69 Tabloid aprile 2006 - Ordine dei Giornalisti Lombardia
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69 Tabloid aprile 2006 - Ordine dei Giornalisti Lombardia
Aprile- Maggio 2006 Redazione: IFG, via F. Filzi 17 - 20124 Milano telefono 02 6749871 - telefax 02 67075551 www.ifgonline.it Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo La testimonianza all’Ifg di un grande direttore cresciuto alla scuola britannica I difficili rapporti tra due maestri I nghilterra e carattere. A Piero Ottone (nelle foto dell’agenzia Grazia Neri) bastano queste due parole per sintetizzare una vita e una prestigiosa carriera. Il temperamento ha fatto di lui un cronista, Londra e la stampa britannica hanno contribuito a formarne la filosofia giornalistica e a irrobustire la sua etica professionale. “Quanto al carattere – dice – il mio è congeniale a osservare e descrivere; ho sempre avuto l’indole dello spettatore e non dell’attore, non sono nato con l’idea di cambiare il mondo”. Questa separazione tra chi vive e chi scrive non è una resa, una dichiarazione d’impotenza, bensì il segno d’una idea di giornalismo basata sul distacco tra chi nel mondo agisce e chi racconta: il cronista è un uomo che osserva la mischia dall’alto. Emerge l’influenza della cultura britannica, dei modelli d’oltremanica, dei dieci anni passati nella capitale del Regno Unito come corrispondente della Gazzetta del Popolo: soprattutto per quanto riguarda la difficile ma continua ricerca dell’obiettività. Quel vecchio scontro con Indro Montanelli P OTTONE l’obiettività al potere Ottone propugna un giornalismo non partigiano, che non salga sulle barricate, che mai sconfini nella propaganda. Il panorama generale della stampa italiana, però, non lo conforta, visto che, come denuncia, “i giornali sono estremamente politicizzati e persino un grande come Eugenio Scalfari ha ripetuto più volte che l’onestà del cronista sta solo nel dichiarare apertamente come la pensa”. Quanto a se stesso, rivendica con orgoglio le aperture degli anni Settanta, alla direzione del Corriere della Sera. “È solo una leggenda quella che io lo avessi trasformato in un foglio di sinistra. La verità – afferma – è che, fedele alla mia idea di obiettività, detti voce anche a chi fino ad allora su quel giornale voce non aveva. Ed erano voci importanti, come il Partito comunista o la Cgil. Il Corriere di Giovanni Spadolini faceva parlare solo la polizia, il mio la polizia e i dimostranti; il Corriere di Spadolini faceva esprimere soltanto la Confindustria, il mio la Confindustria e i sindacati”. L’apertura a una pluralità di voci e di idee non ha però nulla a che spartire con il cerchiobottismo, “un vizio brutto e pericoloso”. “Una “Il cerchiobottismo un vizio pericoloso” deformazione – spiega – dettata da paura del potere e arrivismo: perché i potenti possono dare incarichi, prebende, vantaggi a chi si schiera dalla loro parte e piega la schiena”. In questa prospettiva, Ottone critica i quotidiani italiani anche per l’abitudine di dire tutto e il contrario di tutto. “È una lacuna grave quella di non avere un’opinione propria. Una cosa è non essere schierati e dar conto, da cronisti, delle diverse posizioni in campo, un’altra velare o nascondere le convinzioni del giornale”. “Io vorrei – chiarisce – editoriali non firmati che fossero una presa di responsabilità da parte delle testate. Invece in Italia si adotta un sotterfugio: si fanno scrivere più persone, in giorni diversi, che sullo stesso argomento dicono cose opposte”. Per guarire da questi difetti, una delle prime necessità del giornalismo del nostro Paese consisterebbe nel maturare una più netta separazione tra fatti e opinioni. E cita l’esempio ame- ricano del New York Times dove “sono addirittura due redazioni separate a occuparsi della cronaca e dei commenti”. Raggiungere questo obiettivo aiuterebbe i lettori a districarsi meglio “in un periodo, come il nostro, in cui lo spirito critico è vivo ma lo smarrimento è generale” e nel quale “c’è una decadenza nel livello ideale e culturale delle classi dirigenti e politiche”. Per questo passo avanti servono però editori capaci di svolgere il loro mestiere, di innovare un panorama piatto, di affrancarsi dalla politica. Ma anche i giornalisti dovrebbero essere più consapevoli dell’importanza del loro ruolo, “non diverso da quello di un medico o di un giudice”, senza mai dimenticare che “possono fare del male, infliggere torti, persino distruggere una persona”. Anche per questo, alla Repubblica, Ottone aveva cercato di introdurre la figura del garante dei In un libro i tanti ricordi di un “vecchio felice” “Ho scoperto che la terza età può essere un bel periodo della vita, in un certo senso preferibile alla vostra”. Di fronte agli allievi dell’IFG Piero Ottone esordisce con un’affermazione un po’ spiazzante, contraria ai luoghi comuni che vogliono gli anziani perdersi nel rimpianto e nei ricordi. Ma non deve stupire se si pensa che l’ottantaduenne ex direttore del Corriere della Sera ha appena scritto un libro che si intitola Memorie di un vecchio felice (Longanesi). SotTABLOID 4-5 2006 “E adesso mi godo il teatro della vita” totitolo: “Elogio della tarda età”. Un giornalista importante, uno che negli anni della maturità era alla testa del più prestigioso quotidiano del Paese, che non vede la vecchiaia come una condizione limitante, né tanto meno come una specie di malattia cui rassegnarsi serenamente. Il motivo ha a che fare sia con il percorso dell’esperienza, sia forse con il carattere stesso del mestiere di giornalista, almeno così come lo intende Ottone. In tarda età “le angosce sono finite, non c’è più la paura del palcoscenico della vita: ormai la nostra recita l’abbiamo fatta”. L’ansia di comparire davanti a un pubblico, di agire nel mondo per riceverne, affannati, gli applausi, lascia spazio alla con- iero Ottone parla di Montanelli e il suo sguardo si illumina. “Questa faccenda sui nostri rapporti mi accompagnerà anche dopo la morte”, dice con serena rassegnazione. Non si illude: sa bene che per molti lui sarà sempre “il direttore che ha licenziato Montanelli”. Paolo Murialdi riassume così la vicenda nella sua Storia del giornalismo italiano (Il Mulino): “C’è chi accusa Ottone di aver instaurato un «soviet» in redazione. Il leader degli scontenti è Montanelli le cui critiche sono così spinte da provocare, nell’ottobre del 1973, il suo licenziamento”. Ottone corregge parzialmente il tiro: “La rottura avvenne dopo una sua intervista a Cesare Lanza sul Mondo in cui disse che il Corriere era privo di linea editoriale e aveva tradito la borghesia lombarda. Poi addirittura rilanciò: ‘Se questa borghesia ha un po’ di fierezza disse Indro - io mi metto a disposizione’. Per noi del Corriere, ovviamente, erano dichiarazioni inaccettabili”. Da qui la rottura, presto ricomposta come accade tra persone che si stimano: “Eravamo entrambi addolorati per quanto successo. Un giorno parlavamo a casa sua e Indro, chiudendo la finestra del salotto, mi disse: ‘Lo so, Piero, ho sbagliato. Lo so, ho sbagliato. La mia carriera è finita’”. Ovviamente si sbagliava: Montanelli si inventò direttore a 65 anni, compiendo un percorso che Ottone giudica naturale: “La sua voglia di diventare direttore era endemica anche se magari inconscia. Nessuno faceva un giornale come Indro lo pensava e lui era senza dubbio il numero uno”. Una verità che Ottone ha ribadito più volte, anche quando Montanelli era in vita. Luca Bianchin lettori. Ma dopo aver preso atto che il ruolo era svuotato d’importanza, perché “ i lettori, scettici o sfiduciati, quasi mai prendevano carta e penna per scrivere al giornale e, quando lo facevano, nessuno tra i giornalisti se ne curava”, decise di lasciar perdere “quel bambino nato morto”. Pessimista? “No, realista, perché nei giornali di oggi non trovo una scintilla, uno scatto – dice Ottone, che subito, però, rassicura i praticanti giornalisti. – Se voi farete quotidiani intelligenti, che invece di riferire della polemica tra un sottosegretario e il portavoce di un partito di second’ordine, scrivono di problemi reali, allora ci sarà ancora speranza”. Poi riemerge l’insegnamento dell’Inghilterra: “Make the best of it!” esclama, citando un motto imparato negli anni di Londra. “Il giornalismo, come il mondo, va preso un po’ come viene. Ma cercate di fare sempre del vostro meglio, e di trarne il meglio possibile”. Paolo Stefanini templazione dello spettatore. E si osserva la propria vita da lontano, “senza più pretendere di incidere sulle cose del mondo, perché l’esperienza ci insegna che questo non è possibile”. Ma la propensione all’osservazione è anche un tratto essenziale del giornalista: “Io ho scelto questa professione perché in fondo volevo osservare la realtà: essere spettatore invece di agire sul mondo, prerogativa del politico”. E per Ottone le attitudini profonde di una persona sono strettamente collegate al raggiungimento della feli- cità, o della condizione a essa più vicina. Sono queste infatti che determinano quanto ci si senta appagati per quello che si ha, o quanto invece si cerchi sempre qualcosa in più. In Memorie di un vecchio felice, citando il Cesare di Shakespeare Ottone conclude che “dal carattere, non dalle stelle, dipende l’accettabilità dell’esistenza”. E lui, dopo una vita passata a osservare criticamente, ma anche con distacco britannico, la realtà italiana, può ora dirsi “un vecchio felice”. Maddalena Moroni 1 (17) La scrittura come evasione Il piccolo mondo mediatico di San Vittore L a Triennale di Milano, dal 23 febbraio al 19 marzo, ha promosso il progetto “La rappresentazione della pena”, una serie di eventi per conoscere l’universo variegato e segregato del carcere. È stato un viaggio a tutto tondo in una realtà troppo spesso dimenticata, lasciata ai margini della società: dal teatro al cinema, dalle istituzioni locali allo Stato, tutti i protagonisti della vita dietro le sbarre hanno avuto il loro spazio. U Foto Grazia Neri Al lavoro nella redazione di un giornale all’interno di un carcere. Nell’immagine in basso: le chiavi, simbolo della vita da reclusi. INCHIESTA Della realtà del carcere si è discusso nel ciclo di manifestazioni “La rappresentazione della pena”, ospitato di recente dalla Triennale di Milano n particolare risalto è stato dato però a quel microcosmo particolare che è l’informazione in carcere, e ai suoi attori principali, i redattori delle testate carcerarie. Uomini liberi dietro le sbarre. Liberi perché da anni si documentano, scrivono e comunicano sulla propria condizione di detenuti, sulla realtà del carcere e sulla società da cui sono esclusi. Quasi come dei giornalisti veri, ma con una passione che probabilmente non tutti i professionisti veri hanno. Sono i redattori del giornale di San Vittore, Il Due Notizie, bollettino informativo a di- stribuzione interna, e la testata online www.ildue.it: realtà emerse dallo stagno culturale delle prigioni, dalle “tombe abitate da vivi”, come le definisce Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana e direttrice di entrambe le testate. L a finalità di questi due giornali è informare i detenuti di quello che avviene all’interno del carcere e di ciò che. Pur accadendo fuori, riguarda il mondo dei detenuti; ma anche di dare ai detenuti stessi un mezzo per incanalare in modo costruttivo le proprie forze intellettuali che in carcere rischiano costantemente di atrofizzarsi. Pino Cantatore, collaboratore de Il Due, ne è convinto: “Credo che ogni attività seria intrapresa da una persona detenuta, sia essa lavorativa o ricreativa, sia un’evasione, aiuta a rubare tempo alla logica del carcere. Diversamente l’alternativa è rimanere chiuso in una cella due metri per due a vegetare”. Sulla stampa ufficiale, del carcere si parla saltuariamente. Le testate trattano le condizioni di vita ne- gli istituti di pena solo quando qualcuno tira fuori la proposta di indulto o amnistia oppure in casi di violenza particolarmente rilevanti; altrimenti, il silenzio. I l sito www.ildue.it è riuscito, forte dei suoi duemila contatti singoli giornalieri e di una newsletter con diecimila iscrit- Numero speciale de “il due Notizie” dedicato alla mostra con le immagini di Roby Schirer esposta nel 2005 al binario 21 alla Stazione Centrale di Milano. Viaggio nell’informaz Parla Candido Cannavò, da vent’anni volontario con discrezione A colloquio con Serg “La solidarietà non è un optional” “Il giorna non ci aiu Cosa ha spinto un uomo che ha dedicato la vita al giornalismo e allo sport a varcare il portone di un carcere? Per il mondo dello sport, un mondo privilegiato, fatto di salute, piacere e agonismo, la solidarietà non è un optional ma un dovere. Precisamente non saprei dire quando cominciai. All’inizio mi ha spinto la curiosità personale, poi l’amicizia col direttore di San Vittore, Luigi Pagano, e i racconti delle esperienze di alcuni detenuti mi hanno legato indissolubilmente a questa realtà; realtà che dietro a una facciata di peccato ed espiazione si è rivelata essere anche intrisa di solidi rapporti umani. periodo, appena ci torno mi dicono “allora non ci hai abbandonato!”. Una persona che mi è rimasta impressa in maniera particolare è Melodia, una ragazza africana. Beccata col fidanzato che a sua insaputa trasportava droga, si è sempre dichiarata innocente e si è rifiutata di patteggiare la pena al costo di una condanna più pesante. Sono rimasto profondamente colpito dal suo coraggio e, adesso che finalmente è uscita ed ha abbandonato l’Italia, mi manca. Un mondo come quello del carcere, che induce facilmente a giudizi di carattere morale, è descritto nel suo libro in chiave cronachistica. Perché? Ciò che accade nella vita va compreso, non giudicato. Innanzitutto bisogna prendere atto di quello che succede, sia del giusto sia dell’ingiusto, del piacevole e del mostruoso. È necessario andare dentro alle cose per capirle. Mettersi a predicare è un gesto di arroganza che porta inevitabilmente a fare sociologia spiccia e l’unico risultato che ottieni è quello che il tuo libro serva solo a conciliare il sonno. Soprattutto penso che la chiave del cronista sia la più adatta a trasmettere il messaggio: bisogna occuparsi di quel mondo, non possiamo abbandonare così i detenuti e fregarcene. Qual è il suo giudizio sulla comunicazione che nasce dal carcere? Questi progetti, al di là dei temi che diffondono, che sono di per sé importanti, sono preziosi perché danno qualcosa da fare ai detenuti. Qualsiasi attività nel carcere è benemerita, se poi si tratta di un lavoro di qualità come quello giornalistico, meglio ancora. C’è una malattia che affligge tutti i detenuti: una malattia che si chiama carcere; sfido chiunque a stare venti ore al giorno in una cella e non farsi cogliere dall’inedia. Il tempo in carcere è un grande nemico. Infine dare ai detenuti la possibilità di lavorare permette loro di inviare qualche soldo alle famiglie, che spesso vivono condizioni di grave disagio. Cosa ha lasciato in Cannavò questa esperienza? Se all’inizio il volontariato in carcere è stata poco più che una curiosità, un modo per rendersi utili, adesso è parte di me, un’attività dalla quale non mi stacco più. In questi anni ho instaurato vicendevoli rapporti affettivi: tutte le persone che ho conosciuto mi scrivono lettere, aspettano le mie visite, se non vado in carcere per un lungo 2 (18) CANDIDO CANNAVÒ Direttore della “Gazzetta dello Sport” dal 1983 al 2002, porta avanti da oltre vent’anni con grande discrezione una vita da volontario nel carcere milanese di San Vittore e ha scritto un libro, “Libertà dietro le sbarre” (Rizzoli, 2004), in cui tratteggia i ritratti degli ospiti della casa circondariale. Il carcere è nelle sue parole comunque un luogo infernale. Quali soluzioni vede? L’accusa principale che muovo ai politici è di non conoscere il problema. Il massimo che l’attuale ministro di Grazia e giustizia sa dire è: “Stiamo costruendo nuove carceri”. Ma questa non è la soluzione: ciò che occorre è una revisione totale del concetto di carcere e delle tipologie di reati che vanno punite con pene detentive. Certo che se partiamo dal presupposto che i Perché è nata la Federazione nazionale giornali del e sul carcere? La Federazione è una prima risposta ai molti problemi delle riviste carcerarie, fra i tanti il fatto di avere come direttore il direttore del penitenziario. Pensiamo sia concettualmente sbagliato. Anche se a volte non comporta alcun problema, talvolta porta chi scrive all’autocensura se non alla censura vera e propria, persino alla chiusura del giornale, com’è successo a Uomini liberi, il giornale del carcere di Lodi. Un’altra importante sfida è quella per consentire ai detenuti l’accesso a internet, strumento indispensabile per una redazione. tossicodipendenti vadano incarcerati, è ovvio che ci troviamo con le carceri che scoppiano. Coloro che nel carcere scontano una pena definitiva sono una piccola percentuale rispetto alla fluttuante popolazione che è in attesa di un giudizio definitivo. Il problema non è facile, e io non ho la soluzione, per carità. Però occuparsene in maniera salottiera non porta a niente. Quale il provvedimento più urgente che una classe politica veramente attenta a questo tema dovrebbe adottare? Sarebbe già un passo avanti far applicare concretamente le leggi vigenti: la legge Finocchiaro e la legge Gozzini. Quest’ultima permette ai detenuti di sostituire la pena detentiva con un lavoro all’esterno dell’istituto di pena; legge estremamente meritoria e civile che tiene fuori dalle prigioni oltre 40mila persone, ma che guadagna le prime pagine dei giornali solo quando qualcuno commette un reato mentre ne beneficia. Matthias Alexander Pfaender Alessandro Braga Foto Grazia Neri TABLOID 4-5 2006 ti, a dare continuità all’informazione sul mondo delle case circondariali. Ma non è stato facile mettere in piedi questo progetto in un mondo intellettualmente asfittico. I primi passi di queste due realtà risalgono al 1992, quando la dottoressa Emilia Patruno entrò in contatto con la casa circondariale di San Vittore per seguire un convegno sul lavoro in carcere. In quell’occasione ricevette la richiesta da parte di un detenuto di aiutare la redazione de Il Giornale di San Vittore, il foglio precedente, a riprendere le pubblicazioni, interrotte da anni. “Tale richiesta era inaspettata, ed io non avevo esperienze di giornali redatti all’interno di una istituzione – racconta Emilia Patruno – così ho deciso di usufruire dell’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/75) che consente l’ingresso in carcere a volontari che promuovono progetti mirati a fini sociali”. Per lei ebbe così inizio il lavoro come volontaria nel carcere di San Vittore, esperienza che l’ha impegnata quotidianamente per oltre quattordici anni, e che nel 1998 le è valsa il Premiolino. L a giornalista ricorda come all’inizio le problematiche di creare una pubblicazione in tale contesto sembrassero insuperabili: “L’entusiasmo dei detenuti era fortissimo, ma le competenze linguistiche di molti di loro erano ferme a livelli di prima alfabetizzazione, così ho deciso di cominciare tenendo corsi di italiano”. A piccoli passi il giornale ed il sito prendono forma, crescono, cambiano più volte redattori, formato e titolo, divenendo il due Notizie, coordinato da Emilio Pozzi, e www.ildue.it. E ntrambe le testate sono oggi il frutto del lavoro di una decina di detenuti della sezione penale che, sotto la direzione di Emilia Patruno, selezionano i temi da trattare ed elaborano i testi da pubblicare, superando tutte le limitazioni che una realtà chiusa e rigida come un istituto di pena comporta. Perché fare i giornalisti, da detenuti, non è semplice. Lo “stare sulla notizia” deve quotidianamente affron- tare la burocrazia carceraria. Soprattutto per il redattore è quasi impossibile avere accesso diretto alle fonti, a meno che non si tratti di temi interni alla ca- sa circondariale. Luca Magro, un collaboratore de www.ildue.it, descrive il lavoro della redazione: “Gli incontri fissi sono il lunedì sera ed il sabato pomeriggio, quindi non ci è possibile svolgere attività quotidiana nel giornale”. Da Milano a Palermo sono oltre 50 i periodici Mezzo secolo di pubblicazioni La locandina della recente mostra alla Triennale di Milano con le foto di Uliano Lucas e Davide Ferrario G uido Conti, un ex detenuto che tuttora collabora con Il Due, sottolinea come la ricerca delle informazioni da trattare risulti difficile e lenta: “Non possiamo navigare in rete e i giornali e le riviste da consultare sono pochi. Molto ci arriva semplicemente dalla tv”. Il primo è stato, nel 1951, La Grande Promessa della casa di reclusione di Porto Azzurro all’Isola dell’Elba. Poi, gradualmente, i giornali carcerari si sono diffusi in tutta Italia. Da Milano a Palermo, al momento sono oltre 50 le pubblicazioni - quasi tutte periodiche - prodotte nei vari istituti di pena, tra penitenziari, carceri minorili e ospedali psichiatrici. Fra le testate più complete ed esaurienti c’è la veneta Ristretti Orizzonti, un po’il punto di riferimento di tutte queste iniziative: il suo portale (www.ristretti.it) è una preziosa guida al giornalismo dei detenuti. A idearlo è stato proprio un carcerato, Francesco Morelli. Non avendo accesso a internet, preparava il sito fuori linea e salvava tutto su un dischetto che poi veniva portato fuori. Ora che Francesco è in semilibertà, tutte queste complicazioni non esistono più. Oltre al portale, Ristretti Orizzonti produce una newsletter quotidiana che ha circa 700 contatti al giorno e un periodico da sette numeri all’anno, nato nel ’97, che esce anche dal carcere con 2000 abbonamenti. Il tutto viene confezionato da circa 35 detenuti, una ventina della Casa di reclusione di Padova, il resto dell’Istituto di pena femminile “La Giudecca” di Venezia. Ma il lavoro giornalistico non si limita ai penitenziari ordinari: La Storia di Nabuc, ad esempio, è la pubblicazione dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta). In questo caso il giornalismo è visto con fini terapeutici per chi è affetto da disturbi psichici. Da quasi un anno, però, il Nabuc non riesce ad uscire: manca l’apporto di volontari che coordinino il lavoro dei detenuti. È fermo al palo, per motivi completamente differenti, anche Uomini Liberi della Casa circondariale di Lodi. Si tratta, forse, del giornale carcerario più all’avanguardia: le quattro pagine prodotte mensilmente uscivano all’interno del Cittadino, il quotidiano locale. La nuova direttrice del penitenziario, Caterina Ciampoli, arrivata l’agosto scorso, ha messo fine a un’iniziativa che si era rivelata utile a molti detenuti per uscire dal grigiore della vita carceraria. Come a F. L., 45 anni, che prima di collaborare con Uomini Liberi odiava la scrittura. Poi, la folgorazione: tutti i mesi curava una rubrica dal titolo “Gigi, professione ladro”, una serie di racconti ironici basati sulle storie di furti orecchiate tra le celle e i corridoi del penitenziario. Ora che è uscito di prigione, ha scritto persino un romanzo e chissà che non trovi presto un editore. A. S. Matthias Alexander zione dietro le sbarre gio Segio, ex-terrorista di Prima Linea ale come ‘sfogatoio’ uta a comunicare” Che cosa raccontano i giornali carSERGIO SEGIO cerari? Dovrebbero raccontare cos'è il carIl “comandante Sirio” di Prima Linea, formazione tercere, come ci si vive e lavora. roristica fondata nel 1976, ha scontato una condanna a Bisogna fare capire chi sono i detetrent’anni di carcere. Già prima dell’arresto si era disnuti, perché su questo tema l’opiniosociato dalla lotta armata e attualmente lavora nel monne pubblica è abbastanza ripiegata su do del volontariato come responsabile del Gruppo luoghi comuni. L’informazione del Abele di Milano. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio, carcere dovrebbe essere a tutto camassediato dai libri, presso la sede del gruppo fondato da po, mettere in luce anche ciò che don Luigi Ciotti. spesso viene relegato nell’opacità. Talvolta le riviste riescono persino a incrinare alcuni stereotipi. espressione dell’intero carcere, e non di una Un fatto che però succede raramente, questi piccola sezione, questo interesse c’è. Ristretti giornali sono solo forme di intrattenimento, de- orizzonti, ad esempio, lavora bene perché riegli “sfogatoi” che fanno bene ai detenuti ma sce a coinvolgere le diverse sezioni del carcenon producono informazione. Al contrario, i re. Ma quando i redattori vengono scelti dalla giornali carcerari dovrebbero essere delle fine- direzione carceraria (talvolta, presumibilmente, stre, ben aperte e funzionanti nei due sensi: per in base a criteri di privilegio), quando vivono rompere quegli stereotipi esterni che tengono in modo separato rispetto al resto del carcere la finestra chiusa o addirittura sbarrata, e per i allora la testata viene vista come espressione di detenuti che ne hanno bisogno per non sentirsi un piccolo gruppo o della direzione. I redattori totalmente isolati. invece dovrebbero essere rappresentativi di tutte le sezioni del carcere, perché in uno stesso Qual è lo stile dei giornali carcerari? carcere ci sono tante realtà diverse. Noi siamo per i toni non gridati, per uno stile La comunicazione è evasione? sobrio ma efficace. La comunicazione non ha Sicuramente la comunicazione è libertà. E cobisogno di aggettivi forti, ha bisogno di fonda- municare dal carcere per il detenuto vuol dire tezza. poter impadronirsi nuovamente della propria libertà e responsabilità. Il carcere non ha voglia di gridare? Partecipare ai lavori di una redazione all’inizio La contraddizione è proprio questa: ormai il può essere un modo per rompere la monotonia carcere è diventato il luogo del silenzio e della quotidiana. Col passare del tempo, diventa un disperazione, non più quello delle grida e della momento formativo: permette di riflettere su se rabbia. Proprio perché non si grida più, biso- stessi, su quello che si fa, sul luogo dove si vigna che i redattori-detenuti imparino a scrivere ve. Produrre informazione dall’interno del carbene, ad essere efficaci nella comunicazione. cere è difficile e faticoso, ma quando ci si riesce è un fatto positivamente “sovversivo” nel Da parte dei detenuti c’è interesse per questi senso che fa diventare il carcere un luogo di augiornali? tentico reinserimento. Bisogna fare dei distinguo. Se la redazione è Ilaria Sesana TABLOID 4-5 2006 L’esperienza di chi insegna giornalismo nei penitenziari Difficile vincere la diffidenza verso i media del mondo libero La maggior parte dei detenuti ha un livello culturale medio-basso, senza contare che molti sono stranieri. È quindi necessario dar loro i rudimenti della scrittura prima di coinvolgerli nella pubblicazione dei giornali carcerari. Per questo in molti penitenziari italiani si svolgono dei corsi di “approccio alle tecniche di giornalismo”. Come a San Vittore, dove le lezioni vanno avanti da una quindicina di anni. I corsi, in genere a cadenza settimanale, seguono un vero e proprio programma. La difficoltà maggiore per i docenti è superare l’iniziale diffidenza degli internati, i quali non amano particolarmente la categoria dei giornalisti, accusata di travisare la realtà sui fatti di cronaca e di riempire di luoghi comuni l’informazione sulle carceri. Una volta conquistata la loro fiducia, si parte: dalle basi grammaticali alle parti del discorso, il fine ultimo è far assimilare agli allievi la semplicità e la chiarezza della scrittura giornalistica. Perché può essere sempre utile, anche solo per scrivere una lettera ai familiari o una memoria difensiva. Un altro obiettivo è insegnare ai detenuti a leggere i giornali e a vedere la tv, per selezionare e interpretare le notizie che arrivano dall’esterno. I docenti spesso portano con sé quotidiani e settimanali che quasi sempre all'interno delle carceri scarseggiano. U na volta usciti di prigione, molti dei detenuti che hanno frequentato questi corsi hanno continuato nell'attività di scrittura o hanno trovato lavoro nel mondo della comunica- zione. C'è chi ha scritto romanzi, chi libri di poesie, chi sceneggiature. Un ragazzo fa l'operatore televisivo, mentre una casa editrice ha assunto un condannato in regime di semilibertà. In tanti si sono iscritti all'università. Dal 1986 con la legge Gozzini, ispirata all'articolo 17 della Costituzione che prevede la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa dei detenuti, l'informazione ha iniziato a mettere piede in carcere. Fino ad allora, ad esempio, sui giornali che i detenuti potevano acquistare venivano tagliati gli articoli di cronaca nera e giudiziaria. Ora le carceri sono dotate persino di programmi di impaginazione: l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ne ha donato uno a San Vittore, insieme ad uno scanner ed una penna USB. Così, oggi in prigione circolano pubblicazioni autoprodotte, si guarda la tv e si ascolta la radio. Il prossimo passo, auspicato da molti ma forse ancora irrealizzabile, è riuscire a far nascere piccole stazioni radiofoniche ad uso interno e consentire l’accesso a Internet. Andrea Sillitti 3 (19) foto Grazia Neri Tiziana Ferrario, inviata del Tg1 nelle aree a rischio “Il reportage in televisione? Ormai è per nottambuli” C onduttrice del primo telegiornale nazionale, inviata nelle “zone calde” del mondo, consigliere dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Tiziana Ferrario, (nella foto Grazia Neri) volto noto del Tg1, è una delle giornaliste più indicate in Italia per farsi raccontare come è cambiata negli anni la professione dell’inviato. Quando la sentiamo, è appena tornata dal Pakistan e dall’Afghanistan. Paesi che conosce molto bene, essendoci stata come inviata sin dall’epoca dei Talebani. do di fare giornalismo. Da una parte questo è stato positivo, perché la competitività è sempre uno stimolo a migliorare. Dall’altra, però, ha esasperato la corsa agli ascolti, degenerando anche in atteggiamenti provinciali. È stato dato spazio alla cronaca nera, in tutti i suoi aspetti più violenti. Notizie che una volta avrebbero avuto poche righe nelle pagine locali, oggi si trasformano in lunghi servizi, il cui interesse però dura spesso l’arco di un giorno. L’informazione ha incominciato a frugare fra le pieghe dei drammi familiari. Se ti metti a spiare dal buco della serratura, sai che il pubblico non ti mancherà. Ma non mi piace. Non credo sia questo il compito del servizio pubblico. Non sono per il “ruolo pedagogico” della tv, ma penso che l’informazione del servizio pubblico debba essere una finestra aperta sulle grandi questioni del Paese e del mondo. Stimolare il dialogo, aiutare a capire la complessità di ciò che ci circonda, attraverso la molteplicità delle voci della società civile. Non esaurirsi in un elenco di fatti di cronaca locale, come ha detto di recente il cardinale Tettamanzi, in un insieme di opinioni distaccate dai fatti. Raccontare la realtà di un Paese così lontano come l’Afghanistan. Come si fa? Esiste una cornice in cui inquadrare i fatti, per aiutare il telespettatore distratto a capire? Non mi piace raccontare la guerra solo attraverso le azioni militari. L’Afghanistan è un Paese che si deve raccontare attraverso la vita delle persone. Un’intervista a una Azione, colore, gossip. Approfondimento addio madre con in braccio il proprio figlio sofferente a volte è più forte di tante parole. Pericoloso il ruolo di inviato in “zone calde”? È sempre stato pericoloso. Ma dal 2001, specie con la guerra in Iraq, il numero dei reporter uccisi è aumentato in modo impressionante. I rischi sono aumentati perché ormai i giornalisti non sono più recepiti come soggetti neutrali nei campi di battaglia. La questione della “neutralità”, appunto. È grande, oggi, il rischio di essere strumentalizzati? Si sono affinate le tecniche di propaganda. L’amministra- zione Bush ha investito nell’informazione, creando agenzie che forniscono “buone notizie dal fronte” attraverso servizi preconfezionati. Dall’altra parte, anche i terroristi usano i media, facendo pervenire cassette con messaggi audio e video. È difficile riuscire a non farsi tirare per la giacca, lavorando per la verità. Come reagire? Esistono le trappole, ma il modo di non caderci è quello di essere sempre più preparati . Visibilità e potere. Quanta capacità ha un giornalista televisivo di imporre la pro- pria volontà in redazione? Visibilità non significa potere. Un conduttore può proporre, intervenire nella discussione, ma la decisione finale resta alla direzione. È una cosa che accade un po’ in tutte le redazioni. Difficoltà a farsi rispettare dalla redazione come inviata? Nessuna. Intende anche da un punto di vista politico? Lavoro per il rispetto professionale. E il contenuto di un servizio chi lo decide? Se ne discute, ma mi viene lasciata grande autonomia. foto Grazia Neri Lo scorso gennaio, Kabul è stata al centro dell’attenzione mondiale per la conferenza organizzata a Londra dai Paesi coinvolti nella ricostruzione. In Italia, però, se ne è parlato ben poco. Già. Salvo poche eccezioni, i grandi quotidiani sono stati i primi ad ignorarlo. Eppure in Afghanistan abbiamo ancora oltre duemila nostri soldati. E fino al prossimo aprile l’Italia vi manterrà il comando Nato della missione Isaf. Perché questo disinteresse? Oggi si privilegia solo il momento dell’azione, mai quello dell’analisi. Non c’è interesse a seguire che cosa accade nel mondo. Non si raccontano le tappe che hanno portato a una grave crisi, e soprattutto non si segue quello che accade dopo. Così, però, si corre anche il rischio che la gente non capisca, perché viene a mancare il momento dell’approfondimento. Colpa della televisione, sempre in cerca di spettacolo? Non riguarda soltanto la tv, anche se in effetti in un telegiornale questo fenomeno si nota maggiormente. Un tg è come la prima pagina di un giornale, che però di fogli ne ha altri cinquanta. Da noi, invece, lo spazio è realmente limitato. Il problema, però, è un altro. È che ormai si tende a dare molta attenzione al costume, al gossip, al colore. Gli esteri vengono sacrificati o quanto meno ignorati. E i reportage sono quasi scomparsi o confinati in seconda serata, in orario da nottambuli. Esiste una linea di demarcazione dalla quale è nato il cambiamento? Senza dubbio l’avvento della televisione commerciale e dei suoi tg, sul finire degli anni Ottanta. È nato un nuovo mo- Che spazio crede abbiano le inviate nel giornalismo di oggi? Credo ci sia un reale problema di scarsa presenza delle donne nei ruoli dirigenziali. Nel mio giornale, ad esempio, c’è solo un capo redattore operativo. Ma nelle altre testate Rai la situazione non è migliore. I posti di potere restano ancora saldamente in mano ai maschi. Mi piacerebbe, invece, vedere un giorno una donna capace alla direzione di un grande giornale. Negli ultimi anni, comunque, il giornalismo in generale si è sempre più femminilizzato. È questo è un bene, perché credo che le donne abbiano una sensibilità diversa, che può arricchire i contenuti dei giornali. Lei ha difficoltà, in quanto donna, ad essere inviata in un Paese islamico? Ci sono aspetti positivi e negativi. Certo non passo inosservata, donna occidentale con telecamera al seguito, in Paesi profondamente conservatori come l’Afghanistan e il Pakistan. E questo, soprattutto nelle situazioni di rischio, non è il lato positivo. Ma, proprio perché donna, ho potuto accedere a luoghi proibiti agli uomini: le prigioni femminili, per esempio, le madrasse riservate alle donne, le case. Qual è stata l’esperienza che ritiene più importante? Senza dubbio l’Afghanistan. Un’esperienza professionale notevole. Mai visto tanti giornalisti insieme, e tanti Paesi coalizzati contro un nemico comune. Dal 2001 il mondo è cambiato, è cambiata la nostra vita. Ci sono già state due guerre. Tutto è più complesso. Come giornalisti dobbiamo raccontare quanto sta accadendo, non solo a casa nostra, ma anche oltre confine. C’è bisogno di analizzare, di capire. Per questo serve una stampa libera e responsabile che aiuti il dialogo, quanto mai necessario in questo momento storico. Abbiamo anche il dovere di non dare spazio solo agli estremismi: sicuramente fanno più notizia, ma ci sono anche milioni di persone che non vogliono lo scontro. Per questo non si accontenta della conduzione del tg e decide di mettersi ancora in gioco? Non è un problema di accontentarsi. La conduzione è solo un aspetto del mio essere giornalista televisiva. Semplicemente, nonostante tante difficoltà, mi piace ancora fare il mio lavoro. Francesco Abiuso IFG TABLOID A cura dell’Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo Direttore: MASSIMO DINI Redattore: Massimo Ravelli Segretaria di redazione: Annamaria Pizzinato Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Presidente: GIUSEPPE ANTONIO BARRANCO DI VALDIVIESO 4 (20) Consiglio di presidenza (triennio 2004-2007) Giuseppe Antonio Barranco di Valdivieso (presidente), David Messina e Damiano Nigro (vicepresidenti), Massimo Dini (direttore Ifg), Franco Abruzzo, Pasquale Chiappetta, Ezio Chiodini, Alberto Comuzzi, Marina Cosi, Sergio D’Asnasch, Luca Del Gobbo, Pierfrancesco Gallizzi, Letizia Gonzales, Carlo Maria Lomartire, Franco Maggi, Antonio Mirabile, Maurizio Michelini, Laura Mulassano, Paola Pastacaldi, Luca Pierani, Giacinto Sarubbi, Pietro Scardillo, Giuseppe Spatola, Brunello Tanzi, Marco Ventimiglia, Maurizio Vitali Comitato ristretto: Giuseppe Antonio Barranco di Valdivieso, Franco Abruzzo, Luca Del Gobbo, Massimo Dini, David Messina, Cosma Damiano Nigro, Maurizio Vitali Commissione didattica: Piero Ostellino (presidente) Chiara Beria di Argentine, Mario Cervi, Giovanni Degli Antoni, Massimo Dini, Umberto Galimberti, Alberto Martinelli, Elia Zamboni Collegio dei revisori dei conti: Luciano Micconi (presidente), Piergiorgio Corbia, Domenico Fiordelisi. Supplenti: Giancarlo Mariani, Agostino Picicco TABLOID 4-5 2006