69 Tabloid aprile 2006 - Ordine dei Giornalisti Lombardia

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69 Tabloid aprile 2006 - Ordine dei Giornalisti Lombardia
Aprile- Maggio
2006
Redazione: IFG, via F. Filzi 17 - 20124 Milano telefono 02 6749871 - telefax 02 67075551
www.ifgonline.it
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
La testimonianza all’Ifg di un grande direttore cresciuto alla scuola britannica
I difficili rapporti tra due maestri
I
nghilterra e carattere. A Piero Ottone (nelle foto dell’agenzia Grazia
Neri) bastano queste due parole per sintetizzare una vita e una prestigiosa carriera. Il temperamento ha fatto di lui un cronista, Londra
e la stampa britannica hanno contribuito a formarne la filosofia giornalistica e a irrobustire la sua etica professionale. “Quanto al carattere – dice
– il mio è congeniale a osservare e descrivere; ho sempre avuto l’indole
dello spettatore e non dell’attore, non sono nato con l’idea di cambiare il
mondo”.
Questa separazione tra chi vive e chi scrive non è una resa, una dichiarazione d’impotenza, bensì il segno d’una idea di giornalismo basata sul
distacco tra chi nel mondo agisce e chi racconta: il cronista è un uomo
che osserva la mischia dall’alto. Emerge l’influenza della cultura britannica, dei modelli d’oltremanica, dei dieci anni passati nella capitale del
Regno Unito come corrispondente della Gazzetta del Popolo: soprattutto
per quanto riguarda la difficile ma continua ricerca dell’obiettività.
Quel vecchio scontro
con Indro Montanelli
P
OTTONE
l’obiettività
al potere
Ottone propugna un giornalismo non partigiano,
che non salga sulle barricate, che mai sconfini nella propaganda. Il panorama generale della stampa
italiana, però, non lo
conforta, visto che, come
denuncia, “i giornali sono
estremamente politicizzati e persino un grande come Eugenio Scalfari ha ripetuto più volte che l’onestà del cronista sta solo nel dichiarare apertamente come la pensa”. Quanto a se
stesso, rivendica con orgoglio le aperture degli
anni Settanta, alla direzione del Corriere della Sera. “È solo una leggenda quella che io lo
avessi trasformato in un foglio di sinistra. La
verità – afferma – è che, fedele alla mia idea
di obiettività, detti voce anche a chi fino ad allora su quel giornale voce non aveva. Ed erano voci importanti, come il Partito comunista
o la Cgil. Il Corriere di Giovanni Spadolini faceva parlare solo la polizia, il mio la polizia e i
dimostranti; il Corriere di Spadolini faceva
esprimere soltanto la Confindustria, il mio la
Confindustria e i sindacati”.
L’apertura a una pluralità di voci e di idee non
ha però nulla a che spartire con il cerchiobottismo, “un vizio brutto e pericoloso”. “Una
“Il cerchiobottismo
un vizio pericoloso”
deformazione – spiega – dettata da paura del
potere e arrivismo: perché i potenti possono dare incarichi, prebende, vantaggi a chi si schiera
dalla loro parte e piega la schiena”. In questa
prospettiva, Ottone critica i quotidiani italiani
anche per l’abitudine di dire tutto e il contrario
di tutto. “È una lacuna grave quella di non avere un’opinione propria. Una cosa è non essere
schierati e dar conto, da cronisti, delle diverse
posizioni in campo, un’altra velare o nascondere le convinzioni del giornale”. “Io vorrei –
chiarisce – editoriali non firmati che fossero una
presa di responsabilità da parte delle testate.
Invece in Italia si adotta un sotterfugio: si fanno scrivere più persone, in giorni diversi, che
sullo stesso argomento dicono cose opposte”.
Per guarire da questi difetti, una delle prime
necessità del giornalismo del nostro Paese consisterebbe nel maturare una più netta separazione tra fatti e opinioni. E cita l’esempio ame-
ricano del New York Times dove “sono addirittura due redazioni separate a occuparsi della cronaca e dei commenti”. Raggiungere
questo obiettivo aiuterebbe i lettori a districarsi meglio “in un periodo, come il nostro,
in cui lo spirito critico è vivo ma lo smarrimento è generale” e nel quale “c’è una decadenza nel livello ideale e culturale delle classi dirigenti e politiche”.
Per questo passo avanti servono però editori
capaci di svolgere il loro mestiere, di innovare un panorama piatto, di affrancarsi dalla
politica. Ma anche i giornalisti dovrebbero
essere più consapevoli dell’importanza del
loro ruolo, “non diverso da quello di un medico o di un giudice”, senza mai dimenticare che “possono fare del male, infliggere torti, persino distruggere una persona”. Anche
per questo, alla Repubblica, Ottone aveva
cercato di introdurre la figura del garante dei
In un libro i tanti ricordi di un “vecchio felice”
“Ho scoperto che la terza età
può essere un bel periodo
della vita, in un certo senso
preferibile alla vostra”. Di
fronte agli allievi dell’IFG
Piero Ottone esordisce con
un’affermazione un po’
spiazzante, contraria ai luoghi comuni che vogliono gli
anziani perdersi nel rimpianto e nei ricordi. Ma non deve stupire se si pensa che
l’ottantaduenne ex direttore
del Corriere della Sera ha
appena scritto un libro che si
intitola Memorie di un vecchio felice (Longanesi). SotTABLOID
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2006
“E adesso mi godo
il teatro della vita”
totitolo: “Elogio della tarda
età”.
Un giornalista importante,
uno che negli anni della maturità era alla testa del più
prestigioso quotidiano del
Paese, che non vede la vecchiaia come una condizione
limitante, né tanto meno come una specie di malattia cui
rassegnarsi serenamente. Il
motivo ha a che fare sia con
il percorso dell’esperienza,
sia forse con il carattere stesso del mestiere di giornalista, almeno così come lo intende Ottone.
In tarda età “le angosce sono
finite, non c’è più la paura
del palcoscenico della vita:
ormai la nostra recita l’abbiamo fatta”. L’ansia di
comparire davanti a un pubblico, di agire nel mondo per
riceverne, affannati, gli applausi, lascia spazio alla con-
iero Ottone parla di Montanelli e il
suo sguardo si illumina. “Questa faccenda sui nostri rapporti mi accompagnerà anche dopo la morte”, dice con serena
rassegnazione. Non si illude: sa bene che per
molti lui sarà sempre “il direttore che ha licenziato Montanelli”. Paolo Murialdi riassume così la vicenda nella sua Storia del giornalismo italiano (Il Mulino): “C’è chi accusa
Ottone di aver instaurato un «soviet» in redazione. Il leader degli scontenti è Montanelli
le cui critiche sono così spinte da provocare,
nell’ottobre del 1973, il suo licenziamento”.
Ottone corregge parzialmente il tiro: “La rottura avvenne dopo una sua intervista a Cesare
Lanza sul Mondo in cui disse che il Corriere
era privo di linea editoriale e aveva tradito la
borghesia lombarda. Poi addirittura rilanciò:
‘Se questa borghesia ha un po’ di fierezza disse Indro - io mi metto a disposizione’. Per
noi del Corriere, ovviamente, erano dichiarazioni inaccettabili”.
Da qui la rottura, presto ricomposta come accade tra persone che si stimano: “Eravamo
entrambi addolorati per quanto successo. Un
giorno parlavamo a casa sua e Indro, chiudendo la finestra del salotto, mi disse: ‘Lo so,
Piero, ho sbagliato. Lo so, ho sbagliato. La
mia carriera è finita’”. Ovviamente si sbagliava: Montanelli si inventò direttore a 65 anni,
compiendo un percorso che Ottone giudica
naturale: “La sua voglia di diventare direttore
era endemica anche se magari inconscia.
Nessuno faceva un giornale come Indro lo
pensava e lui era senza dubbio il numero
uno”. Una verità che Ottone ha ribadito più
volte, anche quando Montanelli era in vita.
Luca Bianchin
lettori. Ma dopo aver preso atto che il ruolo era
svuotato d’importanza, perché “ i lettori, scettici
o sfiduciati, quasi mai prendevano carta e penna
per scrivere al giornale e, quando lo facevano,
nessuno tra i giornalisti se ne curava”, decise di
lasciar perdere “quel bambino nato morto”.
Pessimista? “No, realista, perché nei giornali di
oggi non trovo una scintilla, uno scatto – dice
Ottone, che subito, però, rassicura i praticanti
giornalisti. – Se voi farete quotidiani intelligenti,
che invece di riferire della polemica tra un sottosegretario e il portavoce di un partito di second’ordine, scrivono di problemi reali, allora ci
sarà ancora speranza”. Poi riemerge l’insegnamento dell’Inghilterra: “Make the best of it!”
esclama, citando un motto imparato negli anni di
Londra. “Il giornalismo, come il mondo, va preso un po’ come viene. Ma cercate di fare sempre
del vostro meglio, e di trarne il meglio possibile”.
Paolo Stefanini
templazione dello spettatore.
E si osserva la propria vita
da lontano, “senza più pretendere di incidere sulle cose del mondo, perché l’esperienza ci insegna che questo
non è possibile”.
Ma la propensione all’osservazione è anche un tratto essenziale del giornalista: “Io
ho scelto questa professione
perché in fondo volevo osservare la realtà: essere spettatore invece di agire sul
mondo, prerogativa del politico”. E per Ottone le attitudini profonde di una persona
sono strettamente collegate
al raggiungimento della feli-
cità, o della condizione a essa più vicina. Sono queste
infatti che determinano
quanto ci si senta appagati
per quello che si ha, o quanto invece si cerchi sempre
qualcosa in più. In Memorie
di un vecchio felice, citando
il Cesare di Shakespeare
Ottone conclude che “dal carattere, non dalle stelle, dipende l’accettabilità dell’esistenza”. E lui, dopo una vita passata a osservare criticamente, ma anche con distacco britannico, la realtà
italiana, può ora dirsi “un
vecchio felice”.
Maddalena Moroni
1 (17)
La scrittura
come evasione
Il piccolo mondo mediatico di San Vittore
L
a Triennale di Milano, dal 23 febbraio
al 19 marzo, ha promosso il progetto “La rappresentazione della pena”,
una serie di eventi per conoscere l’universo variegato e segregato del carcere.
È stato un viaggio a tutto
tondo in una realtà troppo
spesso dimenticata, lasciata ai margini della società:
dal teatro al cinema, dalle
istituzioni locali allo Stato,
tutti i protagonisti della vita dietro le sbarre hanno
avuto il loro spazio.
U
Foto Grazia Neri
Al lavoro nella
redazione
di un giornale
all’interno
di un carcere.
Nell’immagine
in basso:
le chiavi,
simbolo della
vita da reclusi.
INCHIESTA
Della realtà del carcere
si è discusso nel ciclo
di manifestazioni
“La rappresentazione
della pena”, ospitato
di recente dalla
Triennale di Milano
n particolare risalto è stato dato però
a quel microcosmo
particolare che è l’informazione in carcere, e ai suoi
attori principali, i redattori
delle testate carcerarie.
Uomini liberi dietro le
sbarre. Liberi perché da anni si documentano, scrivono e comunicano sulla propria condizione di detenuti, sulla realtà del carcere e
sulla società da cui sono
esclusi. Quasi come dei
giornalisti veri, ma con una
passione che probabilmente non tutti i professionisti
veri hanno. Sono i redattori del giornale di San
Vittore, Il Due Notizie,
bollettino informativo a di-
stribuzione interna, e la testata online www.ildue.it:
realtà emerse dallo stagno
culturale delle prigioni,
dalle “tombe abitate da vivi”, come le definisce
Emilia Patruno, giornalista
di Famiglia Cristiana e direttrice di entrambe le testate.
L
a finalità di questi
due giornali è informare i detenuti di
quello che avviene all’interno del carcere e di ciò
che. Pur accadendo fuori,
riguarda il mondo dei detenuti; ma anche di dare ai
detenuti stessi un mezzo
per incanalare in modo costruttivo le proprie forze
intellettuali che in carcere
rischiano costantemente di
atrofizzarsi. Pino Cantatore, collaboratore de Il
Due, ne è convinto: “Credo
che ogni attività seria intrapresa da una persona detenuta, sia essa lavorativa o
ricreativa, sia un’evasione,
aiuta a rubare tempo alla
logica del carcere. Diversamente l’alternativa è rimanere chiuso in una cella
due metri per due a vegetare”. Sulla stampa ufficiale,
del carcere si parla saltuariamente. Le testate trattano le condizioni di vita ne-
gli istituti di pena solo
quando qualcuno tira fuori
la proposta di indulto o amnistia oppure in casi di violenza particolarmente rilevanti; altrimenti, il silenzio.
I
l sito www.ildue.it è
riuscito, forte dei suoi
duemila contatti singoli giornalieri e di una newsletter con diecimila iscrit-
Numero speciale de “il due
Notizie” dedicato alla mostra
con le immagini di Roby
Schirer esposta nel 2005
al binario 21 alla Stazione
Centrale di Milano.
Viaggio nell’informaz
Parla Candido Cannavò, da vent’anni volontario con discrezione
A colloquio con Serg
“La solidarietà
non è un optional”
“Il giorna
non ci aiu
Cosa ha spinto un uomo che ha dedicato la vita al giornalismo e allo sport a varcare il portone di un carcere?
Per il mondo dello sport, un mondo privilegiato,
fatto di salute, piacere e agonismo, la solidarietà
non è un optional ma un dovere. Precisamente
non saprei dire quando cominciai. All’inizio mi
ha spinto la curiosità personale, poi l’amicizia
col direttore di San Vittore, Luigi Pagano, e i racconti delle esperienze di alcuni detenuti mi hanno legato indissolubilmente a questa realtà; realtà
che dietro a una facciata di peccato ed espiazione si è rivelata essere anche intrisa di solidi rapporti umani.
periodo, appena ci torno mi dicono
“allora non ci hai abbandonato!”.
Una persona che mi è rimasta impressa in maniera particolare è
Melodia, una ragazza africana.
Beccata col fidanzato che a sua insaputa trasportava droga, si è sempre dichiarata innocente e si è rifiutata di patteggiare la pena al costo
di una condanna più pesante. Sono
rimasto profondamente colpito dal
suo coraggio e, adesso che finalmente è uscita ed ha abbandonato
l’Italia, mi manca.
Un mondo come quello del carcere, che induce facilmente a giudizi di carattere morale, è
descritto nel suo libro in chiave cronachistica.
Perché?
Ciò che accade nella vita va compreso, non giudicato. Innanzitutto bisogna prendere atto di
quello che succede, sia del giusto sia dell’ingiusto, del piacevole e del mostruoso. È necessario
andare dentro alle cose per capirle. Mettersi a
predicare è un gesto di arroganza che porta inevitabilmente a fare sociologia spiccia e l’unico
risultato che ottieni è quello che il tuo libro serva solo a conciliare il sonno. Soprattutto penso
che la chiave del cronista sia la più adatta a trasmettere il messaggio: bisogna occuparsi di quel
mondo, non possiamo abbandonare così i detenuti e fregarcene.
Qual è il suo giudizio sulla comunicazione che nasce dal carcere?
Questi progetti, al di là dei temi che diffondono,
che sono di per sé importanti, sono preziosi perché danno qualcosa da fare ai detenuti. Qualsiasi
attività nel carcere è benemerita, se poi si tratta di
un lavoro di qualità come quello giornalistico,
meglio ancora. C’è una malattia che affligge tutti
i detenuti: una malattia che si chiama carcere; sfido chiunque a stare venti ore al giorno in una cella e non farsi cogliere dall’inedia. Il tempo in carcere è un grande nemico. Infine dare ai detenuti
la possibilità di lavorare permette loro di inviare
qualche soldo alle famiglie, che spesso vivono
condizioni di grave disagio.
Cosa ha lasciato in Cannavò questa esperienza?
Se all’inizio il volontariato in carcere è stata poco più che una curiosità, un modo per rendersi
utili, adesso è parte di me, un’attività dalla quale
non mi stacco più. In questi anni ho instaurato
vicendevoli rapporti affettivi: tutte le persone che
ho conosciuto mi scrivono lettere, aspettano le
mie visite, se non vado in carcere per un lungo
2 (18)
CANDIDO CANNAVÒ
Direttore della “Gazzetta dello Sport” dal 1983 al
2002, porta avanti da oltre vent’anni con grande discrezione una vita da volontario nel carcere milanese di San Vittore e ha scritto un libro, “Libertà dietro le sbarre” (Rizzoli, 2004), in cui tratteggia i ritratti degli ospiti della casa circondariale.
Il carcere è nelle sue parole comunque un luogo infernale. Quali soluzioni vede?
L’accusa principale che muovo ai politici è di
non conoscere il problema. Il massimo che l’attuale ministro di Grazia e giustizia sa dire è:
“Stiamo costruendo nuove carceri”. Ma questa
non è la soluzione: ciò che occorre è una revisione totale del concetto di carcere e delle tipologie di reati che vanno punite con pene detentive. Certo che se partiamo dal presupposto che i
Perché è nata la Federazione nazionale
giornali del e sul carcere?
La Federazione è una prima risposta ai
molti problemi delle riviste carcerarie, fra
i tanti il fatto di avere come direttore il direttore del penitenziario. Pensiamo sia
concettualmente sbagliato. Anche se a volte non comporta alcun problema, talvolta
porta chi scrive all’autocensura se non alla
censura vera e propria, persino alla chiusura del giornale, com’è successo a
Uomini liberi, il giornale del carcere di
Lodi. Un’altra importante sfida è quella
per consentire ai detenuti l’accesso a internet, strumento indispensabile per una redazione.
tossicodipendenti vadano incarcerati, è ovvio che
ci troviamo con le carceri che scoppiano. Coloro
che nel carcere scontano una pena definitiva sono una piccola percentuale rispetto alla fluttuante popolazione che è in attesa di un giudizio definitivo. Il problema non è facile, e io non ho la
soluzione, per carità. Però occuparsene in maniera salottiera non porta a niente.
Quale il provvedimento più urgente che una
classe politica veramente attenta a questo tema dovrebbe adottare?
Sarebbe già un passo avanti far applicare concretamente le leggi vigenti: la legge Finocchiaro
e la legge Gozzini. Quest’ultima permette ai detenuti di sostituire la pena detentiva con un lavoro all’esterno dell’istituto di pena; legge estremamente meritoria e civile che tiene fuori dalle
prigioni oltre 40mila persone, ma che guadagna
le prime pagine dei giornali solo quando qualcuno commette un reato mentre ne beneficia.
Matthias Alexander Pfaender
Alessandro Braga
Foto Grazia Neri
TABLOID
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ti, a dare continuità all’informazione sul mondo
delle case circondariali.
Ma non è stato facile mettere in piedi questo progetto in un mondo intellettualmente asfittico.
I
primi passi di queste
due realtà risalgono al
1992, quando la dottoressa Emilia Patruno entrò
in contatto con la casa circondariale di San Vittore
per seguire un convegno
sul lavoro in carcere.
In quell’occasione ricevette la richiesta da parte di un
detenuto di aiutare la redazione de Il Giornale di San
Vittore, il foglio precedente, a riprendere le pubblicazioni, interrotte da anni.
“Tale richiesta era inaspettata, ed io non avevo esperienze di giornali redatti all’interno di una istituzione
– racconta Emilia Patruno
– così ho deciso di usufruire dell’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario
(legge 354/75) che consente l’ingresso in carcere a
volontari che promuovono
progetti mirati a fini sociali”. Per lei ebbe così inizio
il lavoro come volontaria
nel carcere di San Vittore,
esperienza che l’ha impegnata quotidianamente per
oltre quattordici anni, e che
nel 1998 le è valsa il
Premiolino.
L
a giornalista ricorda
come all’inizio le
problematiche
di
creare una pubblicazione in
tale contesto sembrassero
insuperabili: “L’entusiasmo
dei detenuti era
fortissimo, ma
le competenze
linguistiche di
molti di loro
erano ferme a livelli di prima alfabetizzazione,
così ho deciso di
cominciare tenendo corsi di
italiano”. A piccoli passi il giornale ed il sito
prendono forma, crescono,
cambiano più volte redattori, formato e titolo, divenendo il due Notizie, coordinato da Emilio Pozzi, e
www.ildue.it.
E
ntrambe le testate
sono oggi il frutto
del lavoro di una decina di detenuti della sezione penale che, sotto la direzione di Emilia Patruno, selezionano i temi da trattare
ed elaborano i testi da pubblicare, superando tutte le
limitazioni che una realtà
chiusa e rigida come un
istituto di pena comporta.
Perché fare i giornalisti, da
detenuti, non è semplice.
Lo “stare sulla notizia” deve quotidianamente affron-
tare la burocrazia carceraria. Soprattutto per il redattore è quasi impossibile
avere accesso diretto alle
fonti, a meno che non si
tratti di temi interni alla ca-
sa circondariale. Luca
Magro, un collaboratore de
www.ildue.it, descrive il
lavoro della redazione: “Gli
incontri fissi sono il lunedì
sera ed il sabato pomeriggio, quindi non ci è possibile svolgere attività quotidiana nel giornale”.
Da Milano a Palermo sono oltre 50 i periodici
Mezzo secolo di pubblicazioni
La locandina
della recente
mostra alla
Triennale
di Milano
con le foto di
Uliano Lucas e
Davide Ferrario
G
uido Conti, un ex
detenuto che tuttora collabora con Il
Due, sottolinea come la ricerca delle informazioni da
trattare risulti difficile e
lenta: “Non possiamo navigare in rete e i giornali e le
riviste da consultare sono
pochi. Molto ci arriva semplicemente dalla tv”.
Il primo è stato, nel 1951, La Grande Promessa della casa di reclusione
di Porto Azzurro all’Isola dell’Elba. Poi, gradualmente, i giornali carcerari si sono diffusi in tutta Italia. Da Milano a Palermo, al momento sono
oltre 50 le pubblicazioni - quasi tutte periodiche - prodotte nei vari istituti di pena, tra penitenziari, carceri minorili e ospedali psichiatrici. Fra le
testate più complete ed esaurienti c’è la veneta Ristretti Orizzonti, un
po’il punto di riferimento di tutte queste iniziative: il suo portale (www.ristretti.it) è una preziosa guida al giornalismo dei detenuti. A idearlo è stato proprio un carcerato, Francesco Morelli. Non avendo accesso a internet, preparava il sito fuori linea e salvava tutto su un dischetto che poi
veniva portato fuori. Ora che Francesco è in semilibertà, tutte queste
complicazioni non esistono più. Oltre al portale, Ristretti Orizzonti produce una newsletter quotidiana che ha circa 700 contatti al giorno e un
periodico da sette numeri all’anno, nato nel ’97, che esce anche dal carcere con 2000 abbonamenti. Il tutto viene confezionato da circa 35 detenuti, una ventina della Casa di reclusione di Padova, il resto dell’Istituto
di pena femminile “La Giudecca” di Venezia.
Ma il lavoro giornalistico non si limita ai penitenziari ordinari: La Storia
di Nabuc, ad esempio, è la pubblicazione dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta). In questo caso il giornalismo è visto con fini
terapeutici per chi è affetto da disturbi psichici. Da quasi un anno, però,
il Nabuc non riesce ad uscire: manca l’apporto di volontari che coordinino il lavoro dei detenuti.
È fermo al palo, per motivi completamente differenti, anche Uomini
Liberi della Casa circondariale di Lodi. Si tratta, forse, del giornale carcerario più all’avanguardia: le quattro pagine prodotte mensilmente uscivano all’interno del Cittadino, il quotidiano locale. La nuova direttrice
del penitenziario, Caterina Ciampoli, arrivata l’agosto scorso, ha messo
fine a un’iniziativa che si era rivelata utile a molti detenuti per uscire dal
grigiore della vita carceraria. Come a F. L., 45 anni, che prima di collaborare con Uomini Liberi odiava la scrittura. Poi, la folgorazione: tutti
i mesi curava una rubrica dal titolo “Gigi, professione ladro”, una serie
di racconti ironici basati sulle storie di furti orecchiate tra le celle e i corridoi del penitenziario. Ora che è uscito di prigione, ha scritto persino un
romanzo e chissà che non trovi presto un editore.
A. S.
Matthias Alexander
zione dietro le sbarre
gio Segio, ex-terrorista di Prima Linea
ale come ‘sfogatoio’
uta a comunicare”
Che cosa raccontano i giornali carSERGIO SEGIO
cerari?
Dovrebbero raccontare cos'è il carIl “comandante Sirio” di Prima Linea, formazione tercere, come ci si vive e lavora.
roristica fondata nel 1976, ha scontato una condanna a
Bisogna fare capire chi sono i detetrent’anni di carcere. Già prima dell’arresto si era disnuti, perché su questo tema l’opiniosociato dalla lotta armata e attualmente lavora nel monne pubblica è abbastanza ripiegata su
do del volontariato come responsabile del Gruppo
luoghi comuni. L’informazione del
Abele di Milano. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio,
carcere dovrebbe essere a tutto camassediato dai libri, presso la sede del gruppo fondato da
po, mettere in luce anche ciò che
don Luigi Ciotti.
spesso viene relegato nell’opacità.
Talvolta le riviste riescono persino a
incrinare alcuni stereotipi.
espressione dell’intero carcere, e non di una
Un fatto che però succede raramente, questi piccola sezione, questo interesse c’è. Ristretti
giornali sono solo forme di intrattenimento, de- orizzonti, ad esempio, lavora bene perché riegli “sfogatoi” che fanno bene ai detenuti ma sce a coinvolgere le diverse sezioni del carcenon producono informazione. Al contrario, i re. Ma quando i redattori vengono scelti dalla
giornali carcerari dovrebbero essere delle fine- direzione carceraria (talvolta, presumibilmente,
stre, ben aperte e funzionanti nei due sensi: per in base a criteri di privilegio), quando vivono
rompere quegli stereotipi esterni che tengono in modo separato rispetto al resto del carcere
la finestra chiusa o addirittura sbarrata, e per i allora la testata viene vista come espressione di
detenuti che ne hanno bisogno per non sentirsi un piccolo gruppo o della direzione. I redattori
totalmente isolati.
invece dovrebbero essere rappresentativi di tutte le sezioni del carcere, perché in uno stesso
Qual è lo stile dei giornali carcerari?
carcere ci sono tante realtà diverse.
Noi siamo per i toni non gridati, per uno stile La comunicazione è evasione?
sobrio ma efficace. La comunicazione non ha Sicuramente la comunicazione è libertà. E cobisogno di aggettivi forti, ha bisogno di fonda- municare dal carcere per il detenuto vuol dire
tezza.
poter impadronirsi nuovamente della propria libertà e responsabilità.
Il carcere non ha voglia di gridare?
Partecipare ai lavori di una redazione all’inizio
La contraddizione è proprio questa: ormai il può essere un modo per rompere la monotonia
carcere è diventato il luogo del silenzio e della quotidiana. Col passare del tempo, diventa un
disperazione, non più quello delle grida e della momento formativo: permette di riflettere su se
rabbia. Proprio perché non si grida più, biso- stessi, su quello che si fa, sul luogo dove si vigna che i redattori-detenuti imparino a scrivere ve. Produrre informazione dall’interno del carbene, ad essere efficaci nella comunicazione.
cere è difficile e faticoso, ma quando ci si riesce è un fatto positivamente “sovversivo” nel
Da parte dei detenuti c’è interesse per questi senso che fa diventare il carcere un luogo di augiornali?
tentico reinserimento.
Bisogna fare dei distinguo. Se la redazione è
Ilaria Sesana
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L’esperienza di chi insegna giornalismo nei penitenziari
Difficile vincere la diffidenza
verso i media del mondo libero
La maggior parte dei detenuti ha un livello culturale
medio-basso, senza contare che molti sono stranieri.
È quindi necessario dar loro i rudimenti
della scrittura prima di coinvolgerli nella pubblicazione
dei giornali carcerari.
Per questo in molti penitenziari italiani si svolgono
dei corsi di “approccio alle tecniche di giornalismo”.
Come a San Vittore, dove le lezioni
vanno avanti da una quindicina di anni.
I
corsi, in genere a cadenza settimanale, seguono un vero e proprio programma. La difficoltà maggiore per i
docenti è superare l’iniziale diffidenza
degli internati, i quali non amano particolarmente la categoria dei giornalisti,
accusata di travisare la realtà sui fatti di
cronaca e di riempire di luoghi comuni
l’informazione sulle carceri. Una volta
conquistata la loro fiducia, si parte: dalle
basi grammaticali alle parti del discorso,
il fine ultimo è far assimilare agli allievi
la semplicità e la chiarezza della scrittura giornalistica. Perché può essere sempre utile, anche solo per scrivere una lettera ai familiari o una memoria difensiva. Un altro obiettivo è insegnare ai detenuti a leggere i giornali e a vedere la
tv, per selezionare e interpretare le notizie che arrivano dall’esterno. I docenti
spesso portano con sé quotidiani e settimanali che quasi sempre all'interno delle
carceri scarseggiano.
U
na volta usciti di prigione, molti
dei detenuti che hanno frequentato questi corsi hanno continuato nell'attività di scrittura o hanno trovato lavoro nel mondo della comunica-
zione. C'è chi ha scritto romanzi, chi libri di poesie, chi sceneggiature. Un ragazzo fa l'operatore televisivo, mentre
una casa editrice ha assunto un condannato in regime di semilibertà. In tanti si
sono iscritti all'università.
Dal 1986 con la legge Gozzini, ispirata
all'articolo 17 della Costituzione che
prevede la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa dei detenuti, l'informazione ha iniziato a mettere piede in carcere. Fino ad allora, ad
esempio, sui giornali che i detenuti potevano acquistare venivano tagliati gli
articoli di cronaca nera e giudiziaria. Ora
le carceri sono dotate persino di programmi di impaginazione: l’Ordine dei
giornalisti della Lombardia ne ha donato uno a San Vittore, insieme ad uno
scanner ed una penna USB. Così, oggi
in prigione circolano pubblicazioni autoprodotte, si guarda la tv e si ascolta la
radio. Il prossimo passo, auspicato da
molti ma forse ancora irrealizzabile, è
riuscire a far nascere piccole stazioni radiofoniche ad uso interno e consentire
l’accesso a Internet.
Andrea Sillitti
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foto Grazia Neri
Tiziana Ferrario,
inviata del Tg1 nelle aree a rischio
“Il reportage
in televisione?
Ormai è per
nottambuli”
C
onduttrice del primo telegiornale nazionale, inviata nelle “zone calde” del mondo, consigliere dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Tiziana Ferrario, (nella foto Grazia Neri)
volto noto del Tg1, è una delle giornaliste più indicate in Italia per farsi raccontare come
è cambiata negli anni la professione dell’inviato. Quando la sentiamo, è appena tornata dal
Pakistan e dall’Afghanistan. Paesi che conosce molto bene, essendoci stata come inviata sin
dall’epoca dei Talebani.
do di fare giornalismo. Da
una parte questo è stato positivo, perché la competitività
è sempre uno stimolo a migliorare. Dall’altra, però, ha
esasperato la corsa agli ascolti, degenerando anche in atteggiamenti provinciali. È
stato dato spazio alla cronaca
nera, in tutti i suoi aspetti più
violenti.
Notizie che una volta avrebbero avuto poche righe nelle
pagine locali, oggi si trasformano in lunghi servizi, il cui
interesse però dura spesso
l’arco di un giorno.
L’informazione ha incominciato a frugare fra le pieghe
dei drammi familiari. Se ti
metti a spiare dal buco della
serratura, sai che il pubblico
non ti mancherà.
Ma non mi piace. Non credo
sia questo il compito del servizio pubblico.
Non sono per il “ruolo pedagogico” della tv, ma penso
che l’informazione del servizio pubblico debba essere
una finestra aperta sulle grandi questioni del Paese e del
mondo.
Stimolare il dialogo, aiutare
a capire la complessità di ciò
che ci circonda, attraverso la
molteplicità delle voci della
società civile. Non esaurirsi
in un elenco di fatti di cronaca locale, come ha detto di recente il cardinale Tettamanzi,
in un insieme di opinioni distaccate dai fatti.
Raccontare la realtà di un
Paese così lontano come
l’Afghanistan. Come si fa?
Esiste una cornice in cui inquadrare i fatti, per aiutare
il telespettatore distratto a
capire?
Non mi piace raccontare la
guerra solo attraverso le azioni militari. L’Afghanistan è
un Paese che si deve raccontare attraverso la vita delle
persone. Un’intervista a una
Azione, colore, gossip.
Approfondimento addio
madre con in braccio il proprio figlio sofferente a volte
è più forte di tante parole.
Pericoloso il ruolo di inviato in “zone calde”?
È sempre stato pericoloso.
Ma dal 2001, specie con la
guerra in Iraq, il numero dei
reporter uccisi è aumentato in
modo impressionante. I rischi
sono aumentati perché ormai
i giornalisti non sono più recepiti come soggetti neutrali
nei campi di battaglia.
La questione della “neutralità”, appunto. È grande,
oggi, il rischio di essere
strumentalizzati?
Si sono affinate le tecniche di
propaganda. L’amministra-
zione Bush ha investito nell’informazione, creando agenzie che forniscono “buone notizie dal fronte” attraverso servizi preconfezionati.
Dall’altra parte, anche i terroristi usano i media, facendo
pervenire cassette con messaggi audio e video.
È difficile riuscire a non farsi
tirare per la giacca, lavorando per la verità.
Come reagire?
Esistono le trappole, ma il
modo di non caderci è quello
di essere sempre più preparati .
Visibilità e potere. Quanta
capacità ha un giornalista
televisivo di imporre la pro-
pria volontà in redazione?
Visibilità non significa potere. Un conduttore può proporre, intervenire nella discussione, ma la decisione finale resta alla direzione. È
una cosa che accade un po’ in
tutte le redazioni.
Difficoltà a farsi rispettare
dalla redazione come inviata?
Nessuna.
Intende anche da un punto
di vista politico?
Lavoro per il rispetto professionale.
E il contenuto di un servizio chi lo decide?
Se ne discute, ma mi viene lasciata grande autonomia.
foto Grazia Neri
Lo scorso gennaio, Kabul è
stata al centro dell’attenzione mondiale per la conferenza organizzata a Londra
dai Paesi coinvolti nella ricostruzione. In Italia, però,
se ne è parlato ben poco.
Già. Salvo poche eccezioni, i
grandi quotidiani sono stati i
primi ad ignorarlo. Eppure in
Afghanistan abbiamo ancora
oltre duemila nostri soldati. E
fino al prossimo aprile l’Italia
vi manterrà il comando Nato
della missione Isaf.
Perché questo disinteresse?
Oggi si privilegia solo il momento dell’azione, mai quello dell’analisi. Non c’è interesse a seguire che cosa accade nel mondo. Non si raccontano le tappe che hanno portato a una grave crisi, e soprattutto non si segue quello
che accade dopo. Così, però,
si corre anche il rischio che la
gente non capisca, perché
viene a mancare il momento
dell’approfondimento.
Colpa della televisione, sempre in cerca di spettacolo?
Non riguarda soltanto la tv,
anche se in effetti in un telegiornale questo fenomeno si
nota maggiormente. Un tg è
come la prima pagina di un
giornale, che però di fogli ne
ha altri cinquanta. Da noi, invece, lo spazio è realmente limitato.
Il problema, però, è un altro.
È che ormai si tende a dare
molta attenzione al costume,
al gossip, al colore. Gli esteri
vengono sacrificati o quanto
meno ignorati. E i reportage
sono quasi scomparsi o confinati in seconda serata, in
orario da nottambuli.
Esiste una linea di demarcazione dalla quale è nato il
cambiamento?
Senza dubbio l’avvento della
televisione commerciale e dei
suoi tg, sul finire degli anni
Ottanta. È nato un nuovo mo-
Che spazio crede abbiano le
inviate nel giornalismo di
oggi?
Credo ci sia un reale problema di scarsa presenza delle
donne nei ruoli dirigenziali.
Nel mio giornale, ad esempio, c’è solo un capo redattore operativo. Ma nelle altre
testate Rai la situazione non
è migliore. I posti di potere
restano ancora saldamente in
mano ai maschi. Mi piacerebbe, invece, vedere un giorno
una donna capace alla direzione di un grande giornale.
Negli ultimi anni, comunque,
il giornalismo in generale si
è sempre più femminilizzato.
È questo è un bene, perché
credo che le donne abbiano
una sensibilità diversa, che
può arricchire i contenuti dei
giornali.
Lei ha difficoltà, in quanto
donna, ad essere inviata in
un Paese islamico?
Ci sono aspetti positivi e negativi. Certo non passo inosservata, donna occidentale
con telecamera al seguito, in
Paesi profondamente conservatori come l’Afghanistan e il
Pakistan. E questo, soprattutto nelle situazioni di rischio,
non è il lato positivo. Ma, proprio perché donna, ho potuto
accedere a luoghi proibiti agli
uomini: le prigioni femminili,
per esempio, le madrasse riservate alle donne, le case.
Qual è stata l’esperienza
che ritiene più importante?
Senza dubbio l’Afghanistan.
Un’esperienza professionale
notevole. Mai visto tanti giornalisti insieme, e tanti Paesi
coalizzati contro un nemico
comune. Dal 2001 il mondo è
cambiato, è cambiata la nostra
vita. Ci sono già state due
guerre. Tutto è più complesso.
Come giornalisti dobbiamo
raccontare quanto sta accadendo, non solo a casa nostra,
ma anche oltre confine. C’è
bisogno di analizzare, di capire. Per questo serve una stampa libera e responsabile che
aiuti il dialogo, quanto mai necessario in questo momento
storico. Abbiamo anche il dovere di non dare spazio solo
agli estremismi: sicuramente
fanno più notizia, ma ci sono
anche milioni di persone che
non vogliono lo scontro.
Per questo non si accontenta della conduzione del tg e
decide di mettersi ancora in
gioco?
Non è un problema di accontentarsi. La conduzione è solo un aspetto del mio essere
giornalista televisiva.
Semplicemente, nonostante
tante difficoltà, mi piace ancora fare il mio lavoro.
Francesco Abiuso
IFG TABLOID
A cura dell’Istituto “Carlo De Martino”
per la Formazione al Giornalismo
Direttore: MASSIMO DINI
Redattore: Massimo Ravelli
Segretaria di redazione: Annamaria Pizzinato
Associazione “Walter Tobagi”
per la Formazione al Giornalismo
Presidente: GIUSEPPE ANTONIO BARRANCO
DI VALDIVIESO
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Consiglio di presidenza (triennio 2004-2007)
Giuseppe Antonio Barranco di Valdivieso (presidente),
David Messina e Damiano Nigro (vicepresidenti),
Massimo Dini (direttore Ifg),
Franco Abruzzo, Pasquale Chiappetta,
Ezio Chiodini, Alberto Comuzzi, Marina Cosi,
Sergio D’Asnasch, Luca Del Gobbo,
Pierfrancesco Gallizzi, Letizia Gonzales,
Carlo Maria Lomartire, Franco Maggi,
Antonio Mirabile, Maurizio Michelini, Laura Mulassano,
Paola Pastacaldi, Luca Pierani, Giacinto Sarubbi,
Pietro Scardillo, Giuseppe Spatola, Brunello Tanzi,
Marco Ventimiglia, Maurizio Vitali
Comitato ristretto:
Giuseppe Antonio Barranco di Valdivieso,
Franco Abruzzo, Luca Del Gobbo, Massimo Dini,
David Messina, Cosma Damiano Nigro, Maurizio Vitali
Commissione didattica: Piero Ostellino (presidente)
Chiara Beria di Argentine, Mario Cervi,
Giovanni Degli Antoni, Massimo Dini,
Umberto Galimberti, Alberto Martinelli, Elia Zamboni
Collegio dei revisori dei conti:
Luciano Micconi (presidente),
Piergiorgio Corbia, Domenico Fiordelisi.
Supplenti: Giancarlo Mariani, Agostino Picicco
TABLOID
4-5
2006