2004, convertito con modificazioni dalla legge
271/2004, che presuppone la pendenza di un giudizio riguardante le materie di cui agli artt.
30, comma 6, e 31 d.lgs.286/1998.
L’art.1, comma 2 bis, del d.l. 241/2004 introdotto in sede di conversione con legge
271/2004 stabilisce infatti la persistente43competenza, rispettivamente, del Tribunale
ordinario e del Tribunale di minorenni ai sensi del comma 6 dell’art.30 e del comma 3
dell’art.31 del d.lgs.286/1998, e formula quale presupposto della competenza del Tribunale
un inequivoco riferimento alla “pendenza di un giudizio riguardante le materie sopra citate”.
La clausola di riserva così introdotta si fonda chiaramente sulla connessione con
procedimenti afferenti il tema dell’unità familiare; inoltre il comma 6 dell’art.30 d.lgs
286/1998 attribuisce al Tribunale la competenza per ogni procedimento in tema di ricorsi
“contro gli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare”.
Vien da chiedersi se questa clausola di salvaguardia sia stata travolta dalla generale
attribuzione di competenza al Giudice di Pace disposta con il decreto 150/2011.
Prevale l’opinione contraria, tenuto conto:
del carattere speciale della norma anteriore rispetto al carattere generale della norma
posteriore,
della mancanza nelle abrogazioni di qualsiasi riferimento alla norma sopra ricordata
della legge n.271 del 2004,
soprattutto di una interpretazione costituzionalmente orientata del decreto in analisi
che gli eviti la rotta di collisione con la violazione della delega (che, si ricorda, gli
imponeva il rispetto delle preesistenti regole di competenza).
In tal senso si è pronunciato il Tribunale di Torino, Sezione 9° civile, con ordinanza
14.3.2012, secondo cui:
“Tale tesi contrasta al contempo sia con la citata lettera della norma, sia con lo spirito della deroga sopra
illustrata (che postula l’attribuzione al Giudice togato della cognizione dei provvedimenti espulsivi che
coinvolgano il bene giuridico della coesione familiare).
La clausola di salvaguardia non può dirsi travolta dalla generale attribuzione di competenza al Giudice di
pace disposta con il decreto legislativo n.150 del 1°.9.2011, tenuto conto:
del carattere speciale della norma anteriore rispetto al carattere generale della norma posteriore;
della mancanza nell’elenco delle abrogazioni espressamente sancite dal d.lgs.150/2011 di qualsiasi
riferimento alla norma sopra ricordata della legge n.271 del 2004;
di una doverosa interpretazione costituzionalmente orientata del d.lgs.150/2011che gli eviti la rotta di
collisione ex art.76 Cost. con la violazione della legge -delega (che imponeva espressamente il rispetto
delle preesistenti regole di competenza).”
§ 13. Le controversie in materia di discriminazione.
43
Giova rammentare che il decreto legge 241/2004 aveva sostituito in via generale la competenza del giudice
di pace a quella del Tribunale in composizione monocratica in tema di impugnazione dei provvedimenti di
espulsione.
27
L’art.28 riguarda:
le controversie in materia di discriminazione di cui all’art.44 del d.lgs. 25.7.1998 n.286
(azione civile contro la discriminazione in repressione di un comportamento
discriminatorio di un privato o della pubblica amministrazione per motivi razziali,
etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi),
quelle di cui all’art.4 del d.lgs. 9.7.2003 n.215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE
per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica),
quelle di cui all’art.4 del d.lgs.9.7.2003 n.216 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE
per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro),
quelle di cui all’art.3 della legge 1.3.2006 n.67 (Misure per la tutela giudiziaria delle
persone con disabilità vittime di discriminazioni),
quelle di cui all’art.55 quinquies del d.lgs. 11.4.2006 n.198 (Codice delle pari opportunità
tra uomo e donna).
Il terzo comma stabilisce che le parti possono stare in giudizio in proprio nel procedimento
di primo grado. L’art.44, comma 2, del d.lgs.286/1998 ammetteva, un po’ ambiguamente, la
presentazione personale del ricorso.
Il quarto comma sancisce l’inversione dell’onere probatorio allorché la parte ricorrente
abbia fornito elementi di fatto, anche desunti da dati statistici, da cui si possa desumere
l’esistenza di un’attività discriminatoria; non pare che tale disposizione possa essere
sospettata44 di incostituzionalità per eccesso di delega, per la sua incidenza su elementi di
carattere sostanziale, visto che già il comma 9 del d.lgs. 286/1998 considerava gli stessi
elementi, mentre è stato unificato e armonizzato il regime probatorio conseguente,
precedentemente disciplinato in modo alquanto variegato dalle disposizioni sopra ricordate.
Il quinto comma dell’art.28 stabilisce che il giudice può condannare il convenuto al
risarcimento del danno anche non patrimoniale.
Si tratta di un caso espressamente previsto dalla legge (art.2059 c.c.) di risarcimento del
danno non patrimoniale, già previsto dalle varie disposizioni sopra ricordate, del resto in
puntuale applicazione dei principi generali, in presenza di una violazione di diritti inviolabili
e del principio di eguaglianza ( artt.2 e 3 Cost.) e dei diritti riconosciuti da fonti comunitarie
(art.21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
In conformità ai principi generali, non dovrebbero esserci molti dubbi sulla riconoscibilità
del danno non patrimoniale solo a richiesta dell’interessato, come, del resto, era
espressamente previsto solo da alcune delle norme citate, ma non ad esempio dall’art.44 del
d.lgs.286/1998.
Il requisito peraltro scaturisce dal sistema (e dal principio dispositivo che lo informa) e la
norma non può quindi essere interpretata come una sorta di sanzione automatica
discrezionalmente erogabile d’ufficio dal Giudice.
§ 13. Le controversie in tema di rettificazione degli atti dello stato civile.
Per quanto riguarda le controversie in tema di rettificazione degli atti dello stato civile,
assoggettate al rito ordinario di cognizione e regolate dall’art.31 del decreto, la novità più
consistente è costituita dall’avvio con atto di citazione e l’eliminazione del
procedimento camerale.
Curiosa la formula del quarto comma che farebbe, letteralmente, dipendere l’esecuzione del
trattamento medico chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali da una autorizzazione
impartita dal Tribunale “con sentenza passata in giudicato”; formula del tutto incongrua che va
opportunamente interpretata come volta a subordinare l’effetto autorizzatorio al passaggio
in giudicato della sentenza, pertanto non esecutiva sino al passaggio in giudicato (e non già,
44
Cfr FALLETTI, in AA.VV “Riforma dei riti civili”, Gli Speciali, Quotidiano Giuridico, ottobre 2011.
28
come parrebbe, volta a prevedere l’emissione di una sentenza già dotata di efficacia del
giudicato).
In dottrina45 sono stati segnalati problemi di costituzionalità con riferimento al 6° comma
dell’art.31:
sia con riferimento all’automaticità dello scioglimento del matrimonio o della
cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, in una situazione non
caratterizzata da effetti retroattivi;
sia per l’abuso di delega effettuato per incidere su di una norma sostanziale (legge
14.4.1982 n.164 e relativo richiamo all’art.3 della legge 898 del 1970, come modificata
dall’art.4 della legge 6.3.1987 n.74);
sia per la presunta interferenza su di una vicenda giudiziaria pendente dinanzi ai Giudici
di legittimità in impugnazione di un provvedimento della Corte di Appello di Bologna46.
Le critiche mosse sembrano ingenerose; il Legislatore si è limitato a trasporre nel citato 6°
comma il contenuto dell’articolo 4 della legge 14.4.1982 n.164, salva l’influente
sostituzione del verbo “provoca” con il verbo “determina”, evitando così di prender posizione
sull’automaticità o meno dello scioglimento del vincolo e sulla necessità di una decisione
giudiziale intermedia prima dell’annotazione.
§ 14. Le controversie in tema di riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e
degli altri Enti pubblici
L’art.32 del decreto riguarda l’antico (e concorrente) metodo di riscossione delle entrate
patrimoniali dello Stato e degli altri Enti pubblici disciplinato dal r.d. 14.4.1910
n.639 e basato sull’emissione dell’ingiunzione di pagamento notificata al debitore
con facoltà di opposizione.
La norma originaria dell’art.3, con la sua ambigua formulazione, prevedeva che dovesse
essere prodotto “ricorso od opposizione”; la giurisprudenza era perlopiù orientata ad
un’accezione letterale del termine “ricorso”, ravvisando la necessità dell’instaurazione del
processo mediante ricorso.
Il rinvio al rito ordinario di cognizione sembrerebbe comportare de plano che l’opposizione
debba essere proposta con atto di citazione.
In dottrina47 è stato insinuato il dubbio che la proposizione del ricorso possa essere stata
implicitamente preservata in relazione all’altrettanto persistente possibilità di concessione
d’ufficio della sospensione, contemplata dall’art.3 del r.d.l. 639 del 1910, asseritamente a sua
volta giustificata dal principio espresso nella legge delega di conservazione delle
disposizioni speciali che attribuissero al Giudice poteri officiosi.
La tesi non pare condivisibile per varie ragioni, ossia:
la disciplina attuata con il rinvio al procedimento ordinario di cognizione,
l’art.3 del r.d. del 1910, per effetto delle modifiche disposte dall’art.34 , comma 40, del
decreto in commento suona “Avverso l’ingiunzione prevista dal comma 2 si può proporre
45
FALLETTI, in AA.VV “Riforma dei riti civili”, Gli Speciali Quotidiano Giuridico, ottobre 2011.
Si tratta del caso deciso in primo grado dal Tribunale di Modena con decreto 28.10.2010 e in secondo
grado dalla Corte di appello di Bologna con decreto 4.2.2011, entrambi pubblicati in Giur. Merito 2012,, 570
con nota di WINKLER, “Cambio di sesso del coniuge e scioglimento del matrimonio: costruzione e implicazioni del diritto
fondamentale all’identità di genere”. Il Giudice di prime cure aveva ritenuto che assenza di una decisione del
Giudice che pronunciasse lo scioglimento del matrimonio in conseguenza della rettificazione del sesso
attribuito ad uno dei coniugi, l’ufficiale dello stato civile non potesse procedere all’annotazione dell’avvenuto
scioglimento a margine dell’atto di matrimonio. La decisione è stata capovolta dal Giudice di secondo grado
che il venir meno del presupposto indispensabile della diversità di sesso fra i coniugi accertato con la
sentenza di rettifica del sesso determinasse lo scioglimento del diritto del rapporto e legittimasse l’ufficiale di
stato civile a procedere automaticamente all’annotazione.
47
DI DONNA, in AA.VV “Riforma dei riti civili”, Gli Speciali Quotidiano Giuridico, ottobre 2011.
46
29
opposizione davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. L’opposizione è disciplinata dall’articolo 32 del
decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150.»“;
la legge di delega non può venir invocata per risolvere un dubbio interpretativo in realtà
non sussistente;
la sospensiva è regolata dalla legge con riferimento al nuovo art.5 del decreto;
comunque i principi generali portavano a ritenere che il decreto di sospensione “dato”
ex art.3 r.d.639 del 1910 dovesse pur sempre essere richiesto dalla parte interessata.
L’art.3 del r.d. 639/1910 assegnava un termine di trenta giorni al destinatario per la
proposizione dell’opposizione dinanzi al Giudice competente per valore del luogo sede
dell’Ufficio emittente.
L’art.32 non riproduce il termine sopra indicato e del resto l’art.3 sopra citato è stato
abrogato dall’art.34, comma 40, del decreto e sostituito con la sintetica disposizione,
secondo cui contro l’ingiunzione si può proporre opposizione, disciplinata dall’art.32 del
d.lgs.150/2011.
Evidentemente pertanto non sussiste più alcun termine di decadenza nella proposizione
dell’opposizione.48 Peraltro la persistente vigenza degli artt.2, 4 e 5 del r.d. 639/1910 e con
essi dell’esecutorietà dell’ingiunzione decorsi i trenta giorni dalla notifica crea l’interesse
dell’opponente a proporre sollecitamente l’opposizione, per conseguire la sospensiva prima
dell’acquisizione di esecutività e dell’avvio delle procedure di riscossione coattiva del
credito.
L’effetto della Novella è che l’opposizione, quale giudizio di accertamento negativo
del credito, può essere proposta anche dopo il decorso dei trenta giorni, ma anche
che la sospensiva, regolata dall’art.5 del d.lgs.150/2011 può essere richiesta dopo
tale termine.
La procedura di sospensione con il rinvio all’art.5 consente anche l’emissione di un
provvedimento inaudita altera parte.
Tuttavia, mentre prima la sospensiva (concedibile anche inaudita altera parte) appariva il
frutto di un provvedimento discrezionale non particolarmente motivato (“semplice decreto”
anche steso in calce al ricorso), attualmente la sospensione sembra subordinata alla
sussistenza di presupposti molto più rigorosi, soprattutto per la sua concessione con
decreto inaudita altera parte.
In una materia in cui il provvedimento esecutivo non è stato sottoposto a un preventivo
vaglio giurisdizionale (neppur formale dopo l’abrogazione della vidimazione pretorile), in
cui il termine di esecutorietà non è stato modificato e in cui l’opponente deve provocare il
contraddittorio nelle forme complesse dell’atto di citazione e quindi con osservanza
dell’ordinario termine a comparire49 sorgono dubbi non insignificanti di legittimità
costituzionale (anche sotto il profilo dell’art.24 Cost.).
Ad esempio la Sez.III civ. con sentenza del 20.3.2007 n.6670 affermava che “In tema di riscossione delle entrate
patrimoniali dello Stato, l’art. 3 r.d. n. 639 del 1910 non qualifica il termine indicato (per proporre la opposizione) come
perentorio o da osservare a pena di decadenza. Lo stesso, in particolare, va osservato se si intende chiedere la sospensione
dell’efficacia esecutiva della ingiunzione, altrimenti l’opposizione è esperibile senza limiti di tempo, sino a quando il processo
esecutivo non è concluso, come è per l’opposizione alla esecuzione prevista ora dall’art. 615 c.p.c. che è l’azione in cui si risolve
l’opposizione all’ingiunzione, quando si contesta che la parte istante abbia il credito per cui minaccia l’espropriazione forzata.”
La giurisprudenza di legittimità era peraltro divisa, poiché la Sezione Tributaria sosteneva invece che
“L’ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di auto-accertamento e di autotutela della p.a., ha natura di atto
amministrativo che cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, ma è priva di attitudine ad acquistare efficacia
di giudicato: la decorrenza del termine per l’opposizione, infatti, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce
effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto
pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione.”(Cass.civ. sez.trib.
25.5.2007 n.12263).
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Non è prevista neppure l’abbreviazione in via generale dei termini di cui all’art.645, comma 2, c.p.c.
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Sotto il profilo meramente procedurale non pare che il meccanismo di introduzione della
controversia con atto di citazione, piuttosto che con ricorso, possa comportare difficoltà
tecniche nell’erogazione del provvedimento di sospensiva; la parte interessata potrà
chiedere la sospensione già con l’atto introduttivo e sollecitarne la decisione con apposita
istanza al Giudice dopo aver iscritto la causa a ruolo.
Ci si è chiesti anche se la regola dell’atto di citazione per l’introduzione del giudizio di
opposizione soffra deroga, come parrebbe, allorché la materia oggetto di ingiunzione sia
assoggettata a diverso rito (ad esempio rito del lavoro in materia di recupero contributivo);
in quel caso infatti il rito del lavoro prevarrebbe ratione materiae.
Nessun problema per l’atto di appello avverso la decisione di primo grado, visto che già nel
vigore del r.d. del 1910 la giurisprudenza riteneva che l’impugnazione dovesse essere
proposta con ordinario atto di citazione (cfr Cass.SS.UU. 2228 del 25.11.2004).
§ 15. La norma transitoria.
L’art.36 prevede che le norme del decreto si applichino ai procedimenti instaurati
successivamente alla sua entrata in vigore (6.10.2011)
Sin qui nessun problema: occorrerà aver riguardo alla data di notificazione della citazione
ovvero alla data di deposito del ricorso.
L’unico dubbio attiene alle opposizioni ai decreti ingiuntivi in materia di prestazioni
giudiziali forensi ottenuti prima dell’entrata in vigore ed opposti dopo.
Il riferimento ai procedimenti e la mancata regolazione del decreto ingiuntivo da parte del
d.lgs 150/2011 farebbe pensare che anche tali opposizioni ricadano nel nuovo regime.
Le norme abrogate e modificate continuano a regolare i “vecchi” procedimenti.
Torino, aprile 2012
Umberto Scotti
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